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di Giuseppe Baiocchi del 10/04/2025

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È innegabile il ruolo significativo della nobile famiglia Batthyány nella storia d’Europa e d’Ungheria nell’ultimo mezzo millennio. Una delle famiglie Batthyány ancora in vita ha sede a Budapest. Abbiamo così effettuato una intervista ad uno degli eredi di questa storica casata, il giovane conte Batthyány Ádám Boldizsár che vive nella capitale ungherese, ed è presidente della “Fondazione Circolo della Gioventù Batthyány”. Il conte Ádám Batthyány, discendente di Lajos Batthyány, il padre di Boldizsár, imparò l’ungherese all’età di cinquant’anni per via della persecuzione comunista nel paese, mentre sua madre Margit Batthyány-Schmidt aiuta nella direzione delle due associazioni di famiglia, tra cui in particolare non si può menzionare il “Programma di istruzione e sostegno per le donne contadine” partito nel 2023. Boldizsár ha due sorelle: la maggiore, Nathalie, vive a Francoforte e lavora nel settore bancario; sua sorella, Kata, lavora a Londra presso la più antica casa d’aste del mondo, la famosa Christie’s; ma un elemento unisce tutti loro: la preservazione delle tradizioni e dei valori del classico nucleo famigliare naturale.

[caption id="attachment_25639" align="aligncenter" width="1100"] A sinistra: Stemma araldico della famiglia presso il palazzo di Budapest in piazza Dísz nr. 3. Il blasone, confermato nel 1481 dal re Ladislao II di Boemia, rappresenta una triplice collina verde in campo azzurro, con una roccia dorata e sopra un pellicano bianco con le ali spiegate che dona il sangue a due suoi nati; sulla collina di destra c’è un leone d’oro che tiene in bocca una spada curva con l’elsa dorata. A destra: Discorso del conte Batthyány Ádám Boldizsár al quarto premio “Fondazione Lajos Batthyány” nel 2023.[/caption]

Prima di addentrarci nell’interessante intervista, il lettore meriterà certamente di acquisire alcuni cenni storici su questa straordinaria famiglia, ancora oggi immersa nella politica sociale ungherese. Se il capostipite della famiglia fu probabilmente un certo Gastaldo Miska (1207 - 27), sarà nel 1398 - con la presa del castello di Batthyán -, che il ramo familiare (precedentemente denominato Eörsi) acquisì il cognome recente. Tra il XV e XVI secolo alcuni membri della famiglia ebbero una certa rilevanza nella vita politica del paese magiaro. Furono i discendenti di Boldizsár e Ferenc (1497 - 1566), a portare alla famiglia il titolo baronale (1628) e successivamente quello comitale (1630). Ancora nel XVII secolo, incontriamo il Capitano Generale del Transdanubio Ádám Batthyány (1662 - 1703): eccezionale comandante ungherese nelle guerre antiturche. Egli cacciò gli ottomani dall’Ungheria e riconquistò del Castello di Buda nel 1686; svolse un ruolo importante nella riconquista di Székesfehérvár e Kanizsa nel 1688 e nel 1690. Nel 1692 sposò la contessa Eleonóra Strattmann, da cui discende il ramo dei Batthyány-Strattmann attuale. Il secondogenito di Ádám, Károly Batthyány, ottenne da Francesco I d’Austria, nel 1769, il titolo di principe del Sacro Romano Impero; spentosi il ramo di Károly, il titolo di conte passò al fratello Ernő Lajos Batthyány – l’ultimo palatino nazionale – e ai suoi discendenti. Spentosi anche questo ramo, se lo attribuì il conte László, con il diritto di continuare il nome di Batthyány-Strattmann. Infine andando avanti nei secoli, tra qualche Primo Ministro e qualche Ministro degli Esteri troviamo László Batthyány-Strattmann (1870 - 1931) modello esemplare di vita per il XX secolo, che ha vissuto una esistenza familiare e religiosa esemplare ed è stato beatificato nel 2003 dal Papa Giovanni Paolo II. Il principe László Batthyány-Strattmann, definito “medico dei poveri” è stato un grande mecenate: ha costruito scuole e sostenuto la ricerca scientifica. Una delle caratteristiche della famiglia Batthyány, è la consapevolezza che l’istruzione, l’apprendimento e lo spirito creativo sono condizioni essenziali per la crescita economica e la stabilità. In ogni generazione dei Batthyány, che per mezzo millennio hanno fatto parte della classe dirigente ungherese, c’è stata una personalità eccezionale che, pur gestendo bene l’enorme ricchezza e il potere di cui il loro rango disponeva, non solo ha servito i propri interessi e quelli della propria famiglia, ma ha anche fatto seri sacrifici per la causa della nazione.

Che effetto fa portare il nome di una famiglia storica nel XXI secolo? Un orgoglio immenso. Sono davvero poche le persone che possono avere un albero genealogico così lungo. È un grande orgoglio avere antenati simili. Allo stesso tempo, è una responsabilità enorme, perché è un nome che quasi tutti conoscono in Ungheria, poiché tra i tanti, almeno un membro della famiglia viene sempre studiato. Ma tutti sanno anche che questa è una famiglia che agisce per la patria ungherese. Ecco perché il cognome non deve essere macchiato e bisogna fare attenzione affinché resti intatto, e tutto ciò è responsabilità della persona che porta quel nome.

Che tipo di rapporto hai con i membri di altre famiglie storiche? Abbiamo relazioni con quasi tutti. Ciò è dovuto in parte alle precedenti relazioni di mio padre e in parte al lavoro attuale di mia madre. Tuttavia, trovo che non ci sia molta coesione tra famiglie aristocratiche, forse perché non esistono problemi importanti, tali per cui queste famiglie debbano agire all’unisono. Inoltre, non credo sia propositivo per il Paese avere delle persone che concentrano le energie del Paese per l’abolizione del decreto del 1947 sull’uso dei titoli nobiliari. Penso che ciò sia nocivo più a loro che a noi. Il blasone, per buona pace del politicamente corretto, è parte della nostra storia. Che ci piaccia o no, rimarrà. Il fatto che ora mi presenti come Boldizsár Batthyány non fa alcuna differenza rispetto al fatto che possa presentarmi come conte Boldizsár Batthyány. Così tutti sapranno chi sono i miei antenati. La cameriera chiama mio padre il “Conte Cacciatore”, lui adora questo soprannome e non se ne è separato più, ma io non potrei mai immaginare di essere chiamato così (sorride).

Cosa significa per la tua famiglia avere già un membro che è stato beatificato e un altro membro è in procinto di esserlo? In cosa consiste questo processo? È un processo interessante. Quando l’ho sentito per la prima volta, non volevo credere che fosse così complicato. Nel caso del mio bisnonno, László Boldog Batthyány-Strattman, morto nel 1931, tutto iniziò negli anni Quaranta. Il processo di beatificazione inizia con la compilazione di un lunghissimo documento sulla sua vita, che viene esaminato in Vaticano. Esiste un comitato speciale per questo, e se questo comitato lo approva, allora si scoprirà un miracolo che potrebbe essere collegato a quella persona. Nel caso del mio bisnonno, ci volle molto tempo, quindi il processo si bloccò per decenni e riprese solo negli anni Ottanta. Il miracolo associato al suo nome era che un bambino che non riusciva a vedere pregava ogni giorno il mio bisnonno affinché riacquistasse la vista. I medici avevano ormai rinunciato alle cure: non gli davano alcuna possibilità di recuperare la vista. Poi un giorno si svegliò e vide. Questo incidente si verificò decenni dopo la morte di László Batthyány-Strattman. Speriamo che per la mia bisnonna, la contessa Maria Theresia Coreth di Coredo e Starkenberg, il processo di beatificazione sia più breve. Ma sono sicuro che sarò ben oltre la mezza età quando lei sarà beatificata. Come è noto, il 19 marzo è iniziato il processo di beatificazione a suo carico, promosso sia dalla diocesi di Szombathely sia da quella del Burgenland.

[caption id="attachment_25679" align="aligncenter" width="1000"] I veri sentimenti cristiani di Ladislao Batthyány-Strattmann si dovevano manifestare nella più grande prova della sua vita, cioè durante la sua grave malattia. Scriveva a sua figlia Lilli dal sanatorio Löw a Vienna: «Non so per quanto il buon Dio mi farà soffrire. Mi dava tanta gioia nella mia vita perciò adesso, a 60 anni, devo accogliere anche i tempi difficili con gratitudine». A sua sorella diceva: «Sono felice. Soffro atrocemente, però amo i miei dolori e mi consola il fatto che li sopporto per Cristo». Il 22 gennaio 1931 Ladislao Batthyány-Strattmann moriva, dopo 14 mesi di gravi sofferenze, a Vienna, in fama di santità e veniva sepolto nella tomba di famiglia a Güssing. Dopo la sua morte veniva invocato da tante persone come intercessore. Perciò l’Arcivescovo di Vienna, insieme al Vescovo di Szombathely, apriva il 30 agosto 1944 il processo per la Beatificazione. Questo processo però cadde poi in oblio. Grazie all’iniziativa del Vescovo di Eisenstadt, DDr. Stefan László, il processo veniva riaperto nel 1982. Il giorno 11 luglio 1992 il Santo Padre dichiarava che Ladislao Batthyány-Strattmann aveva praticato le virtù cristiane eroicamente. Nel 1989 avveniva un miracolo per intercessione del Servo di Dio Ladislao Batthyány Strattmann: un paziente che soffriva di un cancro insanabile veniva guarito in modo scientificamente inspiegabile. Questa guarigione veniva esaminata dettagliatamente e, dopo 12 anni, dichiarata autentica da una commissione di medici e teologi. Finalmente la Beatificazione veniva fissata per il 23 marzo 2003 a Roma. Il Dott. Ladislao Batthyány-Strattmann ha perfettamente realizzato nella sua vita il proprio motto: fidelitate et caritate.[/caption]

Cosa significa per te il percorso di vita dei tuoi bisnonni? Potrei esprimere lo stesso orgoglio di cui parlavo prima. Allo stesso tempo, non sono mai stato interessato ad intraprendere una carriera nel settore sanitario. Ho sempre saputo che volevo proseguire nella direzione dell’economia e della vita pubblica. Tuttavia, tutto l’amore e l’accettazione che i miei bisnonni mi hanno dimostrato, hanno avuto un impatto sull’atteggiamento di tutti i membri della mia famiglia. Siamo stati cresciuti per fare ciò che sappiamo fare meglio, e quanto sia importante essere il più onesti possibile in un determinato ambito. Abbiamo portato con noi anche la responsabilità di trattare al meglio le persone che incontriamo e di sfruttare al meglio ogni momento.

Quale ruolo sociale svolge oggi la tua famiglia? Inizierei con mio padre, Ádám Batthyány, che è il più anziano. È nato nel 1942 a Budapest, Ungheria. Vivevano nel castello di Körmend. Trascorse i primi tre anni della sua vita in Ungheria, da nobile bambino, nel castello principesco di Körmend. Nel 1945 dovette lasciare il paese perché la nobiltà era perseguitata dal nuovo regime comunista. Fu agricoltore e banchiere per tutta la vita e ha alle spalle una vasta carriera professionale. Ma già prima del cambio di regime, durante il periodo di distensione, sentiva che doveva tornare in Ungheria perché lì aveva del lavoro da fare. Mi ha detto più volte che è stato dopo il 1945, trascorse una notte su un treno in Ungheria senza poter scendere, perché in tutti quei decenni un Batthyány non poteva mettere piede nel paese! Ma torniamo all’epoca del cambio di regime. Fu allora che József Antall (1932 - 93) lo contattò, dicendogli che voleva fare una colletta per gli ungheresi in Transilvania. Chiese a mio padre di usare la sua rete di contatti nel mondo finanziario per trovare sostenitori che avrebbero sostenuto gli ungheresi in Transilvania con una somma economica maggiore. Mio padre, una volta appoggiato il progetto, chiese a József Antall di aiutarlo a finanziare la sua campagna e fu così che iniziò la sua campagna come sostenitore di Antall, coinvolgendo molte persone che volevano creare un liberalismo di stampo conservatore, per una nuova Ungheria borghese.

[caption id="attachment_25650" align="aligncenter" width="1000"] Il castello di Körmendi, noto anche come castello Batthyány-Strattmann, si trova a Körmendi, nella contea di Vas. Fu costruito in stile classicista nel centro di Körmend, nel 1730-45 a sud di Szombathely, vicino al fiume Rába. lavori del XVIII secolo modificarono nuovamente la facciata esterna, aggiungendo un altro piano alle ali residenziali, un tetto mansardato e un enorme balcone poggiante su sei colonne sopra l'ingresso, secondo i progetti dell'architetto italiano Felice de Allio.[/caption]

Come sono stati i primi anni dopo il tuo ritorno? Dopo che Antall vinse le elezioni, mio padre divenne il suo principale consigliere economico e ambasciatore itinerante. Tra i due esisteva un rapporto di lavoro quotidiano. Anche la Fondazione Batthyány Lajos è frutto del lavoro di entrambi. Ancora oggi mio padre è il presidente onorario della fondazione. È interessante che József Antall volesse che mio padre fosse il primo presidente della fondazione, cosa che alla fine non funzionò perché lui non parlava ancora ungherese. Il motivo era che sua madre era una ragazza di Windisch-Grätz, il cui antenato era stato comandante in capo delle truppe Imperiali e Regie austroungariche durante il periodo della guerra d’indipendenza ungherese del 1848-49. Crebbe con la convinzione che in casa non fosse consentito parlare ungherese, per fedeltà all’Imperatore austriaco. Ma lui perseverò, imparò bene il magiaro e fece molto per garantire che l’Ungheria intraprendesse la strada dello sviluppo, sia economico che culturale, dopo il cambio di regime. Fece molto per garantire che l’Ungheria intraprendesse la strada dello sviluppo, sia economico che culturale, dopo il cambio di regime.

Anche sua madre, Margó Batthyány-Schmidt, non è sconosciuta nella vita pubblica. Nel 2015 mio padre ha fondato la Fondazione ungherese Batthyány, di cui mia madre è presidente del consiglio di amministrazione. La fondazione si impegna a preservare l’eredità di Batthyány e a trasmetterne i valori. Inoltre, dal 2013, dirige anche l’Unione delle donne ungheresi, anch’essa riconosciuta a livello internazionale e organizzazione partner dell’ONU. La sua missione principale è quella di rivolgersi alle donne rurali e di rafforzarle. Lontana da ogni forma di femminismo, l’associazione trasmette il messaggio con cui sono d’accordo, ovvero che l’uomo e la donna insieme formano un tutt’uno, ma i due ruoli sono separati l’uno dall’altro. Mia sorella Kata e io siamo coinvolti nelle attività di queste organizzazioni fin dall’infanzia. L’ispirazione ricevuta dai miei antenati e queste esperienze mi hanno spinto anche verso l’impegno sociale.

[caption id="attachment_25651" align="aligncenter" width="1000"] Al centro il conte Ádám Batthyány, In secondo piano da sinistra a destra: Margit Batthyány-Schmidt, Batthyány Ádám Boldizsár e la sorella minore Kata.[/caption]

Durante il suo viaggio in Ungheria, Papa Francesco ha visitato la casa per ciechi del Beato Batthyány-Strattmann László. Cosa ha significato questo per la tua famiglia? Siamo anche colmi di immenso orgoglio per questo riconoscimento, in quanto ogni ungherese è stato orgoglioso di questo. Il fatto che il Santo Padre ci abbia visitato due volte in un breve lasso di tempo dimostra che egli vede e sà che l’Ungheria è un Paese che può fungere da esempio positivo per una vita cristiana in relazione agli altri paesi europei. Rispettiamo le nostre radici cristiane, possiamo praticarle e persino esserne orgogliosi e abbracciarle con coraggio. Oggi in Ungheria essere cristiani è un vantaggio, non uno svantaggio, come in molti altri paesi. A maggio, la mia famiglia ha fatto una visita speciale in Vaticano per il 20° anniversario della beatificazione del mio bisnonno e abbiamo avuto l’opportunità di incontrare il Papa.

Cosa provi nella tua fascia d’età: quanto i giovani sono ricettivi rispetto alla conservazione delle trazioni organiche e archetipe? Penso che nella mia fascia d’età ci siano sempre stati giovani conservatori, ma esprimono meno le loro opinioni in pubblico. La responsabilità nel rappresentare la mia famiglia, come già detto, è grande per la vita sociale e politica di questo paese e avere una storia lunga, non dà ci fa vivere sugli allori, ma ci deve far capire come la storia deve continuare sempre nella correttezza che il passato ci ha trasmesso. Di contro, la mia esperienza personale rappresenta un cambiamento per l’intero Paese. Penso che dobbiamo lasciare che le persone della mia età e quelle più giovani di me si classifichino secondo un’idea basata sulle loro esperienze e sul loro modo di pensare. Non si deve mai forzare nulla, perché è decisamente controproducente. Nei momenti difficili, spesso penso a cosa avrebbero fatto i miei antenati e traggo forza dalle loro azioni. Oltre a tutto questo, spero di avere in un certo senso del dovere nel cercare di continuare ciò che la mia famiglia ha fatto per più di cinquecento anni, vale a dire, devo lavorare per proteggere e realizzare gli interessi della nazione ungherese. Ecco perché, fin dal liceo, ho capito che non vorrei mai lasciare definitivamente il mio Paese e che, se mi trovo all’estero, dovrei rappresentarlo nel modo più degno possibile. Naturalmente ognuno vive questa esperienza in modo diverso. [caption id="attachment_25661" align="aligncenter" width="1000"] I membri della famiglia Batthyány organizzano regolarmente incontri al castello di Güssing in Austria.[/caption]

Futuro-Passato, oltre il già detto. L’aristocrazia che ruolo ha oggi e quali valori continua a conservare? Anche se la nobiltà ha avuto un ruolo molto importante nella nostra storia nazionale, oggi stesso un’altra élite politica ed economica decide le sorti del paese, ma – così come nel passato – se la maggioranza della popolazione si oppone, può esprimere una resistenza particolarmente forte, quindi l’ultima parola spetta sempre al popolo. Nella seconda metà del XX secolo furono fatte molte azioni per stroncare sul nascere l’orgoglio storico della nazione ungherese. Ma sono felice di vedere che all’epoca i nuovi “valori” dei totalitarismi furono fallimentari, perché imposti contro la volontà del popolo e oggi possiamo vivere in un Paese che rispetta e onora le grandi famiglie della sua nazione e i suoi principi cardine: Dio, Patria, Famiglia, così come accadde in passato.

Cosa c’è da sapere sul Circolo dei Giovani Batthyány? L’idea del Batthyány Youth Circle è nata nel dicembre 2021 insieme al prof. Tamás Dezső, l’attuale presidente della Fondazione Batthyány Lajos. Come primo passo, ho radunato tra i miei conoscenti alcuni giovani che ritenevo capaci di svolgere un lavoro di organizzazione comunitaria e credibili nel farlo. Abbiamo dichiarato fin dall’inizio che il nostro obiettivo principale è quello di avere una comunità di giovani con idee simili alle nostre, sui valori tradizionali riconducibili alle radici europee. Un luogo del pensiero per scambiarsi visioni politiche diverse, dialogare e ragionare insieme. Fin dall’inizio, uno dei nostri obiettivi principali è stato quello di eliminare dalle bolle di opinione la fascia di età compresa tra i 16 e i 35 anni. Una delle prime parole di Tamás Dezső durante il processo di pianificazione è stata: “Non importa chi sostieni, vivi in una bolla di opinione imposta da sistemi esterni”. Ecco perché nei nostri programmi poniamo domande che sono domande reali che interessano e riguardano non solo noi, ma credo la maggior parte del Paese, la maggior parte della popolazione, e a cui spesso non è facile rispondere. Nel prossimo futuro vorremmo che quante più persone possibili prendessero conoscenza delle nostre attività e partecipassero ai nostri eventi.

[caption id="attachment_25676" align="aligncenter" width="1000"] Il Dott. Tamás Dezső è Direttore del Migration Research Institute, storico, antropologo e professore universitario. Dal 2001 è stato Professore Associato presso il Dipartimento di Assiriologia ed Ebraismo dell'Università di Scienze Applicate ELTE, Vicedirettore dell'Istituto di Studi Antichi e successivamente Vice Preside della Ricerca presso la Facoltà. Dal 2006 al 2015 è stato Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università Eötvös Loránd ed ex Presidente del Consiglio di Amministrazione della Fondazione Pubblica Tempus. Dal 2014 ha effettuato otto visite nel Kurdistan iracheno, durante le quali ha condotto ricerche archeologiche e sul patrimonio culturale, ha indagato la situazione dei cristiani perseguitati e ha visitato le linee del fronte nella lotta contro lo Stato Islamico in sei occasioni. Ha recentemente pubblicato diverse analisi sugli aspetti migratori della popolazione e sulla situazione della sicurezza in Medio Oriente.[/caption]

Sta sponsorizzando il progetto culturale? Sì, ora che operiamo come fondazione da diversi anni. Stiamo cercando candidature da persone di età compresa tra 16 e 35 anni che pensano in termini di fede in Dio, patria e famiglia. Vogliamo diventare una sorta di organizzazione ponte tra Fidelitas e i giovani che praticano la dottrina sociale della Chiesa. Oltre al CV e alla lettera di motivazione, ai candidati verrà richiesta anche una raccomandazione da parte di un membro attuale. Oltre a tutto questo, stiamo estendendo la costruzione alle università, creando organizzazioni studentesche presso Corvinus, Pázmány e l’Università del servizio pubblico. Aumenteremmo l’attrattiva delle organizzazioni studentesche offrendo a chi vi aderisce una sorta di opportunità di carriera, con tirocini e opportunità di lavoro; inoltre, per un certo periodo di tempo, gli studenti universitari potrebbero diventare membri della Fondazione Batthyány Youth Circle e del Batthyány Youth Circle. I nostri piani a lungo termine prevedono che la comunità che abbiamo creato si espanda, sia in grado di rappresentare la propria posizione e, in seguito, di acquisire un proprio potere di advocacy. Dicono che saremo il prossimo partito politico, ma non è questo l’obiettivo: il focus è avere una cittadinanza consapevole dei problemi nazionali, europei che faccia sempre l’interesse del nostro Paese, ricordando il motto di famiglia: fidelitate et caritate.

