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di Giuseppe Baiocchi del 22/01/2025

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Il 28 giugno 1914 sarebbe stato uno dei giorni più importanti della recente storia europea. In questo giorno venne assassinato a Sarajevo l’Arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono d’Austria dal 1896. Lui e sua moglie – Sophie Chotek, che perse la vita anche lei nell’attacco –, si recarono in quella che allora era la terra della corona della Bosnia ed Erzegovina per un’esercitazione militare e rassegna truppe. L’attentato, pianificato ed eseguito dal gruppo cospirazionista serbo chiamato la “Mano Nera” (serbo Crna Ruka), avvenne poiché la Russia zarista non gradiva un’espansione austriaca nel mondo serbo, soprattutto dopo la proposta e il programma di Ferdinand di creare una “terza testa d’aquila” all’Impero dell'Austria-Ungheria, con la fondazione di un terzo parlamento per le popolazioni di etnia slava. La Russia non potendo tollerare un rafforzamento di potere asburgico in quell’area per loro vitale e strategica, armarono i nazionalisti serbi per quell’attentato meschino che, sebbene oggi non è visto come la causa diretta della Prima Guerra Mondiale, fu certamente il segnale di inizio per la guerra di luglio.

[caption id="attachment_16444" align="aligncenter" width="1000"] Il solitario Hagengebirge è dal X secolo la zona di caccia preferita dei principi della chiesa di Salisburgo. A questo scopo l’Arcivescovo Wolf Dietrich von Raitenau (1559 - 1617) fece costruire nella valle del Blühnbachtal un magnifico casino di caccia (1603 - 07) al posto del precedente manufatto di caccia in legno. Quando nel 1816 l’Arcidiocesi secolarizzata entrò finalmente a far parte dell’Impero Asburgico, furono riorganizzati anche i diritti sulle zone di caccia dell’ex arcivescovo. A sud la valle è delimitata dal possente massiccio dell’Hochkönig, a nord si innalzano verso il cielo le ultime propaggini del Göllstock. La proprietà barocca e il relativo distretto (14.000 ettari) entrarono in possesso degli Asburgo nel 1908, fino al colpo di stato del novembre 1918.[/caption]

Crisi già presenti e tensioni tra le maggiori potenze europee, che formavano tra loro coalizioni attraverso varie alleanze, erano arrivate al limite. La Prima Guerra Mondiale non poteva più essere evitata. Almeno questa è la valutazione comune degli eventi accaduti nel centro di Sarajevo in quel giorno d’estate del 1914. Tuttavia, se si crede al vecchio folklore e alle tradizioni mitiche, almeno il destino di Francesco Ferdinando fu segnato nell’agosto del 1913 – e un camoscio bianco giocò un ruolo cruciale in esso. Nel recente passato il paesaggio ai piedi delle Alpi Giulie, dove si fa strada il blu turchese dell’Isonzo, si è trasformato in una piccola punta turistica privilegiata. Il nord della Slovenia, geograficamente separato dalla Carinzia dalle Caravanche, è oggi un paradiso per gli escursionisti. In particolare il Triglav, a 2.800 metri di altitudine, e il parco nazionale circostante attirano appassionati alpinisti da vicino e da lontano. La ricchezza di leggende di questa regione è strettamente legata anche alla natura montuosa, che può significare sia fortuna che sfortuna per i suoi abitanti. Il motivo di tale dipendenza reciproca è interessante per via nella leggenda slovena dello Zlatorog1 (in tedesco Goldenes Horn), il camoscio bianco dalle corna dorate, che da secoli viene raccontata in innumerevoli varianti in Slovenia e nei vicini paesi slavi. Al centro della leggenda c’è un giovane cacciatore delle Alpi Giulie che, un giorno, mentre camminava in montagna, giunse in un prato verde e rigoglioso tra ghiaioni e rocce inospitali. Lì vide un branco di camosci al pascolo, guidato da un magnifico ariete di camoscio con le corna dorate: uno Zlatorog. Si diceva che questo fosse il custode di un tesoro che si trovava sul monte Bogatin. Se il camoscio strofina le sue corna sulla parete rocciosa della montagna, un cancello si aprirà e si avrà accesso a ricchezze incalcolabili. Il giovane cacciatore sapeva che uccidere il camoscio bianco candido e puro come la neve avrebbe comportato la sua stessa morte, ma la sua avidità ebbe la meglio e così sfidò la sorte. Il cacciatore rimase coraggiosamente in agguato e quando l’animale si avvicinò abbastanza, la sua mira precisa non lasciò scampo allo Zlatorog che cadde a terra con un tonfo secco. Dove il sangue del camoscio bagnava la terra, subito cominciarono a sbocciare fiori rossi: le rose del Triglav. Quando l’uomo attendeva già la ricompensa divina, lo Zlatorog – apparentemente morto – mangiò i fiori appena sbocciati e riacquistate le forze, uccise il cacciatore per poi sotterrare magicamente i rigogliosi pascoli in mezzo al vasto paesaggio carsico, così a fondo che fino ad oggi non vi cresce nemmeno un filo d’erba. Lo scrittore tedesco Rudolf Baumbach (1840 - 1905), che rimase così colpito dalla forza di questa leggenda da farne un adattamento nel 1876, concluse il suo poema epico “Zlatorog – Una leggenda alpina”, con i seguenti versi: “Dove c’erano prati grassi, seminati da capanne che producevano latte che si estendevano per ore di cammino, giaceva ora un mare di macerie di roccia”.

