Guglielmo Marconi e la sua onda magnetica

di Giorgio Enrico Cavallo del 28/04/2024

Siamo nella fine dell’estate 1895. Un anno straordinario. Nel febbraio, i fratelli Lumière avevano inventato il cinematografo. In Italia, invece, a villa Griffone, nel comune di Sasso alle porte di Bologna, un ragazzo di soli 21 anni, Guglielmo Marconi, da mesi insisteva con esperimenti bizzarri, per i quali chiedeva l’aiuto del giardiniere della sua villa, Antonio Marchi. Anche quell’estate aveva lavorato, sperimentando, a distanze sempre maggiori. L’esperimento cruciale avvenne in un giorno di fine estate. Antonio aveva, come sempre, il compito di portare con sé una strana cassetta, da maneggiare con la massima cura perché Marconi gli aveva detto che conteneva dell’esplosivo. Una piccola bugia a fin di bene.

Guglielmo Giovanni Maria Marconi (Bologna, 25 aprile 1874 – Roma, 20 luglio 1937) è stato un inventore, imprenditore e politico italiano.

L’esperimento cruciale: trasmettere un segnale dall’altra parte della collina dei Celestini. Gli ordini del ragazzo erano stati chiari: «devi tornare indietro solo dopo aver sentito cinque segnali! Altrimenti aspetta lì». I segnali arrivarono. Inequivocabili. Ad un certo punto, Antonio apparve, correndo come un disperato e agitando le braccia. Guglielmo gli corse incontro, con il cuore in gola. Gli gridò «Et sintò i culpadèin?». Si abbracciarono. «Tugnat, avén vint, avén vint!». La radio nacque probabilmente così, anche se poi si sono aggiunte note di colore, come il famoso colpo di fucile. Colpo che fu sparato, e forse anche più di uno, specie quando il riluttante padre di Guglielmo venne a vedere cosa stava combinando il figlio. Giuseppe era un uomo severo che considerava quella del figlio come una stramberia, un’infatuazione adolescenziale per una e una sola materia di studio: la scienza. Mal tollerava che il figlio si chiudesse in un laboratorio per studiare, sperimentare. Non poteva soffrire gli esperimenti, puerili perdite di tempo, anche pericolosi perché riguardavano l’elettricità. Balocchi moderni per un ragazzo che fabbricava di tutto, compresi piccoli marchingegni e perfino un distillatore, e che si divertiva con i suoi aggeggi a fare scherzi ai domestici, come quando attaccò due fili elettrici alle zampe di un pollo e spaventò a morte la cuoca di casa facendolo “resuscitare” poco prima di essere infornato.
Ma qual era la famiglia Marconi? Le origini della famiglia Marconi sono da individuarsi nella zona montana alle spalle di Bologna, a Granaglione, come discendenti di certo Marcone. Ancora nel 1848, le famiglie di cognome Marconi erano sei nel paese di Granaglione. Il nonno si chiamava Domenico e nacque alle Croci di Capugnano; doveva essere un possidente montano, non povero. Ebbe due figli: Giovanin Battista e Giuseppe, che fu il padre di Marconi, nato nel 1823. I due fratelli si trasferirono a Bologna e qui Giuseppe conobbe la bella Giulia Renoli, figlia di un banchiere che acconsentì al matrimonio dopo molte insistenze. La ragazza, però, morì a soli 24 anni. Giuseppe si risposò con Annie Jameson, di origine scozzese. Lui aveva 41 anni, lei 17. Giuseppe doveva avere una certa anglofilia, perché nel corso della sua vita assunse anche la cittadinanza inglese. Nel 1865 nacque il primogenito Alfonso, nel 1874 il secondogenito Guglielmo.
Giuseppe dovette ricredersi: il figlio non era un adolescente introverso. Era un genio. La madre, già sapeva: Guglielmo l’aveva svegliata una volta nel cuore della notte e l’aveva condotta nel laboratorio per mostrarle i prodigi cui stava lavorando. Poi aveva assistito ai primi esperimenti. Aveva un ottimo rapporto con la madre. Il padre, infine, vide e “sentì” il colpo di fucile e anche quella lettera S in alfabeto Morse che fu la “firma” di tutti gli esperimenti di Marconi. Così, mise mano al portafoglio. Quell’aggeggio poteva essere utile, in fondo. Si potevano fare dei soldi, ma non in Italia. L’Italia era un paese arretrato. Meglio l’Inghilterra, dove d’altronde i Marconi erano di casa perché ci andavano ogni inverno.