     
 
 
 
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di Giuseppe Baiocchi del 22/01/2025

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Il 28 giugno 1914 sarebbe stato uno dei giorni più importanti della recente storia europea. In questo giorno venne assassinato a Sarajevo l’Arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono d’Austria dal 1896. Lui e sua moglie – Sophie Chotek, che perse la vita anche lei nell’attacco –, si recarono in quella che allora era la terra della corona della Bosnia ed Erzegovina per un’esercitazione militare e rassegna truppe. L’attentato, pianificato ed eseguito dal gruppo cospirazionista serbo chiamato la “Mano Nera” (serbo Crna Ruka), avvenne poiché la Russia zarista non gradiva un’espansione austriaca nel mondo serbo, soprattutto dopo la proposta e il programma di Ferdinand di creare una “terza testa d’aquila” all’Impero dell'Austria-Ungheria, con la fondazione di un terzo parlamento per le popolazioni di etnia slava. La Russia non potendo tollerare un rafforzamento di potere asburgico in quell’area per loro vitale e strategica, armarono i nazionalisti serbi per quell’attentato meschino che, sebbene oggi non è visto come la causa diretta della Prima Guerra Mondiale, fu certamente il segnale di inizio per la guerra di luglio.

[caption id="attachment_16444" align="aligncenter" width="1000"] Il solitario Hagengebirge è dal X secolo la zona di caccia preferita dei principi della chiesa di Salisburgo. A questo scopo l’Arcivescovo Wolf Dietrich von Raitenau (1559 - 1617) fece costruire nella valle del Blühnbachtal un magnifico casino di caccia (1603 - 07) al posto del precedente manufatto di caccia in legno. Quando nel 1816 l’Arcidiocesi secolarizzata entrò finalmente a far parte dell’Impero Asburgico, furono riorganizzati anche i diritti sulle zone di caccia dell’ex arcivescovo. A sud la valle è delimitata dal possente massiccio dell’Hochkönig, a nord si innalzano verso il cielo le ultime propaggini del Göllstock. La proprietà barocca e il relativo distretto (14.000 ettari) entrarono in possesso degli Asburgo nel 1908, fino al colpo di stato del novembre 1918.[/caption]

Crisi già presenti e tensioni tra le maggiori potenze europee, che formavano tra loro coalizioni attraverso varie alleanze, erano arrivate al limite. La Prima Guerra Mondiale non poteva più essere evitata. Almeno questa è la valutazione comune degli eventi accaduti nel centro di Sarajevo in quel giorno d’estate del 1914. Tuttavia, se si crede al vecchio folklore e alle tradizioni mitiche, almeno il destino di Francesco Ferdinando fu segnato nell’agosto del 1913 – e un camoscio bianco giocò un ruolo cruciale in esso. Nel recente passato il paesaggio ai piedi delle Alpi Giulie, dove si fa strada il blu turchese dell’Isonzo, si è trasformato in una piccola punta turistica privilegiata. Il nord della Slovenia, geograficamente separato dalla Carinzia dalle Caravanche, è oggi un paradiso per gli escursionisti. In particolare il Triglav, a 2.800 metri di altitudine, e il parco nazionale circostante attirano appassionati alpinisti da vicino e da lontano. La ricchezza di leggende di questa regione è strettamente legata anche alla natura montuosa, che può significare sia fortuna che sfortuna per i suoi abitanti. Il motivo di tale dipendenza reciproca è interessante per via nella leggenda slovena dello Zlatorog1 (in tedesco Goldenes Horn), il camoscio bianco dalle corna dorate, che da secoli viene raccontata in innumerevoli varianti in Slovenia e nei vicini paesi slavi. Al centro della leggenda c’è un giovane cacciatore delle Alpi Giulie che, un giorno, mentre camminava in montagna, giunse in un prato verde e rigoglioso tra ghiaioni e rocce inospitali. Lì vide un branco di camosci al pascolo, guidato da un magnifico ariete di camoscio con le corna dorate: uno Zlatorog. Si diceva che questo fosse il custode di un tesoro che si trovava sul monte Bogatin. Se il camoscio strofina le sue corna sulla parete rocciosa della montagna, un cancello si aprirà e si avrà accesso a ricchezze incalcolabili. Il giovane cacciatore sapeva che uccidere il camoscio bianco candido e puro come la neve avrebbe comportato la sua stessa morte, ma la sua avidità ebbe la meglio e così sfidò la sorte. Il cacciatore rimase coraggiosamente in agguato e quando l’animale si avvicinò abbastanza, la sua mira precisa non lasciò scampo allo Zlatorog che cadde a terra con un tonfo secco. Dove il sangue del camoscio bagnava la terra, subito cominciarono a sbocciare fiori rossi: le rose del Triglav. Quando l’uomo attendeva già la ricompensa divina, lo Zlatorog – apparentemente morto – mangiò i fiori appena sbocciati e riacquistate le forze, uccise il cacciatore per poi sotterrare magicamente i rigogliosi pascoli in mezzo al vasto paesaggio carsico, così a fondo che fino ad oggi non vi cresce nemmeno un filo d’erba. Lo scrittore tedesco Rudolf Baumbach (1840 - 1905), che rimase così colpito dalla forza di questa leggenda da farne un adattamento nel 1876, concluse il suo poema epico “Zlatorog – Una leggenda alpina”, con i seguenti versi: “Dove c’erano prati grassi, seminati da capanne che producevano latte che si estendevano per ore di cammino, giaceva ora un mare di macerie di roccia”.

Oggi in tutta la Slovenia si trovano ancora riferimenti alla leggenda dello Zlatorog, ad esempio sotto forma di sculture di camoscio e, non ultimo, come mascotte del produttore di birra Laško, le cui etichette sono adornate da un camoscio bianco con corna dorate. Ma le leggende di animali mitici e di creature che dovrebbero proteggere oggetti di valore e tesori della natura sono conosciute anche altrove. Ma cosa può riguardare un giovane arciduca, erede al Trono del più importante Impero sul continente, con questa antica storia di vecchi detti e leggende popolari? Franz Ferdinand in realtà fu un cacciatore entusiasta e un eccellente tiratore per tutta la vita. Molte storie e leggende ruotano attorno a questo lato della sua personalità. Si dice, ad esempio, che abbia battuto il famoso Buffalo Bill in una gara di tiro quando si esibì nel suo spettacolo del selvaggio West a Vienna nel 1906. Si dice che una storia simile, ancora più spettacolare, sia accaduta durante una lunga battuta di caccia in India. Franz Ferdinand e il suo avversario indiano lanciarono ciascuno tre monete in aria e cercarono di colpirle. Mentre l’indiano prese solo una moneta, il proiettile dell’erede al trono ne trapassò tre contemporaneamente. Dalle annotazioni dell’aiutante di caccia Hoschtalek, si può facilmente ricostruire gli abbattimenti venatori di Francesco Ferdinando nel corso della sua vita: 274.889 esemplari uccisi. Gran parte dei trofei può essere ammirata oggi nel castello di Konopiště, a quasi 40 chilometri a sud di Praga o a Schloss Eckartsau vicino Vienna.
[caption id="attachment_16442" align="aligncenter" width="1000"] Franz Ferdinand posa dopo la "Caccia grossa feudale" a Ceylon (Sri Lanka) nel 1893.[/caption]
Come il “bel mondo” ci insegna, la caccia era parte integrante dell’universo aristocratico e veniva sempre celebrata. Cacciare, allora non era ancora percepito dalla società come un problema. Così ci ricorda l’atmosfera il grande scrittore Sándor Márai: «La nostra storia è disseminata fino ai nostri giorni di una lunga serie di stermini […]. Solo la caccia fa eccezione […] rappresenta ancora un sacrificio, un riflesso imperfetto di un antichissimo rito religioso che ha la stessa età dell’uomo. Perché non è vero che il cacciatore uccide per procurarsi la preda. Non ha mai ucciso unicamente per questo, neanche in epoca primordiale […]. La caccia è stata sempre accompagnata da riti di ordine tribale e religioso. Il buon cacciatore è sempre stato il primo della sua tribù, che gli si attribuiva poteri e dignità di sacerdote. Naturalmente tutto ciò si è perso con il passare del tempo. Ma sebbene i riferimenti siano sbiaditi, la caccia ha conservato la sua natura di rito. Forse non ho mai amato nulla in vita mia come quelle partenze per la caccia alle prime luci dell’alba. Ci si sveglia che ancora è buio […] amavo l’odore degli abiti da caccia; il panno era impregnato degli affluvi del bosco, delle fronde, dell’aria pura e degli schizzi di sangue, perché gli uccelli abbattuti si attaccano alla cintura e il loro sangue insudicia gli abiti. Ma il sangue è sudiciume? Non credo. È la materia più nobile che esista al mondo: ogni volta che l’uomo ha sentito il bisogno di comunicare al suo Dio qualcosa di grandioso, di ineffabile, lo ha sempre fatto offrendogli un sacrificio di sangue. E poi amavo l’odore di metallo oliato del fucile. E l’odore acre e ammuffito delle parti in cuoio grezzo dell’equipaggiamento da caccia. […] Il paesaggio comincia a destarsi, il bosco si stiracchia, sembra che si strofini gli occhi uscendo dal sonno. Tutto esala un profumo così puro che sembra di tornare in una patria diversa, quella in cui ebbero inizio la vita e le cose. […] Il fruscio del fogliame umido si percepisce appena sotto le suole dei tuoi scarponi. La pista è disseminata di tracce di animali. E adesso tutto comincia a vivere intorno a te: la luce, come se mettesse in moto un meccanismo nascosto che aziona il sipario del mondo, squarcia il velo che ricopre la foresta. Inizia il concerto degli uccelli, e in lontananza, a trecento passi di distanza, un cervo sta avanzando sul sentiero. […] La bestia si ferma, non vede niente, non fiuta la tua presenza perché il vento soffia in un’altra direzione, e tuttavia avverte il pericolo fatale […] come un individuo messo di fronte al suo destino si arresta impotente perché sa che il fato non è un evento fortuito né un incidente, ma la conseguenza naturale di circostanze imprevedibili e difficilmente comprensibili. […] Anche tu, immobile nel folto del bosco, sei a tua volta in balìa dell'attimo, tu il cacciatore. E nella mano avverti un fremito antico come l’uomo, l’impulso di uccidere, questa attrazione proibita, questa passione più forte di tutto il resto, uno degli stimoli segreti, né buoni né cattivi, che animano la vita in tutte le sue forme: essere più forti dell’altro, dimostrarsi più abile, non commettere errori, restare padroni della situazione. È la stessa sensazione che prova il leopardo mentre si prepara a balzare, il serpente mentre si rizza sulle rocce, l’avvoltoio mentre piomba sulla preda da mille metri di altezza. La stessa che prova l’uomo mentre scruta la sua vittima»1.
[caption id="attachment_16446" align="aligncenter" width="1000"] Fotografia di gruppo con abbattimenti, dopo battuta di caccia, degli urogalli. Foto del castello di Artstetten, luogo dove riposa Franz Ferdinand.[/caption]
La grande caccia al Blühnbach, che si estendeva su circa 14.000 ettari, comprendendo le zone fino al versante meridionale dell’Hochkönig e a nord fino all’Hoher Göll, fu inizialmente assegnata per le battute di caccia a 14 aristocratici tra austriaci, boemi e bavaresi. Tra gli illustri ospiti di caccia figuravano anche l’Imperatore Francesco Giuseppe, il principe ereditario Rodolfo e lo stesso Arciduca Francesco Ferdinando. Quest’ultimo rimase molto colpito dall’eccellente caccia al camoscio e prese il controllo della zona nonostante la resistenza del precedente gruppo di cacciatori. Affinché Francesco Ferdinando, affetto da una malattia polmonare, potesse salire più comodamente nel suo nuovo territorio di camosci, fu rapidamente costruita un’avventurosa e tortuosa strada militare lunga sette chilometri fino al Torrener Joch. Furono costruiti anche rifugi di caccia sul Joch e un grande casino di caccia all’ingresso della Bluntautal, mentre gli ultimi contadini alpini furono espropriati e l’accesso agli escursionisti di montagna fu sempre più negato. I conflitti erano inevitabili, ma d’altro canto la famiglia imperiale dava anche molto lavoro a molte persone. Schloss Blühnbach, costruito in stile rinascimentale, fu ampiamente ristrutturato da maestranze locali e gli antiquari furono autorizzati ad arredare il castello con un design venatorio e fino a 100 aiutanti furono impiegati per le numerose cacce. Francesco Ferdinando trascorse molto tempo nel casino di caccia di Blühnbach e il 27 agosto del 1913 l’arciduca andò a caccia con la moglie Sophie Chotek von Chotkowa e il suo cacciatore personale Mittendorfer. Franz Ferdinand era solito occuparsi, tra l’altro, della corrispondenza durante la caccia e solo quando i suoi servitori lo avvisavano dell’avvicinarsi della selvaggina, prendeva il fucile e alzava lo sguardo. Così è stato anche quando un camoscio bianco è apparso davanti all’alta tribuna della squadra di caccia imperiale. Probabilmente Francesco Ferdinando non esitò a lungo e uccise il fatidico animale . Essendo un cacciatore appassionato, probabilmente lui stesso conosceva le conseguenze che, secondo la leggenda, sarebbero avvenute al tiratore. Quando informò la moglie dell’abbattimento, si dice che l’arciduca abbia laconicamente osservato: “Beh, se devi morire, morirai comunque”. Nello stesso giorno furono abbattuti due camozze e altri 21 camosci. Molti oggi si chiedono perché il grilletto di Francesco Ferdinando fu premuto, essendo a conoscenza della leggenda dietro l’animale. Egli difatti era un convinto cattolico e le leggende mistiche lo disgustavano relegando tutto a folklore superstizioso e forse cercò di sfatare da solo il mito.
[caption id="attachment_16447" align="aligncenter" width="1000"] Foto del camoscio bianco (a destra).[/caption]

Oggi nessuno può affermare seriamente che Francesco Ferdinando abbia segnato il proprio destino o addirittura quello dell’intero continente europeo uccidendo il camoscio bianco. Ma ciò che resta è il rapporto tra uomo e natura, che rimane affascinante ancora oggi. Questa domanda fondamentale preoccupa gli uomini da migliaia di anni – si pensi alle prime rappresentazioni artistiche della fauna e della natura nella grotta di Lascaux – e ha dato origine a una profonda riflessione sulla propria esistenza e sul proprio destino. Solo negli ultimi 200 anni questo rapporto è stato razionalmente chiarito pezzo per pezzo dalle moderne scienze naturali – e quindi alla fine (forse?) disincantato. Sicuramente è una sottile ironia della storia che il camoscio bianco ucciso da Francesco Ferdinando nell’estate del 1913 possa ora essere ammirato nella “Haus der Natur” nell’ambito della mostra permanente “L'uomo e la natura nella favola e nel mito” presso Salisburgo. Lo Zlatorog e l’oro del monte Bogatin fanno parte di quella tradizione alpina, che continua ancora oggi – per buona pace della scienza – ad esistere e ad essere tramandata: a venatione felicitas2.

 

Per approfondimenti:

_1Márai S., Le braci, Adelphi, pp. 106-08. _2Tradotto: Alla felicità della caccia.  
 
 
 
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di Giuseppe Baiocchi del 24/12/2024

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La fama nell’età adulta non dissipa l’oscurità dell’infanzia. Se gli archivi offrono molte pagine di studio sulla famiglia degli Asburgo, o sui suoi fratelli, che sono meno dotati di lui, si oppongono a un silenzio ostinato non appena la ricerca si evolve sotto il blasone che così recita: «D’argento al leone di blu». Il mio viaggio per le lande austriache doveva condurmi verso la ridente cittadina di Luising nel Burgenland meridionale. Ci sono molti tranquilli villaggi di confine, ma nessuno è così popolare come questo. La comunità di 135 anime lo deve principalmente a una persona: l’umoristico Alfons Eduard Alexander Antonius Maria Andreas Hubertus Christoph Grafen von Mensdorff-Pouilly (1953). I suoi titoli professionali sono quasi altrettanto lunghi: consulente, organizzatore di caccie venatorie, agricoltore e allevatore di tacchini. Come ama affermare, proviene da una famiglia nobile povera, anche se sua madre, la nobildonna Ilona Gräfin Erdődy (1917 - 2003) possedeva vasti possedimenti in Ungheria.

[caption id="attachment_16426" align="aligncenter" width="1000"] Intrappolato in casa sua: Alfons Mensdorff-Pouilly scontò quattro degli otto mesi iniziali della sua condanna nel suo castello di Luising. Grazie al braccialetto alla caviglia non poteva accedere ad alcune parti del suo castello.[/caption]

Nel suo castello di nuova costruzione, che lui stesso chiama affettuosamente “Glumpert” e che valuta un milione di euro, il conte accoglie i suoi ospiti in lederhosen e tracht. L’interno è dominato dallo stile della casa di campagna inglese: carta da parati verde e tende lussureggianti nel salone, rendono squisitamente elegante l’interno, dove tra una marmotta impagliata, e trofei di cervo o di gnu, vi sono anche molte armi da cinghiale incorniciate in argento. Nel tranquillo villaggio, Mensdorff-Pouilly colleziona trofei e avvia affari milionari come consulente. Ma quali sono le orme familiari di questo liberal-conservatore austriaco? Corre voce – ma non si hanno prove concrete – che sia iscritto alla Massoneria? Quante maldicenze si dicono per invidia! Ebbene la storia doveva portare il piccolo Alfons in Austria, facendolo crescere in circostanze piuttosto modeste. Suo padre Alexander Mensdorff-Pouilly (1924 - 2009) già impoverito, si era sposato nel 1952 con la nobildonna ungherese Ilona Gräfin Erdődy (1917 - 2003), proveniente da un’antica famiglia di magnati. È cresciuto con i suoi fratelli Antonius ed Elisabeth nella vecchia dogana di Luising nel Burgenland. La famiglia viveva in gran parte dell’eredità, che comprendeva a circa 200 ettari di boschi e terreni agricoli a Luising e dintorni, che la madre riuscì a salvare, dopo aver perso le proprietà di famiglia nell’antica Cecoslovacchia e Ungheria nel 1948, a causa dell’arrivo del comunismo, che nazionalizzò le proprietà. Così gli Erdödy, che per secoli avevano avuto la loro casa ancestrale a Eberau, a circa 10 km a nord di Luising, riuscirono a mantenere alcune significative proprietà in Austria. Discendente da un’antica e venerabile famiglia baronale della Lorena “Graf Ali” così come è stato rinominato in Austria, mostra non senza un certo orgoglio, le armi araldiche della famiglia: un leone blu su sfondo argento, con un pellicano sacrificale raffigurato nella parte superiore dello stemma. In araldica il pellicano è simbolo di pietà, amore e carità per il prossimo e può rappresentare il buon padre di famiglia che alimenta i figli con la sua virtù o la carità di un buon governante verso i propri sudditi. Nel 1395 il dominio di Pouilly vicino a Stenay fu elevato a baronia. Nel 1818 alla famiglia venne conferito il titolo di conte austriaco. Da quel momento in poi, il Generale Imperiale e Regio Emmanuel von Mensdorff-Pouilly (1777 - 1852) poté fregiarsi del titolo ereditario di conte applicando il tanto controverso, oggi vietato in Austria, appellativo di “von”. È il capostipite di numerosi discendenti della nobile famiglia Mensdorff-Pouilly, tra cui il 72enne Alfons Mensdorff-Pouilly. Il ramo austriaco della famiglia ebbe alcuni personaggi noti. Il suo pro-pro-prozio Alexander conte von Mensdorff-Pouilly (figlio del conte Emmanuel) fu ministro degli Esteri austriaco e primo principe di Dietrichstein zu Nikolsburg dal 1864 al 1866. Il figlio minore di Alexander, Albert conte von Mensdorff-Pouilly-Dietrichstein, a sua volta svolse un ruolo importante come diplomatico d’Austria-Ungheria prima e durante la prima guerra mondiale. Il fratello della sua bis-bisnonna fu Eduard von Paar, l’ultimo Aiutante Generale di Campo dell’Imperatore Francesco Giuseppe I. Nomi molto più noti si trovano nell’albero genealogico Mensdorff-Pouilly se si va ancora più indietro nel tempo. Ci sono collegamenti con le famiglie reali britannica e belga e anche con gli Asburgo.