Oggi in tutta la Slovenia si trovano ancora riferimenti alla leggenda dello Zlatorog, ad esempio sotto forma di sculture di camoscio e, non ultimo, come mascotte del produttore di birra Laško, le cui etichette sono adornate da un camoscio bianco con corna dorate. Ma le leggende di animali mitici e di creature che dovrebbero proteggere oggetti di valore e tesori della natura sono conosciute anche altrove. Ma cosa può riguardare un giovane arciduca, erede al Trono del più importante Impero sul continente, con questa antica storia di vecchi detti e leggende popolari? Franz Ferdinand in realtà fu un cacciatore entusiasta e un eccellente tiratore per tutta la vita. Molte storie e leggende ruotano attorno a questo lato della sua personalità. Si dice, ad esempio, che abbia battuto il famoso Buffalo Bill in una gara di tiro quando si esibì nel suo spettacolo del selvaggio West a Vienna nel 1906. Si dice che una storia simile, ancora più spettacolare, sia accaduta durante una lunga battuta di caccia in India. Franz Ferdinand e il suo avversario indiano lanciarono ciascuno tre monete in aria e cercarono di colpirle. Mentre l’indiano prese solo una moneta, il proiettile dell’erede al trono ne trapassò tre contemporaneamente. Dalle annotazioni dell’aiutante di caccia Hoschtalek, si può facilmente ricostruire gli abbattimenti venatori di Francesco Ferdinando nel corso della sua vita: 274.889 esemplari uccisi. Gran parte dei trofei può essere ammirata oggi nel castello di Konopiště, a quasi 40 chilometri a sud di Praga o a Schloss Eckartsau vicino Vienna.
[caption id="attachment_16442" align="aligncenter" width="1000"] Franz Ferdinand posa dopo la "Caccia grossa feudale" a Ceylon (Sri Lanka) nel 1893.[/caption]
Come il “bel mondo” ci insegna, la caccia era parte integrante dell’universo aristocratico e veniva sempre celebrata. Cacciare, allora non era ancora percepito dalla società come un problema. Così ci ricorda l’atmosfera il grande scrittore Sándor Márai: «La nostra storia è disseminata fino ai nostri giorni di una lunga serie di stermini […]. Solo la caccia fa eccezione […] rappresenta ancora un sacrificio, un riflesso imperfetto di un antichissimo rito religioso che ha la stessa età dell’uomo. Perché non è vero che il cacciatore uccide per procurarsi la preda. Non ha mai ucciso unicamente per questo, neanche in epoca primordiale […]. La caccia è stata sempre accompagnata da riti di ordine tribale e religioso. Il buon cacciatore è sempre stato il primo della sua tribù, che gli si attribuiva poteri e dignità di sacerdote. Naturalmente tutto ciò si è perso con il passare del tempo. Ma sebbene i riferimenti siano sbiaditi, la caccia ha conservato la sua natura di rito. Forse non ho mai amato nulla in vita mia come quelle partenze per la caccia alle prime luci dell’alba. Ci si sveglia che ancora è buio […] amavo l’odore degli abiti da caccia; il panno era impregnato degli affluvi del bosco, delle fronde, dell’aria pura e degli schizzi di sangue, perché gli uccelli abbattuti si attaccano alla cintura e il loro sangue insudicia gli abiti. Ma il sangue è sudiciume? Non credo. È la materia più nobile che esista al mondo: ogni volta che l’uomo ha sentito il bisogno di comunicare al suo Dio qualcosa di grandioso, di ineffabile, lo ha sempre fatto offrendogli un sacrificio di sangue. E poi amavo l’odore di metallo oliato del fucile. E l’odore acre e ammuffito delle parti in cuoio grezzo dell’equipaggiamento da caccia. […] Il paesaggio comincia a destarsi, il bosco si stiracchia, sembra che si strofini gli occhi uscendo dal sonno. Tutto esala un profumo così puro che sembra di tornare in una patria diversa, quella in cui ebbero inizio la vita e le cose. […] Il fruscio del fogliame umido si percepisce appena sotto le suole dei tuoi scarponi. La pista è disseminata di tracce di animali. E adesso tutto comincia a vivere intorno a te: la luce, come se mettesse in moto un meccanismo nascosto che aziona il sipario del mondo, squarcia il velo che ricopre la foresta. Inizia il concerto degli uccelli, e in lontananza, a trecento passi di distanza, un cervo sta avanzando sul sentiero. […] La bestia si ferma, non vede niente, non fiuta la tua presenza perché il vento soffia in un’altra direzione, e tuttavia avverte il pericolo fatale […] come un individuo messo di fronte al suo destino si arresta impotente perché sa che il fato non è un evento fortuito né un incidente, ma la conseguenza naturale di circostanze imprevedibili e difficilmente comprensibili. […] Anche tu, immobile nel folto del bosco, sei a tua volta in balìa dell'attimo, tu il cacciatore. E nella mano avverti un fremito antico come l’uomo, l’impulso di uccidere, questa attrazione proibita, questa passione più forte di tutto il resto, uno degli stimoli segreti, né buoni né cattivi, che animano la vita in tutte le sue forme: essere più forti dell’altro, dimostrarsi più abile, non commettere errori, restare padroni della situazione. È la stessa sensazione che prova il leopardo mentre si prepara a balzare, il serpente mentre si rizza sulle rocce, l’avvoltoio mentre piomba sulla preda da mille metri di altezza. La stessa che prova l’uomo mentre scruta la sua vittima»1.
[caption id="attachment_16446" align="aligncenter" width="1000"] Fotografia di gruppo con abbattimenti, dopo battuta di caccia, degli urogalli. Foto del castello di Artstetten, luogo dove riposa Franz Ferdinand.[/caption]
La grande caccia al Blühnbach, che si estendeva su circa 14.000 ettari, comprendendo le zone fino al versante meridionale dell’Hochkönig e a nord fino all’Hoher Göll, fu inizialmente assegnata per le battute di caccia a 14 aristocratici tra austriaci, boemi e bavaresi. Tra gli illustri ospiti di caccia figuravano anche l’Imperatore Francesco Giuseppe, il principe ereditario Rodolfo e lo stesso Arciduca Francesco Ferdinando. Quest’ultimo rimase molto colpito dall’eccellente caccia al camoscio e prese il controllo della zona nonostante la resistenza del precedente gruppo di cacciatori. Affinché Francesco Ferdinando, affetto da una malattia polmonare, potesse salire più comodamente nel suo nuovo territorio di camosci, fu rapidamente costruita un’avventurosa e tortuosa strada militare lunga sette chilometri fino al Torrener Joch. Furono costruiti anche rifugi di caccia sul Joch e un grande casino di caccia all’ingresso della Bluntautal, mentre gli ultimi contadini alpini furono espropriati e l’accesso agli escursionisti di montagna fu sempre più negato. I conflitti erano inevitabili, ma d’altro canto la famiglia imperiale dava anche molto lavoro a molte persone. Schloss Blühnbach, costruito in stile rinascimentale, fu ampiamente ristrutturato da maestranze locali e gli antiquari furono autorizzati ad arredare il castello con un design venatorio e fino a 100 aiutanti furono impiegati per le numerose cacce. Francesco Ferdinando trascorse molto tempo nel casino di caccia di Blühnbach e il 27 agosto del 1913 l’arciduca andò a caccia con la moglie Sophie Chotek von Chotkowa e il suo cacciatore personale Mittendorfer. Franz Ferdinand era solito occuparsi, tra l’altro, della corrispondenza durante la caccia e solo quando i suoi servitori lo avvisavano dell’avvicinarsi della selvaggina, prendeva il fucile e alzava lo sguardo. Così è stato anche quando un camoscio bianco è apparso davanti all’alta tribuna della squadra di caccia imperiale. Probabilmente Francesco Ferdinando non esitò a lungo e uccise il fatidico animale . Essendo un cacciatore appassionato, probabilmente lui stesso conosceva le conseguenze che, secondo la leggenda, sarebbero avvenute al tiratore. Quando informò la moglie dell’abbattimento, si dice che l’arciduca abbia laconicamente osservato: “Beh, se devi morire, morirai comunque”. Nello stesso giorno furono abbattuti due camozze e altri 21 camosci. Molti oggi si chiedono perché il grilletto di Francesco Ferdinando fu premuto, essendo a conoscenza della leggenda dietro l’animale. Egli difatti era un convinto cattolico e le leggende mistiche lo disgustavano relegando tutto a folklore superstizioso e forse cercò di sfatare da solo il mito.
[caption id="attachment_16447" align="aligncenter" width="1000"] Foto del camoscio bianco (a destra).[/caption]

Oggi nessuno può affermare seriamente che Francesco Ferdinando abbia segnato il proprio destino o addirittura quello dell’intero continente europeo uccidendo il camoscio bianco. Ma ciò che resta è il rapporto tra uomo e natura, che rimane affascinante ancora oggi. Questa domanda fondamentale preoccupa gli uomini da migliaia di anni – si pensi alle prime rappresentazioni artistiche della fauna e della natura nella grotta di Lascaux – e ha dato origine a una profonda riflessione sulla propria esistenza e sul proprio destino. Solo negli ultimi 200 anni questo rapporto è stato razionalmente chiarito pezzo per pezzo dalle moderne scienze naturali – e quindi alla fine (forse?) disincantato. Sicuramente è una sottile ironia della storia che il camoscio bianco ucciso da Francesco Ferdinando nell’estate del 1913 possa ora essere ammirato nella “Haus der Natur” nell’ambito della mostra permanente “L'uomo e la natura nella favola e nel mito” presso Salisburgo. Lo Zlatorog e l’oro del monte Bogatin fanno parte di quella tradizione alpina, che continua ancora oggi – per buona pace della scienza – ad esistere e ad essere tramandata: a venatione felicitas2.

 

Per approfondimenti:

_1Márai S., Le braci, Adelphi, pp. 106-08. _2Tradotto: Alla felicità della caccia.  
 
 
 
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata
 

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di Giuseppe Baiocchi del 24/12/2024

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La fama nell’età adulta non dissipa l’oscurità dell’infanzia. Se gli archivi offrono molte pagine di studio sulla famiglia degli Asburgo, o sui suoi fratelli, che sono meno dotati di lui, si oppongono a un silenzio ostinato non appena la ricerca si evolve sotto il blasone che così recita: «D’argento al leone di blu». Il mio viaggio per le lande austriache doveva condurmi verso la ridente cittadina di Luising nel Burgenland meridionale. Ci sono molti tranquilli villaggi di confine, ma nessuno è così popolare come questo. La comunità di 135 anime lo deve principalmente a una persona: l’umoristico Alfons Eduard Alexander Antonius Maria Andreas Hubertus Christoph Grafen von Mensdorff-Pouilly (1953). I suoi titoli professionali sono quasi altrettanto lunghi: consulente, organizzatore di caccie venatorie, agricoltore e allevatore di tacchini. Come ama affermare, proviene da una famiglia nobile povera, anche se sua madre, la nobildonna Ilona Gräfin Erdődy (1917 - 2003) possedeva vasti possedimenti in Ungheria.