Il mondo era in fermento. Anche Tesla e il russo Popov stavano giungendo alle stesse conclusioni. Ma a brevettare il “telegrafo senza fili” prima di tutti fu Marconi il 5 marzo 1896. L’Italia aveva un suo primato da portare come trofeo. E Marconi, anche se mezzo inglese, si sentì sempre e soltanto italiano e lavorò sempre nella sua vita per promuovere l’immagine dell’Italia nel mondo.
Il 23 dicembre 1896 comparve la prima intervista su un giornale italiano, un’intervista rilasciata nientemeno che al noto giornalista Olindo Malagodi, un suo conterraneo emiliano, corrispondente da Londra della Tribuna.
Chiese Malagodi: Qual è il carattere e lo scopo della sua scoperta e come Le è venuta in mente?
Rispose Marconi: La mia scoperta non contiene nessun principio nuovo: ma applicazioni ed estensioni di principii già conosciuti. Essa si è formata nella mia mente a poco a poco» (p.55).
A questo punto è giusto raccontare un aneddoto che rivela molto della personalità di Marconi. L’idea della radio gli venne infatti durante una visita con gli amici al santuario di Oropa, nelle Alpi Biellesi. Uno dei più bei santuari mariani italiani e il più grande santuario delle Alpi. Da esso si gode di una bellissima visione sulla pianura che si apre sconfinata, come ben può vedere chi scende da Oropa. Ebbene, lì lui ebbe l’intuizione, dopo aver sostato davanti alla Vergine Nera di Oropa. Scienza e fede che si univano. Marconi era un uomo di fede e per tutta la vita sarà legato alla Chiesa. Sarà un buon cristiano, per come poté. E concepì sempre la sua invenzione come un miglioramento dell’umanità, per scopi più alti e nobili. Oggi una targa ad Oropa ricorda l’aneddoto.
Marconi riteneva, tra le svariate applicazioni della sua invenzione, che il telegrafo senza fili potesse essere di grande aiuto alle navi in difficoltà. Cosa che si rivelerà esatta.
Se in Europa e in America il nome di Marconi divenne immediatamente celebre, tanto da poter essere definito l’italiano più famoso del mondo, in patria iniziarono le critiche. Alcuni criticarono il giovane scienziato perché nelle interviste che rilasciava sbagliava i nomi degli scienziati e che analoghe esperienze di telegrafia senza fili erano state già condotte in Inghilterra da William Preece. Ci si domandò: perché brevettare il telegrafo senza fili in Inghilterra e non in Italia? A Bologna il clima culturale, piuttosto chiuso, riteneva quel ragazzotto un parvenu. Il professor Augusto Righi, che era stato uno dei maestri di Marconi, fu intervistato e affermò che Marconi stesse adoperando strumenti già noti. Ma «secondo forse l’indole propria, che lo trae piuttosto verso le applicazioni della scienza che verso le grandi questioni della filosofia naturali, ha concepito le onde elettriche alla produzione di segnali a distanza» (p. 65). Un certo cerchiobottismo di Righi che aumentò le malelingue. E tutta la vita di Marconi fu tormentata da maldicenze. Le critiche più taglienti, al limite della diffamazione, gli arrivarono da Luigi Stefanoni, direttore di un giornale che non a caso di chiamava “la Critica”. Tipico spirito di polemica tutta italiana, una critica ad un uomo che invece teneva alto il nome dell’Italia nel mondo.
Ma ormai Marconi aveva fondato la sua società, la Marconi Wireless Telegraph Company, e il 12 dicembre 1901 aveva condotto il suo esperimento più importante: la trasmissione da un capo all’altro dell’Atlantico. La prima trasmissione transoceanica. Marconi era ancora un ragazzo – si era fatto crescere i baffi, per sembrare più grande – ma era riuscito a compiere il miracolo! E finalmente anche in Italia, timidamente, la critica iniziò ad interessarsi di lui, dell’Elettricista, come veniva soprannominato dai giornali. Anche Righi, infine, ammise la grandezza di quello che un tempo aveva disconosciuto di avere avuto per allievo. Non poteva farne a meno.

Guglielmo Marconi con la moglie Maria Cristina in occasione del battesimo di sua figlia Elettra nel 1930.