[caption id="attachment_16427" align="aligncenter" width="1000"] Albero genealogico della famiglia Mensdorff-Pouilly e stemma araldico.[/caption]
Il duca Franz Friedrich Anton di Sassonia-Coburgo-Saalfeld (1750 - 1806) fu nonno della regina Vittoria di Gran Bretagna e Irlanda e trisnonno della defunta regina britannica Elisabetta II. Sua figlia Sophie Friederike Karoline Luise di Sassonia-Coburgo-Saalfeld si sposò con il conte di Emmanuel Mensdorff-Pouilly, il capostipite. Quest'ultimo era a sua volta il padre di Alexander conte von Mensdorff-Pouilly, il trisavolo del “Conte Alì”. A causa di questo legame familiare, diversi media hanno riferito nel 2011 che Mensdorff-Pouilly sarebbe dovuto essere il 124esimo in linea di successione al trono britannico.. tuttavia, i cattolici ne sono esclusi dal 1701 per l’Act of Settlement. Esiste anche un legame con la famiglia reale belga e con gli Asburgo: lo stesso Franz Friedrich Anton di Sassonia-Coburgo-Saalfeld fu anche padre di Leopoldo I del Belgio, primo Re dei belgi. Suo figlio, Leopoldo II del Belgio, fu a sua volta sposato con Maria Enrichetta Anna d’Austria della Casa d’Asburgo-Lorena. Il quadro sembra così perfetto per riprendere la celebre frase di apertura di Anna Karenina, noto romanzo dello scrittore russo Lev Tolstoj: «Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece infelice a modo suo». Intorno al 1990 Alfons Mensdorff-Pouilly fece costruire sul confine settentrionale di Luising un castello neostorico, che divenne noto al pubblico soprattutto grazie alle cacce sociali che vi si svolgevano. Secondo i media, nella tenuta di Mensdorff erano ospiti frequenti imprenditori, manager e politici, tra cui l’allora Ministro degli Interni Ernst Strasser e l’allora vicecancelliere Hubert Gorbach. Nella percezione pubblica, il castello è visto come il luogo in cui Alfons Mensdorff-Pouilly allaccia nuovi contatti politici ed economici e mantiene quelli esistenti, nonché dove avvia e, se necessario, conclude affari milionari. Il castello è costituito da un edificio quadrato ad un solo piano su pianta rettangolare con tetto a mansarda. La facciata a flangia ha una proiezione centrale con timpano triangolare a nord-ovest e sud-est. Nella salita nord-ovest è presente un portale ad arco a tutto sesto che dà accesso al cortile interno. La salita sud-est fa parte del fronte del giardino e presenta un’ampia scalinata esterna , sopra la quale si trova una terrazza sorretta da colonne in mattoni nel sottotetto. Del complesso fanno parte anche gli edifici della guardia doganale su lato nord.
[caption id="attachment_16428" align="aligncenter" width="1000"] Vista aerea del Castello Luising, presso l'omonima cittadina.[/caption]
Da alcune cornici si può osservare come il “Graf Alì” sia stato sposato con una nota politicante del partito popolare austriaco (Österreichische Volkspartei, ÖVP) di stampo liberal-conservatore: Maria Rauch-Kallat (1949), oggi – dopo aver ricoperto il ruolo di Ministro della Salute e delle Donne dal 2003 al 2007 nel governo austriaco – è una consulente aziendale. Contrariamente alla legge sui nomi matrimoniali dell’epoca, Rauch-Kallat mantenne il suo doppio cognome dal suo primo matrimonio. Questa “Lex Rauch-Kallat” portò all’eccitazione dei media e dell’opposizione, che portò successivamente ad una riforma delle leggi sui nomi coniugali. Oggi il conte vive separato dalla moglie da molti anni, mantenendo comunque un ottimo rapporto. Mensdorff-Pouilly ha anche un figlio, Ferdinand Mensdorff-Pouilly, da una precedente relazione. Ferdinand dal 2021 è sposato con la contessa Franziska von Walderdorff. La coppia si è conosciuta ad un corso di danza nel 2009 e si sono fidanzati dal 1° gennaio 2013. Ferdinand, che è agricoltore e guardaboschi e lavora nell'azienda di famiglia, ha proposto alla sua dolce metà tedesca di sposarsi durante una battuta di caccia a Luising nel maggio 2020. Piccole storie di paese narrano con malizia, che il conte viva solo in una stanza del castello. Il resto è a servizio della sua fiorente attività venatoria. Difatti Mensdorff-Pouilly che ama farsi chiamare “un agricoltore, senza talenti particolari” è un grande proprietario terriero e lavora come guardia forestale. In questa veste è presidente dell’Associazione delle tenute agricole e forestali del Burgenland. Per la caccia commerciale alleva fagiani e anatre nella sua proprietà a Luising nel Burgenland. Molti anni fa provò l’allevamento di struzzi e l’idea di vendere carne di cervo in scatola negli Stati Uniti come parte della sua “Burgenland Game Specialties Production Company”, ma ahinoi tutti i tentativi di produrre con successo carne macinata di cervo o zuppa in scatola caddero in un fallimento.
Il 7 novembre del 2015, circa 25 attivisti per i diritti degli animali si sono riuniti davanti alla proprietà di caccia a Bildein per documentare quelle che credevano fosse una pratica di caccia illegale. In verità gli ambientalisti sono stati sempre il suo primo nemico atavico. Tuttavia, una zona di interdizione di 200 metri intorno alla zona di caccia, fu controllata dagli agenti di polizia, i quali hanno impedito agli attivisti di avanzare. Il presidente dell’associazione contro gli allevamenti di animali, Martin Balluch, è però riuscito a raggiungere la recinzione della porta di caccia sul lato ungherese. «Dato che ero in Ungheria, qui non esisteva alcuna zona di esclusione», ha affermato con una nota di malizia Balluch, che ha presentato una denuncia contro Mensdorff-Pouilly per crudeltà sugli animali. I giornali distrettuali hanno avuto l’opportunità di visitare la proprietà di caccia di Mensdorff-Pouilly. La prima impressione: una vasta zona boscosa, nella quale gli animali si vedono con molta difficoltà. Solo dopo pochi minuti di guida si videro in lontananza alcuni cinghiali. «L’area in cui cacciamo qui è di 200 ettari. Spesso abbiamo cacciatori in postazione per tutto il fine settimana e non sparano a niente», afferma Mensdorff-Pouilly, rispondendo alle accuse secondo cui gli animali vengono portati «proprio davanti alle armi dei cacciatori. Preferirei essere un cervo che sta nel prato e mangia e poi eventualmente muore indolore con un colpo di carabina, piuttosto che un toro che attraversa mezza Europa e poi si prende una pallottola in testa. Morire non è mai divertente, ma centinaia di migliaia di animali morirebbero ugualmente se noi non cacciassimo. Il signor Balluch ha detto che il povero cervo sembrava terrorizzato, ma non abbiamo un cervo in tutta la zona».
In un’altra occasione gli attivisti per la protezione degli animali ebbero la meglio, liberando 16 pernici dalla proprietà del conte a Luising. L'Associazione contro le fabbriche di animali (VGT) vuole protestare contro l’allevamento di pernici, fagiani e germani reali, come viene praticato da Mensdorff-Pouilly. «Migliaia di questi uccelli vengono trattenuti, solo per essere rilasciati in scatole e immediatamente abbattuti. Le autorità evidentemente non vogliono o non possono confiscare gli uccelli – affermò il presidente della VGT Martin Balluch, giustificando l’azione –, le azioni di Mensdorff-Pouilly erano illegali e la liberazione degli animali era il mezzo più blando per ripristinare la situazione legale». Inutile dire che “Graf Alì” vinse anche questa sfida. Il conte possiede anche numerose aziende e investimenti in Austria e in altri paesi europei che non si occupano di agricoltura e silvicoltura. È azionista unico (settembre 2008) ed ex amministratore delegato della “MPA Handelsgesellschaft mbH” di Vienna, fondata come società commerciale per tutti i tipi di merci, ma il cui scopo dichiarato è quello della consulenza aziendale. Fu da questo semplice ed onesto lavoro che Mensdorff-Pouilly fu definito dai media come il “conte Alì”, il lobbista delle armi. A Luising c’era sempre qualcosa da fare: feste in smoking, dopo una stancante giornata di caccia al Drive per fagiani, colazioni, pranzi e avvenne per molti anni una sorta di pellegrinaggio al castello di politici di primo piano e top manager. Sarà forse per aver contato troppe banconote, che iniziarono le prime piccole disgrazie del conte, poiché attirò gli invidiosi media progressisti, che iniziarono a creare intorno al nobiluomo una sorta di romanzo criminale fatto di tangenti e corruzione. Quando Mensdorff-Pouilly se ne accorse affermò sprezzante: «Non sono l’Einstein della corruzione. Credete davvero che quando un uomo si siede su di una poltrona, possa affermare al suo vicino di fare qualcosa di sbagliato? Se voglio fare qualcosa di storto, è più probabile che mi rechi da solo sulle rive del Danubio e non vada più a caccia».
Si venne poi a sapere che una sua foto albergava nel clubbing anti-corruzione dei Verdi al Volksgarten di Vienna. Inizialmente l’allegro Alì, insieme agli amici Grasser e Meischberger ridevano della notizia: creò, per hobby pomeridiano, numerose caricature e fotomontaggi di se stesso dietro le sbarre: correva l’anno 2007 e così passava la gloria. Non tutti potevano entrare facilmente nella sofisticata tenuta del conte Mensdorff-Pouilly: sia in Austria, che nel suo possedimento scozzese. Ha acquistato il “Dalnaglar Castle” a Glenshee, a due ore di macchina da Edimburgo nelle Highlands, attraverso la sua società ungherese MPA, acquistata il 24 settembre 2008. Chi vuole affittare il castello nelle Highlands del conte, per un fine settimana paga 15.000 sterline (19.000 euro). Naturalmente, i membri dei gabinetti dei ministri dell’Interno e dell’Agricoltura non dovevano pagare così tanto, poiché erano invitati dal conte Alfons e certamente non se lo fecero ripetere due volte. «Faceva piuttosto freddo perché il riscaldamento non funzionava bene – ecco cosa ricorda l’ex compagno di caccia di Mensdorff-Pouilly –, per il resto le battute di caccia al castello di Dalnaglar in Scozia erano piuttosto piacevoli». La vicenda è sicuramente politicamente altamente esplosiva perché il Nostro, non è solo un cacciatore, ma anche un proprietario terriero e uno dei lobbisti delle armi più noti d’Austria. Ma secondo gli avvocati, questa “accettazione illegale di doni” di tipo venatorio non dovrebbe violare il diritto penale. In ogni caso, si tratta di una grave violazione della legge sul pubblico impiego. Nascono per il povero “Graf Alì” i primi sospetti di corruzione: i buoni contatti al Ministero dell’Agricoltura, ma soprattutto al Ministero dell’Interno, secondo l’accusa valgono come oro. In definitiva, per la legge sui materiali bellici è responsabile il Ministero degli Interni: è lui che autorizza l’importazione, l’esportazione e il transito di materiale bellico.
[caption id="attachment_16430" align="aligncenter" width="1000"] Alfons Mensdorff-Pouilly al lavoro nella sua azienda a Vienna. La società commerciale MPA.[/caption]

Il Serious Fraud Office (SFO) di Londra accusò Mensdorff-Pouilly di essere coinvolto come lobbista per la società di difesa britannica BAE Systems “in processi di corruzione attiva e passiva nei processi di approvvigionamento nazionali e internazionali di attrezzature militari”. Così conquistò i titoli dei giornali britannici, svedesi, cechi e ungheresi nel 2007, quando lui e la sua rete di società sono stati coinvolti nella distribuzione di commissioni in vista della conclusione di contratti per l’acquisto o il leasing di aerei da caccia Saab-Gripen da parte di Repubblica Ceca e Ungheria, tra il 1999 e il 2006. In relazione al suo lavoro di consulenza per BAE Systems è stato accusato di corruzione e riciclaggio di denaro in diversi paesi. L’intermediazione di queste transazioni, che includevano anche il pagamento di commissioni a politici cechi e ungheresi, è stata infine gestita dalla società Valurex, con sede a Ginevra, del brigadiere e multimilionario britannico Timothy Landon, con sede a Ginevra , registrata a Panama. Solo un caso vuole che, fino alla sua morte nel 2007, Landon è stato sposato con Katharina Esterházy, cugina di Mensdorff-Pouilly, la quale era rappresentante autorizzata per le sue proprietà in Austria. A loro nome nel 2006 ha venduto il castello di Pottendorf all’omonimo comune. Anche Mensdorff-Pouilly aveva un contratto di consulenza con Valurex, ma secondo le sue stesse dichiarazioni solo dopo la conclusione dei contratti con la Repubblica Ceca e l’Ungheria. Nell’ottobre 2008 è stato fermato dalla polizia britannica mentre si recava dalla sua tenuta scozzese Dalnaglar Castle a Glenshee (Perthshire) all’aerodromo. Gli è stato chiesto di seguire la polizia a Carlisle, in Inghilterra, per essere interrogato perché l’OFS non ha giurisdizione in Scozia. Alla fine gli aerei da caccia Saab Gripen non furono acquistati dallo Stato ceco, ma furono noleggiati per dieci anni nel 2005. Il 29 gennaio 2010, Mensdorff-Pouilly è stato interrogato e arrestato dall’SFO a Londra. L’arresto è stato una sorpresa per l’avvocato di Mensdorff-Pouilly. L’SFO ha tuttavia reso noto che l’operazione è stata coordinata a livello internazionale dall’Unità europea di cooperazione giudiziaria. Il 4 febbraio 2010, la Corte distrettuale di Westminster ha deciso di rilasciare Mensdorff-Pouilly dietro cauzione dell’equivalente di oltre 570.000 euro. Tuttavia, ha dovuto consegnare i suoi passaporti e restare a disposizione per ulteriori interrogatori in qualsiasi momento. Tuttavia, il 5 febbraio 2010, il procedimento contro Mensdorff-Pouilly in Inghilterra è stato definitivamente archiviato. Il motivo di ciò sono stati gli accordi tra l’SFO, il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti e la BAE Systems sul pagamento di sanzioni per circa 280 milioni di sterline, volute dal governo britannico, ma che poi si sono rivelate illegali. Dopo il pagamento delle multe, tutte le ulteriori indagini da parte delle autorità statunitensi e dell’SFO contro persone che avrebbero potuto essere coinvolte in questi casi sono state interrotte. Il direttore dell’SFO Richard Alderman ha dichiarato che “non è più nell’interesse pubblico portare avanti le indagini sui singoli individui”. L’inchiesta Mensdorff-Pouilly in Austria non è influenzata da questa interruzione dell’indagine in Inghilterra. Il 25 maggio 2011 è stato annunciato che a Mensdorff-Pouilly era stato riconosciuto un risarcimento carcerario di 430.000 euro per il periodo in cui era stato detenuto a Londra. Così, con qualche piccola arrabbiatura per le gravi accuse il conte “Alì”, ne uscì indenne e con qualche centinaio di mila euro in tasca. Appena uscito dalla carcerazione, affermò sarcastico: «La prigione non è mai divertente. Dovevo usare rasoi usa e getta e la biancheria intima, era di pessima qualità. Se potessi scegliere, sceglierei la prigionia austriaca e non c’è dubbio che la magistratura sarebbe felice di soddisfare anche questo mio desiderio». Risolta questa delicata questione ecco che un certo Michael Piatti-Fünfkirchen , proprietario terriero ceco-austriaco e cugino di terzo grado del conte, ha sporto denuncia per frode proprio contro il suo “cugino-serpente” nel dicembre 2008, sostenendo che quest’ultimo gli aveva offerto un milione di dollari nel 1998 se avesse “contattato le persone coinvolte nella decisione che fu presa dai rappresentanti del governo della Repubblica Ceca coinvolti nella procedura di appalto”. Secondo Piatti-Fünfkirchen ci sono stati incontri con rappresentanti del governo ceco, dirigenti della BAE e un rappresentante della Mensdorff-Pouilly. Tuttavia, lui stesso non ha ricevuto alcun pagamento da Mensdorff-Pouilly. L’avvocato di Mensdorff-Pouilly, Harald Schuster, ha respinto le accuse e ha affermato che il pagamento non era possibile perché lo stesso Mensdorff-Pouilly non aveva ricevuto alcuna commissione per l’attività nella Repubblica ceca. Quando tutto sembrava essere tornato alla normalità, tra un viaggio in Scozia e una caccia nel suo fondo chiuso con solo qualche piccola festa insieme ai suoi amici più stretti, ecco il grande caso dell’Eurofighter che preoccupa l’Austria da 20 anni ormai. Dopo che all’inizio del 2007 era venuto alla luce come Christer van der Kwast, procuratore capo dell’agenzia anticorruzione svedese, aveva avviato un’indagine contro Valurex a causa degli eventi legati all’aggiudicazione dell’appalto per gli aerei da caccia Saab Gripen da parte della Repubblica ceca, Alfons Mensdorff-Pouilly fu nominato nell’indagine. Il 21 maggio 2007 in Austria è stato convocato presso la commissione parlamentare d’inchiesta sulle procedure di appalto degli aerei da caccia Eurofighter. Tuttavia, il Serious Fraud Office ha sequestrato un rapporto dell’MPA – la società del conte “Alì” –, indirizzato alla BAE in data 27 marzo 2003, in cui si affermava che l’MPA aveva “esercitato pressioni” per annullare la prima gara per l’acquisto di aerei militari da parte della Repubblica d’Austria. Dopo la gara d’appalto la scelta sarebbe ricaduta sull’F-16 della Lockheed Martin. Il contratto è stato nuovamente bandito, dando all’Eurofighter la possibilità di presentare una nuova offerta in cui l’Austria ha annunciato un ordine da 1,79 miliardi di euro per l’Eurofighter Typhoon. Secondo un resoconto dei fatti inviato da Pilz alla procura austriaca il 1° ottobre 2008, il pubblico ministero responsabile ha avviato dal gennaio 2009 un’indagine contro Alfons Mensdorff-Pouilly perché sospettato di falsa testimonianza davanti alla commissione investigativa parlamentare dell’Eurofighter. Il 27 febbraio 2009 Mensdorff-Pouilly è stato arrestato nel suo castello di Luising. La custodia cautelare è durata cinque settimane. Quando il matrimonio stava andando ancora meglio, la moglie Rauch-Kallat fece visita anche ad “Alì” in custodia cautelare. In coda aveva sempre il cappello sceso sul viso. Tuttavia accadde un evento poco piacevole per la signora, la quale fu riconosciuta da un ubriacone che le gridò: “Signora Ministro”. Quasi un anno dopo la sua custodia cautelare presso il Tribunale penale regionale di Vienna, in Austria non era ancora stata presentata alcuna accusa contro Alfons Mensdorff-Pouilly, ma la procura ha continuato a lavorare sul caso.

La vita del conte Alfons continua, così come proseguono i suoi leciti affari. Se lo si incontra, sempre affabile e gentile, ci appare come uno di quegli antichi Signori che hanno servito con amore l’antica monarchia Imperiale e Regia: certamente non un porta-valigette dagli occhi di ghiaccio, manipolatore e truffaldino. I fatti danno ragione alla mia prima impressione. Nel settembre 2011, anche la Securities and Exchange Commission degli Stati Uniti ha iniziato a indagare su Mensdorff-Pouilly, relativamente ai suoi rapporti con Motorola. Dall’aprile 2004 l’azienda elettronica avrebbe versato al lobbista un totale di 2,2 milioni di euro. Questo avrebbe effettuato “pagamenti illegali” sotto forma di vacanze e regali a decisori politici in Europa e nel Medio Oriente, tra l’altro per influenzare l’assegnazione del progetto radiofonico del governo austriaco TETRON a favore di Motorola. Telekom Austria avrebbe trasferito altri 1,1 milioni di euro alla Mensdorff-Pouilly e avrebbe inoltre ordinato battute di caccia per un valore di oltre 170.000 euro. Leggende narrano che Mensdorff-Pouilly abbia usato il denaro per invitare l’allora ministro dell’Interno Ernst Strasser (ÖVP) e il suo gabinetto (tra cui Christoph Ulmer, Mathias Vogl, Michael Kloibmüller, Oskar Gallop e Philipp Ita) a una battuta di caccia. Il deputato verde e presidente della commissione d’inchiesta sull’Eurofighter Peter Pilz vede in ciò un’incompatibilità e un’accettazione di doni vietata per i dipendenti pubblici. In un'intervista domenicale di due pagine sul quotidiano Kurier , condotta alla presenza del suo avvocato interno, Mensdorff-Pouilly ha difeso il suo compenso: «Ho fornito consulenza a Telekom per tre anni in diversi paesi, ero disponibile 24 ore su 24 e contribuito a sviluppare strategie. Ma il contratto durò solo otto mesi. Allora perché dovrebbe essere immorale»? Secondo quanto riportato dai media, tra il 2006 e il 2009 il gruppo tedesco di tecnologia medica Drägerwerk ha pagato 3,146 milioni di euro alla Mensdorff-Pouillys MPA Budapest. Nel 2006, Drägerwerk ha pagato oltre 275.000 euro all’MPA Handelsgesellschaft di Vienna di Mensdorff-Pouilly. Nello stesso anno, il Ministero della Sanità austriaco, che all’epoca era subordinato a sua moglie Maria Rauch-Kallat (ÖVP), iniziò la vendita di maschere antinfluenzali e Dräger ai rivenditori. Successivamente il ministero ha dovuto riacquistare le mascherine invendute al doppio del prezzo di un prodotto concorrente. Il 14 dicembre 2015, in relazione ai pagamenti di Telekom Austria, è stato condannato a tre anni di reclusione incondizionata per abuso di fiducia e al rimborso di 1,1 milioni di euro più interessi di risarcimento danni, ma nell’ottobre 2017, il Tribunale regionale superiore di Vienna ha ridotto la pena a due anni di reclusione, di cui 16 mesi agli arresti domiciliari nel suo castello. Il 23 marzo 2018 si è saputo che il condannato non doveva scontare la parte incondizionata – 8 mesi – della sua pena detentiva come reclusione, ma gli era stato concesso il permesso di indossare un braccialetto alla caviglia. Il capo della prigione di Eisenstadt giustifica l’uso di un braccialetto alla caviglia con GPS – con una precisione di localizzazione di 3 m – per la particolare “fama” del conte Mensdorff. I requisiti sono: divieto di caccia, mantenimento di un raggio di movimento inferiore a quello dell’edificio del castello e divieto di viaggiare all’estero. Tutto accettabile per l’uomo, ma non per il cacciatore!

Ma la provvidenza agisce contro le cattiverie dell’uomo. Così cinque mesi (2024) fa Mensdorff-Pouilly è stato assolto in appello nel complesso dell’Eurofighter per riciclaggio di denaro. Il Tribunale regionale superiore di Vienna ha annullato il verdetto di colpevolezza del Tribunale regionale di Vienna del 2022 e ha assolto l’imputato. Il giudizio è definitivo.

Mensdorff-Pouilly è stato condannato a sei mesi con sospensione della pena con un periodo di prova di tre anni. Ha dovuto pagare anche 50.000 euro, che avrebbe ricevuto in contanti. Mentre il giudice di primo grado era sostanzialmente d’accordo con le affermazioni dell’accusa, il Tribunale regionale superiore ha visto la questione in modo diverso. Secondo la situazione giuridica rilevante al momento del reato contestato, il reato di riciclaggio sarebbe soddisfatto qualora i beni occultati (il “denaro riciclato”) “provenissero” da un atto criminoso. Per “riciclare denaro” in senso penale è necessario un “reato presupposto” da cui proviene questo denaro “riciclato”, secondo la dichiarazione della corte. Nel caso specifico, però, dagli accertamenti del primo tribunale non è emerso che il “predecessore” abbia ricevuto del denaro dal reato di cui è stato accusato (infedeltà ai danni della società). L’accusa contro il conte, era piuttosto quella di aver fatto trasferire a terzi i fondi dell’azienda per cui lavorava sulla base di contratti fittizi.

«Dopo la mia persecuzione, io stesso mi aspettavo un ribaltamento del verdetto. Per sostenere l'invidia e il risentimento posso solo dire: le cose ora andranno meglio che mai». Il conte però da adesso in poi si terrà lontano dalla consulenza per le aziende di proprietà della Repubblica. «Una cosa ingenua non deve essere fatta due volte», affermò in un’intervista il nobile di campagna.

Il 9 settembre del 2023, di buon umore e con quasi 300 ospiti, Alfons Mensdorff-Pouilly, il più importante lobbista del Burgenland, ma che preferisce definirsi un “contadino senza particolari talenti”, ha festeggiato il suo 70esimo compleanno nel suo castello di Luising. E quando il “Conte Alì”, organizza un party, anche il fattore celebrità è eccezionale. Oltre all’ex vicecancelliere Hubert Gorbach era presente anche l’ex Miss Mondo Ulla Weigerstorfer, ma alla festa di compleanno non potevano mancare anche i vigili del fuoco locali. Ha fornito pollo alla griglia e bevande fredde per garantire che i sostenitori non dovessero tornare a casa affamati e assetati. I suoi ospiti gli hanno fatto solo i migliori auguri di buon compleanno. Per il signor “Graf” conta solo una cosa: «rimanere in salute a lungo». La sua vita è stata spesso emozionante, anche se non sempre egli – da onesto uomo qual’era – poteva comprendere il trambusto che lo circondava.