[caption id="attachment_16426" align="aligncenter" width="1000"] Intrappolato in casa sua: Alfons Mensdorff-Pouilly scontò quattro degli otto mesi iniziali della sua condanna nel suo castello di Luising. Grazie al braccialetto alla caviglia non poteva accedere ad alcune parti del suo castello.[/caption]

Nel suo castello di nuova costruzione, che lui stesso chiama affettuosamente “Glumpert” e che valuta un milione di euro, il conte accoglie i suoi ospiti in lederhosen e tracht. L’interno è dominato dallo stile della casa di campagna inglese: carta da parati verde e tende lussureggianti nel salone, rendono squisitamente elegante l’interno, dove tra una marmotta impagliata, e trofei di cervo o di gnu, vi sono anche molte armi da cinghiale incorniciate in argento. Nel tranquillo villaggio, Mensdorff-Pouilly colleziona trofei e avvia affari milionari come consulente. Ma quali sono le orme familiari di questo liberal-conservatore austriaco? Corre voce – ma non si hanno prove concrete – che sia iscritto alla Massoneria? Quante maldicenze si dicono per invidia! Ebbene la storia doveva portare il piccolo Alfons in Austria, facendolo crescere in circostanze piuttosto modeste. Suo padre Alexander Mensdorff-Pouilly (1924 - 2009) già impoverito, si era sposato nel 1952 con la nobildonna ungherese Ilona Gräfin Erdődy (1917 - 2003), proveniente da un’antica famiglia di magnati. È cresciuto con i suoi fratelli Antonius ed Elisabeth nella vecchia dogana di Luising nel Burgenland. La famiglia viveva in gran parte dell’eredità, che comprendeva a circa 200 ettari di boschi e terreni agricoli a Luising e dintorni, che la madre riuscì a salvare, dopo aver perso le proprietà di famiglia nell’antica Cecoslovacchia e Ungheria nel 1948, a causa dell’arrivo del comunismo, che nazionalizzò le proprietà. Così gli Erdödy, che per secoli avevano avuto la loro casa ancestrale a Eberau, a circa 10 km a nord di Luising, riuscirono a mantenere alcune significative proprietà in Austria. Discendente da un’antica e venerabile famiglia baronale della Lorena “Graf Ali” così come è stato rinominato in Austria, mostra non senza un certo orgoglio, le armi araldiche della famiglia: un leone blu su sfondo argento, con un pellicano sacrificale raffigurato nella parte superiore dello stemma. In araldica il pellicano è simbolo di pietà, amore e carità per il prossimo e può rappresentare il buon padre di famiglia che alimenta i figli con la sua virtù o la carità di un buon governante verso i propri sudditi. Nel 1395 il dominio di Pouilly vicino a Stenay fu elevato a baronia. Nel 1818 alla famiglia venne conferito il titolo di conte austriaco. Da quel momento in poi, il Generale Imperiale e Regio Emmanuel von Mensdorff-Pouilly (1777 - 1852) poté fregiarsi del titolo ereditario di conte applicando il tanto controverso, oggi vietato in Austria, appellativo di “von”. È il capostipite di numerosi discendenti della nobile famiglia Mensdorff-Pouilly, tra cui il 72enne Alfons Mensdorff-Pouilly. Il ramo austriaco della famiglia ebbe alcuni personaggi noti. Il suo pro-pro-prozio Alexander conte von Mensdorff-Pouilly (figlio del conte Emmanuel) fu ministro degli Esteri austriaco e primo principe di Dietrichstein zu Nikolsburg dal 1864 al 1866. Il figlio minore di Alexander, Albert conte von Mensdorff-Pouilly-Dietrichstein, a sua volta svolse un ruolo importante come diplomatico d’Austria-Ungheria prima e durante la prima guerra mondiale. Il fratello della sua bis-bisnonna fu Eduard von Paar, l’ultimo Aiutante Generale di Campo dell’Imperatore Francesco Giuseppe I. Nomi molto più noti si trovano nell’albero genealogico Mensdorff-Pouilly se si va ancora più indietro nel tempo. Ci sono collegamenti con le famiglie reali britannica e belga e anche con gli Asburgo.