Anche perché l’opera di Marconi si rivelò utilissima. Non solo per la trasmissione di dati in tempo di pace, ma per salvare vite umane. È il caso dell’affondamento del Republic, al largo della costa atlantica degli States, che, speronato dal transatlantico italiano Florida, riuscì a mettere in salvo i suoi passeggeri grazie all’opera del marconista di bordo, Jack Bins. Curiosamente, all’epoca non si trasmetteva la sigla SOS ma la sigla CQD. Lo stesso anno, il 1909, ottenne il Nobel per la fisica.
Il copione, purtroppo, non si replicò con il Titanic, sul quale doveva addirittura viaggiare lo stesso Marconi con la moglie, la baronessina Beatrice O’Brien. Non viaggiarono sul Titanic perché era il suo viaggio inaugurale e Marconi aveva un comportamento schivo, non voleva comparire alle feste e ai ricevimenti. Marconi inoltre lavorava mentre viaggiava e a bordo del Lusitania, il transatlancio da lui scelto, c’era uno stenografo da lui già conosciuto e apprezzato. Quando, la notte del 14 aprile 1912, il Titanic cozzò contro l’iceberg fatale, il marconista inoltrò nell’etere il nuovo segnale convenuto: l’SOS. Fu la prima volta che questo segnale fu utilizzato. Purtroppo, sappiamo che il segnale non fu sufficiente per salvare tutti i passeggeri, salvati dal Carpathia. Quando il Carpathia giunse a New York, la fama di Marconi raggiunse il colmo. Sotto i balconi dell’hotel Holland, dove solitamente risiedeva Marconi, si accalcarono i superstiti nella speranza di poter incontrare l’uomo grazie al quale erano ancora vivi, l’uomo che aveva permesso ai segnali di valicare l’oceano. Per giorni continuò la sosta dei superstiti che gridavano, rivolti alle finestre di Marconi: “Ti dobbiamo la vita!”.

Il disastro del Titanic fu l’episodio che cambiò per sempre il modo di vedere il mondo di allora. Prima, il positivismo la faceva da padrone. La scienza e la tecnica avrebbero potuto fare tutto. Ora, la realtà presentava il suo conto.
Marconi, però, continuò a lavorare convinto che la sua scienza potesse salvare altre vite. Aveva anche un panfilo, l’Elettra, dal quale conduceva i suoi esperimenti. Taciturno, timido; ma anche cordiale e gentile con tutti i suoi collaboratori. Era un uomo che credeva nell’Italia e nell’italianità, un nazionalista che si iscrisse convintamente al partito fascista, dal quale fu adulato e che finanziò i suoi lavori.
Alla fine della vita, Marconi si ritirò a Roma. Era un uomo celebre ma amante della tranquillità. Il re lo aveva nominato marchese. Aveva divorziato dalla moglie Beatrice e aveva sposato la marchesina Maria Cristina Bezzi-Scali, dalla quale aveva avuto la figlia Elettra.
Rimase sempre in ottimi rapporti con la Chiesa, e fu lui ad avere l’onore e il privilegio di mostrare la radio al papa. Il primo papa che parlava per mezzo della radio. Pio XI. Nelle immagini dell’Istituto Luce si vede il pontefice che osserva lo strumento e, ammettendo la genialità di Marconi, riconosce in lui uno strumento della Provvidenza.
Ma la vita di Marconi doveva finire relativamente presto, a 63 anni. Soffriva da tempo di cuore. Morì nella sua casa di via dei Condotti, il 20 luglio 1937. Inizialmente, ai primi segni della fine, non diede peso al suo malessere e diede solo all’ultimo disposizione affinché Maria Cristina, che era in quel momento a Viareggio. La crisi cardiaca che lo aveva colpito non lo risparmiò. Morì cristianamente, dopo aver ricevuto i sacramenti dal parroco di Santa Maria delle Fratte e recitato il Pater noster con le suore.
Curiosamente, gli sopravvisse il fedele giardiniere di un tempo, Antonio Marchi, il quale nell’estate del 1895 aveva già 50 anni. Marchi si spense nel 1948 all’età di ben 106 anni. Uomo buono affezionatissimo al suo sgnurèin, come lo chiamava – non chiamò mai Marconi per nome, per lui rimase sempre lo sgnurèin – chissà se avrà potuto riabbracciare il suo vecchio amico lassù in Cielo. Si saranno abbracciati come quel giorno, nella tarda estate del 1895, quando dalla collina dei Celestini corsero a perdifiato, colmi di gioia? Ora, auguriamo a tutti e due una gioia nuova e senza fine.

 

 

Per approfondimenti:
_G. Maioli, I giorni della radio, a cent’anni dall’invenzione di Guglielmo Marconi, Bologna 1994.

 

 

 

 

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