Ma nel mondo di Mensdorff-Pouilly c’è ancora un accenno alla monarchia d’Austria-Ungheria. Quando l’imponente Mensdorff, alto 1,95 m, soggiorna nella contea pannonica, la bandiera con lo stemma di famiglia viene issata sempre sul tetto del suo castello (come per tutti i capi di Stato) in segno della sua presenza benigna. Come ama ricordarci: «Così i contadini sanno se sono lì. La mia porta è sempre aperta per loro».

 
 
 
 
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di Giuseppe Baiocchi del 18/12/2024

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Il libro del dott. Ronald Friedrich Schwarzer “Attraverso le lande asburgiche” (Durch Habsburgs Lande, Karolinger, 2023) è un viaggio meraviglioso nelle antiche terre della famiglia degli Asburgo-Lorena: qualche nome e appartenenza culturale esiste ancora, qualcun’altra si è solo assopita e aspetta un ritorno quanto mai profetico. Difatti come ci appare dalla copertina della prima edizione austriaca, la Corona austriaca – simbolo di tutti i popoli che componevano prima il Sacro Romano Impero (800 - 1806), poi l’Impero Austriaco (1806 – 67) ed infine quello d’Austria-Ungheria (1867 - 1918) –, rappresenta la vera garanzia del primo esperimento che non può non celare similitudini con quella Europa unita su basi culturali comuni come la grecità, la cristianità e successivamente la filosofia tedesca del 900. Venti lingue venivano parlate sotto questi Regni amministrati da una delle famiglie che hanno contribuito – insieme ai Borbone – a plasmare l’Europa che oggi ancora abbiamo la fortuna e il privilegio di ammirare: il tedesco, l’ungherese, lo slovacco, il ruteno, lo sloveno, il ceco, il russo, il rom, il rumeno, il polacco, lo yiddish, il lombardo, il veneto, il ladino dolomitico, il friulano, l’italiano, il dalmatico e il serbo.

Nel primo Natale del secolo nono Carlo Magno riceveva nelle mani di Papa Leone la corona dei Cesari romani: l’antico Imperium, la cui potenza aveva riposato per tanti secoli, era nuovamente risorta. Presenti nella simbologia vi era la Croce, nella quale si incrociavano l’orizzontalità terrena e parallelamente la verticalità ultraterrena. Il Globo imperiale posizionato sulla sinistra simboleggiava che quel Impero avrebbe portato la croce di Cristo. I due più potenti antagonisti Cesare e Cristo, venivano avvicinati nell’idea del nuovo “Sacro Romano Impero di Nazione Tedesca”. E poi scoccò la sua ora destinale, nella quale un popolo capisce di ricevere un grande onore e un grande onere: l’eredità spirituale del Caesar Carolus Magnus. Fu proprio la casa d’Asburgo che resse i paesi ereditari austriaci e da allora in poi, con poche interruzioni, conservò la dignità imperiale romana fino al termine di questa. Difatti quando all’inizio del Novecento cominciò a salire l’ondata del nazionalismo tedesco1, il sovrano asburgico allora regnante, Francesco I, sciolse il Sacro Romano Impero di Nazione Tedesca non chiamandosi più Imperatore romano, ma per l’appunto “Imperatore d’Austria”: il disperato tentativo di salvare la grande idea della unità dei popoli.

Non voglio enunciare qui una teoria, ma esprimere un dato esperienziale. Solo nel segno di un’idea superiore si fondarono e si fondano i regni. Le nazioni possono costituire soltanto degli Stati. Gli Stati nazionali sono nella loro intima essenza massonici, quindi di natura satanica per un uomo di fede cattolica; come tutto ciò che è demoniaco e idolatrato, sono suscettibilmente “dinamici”, minacciosi e minacciati. I veri regni invece nascono, quando alle unità demoniache naturali è aggiunto un elemento soprannaturale divino, che le trascina in alto al di sopra di loro stesse: una rivelazione o un’idea superiore: un Regno di Cristo in terra. Tale è almeno nell’ora della sua nascita. Ronald giudica che il suo mondo estinto, l’Impero d’Austria, fu precisamente uno di questi veri regni. Tuttavia egli soffre. Soffre, perché un ordine superiore è decaduto ad un ordine inferiore. Soffre della perdita di una fine della propria dignità personale, che, nonostante ogni comunanza nazionale, era scesa anche su di lui, minimo frammento, dall’idea sopra ordinata di quel Regno. L’Impero ancora in Austria è amato e come non potrebbe esserlo? Sotto gli Asburgo l’Austria ha prosperato, aveva uno sbocco marittimo e come ci ricorda Alexander Lernet-Holenia nel suo capolavoro letterario “Lo Stendardo” ‭«In un certo senso noi siamo, per così dire, un Impero coloniale su suolo europeo […] abbiamo riunito intorno a noi un gruppo di popoli che è incomparabilmente più numeroso di noi stessi. Abbiamo dato loro tutto ciò che potevamo dare. Questo era ed è il nostro dovere di tedeschi. Li abbiamo resi maggiorenni»2.

  [caption id="attachment_16407" align="aligncenter" width="1000"] Confine doganale presso la cittadina di Braunau am Inn, oggi comune austriaco di 16.887 abitanti in Alta Austria, del quale è capoluogo di distretto.[/caption]
Ma come si può comprendere questa consapevolezza? Ebbene l’idea dell’antica Austria pretendeva che l’uomo che l’abitava fosse in un certo senso “trasformato” e “riplasmato”. Con immensi sforzi – sia di carattere culturale, che sociale – lavorò non sul concetto di nazione e quindi di nazionalismo (che come sappiamo, ha portato solo distruzione laddove è stato abbracciato), ma su quello di essere parte di un Unicum nel quale un tedesco, un ruteno, un italiano, sentisse interiormente quella scintilla verso una appartenenza più alta, qualcosa di superiore ideologicamente parlando: un vero e proprio sacrificium nationis, in cui l’individualismo nazionale fosse messo da parte. Una rinuncia ad una comoda affermazione di se stessi, rinuncia all’eccitante abbandono degli istinti del proprio sangue, rinuncia all’indomito bisogno di trionfo della propria stirpe. Solo chi compiva questa rinuncia, chi era deciso a questo sacrificio, poteva ottenere la consacrazione superiore dell’idea, venendo così ricreato nell’uomo nuovo, nell’Austriaco: un simbolo ideale per insegnare molto alle altre civiltà. Come ci ricorda un altro grande scrittore come Franz Werfel «Egli doveva diffondere la luce della propria umanità provata dal sacrificio, affinché tutti quelli che erano ancora giovani, ancora barbari, ancora legati alla terra, fossero illuminati e convertiti da questa luce. Questa destinazione [...] si è conclusa col tramonto della vecchia Austria3». Inoltre la mitezza del cattolicesimo donava all’Impero la sua segreta sostanza di benessere sociale: un vento amabile guidato, nella sua fase finale, dal pio, Carlo Imperatore, beatificato nel 2004. I funerali “di Stato” di Ottone d’Asburgo-Lorena, figlio di Carlo a Vienna nel 2011 sono stati un simbolo di come l’Impero ritorna ancora oggi incessante, non sulle carte geografiche, non sulle mappe terrestri che gli furono proprie; ritorna in tanti cuori e in tante menti, come immagine, sogno e speranza; come una reliquia da adorare e conservare gelosamente, benché imperfetta, calma e magnifica: quell’Austria felix che faceva l’amore e non la guerra, dolce e malinconica, ritorna sommessa e luminosa, perché l’Impero asburgico è stato grande, è stato ordinato, è stato bello, è stato gentile ed è stato soprattutto molto rimpianto. Sebbene la mia descrizione, si immerga perfettamente nel celebre filone letterario a cui Claudio Magris riuscì a donare il fortunato nome di Finis Austriae, il libro “Attraverso le lande asburgiche” non può essere inquadrato propriamente in questo genere, poiché oltre al suo humour inglese che contraddistingue l’eccellente penna di Schwarzer, il ritmo della lettura e tutt’altro che melanconico e odorante di rimpianti. Si avverte, di contro, tutta l’energia dell’autore per ricordare come queste terre, non abbiano affatto smarrito quella trazione culturale – artistica, architettonica e letteraria, di usi e costumi – propria della Vecchia Austria. D’altronde se effettuiamo una analisi della forza vitale di molti paesi oggi indipendenti e nazionali, possiamo tranquillamente riscontrare di come la loro forza spirituale si sia essenzialmente dissolta. Kafka, scriveva in tedesco, non in ceco e quando l’antica Repubblica Cecoslovacca nacque non sfornò più nessun letterato degno di nota, ad eccezion fatta per Kundera (1929 - 2023). Di questi esempi ne possiamo fare altri, tutti legati a quei micro paesi attuali come ad esempio l’attuale Slovacchia o la stessa Ungheria, che dopo il grande Marai non ha più riproposto sulla scena internazionale autori di così grande elevatura letteraria. Ebbene quella forza spirituale e culturale a trazione austro-tedesca viene ripresa nel libro di Ronald Schwarzer.
[caption id="attachment_16419" align="aligncenter" width="1000"] Frammento di immagine del funerale pubblico di Otto von Habsburg nel 2011.[/caption]
Nulla è al caso. Ho avuto il privilegio di conoscere personalmente l’autore nel suo palazzo viennese, chiamato – in onore di Franz Ferdinand – Ferdinandihof, nel quale si svolgono regolarmente concerti di musica barocca, così come conferenze culturali. Si respira un’aria autentica dove il politicamente corretto, simbolo della nostra epoca, è bandito. Difatti la nostra Europa è di fronte ad un bivio. Da un lato una via che passa dalla accettazione delle “disuguaglianze” come produttrice di vita. Da un altro la tentazione della “eguaglianza” intesa come giustizia. La prima via è quella della nostra storia. La seconda è quella che ci viene prospettata, e che fu preconizzata da Oswald Spengler (1880 - 1936), come “Tramonto dell’Occidente”. Siamo stati per tanto tempo il maggior polo di sviluppo del mondo, proprio perché non siamo mai stati tentati dalla filosofia della “eguaglianza”. Dobbiamo decidere, se seguitare ad essere, ciò che siamo stati, punto avanzato dell’ingegno umano o passare ad altri il testimone. Forse è già troppo tardi. Ma forse c’è ancora tempo, per una “filosofia della salvezza” che voglia invertire il corso delle cose. Forse è possibile che ripercorrendo tutta la nostra storia, sia possibile sconfiggere i virus che ci minano e recuperare i nostri valori. L’Europa che sembrava un sogno, si sta trasformando in modo concreto. E concrete sono tutte le sue proiezioni. Popoli che si ritenevano diversi, attraverso la lettura, la radio, la televisione, il turismo, si sono conosciuti e riconosciuti. Questi nuovi mezzi di comunicazione, hanno fatto riconoscere, quanto profonde siano state le seminazioni di quel “Urvolk indo-europeo”. È questo retaggio comune, cui dobbiamo far appello per tornare ad essere quello che siamo sempre stati nella nostra storia, un polo fondamentale di sviluppo del divenire umano. Senza rabbia e senza peccati di orgoglio, ma con una precisa conoscenza del nostro passato e delle nostre potenzialità. I no global, gli ambientalisti, la galassia eterogenea degli Lgbtq, sono i residui nostalgici della “Internazionale marxista” ed insieme del capitalismo liquido più abietto. Non sanno niente di storia, né dei suoi meccanismi. Sono dei puri “contemporanei”. Il loro avvento fu profetizzato oltre 150 anni fa da Fyodor Mikhailovich Dostoevsky (1821 - 81), che scrive proprio per loro come «l’amore per l’umanità si unisce all’odio o all’indifferenza per il vicino». Amano tutti per poter odiare meglio il nemico di turno. Fanno molto chiasso perché ciascuno di loro è polivalente e onnipresente. Possono essere in momenti diversi un politico, o una cantante, un sindacalista, o un “intellettuale”, cineasta, o impiegato di una ditta che produce gomme per auto. Ma sono sempre gli stessi, in abiti diversi, in continui e frenetici travestimenti e trasferimenti.
Ma Ronald non è solo un mecenate, ma soprattutto un fervente cattolico e pellegrino dei luoghi sacri: percorre a piedi interi Stati e nel suo vagabondare non poteva non conoscere alla perfezione tutti quei territori della sua amata e verde Austria. Da qui si può concepire il libro “Attraverso le lande asburgiche” nel quale oltre a luoghi tradizionalmente austriaci, l’autore ci fa comprendere come sia in Francia, che in Spagna le influenze austriache degli Asburgo siano presenti nell’arte, nell’architettura e nei dialetti parlati. L’autore indirettamente si sforza per farci comprendere come questa nostra identità europea, sebbene martoriata dalle attuali scelleratezze politiche, sia ancora viva e pronta per essere riafferrata in qualsiasi momento da un popolo che torni finalmente ad essere consapevole di sé, poiché quando si perde coscienza di se stessi, non si conosce più chi siamo e da dove veniamo, perdendo noi stessi. Perché, per buona pace dei buonisti e dei ben pensanti, un “Turco” ci sarà sempre, anche adesso che l’Impero non esiste più. L’ottomano è necessario, come un contrappeso che tiene botta agli eccessi, o come un argine che protegge la campana dal fiume impazzito. Il contrario, e non soltanto il diverso, costituisce una necessità storica, contingente, per rendere interessante l’esistenza di ogni persona. Il giorno e la notte, il caldo e il freddo, il lupo e l’agnello, l’aquila e il passero: ecco altrettanti contrari, a seconda dei punti di vista. Il resto è utopia, una bella utopia, non c’è dubbio. Dunque non siate pigri, poiché per tutto ciò che sarà menzionato in questo libro, qualcos’altro, non meno importante, sarà nascosto e potrà essere oggetto di un vostro nuovo viaggio, di una vostra personalissima cartografia del cuore. Se il viaggio è ritornare sui passi di altri in altri tempi e in altre vite, rievocare, veder riemergere fantasmi, allora mettetevi in cammino, non siate pigri, perché dalla vostra meraviglia deriva la vita autentica, quella composta da storia, arte e architettura, da antiche parlate e virtù paesane, poiché queste “lande” facevano parte di un impero assai grande che aveva una capitale bellissima e che ancora oggi non smette di meravigliarci con il suo fascino. Concludo con un messaggio di speranza, riprendendo le splendide parole tratte da “Il messaggio dell’Imperatore” di Franz Kafka: «eppure tu siedi alla finestra e ai tuoi sogni dai vita, sul far della sera».
[caption id="attachment_16409" align="aligncenter" width="1000"] Nell'immagine, il fronte-retro della copertina del saggio di Ronald Friedrich Schwarzer "Durch Habsburgs Lande", che presto vedrà l'uscita in Italia, tradotto dall'Architetto Giuseppe Baiocchi "Attraverso le lande asburgiche". Nella foto l'autore del saggio con lo scrivente.[/caption]
Per approfondimenti:
1 Di ciò approfittò la famiglia reale prussiana degli Hohenzollern, i nemici mortali dell’Austria e della sacra idea imperiale. Essa sferzò e stimolò energicamente i demoni del nazionalismo pangermanico. Dopo le vittorie sopra l’Austria e la Francia nell’anno 1870-71 riuscì a ridurre sotto il proprio dominio i piccoli Stati tedeschi, e in tal modo ad unificarli. Ed allora avvenne uno dei più brutti scherzi di parole della storia mondiale. La grande Prussia si chiamò “Impero Tedesco”, non è curioso? Quando nel migliore dei casi non era che uno Stato nazionale, ovvero il contrario di un regno unificatore di popoli nata da un’idea sopraordinata. Ma non fu tutto: i re prussiani si conferirono il titolo di Imperatori. Kaiser è la forma greca di Caesar. Ogni Kaiser è successore di Cesare, che fondò l’impero mondiale sopranazionale della civiltà occidentale. Il Cesarismo è l’opposto assoluto della regalità nazionale. Gli Hohenzollern furono fortunati re nazionali, che per odio contro i Cesari legittimi della Casa d’Asburgo usurparono un vuoto titolo imperiale.
2 Lernet Holenia A., Lo Stendardo - capitolo quinto, Adelphi, 2010.
3 Werfel F., Nel crepuscolo di un mondo, L’Impero Austriaco, prologo, p.13
4 Schwarzer F. R., Durch Habsburgs Lande, Karolinger, 2023.
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di Ronald Friedrich Schwarzer del 28/11/2024

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Il principe Metternich era preoccupato. Il principe Hardenberg era ubriaco. Almeno questo era quanto emergeva dal verbale della polizia segreta che si trovava sulla scrivania del Cancelliere di Stato. Quali nuovi disaccordi di carattere ebraico potevano accadere nel Palais Arnstein in Hoher Markt 541? Fu così che il 26 dicembre 1814 la baronessa Vogele von Arnstein nata Itzig, gran “salottiera” della Sprea, invitò tutti, secondo l’usanza berlinese, ad una festa particolare, al centro della quale si trovava un albero di Natale addobbato e illuminato da candele. La gente ballava intorno al nuovo oggetto vegetale, la signora von Münch-Bellinghausen cantava canzoni di Punch & Judy e si riunivano le grandi personalità del Congresso di Vienna. Erano presenti i consiglieri di Stato Jordan e Hoffmann, il principe Radziwill e tutti i parenti battezzati e circoncisi della famiglia Arnstein. Dopotutto il signor von Humboldt non c’era . Questa cerimonia natalizia dell’albero di Natale era completamente sconosciuta nella capitale imperiale e nella città residenziale; le innovazioni non facevano sospettare nulla di buono al cancelliere di stato von Metternich. Tuttavia a Vienna prevalse l’albero di Natale, che brillò per la prima volta il 26 dicembre 1814.

Come leggenda narra, solo due anni dopo furono accese le candele dell’albero di Natale nel Palazzo Erzherzog Carl in Annagasse. Enrichetta, la principessa di Nassau-Weilburg di origine elvetica, moglie del grande vincitore di Aspern, conobbe l’usanza dalla sua terra d’origine calvinista e la fece rivivere nel suo palazzo per far felice la figlia, nata nel luglio dello stesso anno. All’arciduca Giovanni la cosa non andava troppo a genio, era stanco degli alberi e dell’insensato spreco di denaro in scherzi così nuovi: forse proprio perché la cosa non piaceva a suo fratello, l’Imperatore Francesco ordinò che fosse allestito il primo albero di Natale nell’Hofburg. Oggi tutti noi non possiamo immaginare un Natale senza il nostro amato albero di Natale, il delizioso profumo del bosco che porta nelle nostre case e il tenue bagliore delle candele. Questa bellissima tradizione è diventata per noi più importante del presepe di Natale e della partecipazione alla messa di mezzanotte, e guardando le cartoline di Natale che arrivano nel mio ufficio anno dopo anno, qualcuno di cultura straniera penserebbe che qui ci fosse una religione che adorava un albero di luci alla fine dell’anno. È facile infatti comprendere che in questo periodo, in cui finalmente le giornate stanno tornando ad allungarsi e le nostre speranze e aspirazioni sono rivolte alla prossima primavera, le piante sempreverdi presenti nelle stanze ci danno da sempre speranza. I Romani decoravano le loro case con tralci di alloro sempreverdi al solstizio d’inverno, i popoli germanici lo facevano con rami di abete o abete rosso e i Celti utilizzavano nespole e agrifoglio. In epoca cristiana, queste settimane, in gran parte non lavorative in agricoltura, venivano utilizzate per spettacoli spirituali al fine di avvicinare il contenuto delle Sacre Scritture alle persone credenti e analfabete. Questi giochi duravano talvolta alcuni giorni e rappresentavano anche un albero del paradiso, prima decorato con mele e poi come il tronco della croce di Cristo. Inutile dire che alle nostre latitudini venivano utilizzate conifere sempreverdi. Si discute molto sull’origine del primo vero albero di Natale. Tallinn e soprattutto Riga la rivendicano come propria, ma si tratta di un malinteso. A Riga, sulla piazza davanti alla “Casa delle Teste Nere”, è esposto un monumento in metallo di quello che si dice sia il primo albero di Natale del 1510. In effetti, dal loro regolamento di carnevale del 1510 risulta chiaramente che si trattava di un’usanza carnevalesca: un albero di luci che veniva dato alle fiamme per il carnevale. È noto che gli abeti furono acquistati per la comunità di Strasburgo alla fine del XV secolo, ma non esistono prove dei gioielli associati. Si dice che nel 1419 i fornai di Friburgo in Brisgovia avessero appeso un albero con dolci, frutta e noci che i bambini potevano raccogliere a Capodanno. Infatti, fu l’apostata agostiniano Martin Lutero a rendere popolare l’albero di Natale.
[caption id="attachment_16387" align="aligncenter" width="1000"] San Nicola di Myra, Vescovo, nato intorno al 280/286 a Patrasso, Grecia e morto: 6 dicembre al 345/351 a Myra, ora Demre, Türkiye. Patrono della Russia; Lorena; i chierichetti; dei bambini; delle vergini; di pellegrini e viaggiatori; di avvocati, giudici, notai, commercianti, farmacisti, osti, commercianti di vino, produttori e commercianti di profumi, barcaioli, pescatori, marinai, zatterieri, mugnai, fornai, commercianti di cereali e sementi, macellai, birrai, distillatori di grappa, agricoltori, tessitori, Mercanti di merletti e stoffe, scalpellini, cavatori, bottai, bottonieri, fabbricanti di candele; i vigili del fuoco; dei prigionieri; per un matrimonio felice; contro gli ostacoli acquatici e l’emergenza in mare; recuperare oggetti rubati; contro i ladri. La sua grande carità e la sua grande filantropia gli hanno dato un grande nome e una profonda venerazione. Il santo ci predica l’amore vero, cristiano, che vuole donarsi volentieri e con gioia.[/caption]
Secondo la tradizione cattolica, i doni furono portati da San Nicola il 6 dicembre oppure dai Magi il 6 gennaio. Tuttavia, i cittadini di Wittenberg abbandonarono vigorosamente il culto dei Santi. Il Cristo bambino dovrebbe portare i regali e nessun altro! (È uno strano scherzo della storia che oggi i circoli cattolici tradizionali debbano difendere il Cristo Bambino dall’invadenza dell’uomo ubriaco, panciuto, con la barba bianca e una veste rossa sotto il nome di Babbo Natale; ma questa è un’altra storia). In ogni caso il protestantesimo propaganda l’albero di Natale con i suoi doni contro il presepe con le sue figure.
[caption id="attachment_16388" align="aligncenter" width="1000"] Stampa a colori della regina Vittoria e del principe Alberto mentre ammirano l’albero di Natale al Castello di Windsor con i loro figli, 1848.[/caption]

È documentato con certezza il primo albero di Natale pienamente valido nel 1539 nella cattedrale di Strasburgo. Dapprima fece la sua marcia trionfale nel nord della Germania, arrivò in Austria attraverso Vienna, nel 1825 per la prima volta a Graz al palazzo del conte Brandis e nel 1841 addirittura in Tirolo. Un professore universitario tedesco di Harvard importò l’usanza negli Stati Uniti e così fece anche il principe Alberto di Sassonia-Coburgo, in quanto marito della regina Vittoria, in Gran Bretagna. La Regina ne fu felicissima e gli regalo l’Impero! Il magnifico albero di Natale in Trafalgar Square è un regalo economico per Londra, dato che la città di Oslo lo dona agli inglesi dal 1945, come ringraziamento per il sostegno britannico nella Seconda Guerra Mondiale. Solo gli indomabili monaci cattolici dell’Oratorio di Brompton non lo vogliono. Per loro è decisamente troppo protestante, così come la Santa Messa nella lingua vernacola. Qui la tradizione non conosce compromessi.