[caption id="attachment_16427" align="aligncenter" width="1000"] Albero genealogico della famiglia Mensdorff-Pouilly e stemma araldico.[/caption]
Il duca Franz Friedrich Anton di Sassonia-Coburgo-Saalfeld (1750 - 1806) fu nonno della regina Vittoria di Gran Bretagna e Irlanda e trisnonno della defunta regina britannica Elisabetta II. Sua figlia Sophie Friederike Karoline Luise di Sassonia-Coburgo-Saalfeld si sposò con il conte di Emmanuel Mensdorff-Pouilly, il capostipite. Quest'ultimo era a sua volta il padre di Alexander conte von Mensdorff-Pouilly, il trisavolo del “Conte Alì”. A causa di questo legame familiare, diversi media hanno riferito nel 2011 che Mensdorff-Pouilly sarebbe dovuto essere il 124esimo in linea di successione al trono britannico.. tuttavia, i cattolici ne sono esclusi dal 1701 per l’Act of Settlement. Esiste anche un legame con la famiglia reale belga e con gli Asburgo: lo stesso Franz Friedrich Anton di Sassonia-Coburgo-Saalfeld fu anche padre di Leopoldo I del Belgio, primo Re dei belgi. Suo figlio, Leopoldo II del Belgio, fu a sua volta sposato con Maria Enrichetta Anna d’Austria della Casa d’Asburgo-Lorena. Il quadro sembra così perfetto per riprendere la celebre frase di apertura di Anna Karenina, noto romanzo dello scrittore russo Lev Tolstoj: «Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece infelice a modo suo». Intorno al 1990 Alfons Mensdorff-Pouilly fece costruire sul confine settentrionale di Luising un castello neostorico, che divenne noto al pubblico soprattutto grazie alle cacce sociali che vi si svolgevano. Secondo i media, nella tenuta di Mensdorff erano ospiti frequenti imprenditori, manager e politici, tra cui l’allora Ministro degli Interni Ernst Strasser e l’allora vicecancelliere Hubert Gorbach. Nella percezione pubblica, il castello è visto come il luogo in cui Alfons Mensdorff-Pouilly allaccia nuovi contatti politici ed economici e mantiene quelli esistenti, nonché dove avvia e, se necessario, conclude affari milionari. Il castello è costituito da un edificio quadrato ad un solo piano su pianta rettangolare con tetto a mansarda. La facciata a flangia ha una proiezione centrale con timpano triangolare a nord-ovest e sud-est. Nella salita nord-ovest è presente un portale ad arco a tutto sesto che dà accesso al cortile interno. La salita sud-est fa parte del fronte del giardino e presenta un’ampia scalinata esterna , sopra la quale si trova una terrazza sorretta da colonne in mattoni nel sottotetto. Del complesso fanno parte anche gli edifici della guardia doganale su lato nord.
[caption id="attachment_16428" align="aligncenter" width="1000"] Vista aerea del Castello Luising, presso l'omonima cittadina.[/caption]
Da alcune cornici si può osservare come il “Graf Alì” sia stato sposato con una nota politicante del partito popolare austriaco (Österreichische Volkspartei, ÖVP) di stampo liberal-conservatore: Maria Rauch-Kallat (1949), oggi – dopo aver ricoperto il ruolo di Ministro della Salute e delle Donne dal 2003 al 2007 nel governo austriaco – è una consulente aziendale. Contrariamente alla legge sui nomi matrimoniali dell’epoca, Rauch-Kallat mantenne il suo doppio cognome dal suo primo matrimonio. Questa “Lex Rauch-Kallat” portò all’eccitazione dei media e dell’opposizione, che portò successivamente ad una riforma delle leggi sui nomi coniugali. Oggi il conte vive separato dalla moglie da molti anni, mantenendo comunque un ottimo rapporto. Mensdorff-Pouilly ha anche un figlio, Ferdinand Mensdorff-Pouilly, da una precedente relazione. Ferdinand dal 2021 è sposato con la contessa Franziska von Walderdorff. La coppia si è conosciuta ad un corso di danza nel 2009 e si sono fidanzati dal 1° gennaio 2013. Ferdinand, che è agricoltore e guardaboschi e lavora nell'azienda di famiglia, ha proposto alla sua dolce metà tedesca di sposarsi durante una battuta di caccia a Luising nel maggio 2020. Piccole storie di paese narrano con malizia, che il conte viva solo in una stanza del castello. Il resto è a servizio della sua fiorente attività venatoria. Difatti Mensdorff-Pouilly che ama farsi chiamare “un agricoltore, senza talenti particolari” è un grande proprietario terriero e lavora come guardia forestale. In questa veste è presidente dell’Associazione delle tenute agricole e forestali del Burgenland. Per la caccia commerciale alleva fagiani e anatre nella sua proprietà a Luising nel Burgenland. Molti anni fa provò l’allevamento di struzzi e l’idea di vendere carne di cervo in scatola negli Stati Uniti come parte della sua “Burgenland Game Specialties Production Company”, ma ahinoi tutti i tentativi di produrre con successo carne macinata di cervo o zuppa in scatola caddero in un fallimento.
Il 7 novembre del 2015, circa 25 attivisti per i diritti degli animali si sono riuniti davanti alla proprietà di caccia a Bildein per documentare quelle che credevano fosse una pratica di caccia illegale. In verità gli ambientalisti sono stati sempre il suo primo nemico atavico. Tuttavia, una zona di interdizione di 200 metri intorno alla zona di caccia, fu controllata dagli agenti di polizia, i quali hanno impedito agli attivisti di avanzare. Il presidente dell’associazione contro gli allevamenti di animali, Martin Balluch, è però riuscito a raggiungere la recinzione della porta di caccia sul lato ungherese. «Dato che ero in Ungheria, qui non esisteva alcuna zona di esclusione», ha affermato con una nota di malizia Balluch, che ha presentato una denuncia contro Mensdorff-Pouilly per crudeltà sugli animali. I giornali distrettuali hanno avuto l’opportunità di visitare la proprietà di caccia di Mensdorff-Pouilly. La prima impressione: una vasta zona boscosa, nella quale gli animali si vedono con molta difficoltà. Solo dopo pochi minuti di guida si videro in lontananza alcuni cinghiali. «L’area in cui cacciamo qui è di 200 ettari. Spesso abbiamo cacciatori in postazione per tutto il fine settimana e non sparano a niente», afferma Mensdorff-Pouilly, rispondendo alle accuse secondo cui gli animali vengono portati «proprio davanti alle armi dei cacciatori. Preferirei essere un cervo che sta nel prato e mangia e poi eventualmente muore indolore con un colpo di carabina, piuttosto che un toro che attraversa mezza Europa e poi si prende una pallottola in testa. Morire non è mai divertente, ma centinaia di migliaia di animali morirebbero ugualmente se noi non cacciassimo. Il signor Balluch ha detto che il povero cervo sembrava terrorizzato, ma non abbiamo un cervo in tutta la zona».
In un’altra occasione gli attivisti per la protezione degli animali ebbero la meglio, liberando 16 pernici dalla proprietà del conte a Luising. L'Associazione contro le fabbriche di animali (VGT) vuole protestare contro l’allevamento di pernici, fagiani e germani reali, come viene praticato da Mensdorff-Pouilly. «Migliaia di questi uccelli vengono trattenuti, solo per essere rilasciati in scatole e immediatamente abbattuti. Le autorità evidentemente non vogliono o non possono confiscare gli uccelli – affermò il presidente della VGT Martin Balluch, giustificando l’azione –, le azioni di Mensdorff-Pouilly erano illegali e la liberazione degli animali era il mezzo più blando per ripristinare la situazione legale». Inutile dire che “Graf Alì” vinse anche questa sfida. Il conte possiede anche numerose aziende e investimenti in Austria e in altri paesi europei che non si occupano di agricoltura e silvicoltura. È azionista unico (settembre 2008) ed ex amministratore delegato della “MPA Handelsgesellschaft mbH” di Vienna, fondata come società commerciale per tutti i tipi di merci, ma il cui scopo dichiarato è quello della consulenza aziendale. Fu da questo semplice ed onesto lavoro che Mensdorff-Pouilly fu definito dai media come il “conte Alì”, il lobbista delle armi. A Luising c’era sempre qualcosa da fare: feste in smoking, dopo una stancante giornata di caccia al Drive per fagiani, colazioni, pranzi e avvenne per molti anni una sorta di pellegrinaggio al castello di politici di primo piano e top manager. Sarà forse per aver contato troppe banconote, che iniziarono le prime piccole disgrazie del conte, poiché attirò gli invidiosi media progressisti, che iniziarono a creare intorno al nobiluomo una sorta di romanzo criminale fatto di tangenti e corruzione. Quando Mensdorff-Pouilly se ne accorse affermò sprezzante: «Non sono l’Einstein della corruzione. Credete davvero che quando un uomo si siede su di una poltrona, possa affermare al suo vicino di fare qualcosa di sbagliato? Se voglio fare qualcosa di storto, è più probabile che mi rechi da solo sulle rive del Danubio e non vada più a caccia».
Si venne poi a sapere che una sua foto albergava nel clubbing anti-corruzione dei Verdi al Volksgarten di Vienna. Inizialmente l’allegro Alì, insieme agli amici Grasser e Meischberger ridevano della notizia: creò, per hobby pomeridiano, numerose caricature e fotomontaggi di se stesso dietro le sbarre: correva l’anno 2007 e così passava la gloria. Non tutti potevano entrare facilmente nella sofisticata tenuta del conte Mensdorff-Pouilly: sia in Austria, che nel suo possedimento scozzese. Ha acquistato il “Dalnaglar Castle” a Glenshee, a due ore di macchina da Edimburgo nelle Highlands, attraverso la sua società ungherese MPA, acquistata il 24 settembre 2008. Chi vuole affittare il castello nelle Highlands del conte, per un fine settimana paga 15.000 sterline (19.000 euro). Naturalmente, i membri dei gabinetti dei ministri dell’Interno e dell’Agricoltura non dovevano pagare così tanto, poiché erano invitati dal conte Alfons e certamente non se lo fecero ripetere due volte. «Faceva piuttosto freddo perché il riscaldamento non funzionava bene – ecco cosa ricorda l’ex compagno di caccia di Mensdorff-Pouilly –, per il resto le battute di caccia al castello di Dalnaglar in Scozia erano piuttosto piacevoli». La vicenda è sicuramente politicamente altamente esplosiva perché il Nostro, non è solo un cacciatore, ma anche un proprietario terriero e uno dei lobbisti delle armi più noti d’Austria. Ma secondo gli avvocati, questa “accettazione illegale di doni” di tipo venatorio non dovrebbe violare il diritto penale. In ogni caso, si tratta di una grave violazione della legge sul pubblico impiego. Nascono per il povero “Graf Alì” i primi sospetti di corruzione: i buoni contatti al Ministero dell’Agricoltura, ma soprattutto al Ministero dell’Interno, secondo l’accusa valgono come oro. In definitiva, per la legge sui materiali bellici è responsabile il Ministero degli Interni: è lui che autorizza l’importazione, l’esportazione e il transito di materiale bellico.
[caption id="attachment_16430" align="aligncenter" width="1000"] Alfons Mensdorff-Pouilly al lavoro nella sua azienda a Vienna. La società commerciale MPA.[/caption]

Il Serious Fraud Office (SFO) di Londra accusò Mensdorff-Pouilly di essere coinvolto come lobbista per la società di difesa britannica BAE Systems “in processi di corruzione attiva e passiva nei processi di approvvigionamento nazionali e internazionali di attrezzature militari”. Così conquistò i titoli dei giornali britannici, svedesi, cechi e ungheresi nel 2007, quando lui e la sua rete di società sono stati coinvolti nella distribuzione di commissioni in vista della conclusione di contratti per l’acquisto o il leasing di aerei da caccia Saab-Gripen da parte di Repubblica Ceca e Ungheria, tra il 1999 e il 2006. In relazione al suo lavoro di consulenza per BAE Systems è stato accusato di corruzione e riciclaggio di denaro in diversi paesi. L’intermediazione di queste transazioni, che includevano anche il pagamento di commissioni a politici cechi e ungheresi, è stata infine gestita dalla società Valurex, con sede a Ginevra, del brigadiere e multimilionario britannico Timothy Landon, con sede a Ginevra , registrata a Panama. Solo un caso vuole che, fino alla sua morte nel 2007, Landon è stato sposato con Katharina Esterházy, cugina di Mensdorff-Pouilly, la quale era rappresentante autorizzata per le sue proprietà in Austria. A loro nome nel 2006 ha venduto il castello di Pottendorf all’omonimo comune. Anche Mensdorff-Pouilly aveva un contratto di consulenza con Valurex, ma secondo le sue stesse dichiarazioni solo dopo la conclusione dei contratti con la Repubblica Ceca e l’Ungheria. Nell’ottobre 2008 è stato fermato dalla polizia britannica mentre si recava dalla sua tenuta scozzese Dalnaglar Castle a Glenshee (Perthshire) all’aerodromo. Gli è stato chiesto di seguire la polizia a Carlisle, in Inghilterra, per essere interrogato perché l’OFS non ha giurisdizione in Scozia. Alla fine gli aerei da caccia Saab Gripen non furono acquistati dallo Stato ceco, ma furono noleggiati per dieci anni nel 2005. Il 29 gennaio 2010, Mensdorff-Pouilly è stato interrogato e arrestato dall’SFO a Londra. L’arresto è stato una sorpresa per l’avvocato di Mensdorff-Pouilly. L’SFO ha tuttavia reso noto che l’operazione è stata coordinata a livello internazionale dall’Unità europea di cooperazione giudiziaria. Il 4 febbraio 2010, la Corte distrettuale di Westminster ha deciso di rilasciare Mensdorff-Pouilly dietro cauzione dell’equivalente di oltre 570.000 euro. Tuttavia, ha dovuto consegnare i suoi passaporti e restare a disposizione per ulteriori interrogatori in qualsiasi momento. Tuttavia, il 5 febbraio 2010, il procedimento contro Mensdorff-Pouilly in Inghilterra è stato definitivamente archiviato. Il motivo di ciò sono stati gli accordi tra l’SFO, il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti e la BAE Systems sul pagamento di sanzioni per circa 280 milioni di sterline, volute dal governo britannico, ma che poi si sono rivelate illegali. Dopo il pagamento delle multe, tutte le ulteriori indagini da parte delle autorità statunitensi e dell’SFO contro persone che avrebbero potuto essere coinvolte in questi casi sono state interrotte. Il direttore dell’SFO Richard Alderman ha dichiarato che “non è più nell’interesse pubblico portare avanti le indagini sui singoli individui”. L’inchiesta Mensdorff-Pouilly in Austria non è influenzata da questa interruzione dell’indagine in Inghilterra. Il 25 maggio 2011 è stato annunciato che a Mensdorff-Pouilly era stato riconosciuto un risarcimento carcerario di 430.000 euro per il periodo in cui era stato detenuto a Londra. Così, con qualche piccola arrabbiatura per le gravi accuse il conte “Alì”, ne uscì indenne e con qualche centinaio di mila euro in tasca. Appena uscito dalla carcerazione, affermò sarcastico: «La prigione non è mai divertente. Dovevo usare rasoi usa e getta e la biancheria intima, era di pessima qualità. Se potessi scegliere, sceglierei la prigionia austriaca e non c’è dubbio che la magistratura sarebbe felice di soddisfare anche questo mio desiderio». Risolta questa delicata questione ecco che un certo Michael Piatti-Fünfkirchen , proprietario terriero ceco-austriaco e cugino di terzo grado del conte, ha sporto denuncia per frode proprio contro il suo “cugino-serpente” nel dicembre 2008, sostenendo che quest’ultimo gli aveva offerto un milione di dollari nel 1998 se avesse “contattato le persone coinvolte nella decisione che fu presa dai rappresentanti del governo della Repubblica Ceca coinvolti nella procedura di appalto”. Secondo Piatti-Fünfkirchen ci sono stati incontri con rappresentanti del governo ceco, dirigenti della BAE e un rappresentante della Mensdorff-Pouilly. Tuttavia, lui stesso non ha ricevuto alcun pagamento da Mensdorff-Pouilly. L’avvocato di Mensdorff-Pouilly, Harald Schuster, ha respinto le accuse e ha affermato che il pagamento non era possibile perché lo stesso Mensdorff-Pouilly non aveva ricevuto alcuna commissione per l’attività nella Repubblica ceca. Quando tutto sembrava essere tornato alla normalità, tra un viaggio in Scozia e una caccia nel suo fondo chiuso con solo qualche piccola festa insieme ai suoi amici più stretti, ecco il grande caso dell’Eurofighter che preoccupa l’Austria da 20 anni ormai. Dopo che all’inizio del 2007 era venuto alla luce come Christer van der Kwast, procuratore capo dell’agenzia anticorruzione svedese, aveva avviato un’indagine contro Valurex a causa degli eventi legati all’aggiudicazione dell’appalto per gli aerei da caccia Saab Gripen da parte della Repubblica ceca, Alfons Mensdorff-Pouilly fu nominato nell’indagine. Il 21 maggio 2007 in Austria è stato convocato presso la commissione parlamentare d’inchiesta sulle procedure di appalto degli aerei da caccia Eurofighter. Tuttavia, il Serious Fraud Office ha sequestrato un rapporto dell’MPA – la società del conte “Alì” –, indirizzato alla BAE in data 27 marzo 2003, in cui si affermava che l’MPA aveva “esercitato pressioni” per annullare la prima gara per l’acquisto di aerei militari da parte della Repubblica d’Austria. Dopo la gara d’appalto la scelta sarebbe ricaduta sull’F-16 della Lockheed Martin. Il contratto è stato nuovamente bandito, dando all’Eurofighter la possibilità di presentare una nuova offerta in cui l’Austria ha annunciato un ordine da 1,79 miliardi di euro per l’Eurofighter Typhoon. Secondo un resoconto dei fatti inviato da Pilz alla procura austriaca il 1° ottobre 2008, il pubblico ministero responsabile ha avviato dal gennaio 2009 un’indagine contro Alfons Mensdorff-Pouilly perché sospettato di falsa testimonianza davanti alla commissione investigativa parlamentare dell’Eurofighter. Il 27 febbraio 2009 Mensdorff-Pouilly è stato arrestato nel suo castello di Luising. La custodia cautelare è durata cinque settimane. Quando il matrimonio stava andando ancora meglio, la moglie Rauch-Kallat fece visita anche ad “Alì” in custodia cautelare. In coda aveva sempre il cappello sceso sul viso. Tuttavia accadde un evento poco piacevole per la signora, la quale fu riconosciuta da un ubriacone che le gridò: “Signora Ministro”. Quasi un anno dopo la sua custodia cautelare presso il Tribunale penale regionale di Vienna, in Austria non era ancora stata presentata alcuna accusa contro Alfons Mensdorff-Pouilly, ma la procura ha continuato a lavorare sul caso.

La vita del conte Alfons continua, così come proseguono i suoi leciti affari. Se lo si incontra, sempre affabile e gentile, ci appare come uno di quegli antichi Signori che hanno servito con amore l’antica monarchia Imperiale e Regia: certamente non un porta-valigette dagli occhi di ghiaccio, manipolatore e truffaldino. I fatti danno ragione alla mia prima impressione. Nel settembre 2011, anche la Securities and Exchange Commission degli Stati Uniti ha iniziato a indagare su Mensdorff-Pouilly, relativamente ai suoi rapporti con Motorola. Dall’aprile 2004 l’azienda elettronica avrebbe versato al lobbista un totale di 2,2 milioni di euro. Questo avrebbe effettuato “pagamenti illegali” sotto forma di vacanze e regali a decisori politici in Europa e nel Medio Oriente, tra l’altro per influenzare l’assegnazione del progetto radiofonico del governo austriaco TETRON a favore di Motorola. Telekom Austria avrebbe trasferito altri 1,1 milioni di euro alla Mensdorff-Pouilly e avrebbe inoltre ordinato battute di caccia per un valore di oltre 170.000 euro. Leggende narrano che Mensdorff-Pouilly abbia usato il denaro per invitare l’allora ministro dell’Interno Ernst Strasser (ÖVP) e il suo gabinetto (tra cui Christoph Ulmer, Mathias Vogl, Michael Kloibmüller, Oskar Gallop e Philipp Ita) a una battuta di caccia. Il deputato verde e presidente della commissione d’inchiesta sull’Eurofighter Peter Pilz vede in ciò un’incompatibilità e un’accettazione di doni vietata per i dipendenti pubblici. In un'intervista domenicale di due pagine sul quotidiano Kurier , condotta alla presenza del suo avvocato interno, Mensdorff-Pouilly ha difeso il suo compenso: «Ho fornito consulenza a Telekom per tre anni in diversi paesi, ero disponibile 24 ore su 24 e contribuito a sviluppare strategie. Ma il contratto durò solo otto mesi. Allora perché dovrebbe essere immorale»? Secondo quanto riportato dai media, tra il 2006 e il 2009 il gruppo tedesco di tecnologia medica Drägerwerk ha pagato 3,146 milioni di euro alla Mensdorff-Pouillys MPA Budapest. Nel 2006, Drägerwerk ha pagato oltre 275.000 euro all’MPA Handelsgesellschaft di Vienna di Mensdorff-Pouilly. Nello stesso anno, il Ministero della Sanità austriaco, che all’epoca era subordinato a sua moglie Maria Rauch-Kallat (ÖVP), iniziò la vendita di maschere antinfluenzali e Dräger ai rivenditori. Successivamente il ministero ha dovuto riacquistare le mascherine invendute al doppio del prezzo di un prodotto concorrente. Il 14 dicembre 2015, in relazione ai pagamenti di Telekom Austria, è stato condannato a tre anni di reclusione incondizionata per abuso di fiducia e al rimborso di 1,1 milioni di euro più interessi di risarcimento danni, ma nell’ottobre 2017, il Tribunale regionale superiore di Vienna ha ridotto la pena a due anni di reclusione, di cui 16 mesi agli arresti domiciliari nel suo castello. Il 23 marzo 2018 si è saputo che il condannato non doveva scontare la parte incondizionata – 8 mesi – della sua pena detentiva come reclusione, ma gli era stato concesso il permesso di indossare un braccialetto alla caviglia. Il capo della prigione di Eisenstadt giustifica l’uso di un braccialetto alla caviglia con GPS – con una precisione di localizzazione di 3 m – per la particolare “fama” del conte Mensdorff. I requisiti sono: divieto di caccia, mantenimento di un raggio di movimento inferiore a quello dell’edificio del castello e divieto di viaggiare all’estero. Tutto accettabile per l’uomo, ma non per il cacciatore!