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di Leo von Hohenberg del 16/11/2024

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Permettetemi subito un chiarimento: non sono uno storico, un politico o un filosofo. In effetti, non ho alcuna qualifica particolare per stare qui e parlarvi, se non per un caso di nascita. Sono, tuttavia, un padre, un marito, un ufficiale della riserva dell'esercito austriaco e un cattolico, e sento il dovere di cercare di fare tutto ciò che posso al servizio della pace. Proprio come tutti voi qui, voglio salvaguardare le nostre convinzioni, norme e libertà come base per una vita appagante e pacifica per le future generazioni. [caption id="attachment_16365" align="aligncenter" width="1000"] Sua Altezza Serenissima il Principe Leo Johannes von Hohenberg presso il piano nobile del castello di famiglia ad Artstetten.[/caption] Gli sconvolgimenti politico-sociali dell'ultimo decennio con l'immigrazione di massa, l'erosione totale dei valori tradizionali dell'Occidente e, più di recente, l'appoggio "morale" e "etico" verso delle guerre definite "giuste" mi hanno spinto a fare tale dichiarazione. L'assassinio del mio bisnonno S.A.I.R. Franz Ferdinand, ha annunciato la prima catastrofe del XX secolo, che è stata preceduta da un'ondata di confusione morale e, in ultima analisi, da un entusiasmo per la guerra, non dissimile dalla nostra situazione attuale. Prima di parlare di pace, vorrei fare un passo indietro e analizzare come siamo arrivati ​​alla situazione attuale: un mondo diviso che sta di nuovo pericolosamente avvicinandosi alla guerra mondiale e che sta attualmente vivendo una guerra di tipo diverso. Non è una guerra combattuta con le armi come in Ucraina o in Medio Oriente, ma una guerra molto più profonda, una guerra spirituale. È una guerra per la mente pubblica e politica, la quale viene combattuta con tutta la potenza e il potere finanziario delle grandi istituzioni internazionali. L'obiettivo è l'uniformità centralizzata a livello globale, e solo coloro che si conformano possono unirsi e attingere al denaro dei contribuenti. Alla maggior parte delle persone non importa o non vede la necessità di preoccuparsene, altri si inginocchiano e si adeguano perché sentono di doverlo fare, ma che lo vogliamo o no, che lo ignoriamo o no, siamo nel mezzo di questa guerra. [caption id="attachment_16376" align="aligncenter" width="1000"] L'organizzatore dell'evento: Ronald Friedrich Schwarzer, nato a Vienna nel 1965, ha studiato storia e storia dell'arte a Parigi ed è la quarta generazione nella gestione dell'attività di famiglia all'ingrosso di gioielli e diamanti. Cattolico, da un decennio e mezzo svolge anche l'attività di impresario e mecenate di concerti barocchi al Ferdinandihof di Vienna; è anche un collezionista d'arte e di tessuti di provenienza esotica. Fin dalla giovinezza ha viaggiato instancabilmente attraverso l'Asia, l'Africa, l'America e l'Europa e soprattutto attraverso le ex terre asburgiche, che Schwarzer attraversa costantemente, anche per motivi professionali. Inoltre, per devozione, è un instancabile pellegrino. Vivace nell'attività giornalistica, in particolare sui viaggi, ha pubblicato diversi saggi storici e di narrativa, ultimo: Durch Habsburgs Lande (Attraverso le terre degli Asburgo).[/caption] Dobbiamo essere consapevoli che questa guerra viene combattuta con mezzi molto sottili: non ci sono campi di battaglia, né un commando di esecuzione, né gulag nel senso tradizionale. Ridefinendo i concetti e selezionando le parole, cambiando le norme attraverso la ripetizione universale di mantra nei media, nei film e in televisione, cambiando i programmi scolastici, manipolando selettivamente i dati con l'aiuto dell'intelligenza artificiale e l'uso di altre tecnologie sottili, le opinioni vengono influenzate, le identità culturali vengono modificate, il nostro tessuto sociale viene distrutto, il nostro comportamento di voto viene modificato e siamo spaventati dalle ideologie del nuovo mondo in uno stato di sottomissione inconsapevole. [caption id="attachment_16369" align="aligncenter" width="1000"] Il nome Artstetten venne menzionato per la prima volta in un documento a metà del XIII secolo. La fortezza medievale fu presto trasformata in un castello, che ebbe diversi proprietari in rapida successione fino all'acquisizione da parte dell'imperatore Francesco I nel 1823. A partire dal 1861 l'arciduca Carlo Ludovico (fratello dell'imperatore Francesco Giuseppe) rinnovò generosamente la casa sia all'interno che all'esterno. Nel 1889 l'arciduca Carlo Ludovico cedette il castello di Artstetten al figlio maggiore, l'arciduca Francesco Ferdinando d'Austria-Este, che lo fece ricostruire secondo le sue idee. Dal 1913 il castello di Artstetten si presenta come lo conosciamo oggi: come un complesso architettonicamente attraente fiancheggiato da sette caratteristiche torri.[/caption] Chi non si adegua viene cancellato. L'accesso al loro denaro viene congelato, i permessi di lavoro e di viaggio vengono revocati e vengono quindi "messi da parte" con un semplice clic di un interruttore, come abbiamo già visto in alcuni paesi delle cosiddette "democrazie" occidentali. Come siamo potuti arrivare a questo? Inizia sempre con un appello alla tolleranza: prima ci viene chiesto di tollerare le anomalie, poi le promuoviamo in una dimostrazione di maturità civile e imparziale. In un successivo passaggio logico, le legalizziamo e persino le celebriamo, finché alla fine siamo perseguitati quando ancora le chiamiamo con il loro vero nome. Come disse giustamente Dostoevskij: «La tolleranza raggiungerà un livello tale che alle persone intelligenti sarà proibito di pensare per non offendere gli imbecilli». Se sei tollerante su tutto, di conseguenza non rappresenti nulla e quindi si può essere manipolati per operare qualsiasi cosa, ed è lì che la società odierna ci conduce. La guerra è pace e la pace è guerra. Sembra che il capolavoro letterario di Orwell "1984", e "La fattoria degli animali" non siano più opere di fantasia. La maggior parte dei cristiani fraintende completamente la tolleranza. Sai, Gesù non mangiava con i peccatori perché voleva apparire tollerante, inclusivo e accogliente. Mangiava con loro per chiamarli a cambiare per una vita fruttuosa con Lui. La sua chiamata è per la trasformazione della vita, non per l'affermazione di un'ideologia utopica. Riguarda la conversione a tutto ciò che è buono, veritiero e bello. Signore e signori, il nostro obbligo verso la prossima generazione è quello di salvaguardare la pace è di generare il coraggio per la responsabilità di salvare la normalità! Dobbiamo influenzare non solo il nostro ambiente circostante immediato, ma anche la nostra cultura, difendendo la normalità contro questi "normofobi" e la loro influenza distruttiva sulle nostre identità culturali e sulla famiglia. Di recente ho sentito l'espressione tedesca "Mut zur Verantwortung", che tradotto approssimativamente significa: "avere il coraggio di assumersi la responsabilità". Ciò ha toccato una corda profonda dentro di me e mi ha fatto riflettere. Considero un tradizionalista qualcuno che ha il massimo rispetto per Dio, l'umanità e i suoi antenati. Un tradizionalista non rimpiange il passato a scapito del presente o del futuro. Un tradizionalista non si crogiola nel passato e non sorvola sugli errori storici. Attraverso le lezioni apprese dal passato, accetta la sua responsabilità per il futuro! Un tradizionalista ha un tale rispetto per il costo delle lezioni apprese dai suoi antenati, che si protegge dall'amnesia con tutte le sue facoltà. Vorrei ripetere ancora una volta tale concetto: un tradizionalista ha un tale rispetto per il costo delle lezioni apprese dai suoi antenati, che si protegge dall'amnesia con tutte le sue facoltà! [caption id="attachment_16370" align="aligncenter" width="999"] L'arciduca Francesco Ferdinando non vuole separarsi dalla moglie, la duchessa Sofia di Hohenberg, nemmeno da morta, ma a causa del suo status ineguale le viene negata la sepoltura nella cripta dei Cappuccini. Il motivo diretto della costruzione della cripta fu la nascita morta del quarto figlio nell'autunno del 1908. La piccola bara fu temporaneamente collocata in un'anticamera della chiesa del castello. Nel 1909 l'arciduca Francesco Ferdinando fece costruire la cripta di famiglia sotto il cortile della chiesa del castello: davanti ad una piccola cappella fu allestita una semplice stanza e le bare dovevano essere semplicemente posizionate una accanto all'altra sul pavimento secondo i desideri dell'erede al trono. C'è spazio per dodici. Poco dopo la sepoltura di Francesco Ferdinando e Sofia, avvenuta il 4 luglio 1914, la cripta divenne luogo di pellegrinaggio. Il guardiano dei tre orfani decide di dare alla tomba un aspetto più dignitoso. Nel 1917 furono realizzati nuovi sarcofagi monumentali in marmo dell'Untersberg. La piccola bara del bambino morto, che finora si trovava tra quelle dei genitori, è conservata in una nicchia chiusa nel muro. Nel 1955/56 fu ampiamente ampliata la cripta sotto il campanile della chiesa e la terrazza sud del castello. Oggi riposano qui i figli dell'erede al trono e le loro mogli, nonché i suoi nipoti.[/caption] La lezione più ovvia ed essenziale è il costo della guerra: un modo innegabilmente inefficiente di gestire i conflitti a cui ricorriamo ancora e ancora, giurando che ogni volta sarà l'ultima. Una lezione simile è che tutti i tentativi di istituire forme coercitive di governo hanno sempre portato a miseria e annientamento. Non è né coraggioso né responsabile imporre un'ideologia mascherata da leadership. Prendiamo ad esempio l'attuale tendenza delle organizzazioni globali a chiamare il loro potere incontrollato "governance". Queste organizzazioni sono fortemente influenzate dai conglomerati globali e dai loro finanziatori, che impongono in modo non democratico i loro interessi e le loro utopie globaliste, istituendo leggi che non sono state votate dal loro sovrano, il popolo. Storicamente, la governance autoritaria sovranazionale ha fallito a causa della tendenza a trascurare le identità delle nazioni che cerca di governare. Se, come nazione, non sai cosa ti rende unico e cosa rappresenti, qualcun altro lo saprà. Il formato dello stato-nazione è la forma naturale dell'organizzazione umana, con non solo la cooperazione tra nazioni, ma anche la salvaguardia precisa della definizione e dell'identità di ogni singola nazione. Non confondiamo la centralizzazione del potere con la cooperazione internazionale. Pertanto, un governo sovranazionale veramente coraggioso ed efficace dovrebbe avere come unico obiettivo la salvaguardia della cultura, della storia e delle libertà economiche e politiche di ogni singolo stato membro. Un governo sovranazionale veramente coraggioso ed efficace si limiterebbe quindi esclusivamente alle questioni sovranazionali, assicurando il mandato del popolo sull'imposizione di programmi artificiali. In altre parole, dal basso verso l'alto, non dall'alto verso il basso. Una cooperazione veramente democratica tra stati dovrebbe rispettare il patrimonio e l'eredità di ogni singolo stato. Sfortunatamente, le istituzioni europee e globali rendono omaggio solo a parole ai principi sovranazionali. Attraverso il prisma miope dei periodi legislativi, l'azione legale e normativa diventa l'unico obiettivo. Le "leggi di emergenza" recentemente ratificate e votate dall'Organizzazione Mondiale della Sanità sono un esempio di questo tipo di legislazione dittatoriale. Il potere ha bisogno di controllo! Stiamo vivendo il crollo concertato dell'identità nazionale e delle libertà personali e attualmente siamo incoraggiati a respingere ogni credenza, usanza e norma e a sostituirli con una "nuova verità". [caption id="attachment_16371" align="aligncenter" width="1000"] Un frammento fotografico alla conclusione del convegno sulla pace.[/caption] Ovviamente non abbiamo imparato dalla storia. Mi vengono in mente alcune volte nella nostra storia recente in cui l'ostinata imposizione dell'ideologia contro ogni verità ha causato sofferenze indicibili e offese a Dio. Quindi, come può il rispetto dei nostri antenati aiutarci a proteggere la nostra civiltà dall'eccesso di organizzazioni utopiche e garantire un futuro luminoso e pacifico? Credo che la risposta sia nell'uomo allo specchio. Dio ci ha dato la capacità di trasformare i nostri pensieri in azioni. Dalle azioni nascono le abitudini, e le abitudini plasmano la nostra vita. Dove scegliamo di mettere insieme i nostri pensieri, è ciò che plasma la nostra società. Dio ha dato a ciascuno di noi la capacità e la libertà di pensare, di allenare la nostra mente a concentrarsi su tutto ciò che è giusto, vero e dato da Dio. Nessuno, che sia un credente o un ateo, può contestare la validità dei Dieci Comandamenti, o come si potrebbero chiamare i 10 consigli per la vita. La libertà divina di pensiero è progettata per proteggerci dall'imposizione tirannica delle ideologie. La nostra eredità cristiana è progettata per proteggerci dalla cattiva guida. Siamo divinamente programmati per sapere che ci sono verità assolute e che le "verità personali" sono opinioni, non fatti, e sono semplicemente una distorsione della verità. L'esempio più lampante della distorsione a cui siamo sottoposti è il linguaggio. Il linguaggio è lo strumento che non solo esprime i nostri pensieri, ma condiziona il modo in cui pensiamo e agiamo. Negli ultimi 15 anni abbiamo assistito a un rapido cambiamento nel modo in cui vengono chiamate le cose e il nuovo vocabolario usa eufemismi per distorcere la verità. Cosa suona meglio: "castrazione e mutilazione" o "assistenza sanitaria che afferma il genere?" "Infanticidio" o "assistenza sanitaria riproduttiva?" Censura o "tutela dalla disinformazione?" Una scelta diversa di parole cambierà la tua percezione di un concetto, cambierà i tuoi pensieri e le tue azioni. Dobbiamo combattere contro questi giochi mentali. Non sottovalutare il tuo senso divino per la Verità. Se qualcosa puzza di pesce, probabilmente è marcio! [caption id="attachment_16372" align="aligncenter" width="1000"] Il presidente dell'associazione Das Andere l'arch. Giuseppe Baiocchi, con il conte Albert Pethò, autore di diverse pubblicazioni anche in Italia.[/caption] Per essere un veicolo di cambiamento e pace, ci sono abitudini quotidiane che possiamo esercitare come cittadini: - Prestiamo attenzione alle parole, a ciò che scegliamo di ascoltare e a ciò che decidiamo di leggere. Dobbiamo sempre essere consapevoli di cosa vogliamo esprimere, prima di parlare, essere selettivi e coscienziosi del nostro vocabolario. - Una persona responsabile esercita un sano scetticismo verso tutte le forme di media e ha il coraggio di formare opinioni indipendenti sugli eventi attuali seguendo la bussola che Dio ci ha donato. - Mettiamo in discussione la tendenza. Non dobbiamo aver paura di essere la classica "pecora nera". Ricordiamoci che se seguiamo il gregge, finiremo per calpestare ciò che abbiamo lasciato alle spalle! - Limitiamo il nostro tempo davanti allo schermo della televisione e all'audio delle radio, riscopriamo i classici, gli antichi filosofi, cerchiamo quanto possibile di attivare la conoscenza dei nostri antenati, parliamo con gli anziani, insegniamo ai nostri figli! - Anche i più timidi tra noi dovrebbero cercare attivamente opportunità per parlare con gli altri di ogni cosa e usare il nostro senso di ciò che è giusto come guida. Sia in un ambiente empatico, come quello di oggi, sia in uno più anticonformista, la nostra credibilità e integrità, la nostra forza morale interiore, ci forniranno gli argomenti più sinceri ed efficaci. "Questo non mi sembra giusto" o "puoi spiegarmelo?" sono argomenti di discussione che tutti possono rispettare. Non aver paura di dire il proprio pensiero, anche se potrai trovarti in ambienti molto vicini alla tua persona: sarai sorpreso di quante persone saranno d'accordo con te. - Evitiamo di sentirci isolati e impotenti, cerchiamo attivamente conversazioni con persone che la pensano come noi, per rafforzare la nostra determinazione e il nostro benessere spirituale. - Quando siamo in mezzo a degli sconosciuti, distogliamo lo sguardo dal telefonino e proviamo ad avviare delle conversazioni informali, con il cassiere, il tassista, il passeggero di un treno o di un aereo, ad esempio! Ogni incontro, non importa quanto banale, è un'opportunità divina: non possiamo mai sapere che effetto possono avere le nostre parole su un'altra persona. - Preghiamo affinché, nel nostro essere piccoli di fronte al creato, lo Spirito Santo possa operare attraverso di noi. Rimaniamo sinceri di spirito e nella fiducia verso il prossimo, Dio farà il resto. - Cerchiamo la saggezza e la guida di Dio in qualsiasi modo e cerchiamo sempre di avere coraggio di alzarci in piedi e parlare con educazione e moderazione, ma proferendo la Verità! Infine, non permettiamo che questi tempi difficili ci faccino sentire una vittima impotente. Non cediamo a sentimenti di insicurezza o di vera e propria paura. Combattiamo attivamente la tentazione di rinchiuderci in una confortevole passività e sottomissione contro il nostro miglior giudizio. Lasciamo che la nostra mente pensi al di fuori della narrazione dominante. Disciplinati per mettere in discussione rispettosamente l'autorità e le opinioni dei cosiddetti esperti.
Può sembrarci impossibile come individui possiamo combattere contro la corruzione della mente collettiva. Tuttavia, possiamo riprendere il potere dalle istituzioni anonime. Il cambiamento avviene quando rifiuteremo di essere condizionati dallo status quo. Il cambiamento avviene quando rifiuteremo di accettare silenziosamente la narrazione onnipresente. Come ci ha insegnato Santa Teresa d'Avila: Cristo non ha altro corpo ora se non il tuo./Nessuna mano, nessun piede sulla terra se non i tuoi./I tuoi sono gli occhi attraverso i quali guarda con compassione questo mondo./I tuoi sono i piedi con cui cammina per fare del bene./Le tue sono le mani attraverso le quali benedice tutto il mondo./Le tue sono le mani,/I tuoi sono i piedi,/I tuoi sono gli occhi,/Tu sei il suo corpo./Cristo non ha altro corpo ora sulla terra se non il tuo. Per approfondimenti: _Fürst Leo von Hohenberg: „Wir befinden uns in einem spirituellen Krieg“
_Fürst Leo von Hohenberg: "Wir werden global-zentralistisch gesteuert"
 
 
 
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di Giuseppe Baiocchi del 29/07/2024

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La Rivoluzione francese è un evento determinante per la nostra epoca, poiché segna il passaggio tra l’epoca dell’Antico Regime e l’epoca definita “moderna”. Dopo il crollo della Monarchia Costituzionale (1791-92), viene fondata in Francia la Prima Repubblica e sarà proprio durante la Convenzione Montagnarda che esploderà la prima e più importante guerra di Vandea. La Convenzione ha tre fasi: la prima è quella dominata dai Girondini, la seconda dai Montagnardi (Terrore giacobino) e la terza si definisce termidoriana.

[caption id="attachment_16343" align="aligncenter" width="1000"] Ufficiale vandeano - litografia a colori dei primi dell'Ottocento.[/caption]

La storiografia ufficiale conta circa 5 Guerre di Vandea, le quali estendono il loro solco storico su di un arco temporale molto lungo, poiché spaziano dal 1793-94; 1795-96; 1799-1800; 1815 ed infine 1832. Anche se i confini tra una guerra e l’altra sono abbastanza labili, la prima certamente è la più grande guerra di Vandea, di stampo militare e non organizzata, come le successive, nella forma della guerriglia. Quello che poi sarà nominato Esercito Cattolico e reale ha avuto dei leader, degli obiettivi militari, un esercito con i gradi e stendardi per i reggimenti, ed infine un equipaggiamento quasi regolare. La seconda guerra di Vandea (1795-96) è sicuramente uno strascico della prima, che trae le sue origini dalla caduta del terrore e dall’installazione del governo della Convenzione termidoriana, certamente meno autoritario del precedente. La terza guerra di Vandea, (1799-1800) è una piccola insurrezione che approfitta della debolezza del Direttorio, il quale stava per trasformarsi nel consolato napoleonico. La quarta insurrezione vandeana (1815) si sviluppa durante l’epopea napoleonica, in particolar modo durante i 100 giorni nei quali Napoleone si riapproprio del potere. Infine l’ultimo strascico delle guerre di Vandea, risale al 1832, durante la monarchia costituzionale di Luglio di Luigi Filippo, due anni dopo l’abdicazione del Re legittimo Carlo X. La nipote di Carlo X, la duchessa di Berry cercò di risollevare una insurrezione in Vandea con scarsissimi risultati.