Ma la provvidenza agisce contro le cattiverie dell’uomo. Così cinque mesi (2024) fa Mensdorff-Pouilly è stato assolto in appello nel complesso dell’Eurofighter per riciclaggio di denaro. Il Tribunale regionale superiore di Vienna ha annullato il verdetto di colpevolezza del Tribunale regionale di Vienna del 2022 e ha assolto l’imputato. Il giudizio è definitivo.

Mensdorff-Pouilly è stato condannato a sei mesi con sospensione della pena con un periodo di prova di tre anni. Ha dovuto pagare anche 50.000 euro, che avrebbe ricevuto in contanti. Mentre il giudice di primo grado era sostanzialmente d’accordo con le affermazioni dell’accusa, il Tribunale regionale superiore ha visto la questione in modo diverso. Secondo la situazione giuridica rilevante al momento del reato contestato, il reato di riciclaggio sarebbe soddisfatto qualora i beni occultati (il “denaro riciclato”) “provenissero” da un atto criminoso. Per “riciclare denaro” in senso penale è necessario un “reato presupposto” da cui proviene questo denaro “riciclato”, secondo la dichiarazione della corte. Nel caso specifico, però, dagli accertamenti del primo tribunale non è emerso che il “predecessore” abbia ricevuto del denaro dal reato di cui è stato accusato (infedeltà ai danni della società). L’accusa contro il conte, era piuttosto quella di aver fatto trasferire a terzi i fondi dell’azienda per cui lavorava sulla base di contratti fittizi.

«Dopo la mia persecuzione, io stesso mi aspettavo un ribaltamento del verdetto. Per sostenere l'invidia e il risentimento posso solo dire: le cose ora andranno meglio che mai». Il conte però da adesso in poi si terrà lontano dalla consulenza per le aziende di proprietà della Repubblica. «Una cosa ingenua non deve essere fatta due volte», affermò in un’intervista il nobile di campagna.

Il 9 settembre del 2023, di buon umore e con quasi 300 ospiti, Alfons Mensdorff-Pouilly, il più importante lobbista del Burgenland, ma che preferisce definirsi un “contadino senza particolari talenti”, ha festeggiato il suo 70esimo compleanno nel suo castello di Luising. E quando il “Conte Alì”, organizza un party, anche il fattore celebrità è eccezionale. Oltre all’ex vicecancelliere Hubert Gorbach era presente anche l’ex Miss Mondo Ulla Weigerstorfer, ma alla festa di compleanno non potevano mancare anche i vigili del fuoco locali. Ha fornito pollo alla griglia e bevande fredde per garantire che i sostenitori non dovessero tornare a casa affamati e assetati. I suoi ospiti gli hanno fatto solo i migliori auguri di buon compleanno. Per il signor “Graf” conta solo una cosa: «rimanere in salute a lungo». La sua vita è stata spesso emozionante, anche se non sempre egli – da onesto uomo qual’era – poteva comprendere il trambusto che lo circondava.

Ma nel mondo di Mensdorff-Pouilly c’è ancora un accenno alla monarchia d’Austria-Ungheria. Quando l’imponente Mensdorff, alto 1,95 m, soggiorna nella contea pannonica, la bandiera con lo stemma di famiglia viene issata sempre sul tetto del suo castello (come per tutti i capi di Stato) in segno della sua presenza benigna. Come ama ricordarci: «Così i contadini sanno se sono lì. La mia porta è sempre aperta per loro».

 
 
 
 
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di Giuseppe Baiocchi del 18/12/2024

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Il libro del dott. Ronald Friedrich Schwarzer “Attraverso le lande asburgiche” (Durch Habsburgs Lande, Karolinger, 2023) è un viaggio meraviglioso nelle antiche terre della famiglia degli Asburgo-Lorena: qualche nome e appartenenza culturale esiste ancora, qualcun’altra si è solo assopita e aspetta un ritorno quanto mai profetico. Difatti come ci appare dalla copertina della prima edizione austriaca, la Corona austriaca – simbolo di tutti i popoli che componevano prima il Sacro Romano Impero (800 - 1806), poi l’Impero Austriaco (1806 – 67) ed infine quello d’Austria-Ungheria (1867 - 1918) –, rappresenta la vera garanzia del primo esperimento che non può non celare similitudini con quella Europa unita su basi culturali comuni come la grecità, la cristianità e successivamente la filosofia tedesca del 900. Venti lingue venivano parlate sotto questi Regni amministrati da una delle famiglie che hanno contribuito – insieme ai Borbone – a plasmare l’Europa che oggi ancora abbiamo la fortuna e il privilegio di ammirare: il tedesco, l’ungherese, lo slovacco, il ruteno, lo sloveno, il ceco, il russo, il rom, il rumeno, il polacco, lo yiddish, il lombardo, il veneto, il ladino dolomitico, il friulano, l’italiano, il dalmatico e il serbo.

Nel primo Natale del secolo nono Carlo Magno riceveva nelle mani di Papa Leone la corona dei Cesari romani: l’antico Imperium, la cui potenza aveva riposato per tanti secoli, era nuovamente risorta. Presenti nella simbologia vi era la Croce, nella quale si incrociavano l’orizzontalità terrena e parallelamente la verticalità ultraterrena. Il Globo imperiale posizionato sulla sinistra simboleggiava che quel Impero avrebbe portato la croce di Cristo. I due più potenti antagonisti Cesare e Cristo, venivano avvicinati nell’idea del nuovo “Sacro Romano Impero di Nazione Tedesca”. E poi scoccò la sua ora destinale, nella quale un popolo capisce di ricevere un grande onore e un grande onere: l’eredità spirituale del Caesar Carolus Magnus. Fu proprio la casa d’Asburgo che resse i paesi ereditari austriaci e da allora in poi, con poche interruzioni, conservò la dignità imperiale romana fino al termine di questa. Difatti quando all’inizio del Novecento cominciò a salire l’ondata del nazionalismo tedesco1, il sovrano asburgico allora regnante, Francesco I, sciolse il Sacro Romano Impero di Nazione Tedesca non chiamandosi più Imperatore romano, ma per l’appunto “Imperatore d’Austria”: il disperato tentativo di salvare la grande idea della unità dei popoli.

Non voglio enunciare qui una teoria, ma esprimere un dato esperienziale. Solo nel segno di un’idea superiore si fondarono e si fondano i regni. Le nazioni possono costituire soltanto degli Stati. Gli Stati nazionali sono nella loro intima essenza massonici, quindi di natura satanica per un uomo di fede cattolica; come tutto ciò che è demoniaco e idolatrato, sono suscettibilmente “dinamici”, minacciosi e minacciati. I veri regni invece nascono, quando alle unità demoniache naturali è aggiunto un elemento soprannaturale divino, che le trascina in alto al di sopra di loro stesse: una rivelazione o un’idea superiore: un Regno di Cristo in terra. Tale è almeno nell’ora della sua nascita. Ronald giudica che il suo mondo estinto, l’Impero d’Austria, fu precisamente uno di questi veri regni. Tuttavia egli soffre. Soffre, perché un ordine superiore è decaduto ad un ordine inferiore. Soffre della perdita di una fine della propria dignità personale, che, nonostante ogni comunanza nazionale, era scesa anche su di lui, minimo frammento, dall’idea sopra ordinata di quel Regno. L’Impero ancora in Austria è amato e come non potrebbe esserlo? Sotto gli Asburgo l’Austria ha prosperato, aveva uno sbocco marittimo e come ci ricorda Alexander Lernet-Holenia nel suo capolavoro letterario “Lo Stendardo” ‭«In un certo senso noi siamo, per così dire, un Impero coloniale su suolo europeo […] abbiamo riunito intorno a noi un gruppo di popoli che è incomparabilmente più numeroso di noi stessi. Abbiamo dato loro tutto ciò che potevamo dare. Questo era ed è il nostro dovere di tedeschi. Li abbiamo resi maggiorenni»2.

  [caption id="attachment_16407" align="aligncenter" width="1000"] Confine doganale presso la cittadina di Braunau am Inn, oggi comune austriaco di 16.887 abitanti in Alta Austria, del quale è capoluogo di distretto.[/caption]
Ma come si può comprendere questa consapevolezza? Ebbene l’idea dell’antica Austria pretendeva che l’uomo che l’abitava fosse in un certo senso “trasformato” e “riplasmato”. Con immensi sforzi – sia di carattere culturale, che sociale – lavorò non sul concetto di nazione e quindi di nazionalismo (che come sappiamo, ha portato solo distruzione laddove è stato abbracciato), ma su quello di essere parte di un Unicum nel quale un tedesco, un ruteno, un italiano, sentisse interiormente quella scintilla verso una appartenenza più alta, qualcosa di superiore ideologicamente parlando: un vero e proprio sacrificium nationis, in cui l’individualismo nazionale fosse messo da parte. Una rinuncia ad una comoda affermazione di se stessi, rinuncia all’eccitante abbandono degli istinti del proprio sangue, rinuncia all’indomito bisogno di trionfo della propria stirpe. Solo chi compiva questa rinuncia, chi era deciso a questo sacrificio, poteva ottenere la consacrazione superiore dell’idea, venendo così ricreato nell’uomo nuovo, nell’Austriaco: un simbolo ideale per insegnare molto alle altre civiltà. Come ci ricorda un altro grande scrittore come Franz Werfel «Egli doveva diffondere la luce della propria umanità provata dal sacrificio, affinché tutti quelli che erano ancora giovani, ancora barbari, ancora legati alla terra, fossero illuminati e convertiti da questa luce. Questa destinazione [...] si è conclusa col tramonto della vecchia Austria3». Inoltre la mitezza del cattolicesimo donava all’Impero la sua segreta sostanza di benessere sociale: un vento amabile guidato, nella sua fase finale, dal pio, Carlo Imperatore, beatificato nel 2004. I funerali “di Stato” di Ottone d’Asburgo-Lorena, figlio di Carlo a Vienna nel 2011 sono stati un simbolo di come l’Impero ritorna ancora oggi incessante, non sulle carte geografiche, non sulle mappe terrestri che gli furono proprie; ritorna in tanti cuori e in tante menti, come immagine, sogno e speranza; come una reliquia da adorare e conservare gelosamente, benché imperfetta, calma e magnifica: quell’Austria felix che faceva l’amore e non la guerra, dolce e malinconica, ritorna sommessa e luminosa, perché l’Impero asburgico è stato grande, è stato ordinato, è stato bello, è stato gentile ed è stato soprattutto molto rimpianto. Sebbene la mia descrizione, si immerga perfettamente nel celebre filone letterario a cui Claudio Magris riuscì a donare il fortunato nome di Finis Austriae, il libro “Attraverso le lande asburgiche” non può essere inquadrato propriamente in questo genere, poiché oltre al suo humour inglese che contraddistingue l’eccellente penna di Schwarzer, il ritmo della lettura e tutt’altro che melanconico e odorante di rimpianti. Si avverte, di contro, tutta l’energia dell’autore per ricordare come queste terre, non abbiano affatto smarrito quella trazione culturale – artistica, architettonica e letteraria, di usi e costumi – propria della Vecchia Austria. D’altronde se effettuiamo una analisi della forza vitale di molti paesi oggi indipendenti e nazionali, possiamo tranquillamente riscontrare di come la loro forza spirituale si sia essenzialmente dissolta. Kafka, scriveva in tedesco, non in ceco e quando l’antica Repubblica Cecoslovacca nacque non sfornò più nessun letterato degno di nota, ad eccezion fatta per Kundera (1929 - 2023). Di questi esempi ne possiamo fare altri, tutti legati a quei micro paesi attuali come ad esempio l’attuale Slovacchia o la stessa Ungheria, che dopo il grande Marai non ha più riproposto sulla scena internazionale autori di così grande elevatura letteraria. Ebbene quella forza spirituale e culturale a trazione austro-tedesca viene ripresa nel libro di Ronald Schwarzer.
[caption id="attachment_16419" align="aligncenter" width="1000"] Frammento di immagine del funerale pubblico di Otto von Habsburg nel 2011.[/caption]
Nulla è al caso. Ho avuto il privilegio di conoscere personalmente l’autore nel suo palazzo viennese, chiamato – in onore di Franz Ferdinand – Ferdinandihof, nel quale si svolgono regolarmente concerti di musica barocca, così come conferenze culturali. Si respira un’aria autentica dove il politicamente corretto, simbolo della nostra epoca, è bandito. Difatti la nostra Europa è di fronte ad un bivio. Da un lato una via che passa dalla accettazione delle “disuguaglianze” come produttrice di vita. Da un altro la tentazione della “eguaglianza” intesa come giustizia. La prima via è quella della nostra storia. La seconda è quella che ci viene prospettata, e che fu preconizzata da Oswald Spengler (1880 - 1936), come “Tramonto dell’Occidente”. Siamo stati per tanto tempo il maggior polo di sviluppo del mondo, proprio perché non siamo mai stati tentati dalla filosofia della “eguaglianza”. Dobbiamo decidere, se seguitare ad essere, ciò che siamo stati, punto avanzato dell’ingegno umano o passare ad altri il testimone. Forse è già troppo tardi. Ma forse c’è ancora tempo, per una “filosofia della salvezza” che voglia invertire il corso delle cose. Forse è possibile che ripercorrendo tutta la nostra storia, sia possibile sconfiggere i virus che ci minano e recuperare i nostri valori. L’Europa che sembrava un sogno, si sta trasformando in modo concreto. E concrete sono tutte le sue proiezioni. Popoli che si ritenevano diversi, attraverso la lettura, la radio, la televisione, il turismo, si sono conosciuti e riconosciuti. Questi nuovi mezzi di comunicazione, hanno fatto riconoscere, quanto profonde siano state le seminazioni di quel “Urvolk indo-europeo”. È questo retaggio comune, cui dobbiamo far appello per tornare ad essere quello che siamo sempre stati nella nostra storia, un polo fondamentale di sviluppo del divenire umano. Senza rabbia e senza peccati di orgoglio, ma con una precisa conoscenza del nostro passato e delle nostre potenzialità. I no global, gli ambientalisti, la galassia eterogenea degli Lgbtq, sono i residui nostalgici della “Internazionale marxista” ed insieme del capitalismo liquido più abietto. Non sanno niente di storia, né dei suoi meccanismi. Sono dei puri “contemporanei”. Il loro avvento fu profetizzato oltre 150 anni fa da Fyodor Mikhailovich Dostoevsky (1821 - 81), che scrive proprio per loro come «l’amore per l’umanità si unisce all’odio o all’indifferenza per il vicino». Amano tutti per poter odiare meglio il nemico di turno. Fanno molto chiasso perché ciascuno di loro è polivalente e onnipresente. Possono essere in momenti diversi un politico, o una cantante, un sindacalista, o un “intellettuale”, cineasta, o impiegato di una ditta che produce gomme per auto. Ma sono sempre gli stessi, in abiti diversi, in continui e frenetici travestimenti e trasferimenti.
Ma Ronald non è solo un mecenate, ma soprattutto un fervente cattolico e pellegrino dei luoghi sacri: percorre a piedi interi Stati e nel suo vagabondare non poteva non conoscere alla perfezione tutti quei territori della sua amata e verde Austria. Da qui si può concepire il libro “Attraverso le lande asburgiche” nel quale oltre a luoghi tradizionalmente austriaci, l’autore ci fa comprendere come sia in Francia, che in Spagna le influenze austriache degli Asburgo siano presenti nell’arte, nell’architettura e nei dialetti parlati. L’autore indirettamente si sforza per farci comprendere come questa nostra identità europea, sebbene martoriata dalle attuali scelleratezze politiche, sia ancora viva e pronta per essere riafferrata in qualsiasi momento da un popolo che torni finalmente ad essere consapevole di sé, poiché quando si perde coscienza di se stessi, non si conosce più chi siamo e da dove veniamo, perdendo noi stessi. Perché, per buona pace dei buonisti e dei ben pensanti, un “Turco” ci sarà sempre, anche adesso che l’Impero non esiste più. L’ottomano è necessario, come un contrappeso che tiene botta agli eccessi, o come un argine che protegge la campana dal fiume impazzito. Il contrario, e non soltanto il diverso, costituisce una necessità storica, contingente, per rendere interessante l’esistenza di ogni persona. Il giorno e la notte, il caldo e il freddo, il lupo e l’agnello, l’aquila e il passero: ecco altrettanti contrari, a seconda dei punti di vista. Il resto è utopia, una bella utopia, non c’è dubbio. Dunque non siate pigri, poiché per tutto ciò che sarà menzionato in questo libro, qualcos’altro, non meno importante, sarà nascosto e potrà essere oggetto di un vostro nuovo viaggio, di una vostra personalissima cartografia del cuore. Se il viaggio è ritornare sui passi di altri in altri tempi e in altre vite, rievocare, veder riemergere fantasmi, allora mettetevi in cammino, non siate pigri, perché dalla vostra meraviglia deriva la vita autentica, quella composta da storia, arte e architettura, da antiche parlate e virtù paesane, poiché queste “lande” facevano parte di un impero assai grande che aveva una capitale bellissima e che ancora oggi non smette di meravigliarci con il suo fascino. Concludo con un messaggio di speranza, riprendendo le splendide parole tratte da “Il messaggio dell’Imperatore” di Franz Kafka: «eppure tu siedi alla finestra e ai tuoi sogni dai vita, sul far della sera».
[caption id="attachment_16409" align="aligncenter" width="1000"] Nell'immagine, il fronte-retro della copertina del saggio di Ronald Friedrich Schwarzer "Durch Habsburgs Lande", che presto vedrà l'uscita in Italia, tradotto dall'Architetto Giuseppe Baiocchi "Attraverso le lande asburgiche". Nella foto l'autore del saggio con lo scrivente.[/caption]
Per approfondimenti:
1 Di ciò approfittò la famiglia reale prussiana degli Hohenzollern, i nemici mortali dell’Austria e della sacra idea imperiale. Essa sferzò e stimolò energicamente i demoni del nazionalismo pangermanico. Dopo le vittorie sopra l’Austria e la Francia nell’anno 1870-71 riuscì a ridurre sotto il proprio dominio i piccoli Stati tedeschi, e in tal modo ad unificarli. Ed allora avvenne uno dei più brutti scherzi di parole della storia mondiale. La grande Prussia si chiamò “Impero Tedesco”, non è curioso? Quando nel migliore dei casi non era che uno Stato nazionale, ovvero il contrario di un regno unificatore di popoli nata da un’idea sopraordinata. Ma non fu tutto: i re prussiani si conferirono il titolo di Imperatori. Kaiser è la forma greca di Caesar. Ogni Kaiser è successore di Cesare, che fondò l’impero mondiale sopranazionale della civiltà occidentale. Il Cesarismo è l’opposto assoluto della regalità nazionale. Gli Hohenzollern furono fortunati re nazionali, che per odio contro i Cesari legittimi della Casa d’Asburgo usurparono un vuoto titolo imperiale.
2 Lernet Holenia A., Lo Stendardo - capitolo quinto, Adelphi, 2010.
3 Werfel F., Nel crepuscolo di un mondo, L’Impero Austriaco, prologo, p.13
4 Schwarzer F. R., Durch Habsburgs Lande, Karolinger, 2023.
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di Giuseppe Baiocchi del 29/07/2024