Innanzi tutto vorrei analizzare il territorio, che gli storici francesi definiscono come “Vandea militare”. Oggi la Vandea è un dipartimento francese, che non corrisponde del tutto con l’area in cui ci fu la sollevazione contadina. Difatti un Dipartimento francese è un’entità amministrativa creata dalla stessa Convenzione per creare un distacco culturale con tutte le provincie di Antico Regime, dividendo la Francia in un centinaio di zone dalla forma più regolare, applicando un nome sempre riferito ad un elemento naturale al suo interno. La Vandea prende il nome da un piccolo fiume, abbastanza insignificante, che scorre all’interno del nuovo dipartimento creato. Parlando della “Vandea Militare” insorta, oggi possiamo unire diversi dipartimenti: quello della Vandea attuale, a tutto il Nord del Deux-Sevres, a tutto il sud-ovest del dipartimento del Maine-et-Loire e tutto il Sud della Loire-Atlantique. Contrariamente, invece, se inquadriamo la “Vandea militare” con le provincie di Antico Regime, possiamo definire il territorio degli scontri uniformato su tre Provincie: il basso Poitou, il basso Anjou, e la parte bassa della Bretagna, che non parlava bretone. Come la geografia era variegata, anche gli insorti lo furono. Bisogna distinguere, durante le guerre di Vandea, quello che furono i vandeani, dagli Chouan bretoni: i primi erano a Sud del fiume Loira – elemento naturale che divide la Bretagna dalla Vandea -, mentre i secondi a Nord. La distinzione non è solamente geografica, ma è anche culturale, linguistica e militare. Difatti militarmente i vandeani erano organizzati in una armata regolare, mentre gli Chouan erano organizzati per effettuare unicamente imboscate , attuando la guerriglia. Le Chouannerie, termine con il quale la storiografica ha cercato di determinare queste tipologie di guerriglie, dureranno più a lungo delle insurrezioni vandeane: dal 1794 al 1800, senza grandi discontinuità. Difatti uno dei Capi bretoni Georges Cadoudal (Kerléano-en-Brech, 1º gennaio 1771 – Parigi, 25 giugno 1804) sarà ucciso dagli agenti napoleonici nel 1804. Tra le cause del sollevamento della Vandea vi sono diversi correnti tra gli storici francesi: una prima versione filo-repubblicana asseriva che tale rivolta fosse sobillata dai nobili e dai preti insistendo sulla superstizione religiosa dei contadini, per effettuare un colpo di Stato. Certamente il cristianesimo ha giocato un ruolo fondamentale, per via della grande religiosità delle campagne francesi, poiché plasmava non solo l’aspetto religioso, ma anche educativo e sociale: non a caso la vita sociale dei villaggi girava intorno alla parrocchia. Proprio partendo da tale consapevolezza, negli ultimi cinquant’anni di studio, gli storici d’oltralpe sono giunti ad una nuova versione delle cause principali dello scoppio della prima guerra di Vandea: la coscrizione obbligatoria di 300.000 uomini per le guerre che la Convenzione aveva dichiarato agli Stati Trono e Altare e la Costituzione civile del clero del 12 luglio 1790 attraverso la quale si modificarono i rapporti tra Stato e Chiesa: i preti, vescovi e cardinali dovevano rispettare i dogmi della rivoluzione francese, senza prendere più ordini da Roma (anche le ordinazioni dovevano essere approvate dalla convenzione).Appare lampante e cristallino che ad un contadino analfabeta della Francia feudale del Settecento, lo stravolgimento dell’orario con l’introduzione del nuovo calendario, della geografia, della Santa Messa e la coscrizione obbligatoria venivano viste come un procedimento di aggressione. Inoltre la vendita diretta dei beni ecclesiali non confluisce ai contadini, ma a ricchi borghesi provenienti spesso addirittura da altri territori. Non dobbiamo osservare l’insurrezione delle guerre di Vandea come qualcosa di isolato a quattro provincie francesi, ma tra il 1793 e il 1794 avvenne in tutta la Francia un sollevamento generale di moltissime provincie francesi. Tale opposizione era molto variegata e spesso anche di carattere conservator-liberale. Una di queste forze erano ad esempio i Federalisti, chiamati anche “Girondini” (1791-93) guidati da Jacques Pierre Brissot de Warville (1754-93) che dominano la convenzione nazionale tra il 1792 e l’inizio del 1793. Essi sono politicamente all’opposto dei Montagnardi (sfera radicale di sinistra, la quale si suddivideva nei club dei giacobini e dei cordiglieri, periodo 1792-99), poiché ambiscono ad una distribuzione del potere di tipo federale e sono molto potenti nelle grandi città di provincia della Francia. Quando i montagnardi, con i loro decreti, espellono i girondini dalla Convenzione nazionale, molte città sotto l’influenza girondina si sollevarono contro il governo centrale. [caption id="attachment_16345" align="aligncenter" width="1000"] Jacques Pierre Brissot de Warville (1754-93) leader dei “Girondini” (1791-93).[/caption] Tra le principali città in rivolta, troviamo Marsiglia, Lione, Bordeaux e Rouen in Normandia e proprio in questo caos – da guerra civile – molti movimenti monarchici si inseriscono all’interno delle compagini girondine. Ovviamente non si può parlare di controrivoluzione in questi casi, ma unicamente di opposizione al regime centrale montagnardo, poiché nessun girondino (anche se appoggiato da correnti monarchiche) voleva inserire nuovamente la monarchia costituzionale. I due episodi più marcanti di queste rivolte sono l’assedio di Lione (1793) durato diversi mesi tra l’estate e la fine dell’anno, finito con la quasi completa distruzione, da parte dei giacobini, della città definita “città senza nome”, quasi a monito per altre eventuali proteste; e la città di Marsiglia che subisce più o meno la stessa sorte. Il sollevamento contadino, dunque, si presenta inizialmente come una “jacquerie” contadina, poiché l’aspetto “monarchico” è arrivato dopo l’aspetto “cattolico”. Difatti inizialmente la nobiltà locale, a carattere feudale, non ha avuto nessun tipo di reazione ai moti rivoluzionari di Parigi (per parte monarchica, ci fu solo la reazione del barone di Sainte-Croix Jean Pierre de Batz, si salvare Luigi XVI dal patibolo). Così rispetto ad un regime lontano, confiscatorio, oppressivo, esterno all’organicità del sistema feudale, portano i primi moti della Vandea a poter essere qualificati come una iniziale rivolta contadina disordinata, senza alcun tipo di obiettivo: con la sola intenzione di colpire i reclutatori repubblicani e i persecutori della fede cattolica. I primi episodi della prima guerra di Vandea iniziano a metà marzo del 1793 con iniziali sporadici episodi di ribellione di braccianti, mezzadri e alcuni artigiani, soprattutto tessitori per via della città di Cholet, famosa per i suoi atelier di filatura e tessitura. Questi attacchi alle sedi locali della milizia della Guardia Nazionale hanno fin dalla prima ora successo, anche per via della scarsa opposizione degli stessi gendarmi che – anch’essi di umile estrazione -, abbandonavano spesso il posto di guardia per sottrarsi al conflitto. Fu così che con queste vittorie, i gruppi di insorti iniziarono a riunirsi e presto dovettero trovare dei leader che li guidassero e che iniziassero a pianificare l’evolversi della rivolta che stata per trasformarsi in una guerra civile. Da notare inoltre che fino a quel momento la Vandea non era una terra militarizzata, per cui non vi era motivo di inserire grandi cantonamenti militari. Caso unico di tutte le ribellioni controrivoluzionarie di quella Francia settecentesca, i vandeani iniziano ad assumere una struttura militare organizzata: nasce l’Armée Catholique Royale (l’Armata Cattolica e Reale), la quale si divise inizialmente in tre grandi armate, secondo la geografia del territorio; nascono così l’Armata del Basso Poitou, l’Armata del Centro (insorti intorno a Cholet) e l’Armata dell’Alto Poitou ed Anjou. Tale struttura militare non aveva conoscenza dell’arte militare, per via dell’estrazione sociale dei propri componenti: i contadini conoscevano il territorio, ma non sapevano delineare una strategia militare; così entrò in gioco quella nobiltà locale composta da tutti ex militari in congedo forzato per il Re di Francia. Il ricorso ai nobili fu coatto, poiché l’aristocrazia locale aveva percezione che tale esercito non poteva tenere testa a quello regolare, ed inoltre era consapevole che i loro possedimenti sarebbero stati – nel corso della guerra – bruciati o confiscati. Perdita di patrimonio e consapevolezza pragmatica delle forze in campo avevano spinto la nobiltà a non intervenire a favore della causa, ma dopo le insistenze – che spesso hanno sfiorato la violenza – diversi aristocratici, si arruolano e saranno poi quei leader che ancora oggi la storia pone a memoria. Così la controrivoluzione vandeana cambia volto: gli obiettivi militari si delineano, insieme a quelli politici: il ripristino della monarchia e della Chiesa di Roma. Un patto tra contadini e nobili viene siglato: “guidateci in battaglia per salvare le nostre terre e noi accetteremo di buon grado il ritorno del Re”. La disorganizzazione della Convenzione di Parigi che non aveva inviato truppe sufficienti per arrestare la rivolta, unita anche allo scarso addestramento della Guardia Nazionale, consegnarono, in breve, nella prima fase della guerra – da ottobre a maggio – , quasi l’intero territorio della “Vandea Militare” in mano agli insorti; addirittura in certe porzioni della Loira, le truppe repubblicane non attraversarono mai il fiume per almeno tre mesi. Le vittorie decisive iniziano con la presa di Cholet, città centrale della Vandea, il 14 marzo del 1793. I successi continuano con presa della grande roccaforte repubblicana di Thouars, avvenuta il 5 maggio del 1793, ma l’apogeo della controrivoluzione avviene con la presa della città si Saumur il 09 giugno dello stesso anno. Dopo altre piccole vittorie, lo sguardo volge alla città di Nantes, il vero caposaldo Repubblicano in tutto il territorio: la sua presa avrebbe significato non solo il controllo di tutta la Vandea, ma anche quel ricongiungimento con le truppe bretoni degli Sciuani che combattevano al di là della Loira, senza dimenticare l’anticipato sbarco dell’Armata di Condè sulle coste bretoni, con parte dell’armata britannica. L’intero Nord-Ovest francese si sarebbe reso indipendente. Dopo un assedio furente, il combattimento campale finisce con un pareggio, che però confluisce a favore dei Repubblicani, per diverse cause tra cui diversi errori tattici tra i Generali vandeani, in primis di comunicazione, e successivamente il ferimento (che poi lo portò alla morte) del Generalissimo Cathelineau. Dopo un’intelligente vittoria di Charette, presso La Noirmoutier il 12 ottobre 1793, che aveva assicurato un importante sbocco sul mare. Successivamente nella Battaglia di La Tremblaye il 15 ottobre verrà ferito a morte anche il Generale Lescure e successivamente con la sconfitta di Cholet del 17 ottobre, arriverà anche il ferimento a morte di Bonchamps, che prima di spirare, il giorno dopo, ebbe il tempo di graziare i 1.500 prigionieri in mano ai monarchici. L’esercito Cattolico e Reale, privato dei leader più carismatici e tatticamente più preparati, si ritrovò ben presto in balia degli eventi e dopo una riunione tra i Capi militari rimasti, ad eccezione di Charette, La Rochejaquelein avrebbe tentato quella che sarà chiamata la Virée de Galerne, ovvero una spedizione in terra di Normandia che aveva lo scopo di conquistare una testa di ponte sulla spiaggia per far sbarcare l’esercito di Condé, ma i vandeani, decimati, con il morale basso e soprattutto per via delle numerose malattie a cui già erano afflitti per il conflitto prolungato non arrivarono mai al loro obiettivo e superata la Loira, le diserzioni furono massicce. I contadini, lasciato il loro focolare, lasciata la loro terra per la quale si erano battuti, non avevano una disciplina militare propria di un esercito e non aveva l’interesse per una guerra alla Convenzione di dimensioni nazionali. Nonostante alcune vittorie in terra bretone e normanna, l’esercito perse l’iniziativa e annientando se stesso iniziò la ritirata. Successivamente la repubblica iniziò a pianificare lo sterminio di massa dei civili a partire dal 1794-95. Altri eroi sarebbero morti, i villaggi così come i boschi sarebbero stati dati alle fiamme: iniziavano le Colonne Infernali e il genocidio della Vandea Militare.   Per approfondimenti: Baiocchi G., Storia delle Guerre di Vandea 1793 - 1795 - 1799, 1815 - La reazione di penna e spada alla rivoluzione Vol.1, Il Cerchio Srl, Rimini, 2023.
 
 
 
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di Giuseppe Baiocchi del 13/06/2024

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Dall’Aquila Imperiale alla bandiera rossa può essere paragonato, a buon onore, come il “Guerra e Pace” della Rivoluzione e della Guerra Civile russa che intercorse un periodo storico molto lungo e travagliato (1894-1921). A scriverla è un personaggio controverso, l’Atamano (Capo camerata dei Cosacchi) Krasnov Petr Nikolaevich (1869 - 1947): eroe della prima guerra mondiale, premiato sia con la croce di San Giorgio che con l’arma d’oro, Maggiore Generale dell’esercito imperiale russo, leader della breve e combattiva Repubblica del Don (Grande armata del Don 1918-20), pubblicista per gli esiliati bianchi a Parigi e scrittore; nel 1926, il famoso filologo e slavo Vladimir Andreevich Frantsev (1867 - 1942) lo nominò addirittura per il Premio Nobel.

[caption id="attachment_16298" align="aligncenter" width="1000"] Pyotr Nikolaevich Krasnov ( 10 settembre 1869 , San Pietroburgo - 16 gennaio 1947 , prigione di Lefortovo , Mosca ) - Generale di cavalleria russo, nobile Atamano del Grande Esercito del Don, figura militare e politica, scrittore e pubblicista. Fu candidato al Premio Nobel per la letteratura (1926). Uno dei leader del movimento bianco nel Sud della Russia. Durante la seconda guerra mondiale prestò servizio come capo della direzione principale delle truppe cosacche del ministero imperiale per i territori orientali occupati della Germania.[/caption]

Perché allora tale particolare personaggio vive nell’oblio? A spiegarcelo in soldoni è un altro scrittore russo, naturalizzato francese, figlio di emigrati russi Vladimir Volkoff (1932 - 2005) che in un’altra perla letteraria “Il Montaggio” ci regala questa descrizione: «Gli emigrati russi detti “bianchi”, di cui gli uni avevano scelto di battersi per la Germania perché il diavolo era migliore dei comunisti, gli altri di servire l'Unione Sovietica, perché il diavolo era migliore del tedesco. [...] Innanzi tutto, la vittoria della Russia eterna sulla Germania appariva agli emigrati come una vittoria della Santa Russia sull'usurpazione bolscevica. Sì la bandiera che sventolava sul Reichstag era soltanto rossa e non bianco-azzurro-rossa, ma i soldati sovietici che incontravamo parlavano della Russia più che “dell'Unione” [...] in poche parole sembrava che il corpo della patria avesse spontaneamente eliminato gli antigeni che vi erano stati introdotti. [...] Infine, c'era un segno, visibile e tangibile, della rinascita della nostra Russia, della sua restaurazione interiore. [...] quel rettangolo di cartone rivestito di stoffa e fissato sulla spalla con un bottone di rame aveva acquistato tanto significato quanto avevano potuto averne, in altre epoche, le croci di questa o quella forma. [...] L'incubo, vagheggiavano, era finito». Difatti la vita dello scrittore, che aveva abbracciato – in piena coerenza con le sue idee monarchiche anti-sovietiche – a piene mani l’Operazione Barbarossa di Adolf Hitler per l’invasione dell’Unione Sovietica (diresse da dietro le linee per la sua età avanti nel tempo il XV SS-Kosaken Kavallerie Korps), mori di morte violenta: finì il 16 gennaio 1947 alle 20:45, quando fu impiccato nel cortile della prigione di Lefortovo1. Famosa rimase la sua frase: «Contro i bolscevichi, anche con il diavolo». Krasnov apparteneva ad una famosa famiglia cosacca del Don che aveva da sempre sfornato agli Zar, nelle epoche antecedenti, i migliori ufficiali di cavalleria2. Prima dell’incredibile carriera militare che lo attendeva, iniziò la sua seconda passione: quella di scrittore. Le sue attività sorgono già all’età di 12 anni nel 1891, per poi avviarsi verso una letteratura che glorificava l’esercito dove l’abile penna descrisse la vita di cadetti e alfieri (molte opere contenevano una storia d’amore), per sviluppare l’idea degli ufficiali come una speciale casta nobile e nella difesa dei privilegi delle guardie. Tuttavia, il tema determinante dei primi lavori dell’Atamano fu quello dell’eroismo. La stessa tematica infatti fu ripresa nel suo esilio in terra tedesca nel 19203. Un posto importante nel vasto processo creativo è l’eredità di un ciclo di romanzi dedicati alla “Grande tragedia russa” (rivoluzione del 1917): “Uno indivisibile” (1925), “Capire – perdonare” (1928), “Rotolo bianco” (1928). Questo ciclo preparato per 27 anni lo porta alla stesura del suo romanzo più celebre “Dall'aquila Imperiale alla bandiera rossa” (pubblicazione in quattro volumi 1921-224). Riflettendo gli eventi chiave del regno dell’imperatore Nicola II, il protagonista della tragica storia è l’ufficiale delle Guardie dello Zar, Alessandro Nicolaievitch Sablin chiamato affettuosamente dagli amici “Sasha”, che durante la Grande Guerra sarà infine nominato Generale. Il romanzo straordinario di carattere letterario realista è basato su eventi reali, su circostanze e fatti che non solo hanno fatto parte della vita dell’autore, ma che inevitabilmente ne hanno plasmato il destino.

Tutto inizia quando la Rivoluzione russa è nella sua fase finale: i Soviet sono già al potere e il regime di Aleksandr Fëdorovič Kerenskij (1881 - 1970) è caduto con il Governo provvisorio russo (1917) sfaldatosi in appena un anno di Governo, dopo l’ultima offensiva al fronte fallita, con i Soviet che contrariamente alle elezioni politiche perse, effettuano il colpo di Stato con Lenin leader. Nel Paese vige l’anarchia e l’assassinio anche solo per poco denaro, cibo o vestiario. Siamo in un vagone merci nella cittadina di Voronezh diretto a Rostoff nel Sud della Russia, ed è qui che avviene la prima descrizione di un bolscevico da parte di una giovane ragazza: «Ella esaminava ora i lineamenti del soldato dallo sguardo duro e del robusto giovanotto che si vantava di avere ucciso un agente di polizia. I loro visi erano belli, ma volgari e grossolani. Erano adatti ai ruvidi cappotti che portavano; cercò di figurarseli in un salotto, vestiti da ufficiali o in eleganti abiti borghesi, e sentì subito che sarebbe stata una cosa impossibile. Vi era come un richiamo all’età della pietra e di un umanità primitiva in quella potente muscolatura, in quelle mascelle formidabili, che testimoniavano una salute animale, in quei crani massicci, dalle folte arcate sopracciliari, ricadenti come una visiera, in quei capelli a spazzola, duri come crini» e subitanea un’altra riflessione della giovane ragazza, che rispecchiava invece “il mondo di ieri”, ovvero quello aristocratico: «E lei, Olia, saprebbe cavarsi d’impaccio, se si trovasse priva di qualunque aiuto? Certo, ella non ne sarebbe capace […] con quelle mani delicate che tradiscono la sua origine aristocratica. Olia si ricordò che Nika aveva un giorno ucciso una lepre a caccia e l’aveva consegnata alla cuoca, non sapendo né spellarla né vuotarla […] ella rise fra sé al pensiero che egli potesse fare una di queste cose. […] Erano dei parassiti in questo mondo. Erano dei burjuyes. […] degli sfruttatori e delle sanguisughe. Ella dovrebbe fare da se stessa il letto, lavare la biancheria, tenere in ordine il cortile, l’orto, il bestiame, preparare il desinare, cucire i vestiti per sé e per quelli che lavorano nei campi, faticare tutta la giornata senza riposo, come fanno le contadine. Mio Dio! Ma la giornata non basterebbe per tanto lavoro. Quando avrebbe il tempo di leggere, di studiare le lingue, di riflettere, di passeggiare, di ammirare le bellezze della Creazione? […] il mondo intero sarebbe dunque obbligato di abbassarsi al livello di quegli uomini e di dedicarsi esclusivamente ad un lavoro che abbruttisce per arrivare semplicemente a procurarsi il sostentamento: non vi sarebbe più né poesia, né religione, né bellezza sulla terra»5.

[caption id="attachment_16299" align="aligncenter" width="1000"] Nella foto di destra un giovane cadetto dell'aristocrazia di campagna russa. Nella foto di destra 2° laurea accelerata presso l'Università di Tashkent del 1 maggio 1915. Le scuole per sottufficiali (circa 60) furono create nell'Impero russo con l'inizio della Prima Guerra Mondiale, a causa della carenza di sottoufficiali e ufficiali morti prematuramente durante l'inizio del conflitto: la Russia perdeva gli uomini più fedeli dell'Impero. La durata della formazione durava 3 mesi. Le scuole furono aperte sulla base delle scuole militari esistenti, e concluso il periodo, il corpo dei cadetti veniva indirizzato direttamente al fronte.[/caption]
Qui avviene, immediata e prima ancora della presentazione del nostro protagonista – la prima perla del romanzo: due mondi opposti e inavvicinabili, due classi sociali non dialoganti e lontani, i primi ignoranti, numerosi, opportunisti e forti, senza storia e con futuro incerto; i secondi colti, fragili, educati, chiusi nella loro società inaccessibile, deboli e con il futuro segnato da povertà o morte. Ora il momento storico è a favore dei primi, che scovano e uccidono i secondi, che per secoli hanno dominato la scena politica russa. Nello scompartimento ferroviario vi è anche il Generale Sablin che scoperto da una guardia rossa fugge dal treno: qui si interrompe il prologo e inizia il vero romanzo. Il salto temporale è al 1894 e subito si denota il cambiamento sociale con la sua gerarchia di classe: i dialoghi tra gli svariati personaggi mostrano subito al lettore le differenze tra il prologo “rivoluzionario” e il primo capitolo “zarista”: si avverte che si è in un’altra epoca, ma siamo solo 23 anni prima. La vita del nostro protagonista è colma di serenità e piena di quei valori ideologici dove il Dio, la Patria e la famiglia sono propriamente i cardini di un’esistenza sana e retta. In primis il Dio cristiano che si incarna nello Zar. Proprio sull’Imperatore russo vi è una delle più brillanti descrizioni dell’intero libro, che ci trasmettere il senso del Sacro, ovvero l’autore ci inoltra indirettamente un concetto che oggi più che mai si è perso: la fede, il credere in un principio di vita: «La Bruna non soltanto aveva invaso le colline, ma anche i piedi del monte […]. Nulla faceva prevedere il sole, che pure doveva brillare quando sarebbe apparso lo Zar, “l’Unto del Signore”. Questa convinzione era condivisa da tutti, dal Generale coi capelli bianchi fino alla più giovane delle reclute. In uno splendore da sogno lo Zar doveva apparire in faccia al suo esercito in una aureola di raggi solari, magnifico eppur lontano. Era sempre stato così, dicevano i vecchi: il sole accompagnava sempre l’Imperatore, ed in ciò si vedeva la grazia divina, un miracolo che provava che lo Zar non era stato posto là dagli uomini, ma da Dio. […] Sablin era profondamente persuaso che il sole sarebbe venuto, ma talvolta, alla vista di quel cielo grigio che provava da un momento all’altro un acquazzone, sentiva il dubbio penetrargli nell’anima. […] Il sole verrà […] perché ci sarà l’Imperatore, e perché è sempre stato così in tutti i tempi! […] Le trombe della scorta di Sua Maestà squillarono. In testa, su un piccolo cavallo grigio di razza araba, dalle froge nere e ricoperto di una gualdrappa azzurra ricamata d’oro, l’Imperatore si teneva graziosamente e leggermente in sella. Il suo berretto rosso da Ussaro era piegato un poco da un lato, e al disotto della visiera nera, i suoi occhi grigi guardavano con bontà. Il suo dolmann rosso era coperto di alamari d’oro. […] Nello stesso istante, un raggio luminoso di sole brillò sul berretto di porpora e avvolse il cavaliere imperiale. Si sarebbe detto che la natura avesse atteso lo slancio potente di quegli urrà e quell’inno che risonava come una preghiera di fede incrollabile. Il miracolo era avvenuto. Il semidio appariva al popolo e i pensieri terrestri se ne volavano ben lontani dagli uomini. I cuori entusiasmati si sentivano più vicini al cielo. […] Si sentiva la voce carezzevole dell’Imperatore che diceva: - grazie, miei prodi.. - e già non si vedeva più. Davanti a loro si stendeva la pianura vuota; le note della musica, rimasta indietro, non arrivavano più che per ondate, simili a lontani ricordi di una gioia passata»6.
Inizialmente l’aristocratico Sablin è un Alfiere di Pietroburgo che trascorre la sua giovinezza tra riviste militari e feste mondane nei palazzi dell’aristocrazia russa. Sarà proprio in una di queste feste che conoscerà la ballerina Caterina Philipovna che in breve tempo lo svezzerà sotto il profilo amoroso e indirettamente – ma solo momentaneamente – ne ammorbidisce il suo profilo militare, difatti proseguendo la lettura “Sasha” inizierà ad avere dubbi sull’esistenza di Dio e sull’importanza dello Zar: semplici domande introspettive, umane, che qualsiasi persona nella vita si pone di fronte un comportamento poco corretto che esegue: un lavaggio di coscienza insomma. In tale ambito avviene un aspetto molto interessante del romanzo, inerente l’esercito poiché Krasnov inizierà ad introdurre personaggi sinistri che saranno coloro che nel tempo logoreranno l’esercito russo, fino a portarlo alla dissoluzione e all’anarchia, con il conseguente sbandamento delle truppe dovuto anche ai comportamenti inaccettabili del Governo Provvisorio già menzionato. Tengo a riportare ancora un piccolo passo nel quale si capisce lo scontro sia generazionale tra i “padri e i figli” all’interno del complesso militare: «Se tu tenti di predicare la rivolta fra i miei uomini, o di fare una propaganda qualunque, ti farò ammazzare, non mi scapperai. So che sei protetto. Il generale Martoff ha interceduto per te. Non me ne importa. Io non ho che un’idea in testa: il dovere, il servizio e l’osservanza del giuramento. Se ne son viste di tutti i colori qui. Abbiamo avuto ladri, degli ubriaconi […] All’occasione io posso perdonar tutto e anche nasconder tutto; ma mai, m’intendi, Liubovin, mai il socialismo è entrato in queste mura. Di modo che, comprendimi bene, se una follia di questo genere germinasse in una testa qualunque, sei tu che me ne renderai ragione. Tu la pagherai con la tua testa, e nessuno ti potrà salvare! Ti strangolerò con le mie mani! - Terminò il sergente con un mormorio roco. - Puoi andare, ora, ho voluto avvertirti, così al volo. Ma non mi viene neppure in mente che nel nostro reggimento possa trovarsi un solo uomo che osi avere un pensiero contro la Fede, l’Imperatore e la Patria. Via! »7.
Tali profili, in tempi non sospetti verso la Rivoluzione, ci fanno comprendere come essa ebbe radici profonde, già alla fine dell’Ottocento. Nemici interni all’esercito iniziarono a plasmarsi, ma vi erano anche i nemici esterni; uno di questi è l’eterno studente Fedoro Feodorovitch Korgikoff, che poi divenne leader rivoluzionario il quale così esprimeva al militare Vittorio Mikhailovitch Liubovin come doveva comportarsi all’interno dell’esercito: «La sola cosa che vi rimane da fare è di agire con dolcezza, nelle conversazioni a quattr’occhi. C’è una parola che è eccellente. È la parola “compagno”. Servitevene quando parlate al soldato. Attaccatelo isolatamente, egli non ha mai udito quella parola; lo sorprenderà dapprima e gli parrà in seguito di una straordinaria dolcezza che gli penetrerà insensibilmente nell’anima. Datemi un solo uomo ben preparato da voi alla rivolta, e avrete fatto opera utile. Cercate di averne uno soltanto, che sia sempre malcontento, che critichi ogni cosa; dopo cercate di prepararne il secondo. Bisognerà anche guadagnarsi l’animo di un sottufficiale; senza di ciò è molto difficile agire»8.
Così scatta il piano di Korgikoff di avvicinare Sablin al processo rivoluzionario. Il meccanismo è semplice: usare la sorella di Liubovin, Marussa ad incontrare l’ufficiale per poi farlo diventare un agente della rivoluzione strisciante. Ma il nostro protagonista si rivela un vero figlio dello Zar, fedele e dall’anima immacolata. Il piano fallisce e addirittura Marussa si innamora perdutamente di Sablin. Marussa proviene dalla piccola borghesia, che all’epoca in Russia comprendeva una parte esigua della popolazione, poiché la borghesia europea – così come la conosciamo noi – in Russia fino all’Ottocento era praticamente quasi inesistente, vigendo un sistema feudale. In una conversazione tra i due, la giovane donna affermerà a Sasha come: «Voi avete una profonda fede, lo vedo, - disse Marussia - tutto è stabilito con tanta semplicità nel vostro spirito; si direbbero dei compartimenti classificati contenenti tutte le nozioni ammesse: Dio, la Chiesa, i ceri, le immagini, le genuflessioni, lo zar, la devozione, le riviste; poi il reggimento, l’uniforme, l’onore e finalmente la famiglia. Vi è una distinzione precisa tra quello che è permesso e quello che è proibito, tra quello che è possibile e quello che è impossibile. […] invece in me vi è un caos completo nelle mie idee, Alessandro Nicolaievitch […] Tutti e due cerchiamo la verità, e ciascuno di noi la comprende come può, per quanto essa non sia stata scoperta da nessuno. Io voglio la felicità per il mondo intero, voglio amare l’umanità intera, mentre voi non date il vostro amore che ad un piccolo cerchio di esseri e non riconoscete degna del vostro affetto che una piccola parte dell’universo. Ci siamo incontrati, abbiamo discusso e ci siamo interessati uno all’altro. Un idolo ci ha ravvicinati. Questo idolo è la bellezza. Voi l’adorate e ne siete fiero, mentre io la considero come una debolezza, quasi come un vizio.. Voi mi avete fatto vedere un quadro da racconti da fate: lo Zar e il suo Regno. Io nel cuore ho un altro racconto che vi dirò un giorno; per il momento non siete preparato a comprenderlo. Permettetemi di restare per Voi una sconosciuta, come Cenerentola al ballo del principe». Ebbene ancora una volta l’autore cerca di trasmettere, prima degli eventi decisivi del romanzo, quelle differenze ambientali e ideologiche tra le varie classi sociali. L’amore tuttavia è ricambiato, ma il principe Repnin lo richiama all’ordine, rispetto alla sua situazione nell’esercito, poiché un matrimonio “misto” tra classi sociali non paritarie impartirebbe uno scandalo pubblico all’onore del reggimento. Sablin pensa di suicidarsi, poi di lasciare il reggimento per amore, di cambiare radicalmente vita, poi torna il senso del dovere verso l’ideale, verso i principi del suo “bel mondo”: rispettare le convenzioni per essere preservati da esse stesse. Ancora l’autore ci instilla un altro concetto, oggi scomparso: di fronte ad un desiderio individualista, compiere un sacrificio grave ci rende uomini e ci fa sentire in armonia con il contesto sociale al quale apparteniamo. Sablin però aspetta un figlio da Marussa, ma non può tenerlo, così in un aspro scontro verbale con Korgikoff, quest’ultimo si impegnerà a crescere suo figlio con gli ideali della rivoluzione, mentre nel frattempo Marussa muore di malattia. Siamo di fronte alla prima piccola tragedia sulla pelle del protagonista.
Di tanto in tanto l’autore inserisce nel romanzo il classico personaggio opportunista, lo zio Oblenissimoff: sarà fervente zarista prima della guerra, per il Governo provvisorio rivoluzionario nel 1917 ed infine dopo essere stato spogliato dai suoi averi, come la sua casa, dai Soviet fuggirà con codardia in Svezia, dove nel frattempo – guadagnando soldi al mercato nero sulle persone più disagiate – aveva guadagnato una fortuna e aveva trasferito i soldi nel paese della corona scandinava. I dialoghi di scontro ideologici con il protagonista sono epocali: «Vi fu un tempo, in un lontano passato, in cui il monarca precedeva il popolo. Ora le parti sono invertite. Viene prima il popolo e poi il monarca. - Non so figurarmi un gregge che guidi i passi del pastore, - disse Sablin. - Ma, in ogni gregge vi sono dei montoni di guida che conducono il gregge e senza il loro aiuto le pecore rischierebbero di rovesciare il pastore»9.
Il seguito scorre veloce agli occhi attenti del lettore: se la guerra russo-giapponese (1904-05) si rivela essere un autentico disastro militare mal gestito dal comparto militare zarista, sarà la Prima Guerra Mondiale (1914-18) che assesterà il colpo decisivo all’Imperatore per il proliferare della Rivoluzione che in primis riuscirà a distruggere il morale dell’esercito al fronte. Una volta che l’esercito si sfalderà, l’anarchia rivoluzionaria iniziale e gli omicidi degli ufficiali sia al fronte che all’interno del Regno inizieranno. Il nostro protagonista, dopo la tragica esperienza amorosa si sposa con una sua pari-grado, la contessa Vera Constantinovna dalla quale avrà due figli, un maschio Kolia e una femmina Olga. Nel frattempo, a corte la zarina sempre più intrigata dalla fascinazione di Rasputin, vero e proprio demone ed incarnazione del male – così come confermato dalla bellissima autobiografia del principe Félix Yussupov, nel suo “Dalla corte all’esilio” – cade sotto la critica della stampa, mentre anche sua moglie Vera viene irretita e “assaggiata” sessualmente dal monaco depravato. Yussupov così descrive Rasputin: «Fu proprio alla fine di quell'anno, il 1909, che incontrai per la prima volta Rasputin. [...] Questa giovanetta era troppo pura per capire l'ignominia del “sant'uomo” e troppo ingenua per giudicare i suoi atti con conoscenza di causa. Era, così ella diceva, un essere dotato di una rara forza spirituale, inviato in questo mondo per purificare e guarire le anime e per guidare i nostri pensieri e i nostri atti. Questo ditirambo mi aveva lasciato scettico giacché, pur senza avere dati precisi su Rasputin, un oscuro presentimento me lo rendeva sospetto. [...] A sentirla, egli era un inviato del Cielo, un nuovo apostolo; le debolezze umane non avevano presa su di lui, i vizi gli erano ignoti, e tutta la sua vita altro non era che ascetismo e preghiera. Queste parole fecero nascere in me il desiderio di conoscere un uomo tanto straordinario; accettai dunque di recarmi [...] alcuni giorni dopo per incontrarvi il celebre starez. [...] Poco dopo la porta dell’anticamera si aprì e Rasputin entrò a piccoli passi. Si avvicinò a me e mi disse: “Buongiorno, mio caro”, con l’aria di volermi baciare. Arretrai istintivamente. [...] Di primo acchito, qualche cosa in lui mi spiacque, anzi mi ripugnò. Era di statura media, muscoloso, piuttosto magro. Aveva le braccia di una lunghezza esagerata. Dove cominciavano i capelli mal pettinati, si scorgeva una larga cicatrice (più tardi seppi che era la traccia di una ferita ricevuta durante uno dei suoi atti di brigantaggio in Siberia); gli si sarebbero dati quarant’anni. Indossava un caffetano, un paio di calzoni larghi e calzava grossi stivali. Nell’insieme aveva l’aria di un semplice contadino. Il suo volto, incorniciato da una barba irsuta, era volgare, i lineamenti grossolani, il naso lungo, e i piccoli occhi di un grigio trasparente e dallo sguardo evasivo stavano come imboscati sotto le folte sopracciglia. Benché affettasse una grande disinvoltura, si avvertiva in lui un certo imbarazzo, persino una vigile diffidenza; si sarebbe detto che spiasse continuamente il proprio  interlocutore»10. [caption id="attachment_16301" align="aligncenter" width="1000"] Principe Felix Felixovich Yusupov , conte Sumarokov-Elston ( 11 marzo 1887 , San Pietroburgo - 27 settembre 1967 , Parigi ) - Aristocratico e giornalista russo, l'ultimo dei principi Yusupov. Noto per aver partecipato all'assassinio di Grigory Rasputin. Marito della principessa Irina Alexandrovna , nipote dello Zar Nicola II.[/caption]
La moglie Vera non regge alla situazione e per senso di colpa, all’insaputa di Sablin, si suicida. Per il protagonista della nostra storia il colpo è tremendo: qui si comprende come la stessa nobiltà russa inizia a comprendere come la politica del Regno si sia arenata politicamente anche per via di personaggi profittatori, ambigui e dalla dubbia eticità o moralità ed il caso di Rasputin calza a pennello. Sablin è distrutto, ma ha ancora il figlio Kolia e per lui prevede una grande carriera militare. Inizialmente il figlio non può partecipare al conflitto per via dell’età, ma invogliato dallo zio Oblenissimoff, Kolia si presenta alla vigilia di una delle primissime cariche di cavalleria dell’iniziale offensiva russa. L’evento è epico e drammatico e qui l’autore mirabilmente ci descrive da soldato qual è, la crudeltà della guerra: «I serventi della batteria tedesca non videro subito che stava per arrivare la carica della cavalleria. Sablin ebbe il tempo di discendere in un’ampia vallata e di risalire su di una collina senza essere stato scorto dal nemico. […] La batteria tirava a sinistra in diagonale e Sablin poteva vedere i lampi dei colpi. Poi essa cominciò a voltarsi rapidamente dalla sua parte. […] Al galoppo allungato! - comandò […] Sablin vide scoppiare una gran fiamma dritto dinanzi a sé; apparve una nuvola bianca; il cavallo di Rotbeck cadde. […] Un colpo violento lo aveva colpito al petto. Gli sembrò che il suo cavallo s’impennasse e fu gettato di sella. La terra nera e odorosa rinfrescò il suo viso e gli entrò in bocca. Sablin sollevò la testa. […] «sono ferito», pensò; vide sulla testa il cielo azzurro e infinito, poi delle miriadi di piccole bolle trasparenti passarono davanti ai suoi occhi e lo accecarono. Chiuse le palpebre e perdette i sensi. Il conte Blanckenburg fu il primo a giungere alla battaglia e con un colpo di sciabola fece stramazzare un uomo che gli sparava contro. Il suo squadrone e quello di Rotbeck circondarono i pezzi e fecero strage di tutto ciò che li circondava. Alla loro destra un urrà sonoro si ripercosse nell’aria. La fanteria russa, uscendo dalle trincee, correva dietro ai tedeschi in ritirata. […] la vittoria era completa. E questa vittoria, l’esercito russo la doveva all’assalto temerario, insensato, del mezzo reggimento di Sablin. Sablin stesso, gravemente ferito al petto, era rimasto a terra senza conoscenza. Suo figlio Kolia, col torso crivellato e la testa asportata, giaceva in una pozza di sangue fumante. Il capitano in seconda Artemief, l’alfiere Pokrovsky, il tenente Agapoff, l’alfiere Barone Lieser eran morti; il tenente Kuscnaref, il barone Livdal ed il conte Toll erano feriti. Traversando la pianura silenziosa, un cavaliere si avvicinò al trotto: era il principe Repnin. Il suo volto era maestosamente calmo. - Grazie, ragazzi; è stata una mischia gloriosa, un episodio eroico, - disse Repnin. - Avete glorificato per sempre il nostro reggimento. […] Ma come è stata falciata la nostra gioventù russa! Bisogna che tutto l’universo sappia che il nostro popolo è unito, e che i nostri ufficiali sanno morire insieme ai nostri soldati, e in testa ai soldati […] la bellezza di quest’impresa è rimasta a Sablin! Che egli muoia o che viva, il giorno dell’assalto che egli ha condotto e che ci ha dato la vittoria brillerà d’uno splendore eterno!»11.Arriva infine la terza tragedia di Sablin. Proprio in questo scontro il figlio rimane ucciso, anche in maniera brutale da una palla di cannone che gli taglia la testa. Ora il Colonnello Sablin – che dopo questo scontro diventerà Generale acquisendo anche la croce di San Giorgio – ha solo come obiettivo di vita il servizio alla Patria e presto gli verrà tolta anche questa.La guerra che fece perdere allo Zar i suoi figli più fedeli nei primi due anni del conflitto provocò la Rivoluzione. Messi fuori gioco l’apparato dell’esercito fedele all’Imperatore e successivamente chiamate le seconde linee non esperte e soprattutto già indottrinate politicamente dalla rivoluzione, le gerarchie tra ufficiali e soldati cessarono, scatenando il caos. Eroi del romanzo, senza macchia, come il Sottotenente cosacco Alessio Karpoff furono mandati al macello per conquistare piccoli metri di terra, che poi il Governo dei Soviet avrebbe svenduto ai tedeschi per la pace, tradendo quegli stessi morti dello stesso popolo russo. Intanto il fronte interno si sfalda, il tradimento è ovunque, tutti si rivoltarono contro la polizia. I «cittadini soldati» dimenticarono che il nemico era il tedesco e stabilirono che il nemico fosse il russo. Inizia la caccia anche agli ufficiali, questi furono divisi in ufficiali rivoluzionari e ufficiali controrivoluzionari. Ai primi fu messa una coccarda rossa all’occhiello, poi furono disarmati e i soldati li trascinarono per mano cantando a squarciagola. Gli altri furono ricercati e inseguiti; tutti quelli che s’incontravano furono uccisi per la strada. Il Governatore di Pietrogrado, il Generale Khabaloff, tentò di protestare. Fu arrestato e condotto in fortezza. Mentre la Duma festeggiava la folla andò alla fortezza di Pietro e Paolo, massacrò gli ufficiali e i guardiani e mise in libertà tutti i prigionieri dello «zarismo», sia politici, sia di delitti comuni. La città fu riempita di delinquenti di tutti i generi. Furono incendiate le caserme dei pompieri, rotti i vetri e saccheggiati i magazzini. Tutte le città risuonavano della parola “compagno”. Ma non è la gente del popolo che ha tradito. A loro molto sarà perdonato perché non sanno quello che fanno; sono le alte sfere che hanno tradito l’Imperatore; non gli hanno permesso di arrivare fino a Tzarskoie Selo. Il suo treno è stato fermato per la strada e il comandante delle armate del Nord, il Generale Russky, è andato a trovarlo con i rappresentanti del popolo, che del resto non sono stati delegati da nessuno, Gutchkoff e Sciulghin. Tutti e due appartengono alle destra: uno è ottobrista, e l’altro, Sciulghin, redattore del giornale Kievlianin. Essi erano latori di un manifesto già redatto, nel quale l’imperatore dichiarava di abdicare in favore di suo figlio. Non c’era che da firmare il documento. Vicino all’imperatore nessuno per consigliarlo, per sostenerlo. Gli dissero che tutta la Russia si era dichiarata contro di lui. Russky affermava che se non firmava il manifesto, i soldati del fronte delle armate del Nord avrebbero marciato su Pietrogrado. Così l’Imperatore affermò «se sono la causa dell’infelicità della Patria, sono pronto a sacrificare tutto, anche la vita, purché la Russia sia felice». Ma il sentimento ebbe il sopravvento e per non consegnare suo figlio al popolo, fece quello che non aveva diritto di fare, abdicò anche a nome di suo figlio. L’Imperatore ha abdicato in favore di suo fratello Michele Alessandrovitch, ma quest’ultimo ha rifiutato di assumere il potere sovrano. Così il principe Lvoff è Capo del Governo, Gutchkoff Ministro della Guerra, Kerensky, socialista d’estrema sinistra, ministro della Giustizia, e così di seguito, quasi tutti personaggi insignificanti, com’è del resto la Duma dalla quale vengono. Si arriva così verso l’epilogo caotico e sanguinoso dell’intera epopea. L’autore ci descrive con mirabile ingegno come poco a poco la macchina bellica si sgretola: come l’ufficiale coscienzioso viene sostituito dall’amico militare del governo provvisorio, per inserire piccoli commissari politici sotto sembianze da ufficiali; ci descrive come il saluto militare diviene quasi facoltativo; fino all’ammutinamento, alla rivolta, ed infine agli omicidi dei generali e degli ufficiali. «La 204ª divisione stava preparandosi a prestare giuramento di fedeltà al Governo provvisorio […]. Sablin si preparava già ad andarsene, quando fu bruscamente fermato da un violento rumore di voci. Vide i soldati dirigersi verso di lui spingendo avanti brutalmente un ufficiale; Sablin riconobbe il tenente Ermoloff. Quegli stessi soldati che poco tempo prima avevano espresso la loro adorazione per questo comandante con il quale avevano condiviso la vita della trincea, adesso lo maltrattavano. - Che c’è? - gridò Sablin. - Come osate?.. - Il gruppo si avvicinò e subito fu contornato dalla folla dei soldati. - Generale, - disse un giovanotto con aria insolente continuando a tenere Ermoloff per la giubba - permettetetemi di spiegarvi. Tutti hanno prestato giuramento, e hanno firmato la formula, ma il tenente Ermoloff si è diretto improvvisamente verso la foresta. Dunque egli non vuole prestare giuramento. - Anzitutto come osate malmenare un ufficiale? Lasciatelo in pace e ritornate nelle vostre file! - gridò Sablin. Nessuno si mosse. […] - Ho prestato giuramento al mio Imperatore, - disse Ermoloff con voce rotta, ma ferma e distinta - e non presterò giuramento a nessun altro. Io non sono un traditore. - Un mormorio passò tra la folla. - L’imperatore ha abdicato; è il popolo che governa, ora, ed egli rinnega il popolo. - Rientrate nell vostre file! - gridò con collera Sablin. - Perché rientrare nelle file? Compagni, bisogna ancora sapere se anche il generale ha prestato giuramento. Essi son forse d’accordo; non vogliono servire sotto la bandiera rossa. - Vi è stato detto di rientrare nelle file; - ripetè Kozloff - volete dunque provocare un ammutinamento? - I rivoltosi sono quelli che non vogliono prestare giuramento; bisogna arrestarli. - Si arrestiamo il Generale! - Non più Zar, non più padroni; arrestiamo il Generale! Avanti compagni afferratelo! - La situazione divenne critica. Le prime file non si muovevano ancora, non osando levare le mani sul comandante del corpo d’armata; ma erano spinte dalla folla retrostante che rumoreggiava minacciosa. Sablin sentì che qualcosa di terribile stava per accadere»12. Il Generale Sablin viene arrestato, rilasciato ed infine, durante l’Affare Kornilov, di nuovo catturato – sul vagone appunto, dopo una breve fuga - per essere giustiziato in maniera tremenda da quel figlio perduto in gioventù, adottato e istruito all'odio dal suo antico nemico Korgikoff. Negli ultimi giorni di vita del protagonista, gli viene chiesto di servire l'Armata Rossa e di riacquisire il rango di Generale, con i conseguenti benefit provenienti dalla posizione, ma Sablin rifiuta categorico, ricordando sia al lettore, che a se stesso il suo antico giuramento di fede allo Zar. Dopo tremende sevizie da parte di suo figlio Korgikoff, appartenente alla Ceca, morirà senza un lamento. La sua uccisione è simile a quella del Cristo per l’autore. Dio è morto, è stato crocifisso dai bolscevichi, il male ha trionfato, la Russia così come la si era conosciuta – nella sua forma più europea – scompare per sempre. Sablin rappresenta la morte dell’ultimo figlio fedele di un mondo che stava entrando nell’oltretomba. Dunque perché leggere Dall’Aquila Imperiale alla bandiera rossa? Perché è un libro autentico, scritto da una penna straordinaria con una tale ampiezza e facilità che molti dei nostri veri scrittori di narrativa non si sarebbero mai sognati; un libro vero, sublime e crudo nello stesso tempo: un mix che solo i grandi della letteratura riescono a fondere. Voglio concludere, così come ho iniziato con Volkoff, sul concetto di Rivoluzione Russa: «La Confraternita della verità dei popoli si chiama così in onore della Confraternita della verità russa, i cui membri furono arrestati e giudicati durante il terrore post-leniniano. Invece di umiliarsi, di prosternarsi, di accusarsi di tutti i delitti, come hanno fatto le canaglie comuniste che sfilavano davanti allo stesso tribunale, i fratelli della verità russa rispondevano a tutte le domande che venivano loro poste cantando in coro: “Dio salvi lo Zar”. Si può non condividere le loro opinioni; non si può non ammirare il loro martirio. [...] Il popolo russo è effettivamente il popolo porta-verità, come ho scritto. Gli stessi cattolici sanno, dopo l’apparizione di Fatima, che noi abbiamo un destino a parte. La Rivoluzione cosiddetta russa è un tentativo non russo per pareggiare questo destino. La Russia ha un cuore mistico, il cui nome vero è Monastero della Trinità-San Sergio. Quel luogo è stato ribattezzato Zagorsk in onore di un oscuro rivoluzionario il cui pseudonimo era Zagorski e il nome vero Krachman. Non è simbolico? Conoscete i nomi degli assassini che hanno massacrato lo zar, la zarina, lo zarevič, le zarevne e quattro dei loro fedeli in quel sotterraneo di Ekaterinburg, il 17 luglio 1918 all'1 e 15? Tre sono russi, ma sentite i nomi degli altri: Iurovski, Horvat, Fischer, Edelstein, Fekete, Nagy, Grünfeld, Vergazy. Il vero nome di Trotski era Bronštein; di Zinov'ev, Apfelbaum; di Kamenev, Rosenfeld. Non ha importanza che alcuni di questi siano nomi ebraici: Dzeržinskij era polacco, Stalin georgiano, Berija mingreliano, Lenin un po' svedese e molto tartaro. Dunque non c'è ragione di gridare all'antisemitismo, come fanno gli Usurai, ogni volta che si constata che la Rivoluzione russa in realtà è una rivoluzione antirussa»13. [caption id="attachment_16302" align="aligncenter" width="1000"] Monumento all’Atamano Krasnov, che dal 2007 si trova nel villaggio di Elanskaya, distretto di Sholokhov, in un museo privato dei cosacchi. Alcuni chiedono la demolizione del monumento, altri sono contrari. Inoltre, la proprietà privata in Russia è rispettata dalla legge. E a volte sono rispettati molto più del ricordo di coloro che morirono nella Grande Guerra Patriottica. Tuttavia, sembra che sia stato trovato un compromesso: il cartello che diceva che si trattava di Ataman Krasnov è stato rimosso dal monumento. Adesso è solo un cosacco. Il 17 gennaio 2008, l’Atamano dei cosacchi del Don, deputato della Duma di Stato della Russia Unita Viktor Vodolatsky, ha firmato un decreto sulla creazione di un gruppo di lavoro per la riabilitazione di Pyotr Krasnov in connessione con una richiesta ricevuta dall’organizzazione cosacchi all’estero. Il 28 gennaio 2008, il consiglio degli atamani dell’organizzazione “Great Don Army” ha preso una decisione in cui ha osservato: “i fatti storici indicano che fu un combattente attivo contro i bolscevichi durante la guerra civile, e lo scrittore Krasnov durante la Grande Guerra Patriottica collaborò con la Germania nazista. Attribuendo un’importanza eccezionale a quanto sopra, il Consiglio degli Atamani ha deciso: di rifiutare la richiesta della fondazione senza scopo di lucro “Cossack Abroad” di risolvere la questione della riabilitazione politica di P. N. Krasnov”. Lo stesso Viktor Vodolatsky sottolinea: “il fatto della sua collaborazione con Hitler durante la guerra rende per noi del tutto inaccettabile l’idea della sua riabilitazione”. L’iniziativa di riabilitazione è stata condannata dai veterani della Grande Guerra Patriottica e dai rappresentanti della Chiesa ortodossa russa.[/caption]  
Per approfondimenti:
1 Nel maggio 1945, quando si arresero alla prigionia inglese, i cosacchi della Wehrmacht contavano 24mila militari e civili. Gli inglesi consegnarono al comando sovietico oltre duemila ufficiali cosacchi, incluso Krasnov; 
2 Pronipote del Maggiore Generale I. K. Krasnov, capo militare della scuola Suvorov, eroe della guerra del 1812; nipote del Tenente Generale I. I. Krasnov, storico e pubblicista del Don; figlio del Tenente Generale N. I. Krasnov, storico del Don, scrittore di prosa e pubblicista, scientifico, la cui opera “Cosacchi di Terek” è stata premiata con una medaglia d’oro dall’Accademia Imperiale delle Scienze; fratello minore del botanico e geografo prof. A. N. Krasnov e Platon N. Krasnov poeta e traduttore;
3 Nel maggio 1918, i cosacchi ribelli cacciarono i distaccamenti delle Guardie Rosse dal territorio della regione del Don. Il 16 maggio 1918, il “Circolo per il salvataggio del Don” elesse Krasnov Atamano dei cosacchi del Don. Avendo stabilito rapporti commerciali con la Germania e non obbedendo a A.I. Denikin, che era ancora concentrato sull’Intesa, guidò la lotta contro i bolscevichi a capo dell’esercito del Don. Krasnov annullò i decreti adottati dal governo sovietico e dal governo provvisorio e creò l'Esercito del Grande Don come stato indipendente. Tutto ciò portò al fatto che dopo la sconfitta della Germania nella prima guerra mondiale, l'esercito del Don nel novembre 1918 si trovò sull'orlo della distruzione e Krasnov fu costretto a decidere di unirsi all’esercito volontario sotto il comando di Denikin. Il 15 febbraio 1919 Krasnov, sotto la pressione di Denikin, fu costretto a dimettersi e partire per la Germania;
4 Esce in Italia nel 1929 con l’Editore Adriano Salani. Attualmente il libro non è andato più in ristampa ed è acquistabile sui vari mercatini dell’usato online;
5 Krassnoff P.N., Dall’Aquila Imperiale alla bandiera rossa, A. Salani, 1926, pp. 13-14;
6 Ibidem, pp.49-53;
7 Ibidem, p.39;
8 Ibidem, p.45;
9 Ibidem, pp. 457-58;
10 Yussupov F., Dalla Corte all’esilio - Memorie dell’uccisione di Rasputin - parte prima, capitolo decimo;
11 Krassnoff P.N., Dall’Aquila Imperiale alla bandiera rossa, A. Salani, 1926, pp. 307-10;
12 Ibidem, pp. 479-80;
13 Volkoff V., Il Montaggio, Guida Editori, pp.304-05.
 
 
 
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a cura di Sergio Milani
06 aprile 2024 – Sala della Ragione, Palazzo dei Capitani del Popolo (Piazza del Popolo) - 63100 AP
Introduce: Arch. Giuseppe Baiocchi
Interviene: Prof. Matteo d'Amico
Interviene:  don Gabriele d'Avino (FSSPX)
 
Sabato 18-05-2024, alle ore 18:00/20:00 si terrà presso Palazzo dei Capitani del Popolo (AP) il 76°incontro dell'associazione culturale Das Andere. Ospiti dell'evento don Gabriele d'Avino (Priore del Distretto della Fraternità San Pio X in Italia) e il prof. Matteo d'Amico. L'incontro verterà sulla storia del tradizionalismo cattolico, dove il prof. d'Amico disserterà sui lineamenti storici di tale movimento nato a partire dal Concilio Vaticano II, che provocherà quella spaccatura teologica, liturgica e pastorale che ancora oggi è il grande problema insoluto all'interno di Santa Romana Chiesa. Don Gabriele d'Avino, invece, dialogherà propriamente sull'Istituto della Fraternità San Pio X, fondata nel 1970 dal Vescovo francese Mons. Marcel Lefebvre. Oggi la Fraternità, che ha sedi in tutto il mondo, è riconosciuta da Papa Francesco nell'impartizione di tutti i sacramenti, ma non è canonicamente riconosciuta per differenze dottrinali dal modernismo che governa il Vaticano. Dunque una conferenza di forte interesse pubblico, che servirà per fare luce, sulla grande confusione che alberga nei fedeli in materia liturgica e dottrinale.

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di Giorgio Enrico Cavallo del 28/04/2024

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Siamo nella fine dell’estate 1895. Un anno straordinario. Nel febbraio, i fratelli Lumière avevano inventato il cinematografo. In Italia, invece, a villa Griffone, nel comune di Sasso alle porte di Bologna, un ragazzo di soli 21 anni, Guglielmo Marconi, da mesi insisteva con esperimenti bizzarri, per i quali chiedeva l’aiuto del giardiniere della sua villa, Antonio Marchi. Anche quell’estate aveva lavorato, sperimentando, a distanze sempre maggiori. L’esperimento cruciale avvenne in un giorno di fine estate. Antonio aveva, come sempre, il compito di portare con sé una strana cassetta, da maneggiare con la massima cura perché Marconi gli aveva detto che conteneva dell’esplosivo. Una piccola bugia a fin di bene.

[caption id="attachment_16280" align="aligncenter" width="1000"] Guglielmo Giovanni Maria Marconi (Bologna, 25 aprile 1874 – Roma, 20 luglio 1937) è stato un inventore, imprenditore e politico italiano.[/caption]

L’esperimento cruciale: trasmettere un segnale dall’altra parte della collina dei Celestini. Gli ordini del ragazzo erano stati chiari: «devi tornare indietro solo dopo aver sentito cinque segnali! Altrimenti aspetta lì». I segnali arrivarono. Inequivocabili. Ad un certo punto, Antonio apparve, correndo come un disperato e agitando le braccia. Guglielmo gli corse incontro, con il cuore in gola. Gli gridò «Et sintò i culpadèin?». Si abbracciarono. «Tugnat, avén vint, avén vint!». La radio nacque probabilmente così, anche se poi si sono aggiunte note di colore, come il famoso colpo di fucile. Colpo che fu sparato, e forse anche più di uno, specie quando il riluttante padre di Guglielmo venne a vedere cosa stava combinando il figlio. Giuseppe era un uomo severo che considerava quella del figlio come una stramberia, un’infatuazione adolescenziale per una e una sola materia di studio: la scienza. Mal tollerava che il figlio si chiudesse in un laboratorio per studiare, sperimentare. Non poteva soffrire gli esperimenti, puerili perdite di tempo, anche pericolosi perché riguardavano l’elettricità. Balocchi moderni per un ragazzo che fabbricava di tutto, compresi piccoli marchingegni e perfino un distillatore, e che si divertiva con i suoi aggeggi a fare scherzi ai domestici, come quando attaccò due fili elettrici alle zampe di un pollo e spaventò a morte la cuoca di casa facendolo “resuscitare” poco prima di essere infornato. Ma qual era la famiglia Marconi? Le origini della famiglia Marconi sono da individuarsi nella zona montana alle spalle di Bologna, a Granaglione, come discendenti di certo Marcone. Ancora nel 1848, le famiglie di cognome Marconi erano sei nel paese di Granaglione. Il nonno si chiamava Domenico e nacque alle Croci di Capugnano; doveva essere un possidente montano, non povero. Ebbe due figli: Giovanin Battista e Giuseppe, che fu il padre di Marconi, nato nel 1823. I due fratelli si trasferirono a Bologna e qui Giuseppe conobbe la bella Giulia Renoli, figlia di un banchiere che acconsentì al matrimonio dopo molte insistenze. La ragazza, però, morì a soli 24 anni. Giuseppe si risposò con Annie Jameson, di origine scozzese. Lui aveva 41 anni, lei 17. Giuseppe doveva avere una certa anglofilia, perché nel corso della sua vita assunse anche la cittadinanza inglese. Nel 1865 nacque il primogenito Alfonso, nel 1874 il secondogenito Guglielmo. Giuseppe dovette ricredersi: il figlio non era un adolescente introverso. Era un genio. La madre, già sapeva: Guglielmo l’aveva svegliata una volta nel cuore della notte e l’aveva condotta nel laboratorio per mostrarle i prodigi cui stava lavorando. Poi aveva assistito ai primi esperimenti. Aveva un ottimo rapporto con la madre. Il padre, infine, vide e “sentì” il colpo di fucile e anche quella lettera S in alfabeto Morse che fu la “firma” di tutti gli esperimenti di Marconi. Così, mise mano al portafoglio. Quell’aggeggio poteva essere utile, in fondo. Si potevano fare dei soldi, ma non in Italia. L’Italia era un paese arretrato. Meglio l’Inghilterra, dove d’altronde i Marconi erano di casa perché ci andavano ogni inverno.

Il mondo era in fermento. Anche Tesla e il russo Popov stavano giungendo alle stesse conclusioni. Ma a brevettare il “telegrafo senza fili” prima di tutti fu Marconi il 5 marzo 1896. L’Italia aveva un suo primato da portare come trofeo. E Marconi, anche se mezzo inglese, si sentì sempre e soltanto italiano e lavorò sempre nella sua vita per promuovere l’immagine dell’Italia nel mondo. Il 23 dicembre 1896 comparve la prima intervista su un giornale italiano, un’intervista rilasciata nientemeno che al noto giornalista Olindo Malagodi, un suo conterraneo emiliano, corrispondente da Londra della Tribuna. Chiese Malagodi: Qual è il carattere e lo scopo della sua scoperta e come Le è venuta in mente? Rispose Marconi: La mia scoperta non contiene nessun principio nuovo: ma applicazioni ed estensioni di principii già conosciuti. Essa si è formata nella mia mente a poco a poco» (p.55). A questo punto è giusto raccontare un aneddoto che rivela molto della personalità di Marconi. L’idea della radio gli venne infatti durante una visita con gli amici al santuario di Oropa, nelle Alpi Biellesi. Uno dei più bei santuari mariani italiani e il più grande santuario delle Alpi. Da esso si gode di una bellissima visione sulla pianura che si apre sconfinata, come ben può vedere chi scende da Oropa. Ebbene, lì lui ebbe l’intuizione, dopo aver sostato davanti alla Vergine Nera di Oropa. Scienza e fede che si univano. Marconi era un uomo di fede e per tutta la vita sarà legato alla Chiesa. Sarà un buon cristiano, per come poté. E concepì sempre la sua invenzione come un miglioramento dell’umanità, per scopi più alti e nobili. Oggi una targa ad Oropa ricorda l’aneddoto. Marconi riteneva, tra le svariate applicazioni della sua invenzione, che il telegrafo senza fili potesse essere di grande aiuto alle navi in difficoltà. Cosa che si rivelerà esatta. Se in Europa e in America il nome di Marconi divenne immediatamente celebre, tanto da poter essere definito l’italiano più famoso del mondo, in patria iniziarono le critiche. Alcuni criticarono il giovane scienziato perché nelle interviste che rilasciava sbagliava i nomi degli scienziati e che analoghe esperienze di telegrafia senza fili erano state già condotte in Inghilterra da William Preece. Ci si domandò: perché brevettare il telegrafo senza fili in Inghilterra e non in Italia? A Bologna il clima culturale, piuttosto chiuso, riteneva quel ragazzotto un parvenu. Il professor Augusto Righi, che era stato uno dei maestri di Marconi, fu intervistato e affermò che Marconi stesse adoperando strumenti già noti. Ma «secondo forse l’indole propria, che lo trae piuttosto verso le applicazioni della scienza che verso le grandi questioni della filosofia naturali, ha concepito le onde elettriche alla produzione di segnali a distanza» (p. 65). Un certo cerchiobottismo di Righi che aumentò le malelingue. E tutta la vita di Marconi fu tormentata da maldicenze. Le critiche più taglienti, al limite della diffamazione, gli arrivarono da Luigi Stefanoni, direttore di un giornale che non a caso di chiamava “la Critica”. Tipico spirito di polemica tutta italiana, una critica ad un uomo che invece teneva alto il nome dell’Italia nel mondo. Ma ormai Marconi aveva fondato la sua società, la Marconi Wireless Telegraph Company, e il 12 dicembre 1901 aveva condotto il suo esperimento più importante: la trasmissione da un capo all’altro dell’Atlantico. La prima trasmissione transoceanica. Marconi era ancora un ragazzo – si era fatto crescere i baffi, per sembrare più grande – ma era riuscito a compiere il miracolo! E finalmente anche in Italia, timidamente, la critica iniziò ad interessarsi di lui, dell’Elettricista, come veniva soprannominato dai giornali. Anche Righi, infine, ammise la grandezza di quello che un tempo aveva disconosciuto di avere avuto per allievo. Non poteva farne a meno.

[caption id="attachment_16285" align="aligncenter" width="1000"] Guglielmo Marconi con la moglie Maria Cristina in occasione del battesimo di sua figlia Elettra nel 1930.[/caption]

Anche perché l’opera di Marconi si rivelò utilissima. Non solo per la trasmissione di dati in tempo di pace, ma per salvare vite umane. È il caso dell’affondamento del Republic, al largo della costa atlantica degli States, che, speronato dal transatlantico italiano Florida, riuscì a mettere in salvo i suoi passeggeri grazie all’opera del marconista di bordo, Jack Bins. Curiosamente, all’epoca non si trasmetteva la sigla SOS ma la sigla CQD. Lo stesso anno, il 1909, ottenne il Nobel per la fisica. Il copione, purtroppo, non si replicò con il Titanic, sul quale doveva addirittura viaggiare lo stesso Marconi con la moglie, la baronessina Beatrice O’Brien. Non viaggiarono sul Titanic perché era il suo viaggio inaugurale e Marconi aveva un comportamento schivo, non voleva comparire alle feste e ai ricevimenti. Marconi inoltre lavorava mentre viaggiava e a bordo del Lusitania, il transatlancio da lui scelto, c’era uno stenografo da lui già conosciuto e apprezzato. Quando, la notte del 14 aprile 1912, il Titanic cozzò contro l’iceberg fatale, il marconista inoltrò nell’etere il nuovo segnale convenuto: l’SOS. Fu la prima volta che questo segnale fu utilizzato. Purtroppo, sappiamo che il segnale non fu sufficiente per salvare tutti i passeggeri, salvati dal Carpathia. Quando il Carpathia giunse a New York, la fama di Marconi raggiunse il colmo. Sotto i balconi dell’hotel Holland, dove solitamente risiedeva Marconi, si accalcarono i superstiti nella speranza di poter incontrare l’uomo grazie al quale erano ancora vivi, l’uomo che aveva permesso ai segnali di valicare l’oceano. Per giorni continuò la sosta dei superstiti che gridavano, rivolti alle finestre di Marconi: “Ti dobbiamo la vita!”.

Il disastro del Titanic fu l’episodio che cambiò per sempre il modo di vedere il mondo di allora. Prima, il positivismo la faceva da padrone. La scienza e la tecnica avrebbero potuto fare tutto. Ora, la realtà presentava il suo conto. Marconi, però, continuò a lavorare convinto che la sua scienza potesse salvare altre vite. Aveva anche un panfilo, l’Elettra, dal quale conduceva i suoi esperimenti. Taciturno, timido; ma anche cordiale e gentile con tutti i suoi collaboratori. Era un uomo che credeva nell’Italia e nell’italianità, un nazionalista che si iscrisse convintamente al partito fascista, dal quale fu adulato e che finanziò i suoi lavori. Alla fine della vita, Marconi si ritirò a Roma. Era un uomo celebre ma amante della tranquillità. Il re lo aveva nominato marchese. Aveva divorziato dalla moglie Beatrice e aveva sposato la marchesina Maria Cristina Bezzi-Scali, dalla quale aveva avuto la figlia Elettra. Rimase sempre in ottimi rapporti con la Chiesa, e fu lui ad avere l’onore e il privilegio di mostrare la radio al papa. Il primo papa che parlava per mezzo della radio. Pio XI. Nelle immagini dell’Istituto Luce si vede il pontefice che osserva lo strumento e, ammettendo la genialità di Marconi, riconosce in lui uno strumento della Provvidenza. Ma la vita di Marconi doveva finire relativamente presto, a 63 anni. Soffriva da tempo di cuore. Morì nella sua casa di via dei Condotti, il 20 luglio 1937. Inizialmente, ai primi segni della fine, non diede peso al suo malessere e diede solo all’ultimo disposizione affinché Maria Cristina, che era in quel momento a Viareggio. La crisi cardiaca che lo aveva colpito non lo risparmiò. Morì cristianamente, dopo aver ricevuto i sacramenti dal parroco di Santa Maria delle Fratte e recitato il Pater noster con le suore. Curiosamente, gli sopravvisse il fedele giardiniere di un tempo, Antonio Marchi, il quale nell’estate del 1895 aveva già 50 anni. Marchi si spense nel 1948 all’età di ben 106 anni. Uomo buono affezionatissimo al suo sgnurèin, come lo chiamava – non chiamò mai Marconi per nome, per lui rimase sempre lo sgnurèin – chissà se avrà potuto riabbracciare il suo vecchio amico lassù in Cielo. Si saranno abbracciati come quel giorno, nella tarda estate del 1895, quando dalla collina dei Celestini corsero a perdifiato, colmi di gioia? Ora, auguriamo a tutti e due una gioia nuova e senza fine.

 
 
Per approfondimenti:
_G. Maioli, I giorni della radio, a cent'anni dall'invenzione di Guglielmo Marconi, Bologna 1994.
 
 
 
 
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