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La Rivoluzione francese è un evento determinante per la nostra epoca, poiché segna il passaggio tra l’epoca dell’Antico Regime e l’epoca definita “moderna”. Dopo il crollo della Monarchia Costituzionale (1791-92), viene fondata in Francia la Prima Repubblica e sarà proprio durante la Convenzione Montagnarda che esploderà la prima e più importante guerra di Vandea. La Convenzione ha tre fasi: la prima è quella dominata dai Girondini, la seconda dai Montagnardi (Terrore giacobino) e la terza si definisce termidoriana.

[caption id="attachment_16343" align="aligncenter" width="1000"] Ufficiale vandeano - litografia a colori dei primi dell'Ottocento.[/caption]

La storiografia ufficiale conta circa 5 Guerre di Vandea, le quali estendono il loro solco storico su di un arco temporale molto lungo, poiché spaziano dal 1793-94; 1795-96; 1799-1800; 1815 ed infine 1832. Anche se i confini tra una guerra e l’altra sono abbastanza labili, la prima certamente è la più grande guerra di Vandea, di stampo militare e non organizzata, come le successive, nella forma della guerriglia. Quello che poi sarà nominato Esercito Cattolico e reale ha avuto dei leader, degli obiettivi militari, un esercito con i gradi e stendardi per i reggimenti, ed infine un equipaggiamento quasi regolare. La seconda guerra di Vandea (1795-96) è sicuramente uno strascico della prima, che trae le sue origini dalla caduta del terrore e dall’installazione del governo della Convenzione termidoriana, certamente meno autoritario del precedente. La terza guerra di Vandea, (1799-1800) è una piccola insurrezione che approfitta della debolezza del Direttorio, il quale stava per trasformarsi nel consolato napoleonico. La quarta insurrezione vandeana (1815) si sviluppa durante l’epopea napoleonica, in particolar modo durante i 100 giorni nei quali Napoleone si riapproprio del potere. Infine l’ultimo strascico delle guerre di Vandea, risale al 1832, durante la monarchia costituzionale di Luglio di Luigi Filippo, due anni dopo l’abdicazione del Re legittimo Carlo X. La nipote di Carlo X, la duchessa di Berry cercò di risollevare una insurrezione in Vandea con scarsissimi risultati.

Innanzi tutto vorrei analizzare il territorio, che gli storici francesi definiscono come “Vandea militare”. Oggi la Vandea è un dipartimento francese, che non corrisponde del tutto con l’area in cui ci fu la sollevazione contadina. Difatti un Dipartimento francese è un’entità amministrativa creata dalla stessa Convenzione per creare un distacco culturale con tutte le provincie di Antico Regime, dividendo la Francia in un centinaio di zone dalla forma più regolare, applicando un nome sempre riferito ad un elemento naturale al suo interno. La Vandea prende il nome da un piccolo fiume, abbastanza insignificante, che scorre all’interno del nuovo dipartimento creato. Parlando della “Vandea Militare” insorta, oggi possiamo unire diversi dipartimenti: quello della Vandea attuale, a tutto il Nord del Deux-Sevres, a tutto il sud-ovest del dipartimento del Maine-et-Loire e tutto il Sud della Loire-Atlantique. Contrariamente, invece, se inquadriamo la “Vandea militare” con le provincie di Antico Regime, possiamo definire il territorio degli scontri uniformato su tre Provincie: il basso Poitou, il basso Anjou, e la parte bassa della Bretagna, che non parlava bretone. Come la geografia era variegata, anche gli insorti lo furono. Bisogna distinguere, durante le guerre di Vandea, quello che furono i vandeani, dagli Chouan bretoni: i primi erano a Sud del fiume Loira – elemento naturale che divide la Bretagna dalla Vandea -, mentre i secondi a Nord. La distinzione non è solamente geografica, ma è anche culturale, linguistica e militare. Difatti militarmente i vandeani erano organizzati in una armata regolare, mentre gli Chouan erano organizzati per effettuare unicamente imboscate , attuando la guerriglia. Le Chouannerie, termine con il quale la storiografica ha cercato di determinare queste tipologie di guerriglie, dureranno più a lungo delle insurrezioni vandeane: dal 1794 al 1800, senza grandi discontinuità. Difatti uno dei Capi bretoni Georges Cadoudal (Kerléano-en-Brech, 1º gennaio 1771 – Parigi, 25 giugno 1804) sarà ucciso dagli agenti napoleonici nel 1804. Tra le cause del sollevamento della Vandea vi sono diversi correnti tra gli storici francesi: una prima versione filo-repubblicana asseriva che tale rivolta fosse sobillata dai nobili e dai preti insistendo sulla superstizione religiosa dei contadini, per effettuare un colpo di Stato. Certamente il cristianesimo ha giocato un ruolo fondamentale, per via della grande religiosità delle campagne francesi, poiché plasmava non solo l’aspetto religioso, ma anche educativo e sociale: non a caso la vita sociale dei villaggi girava intorno alla parrocchia. Proprio partendo da tale consapevolezza, negli ultimi cinquant’anni di studio, gli storici d’oltralpe sono giunti ad una nuova versione delle cause principali dello scoppio della prima guerra di Vandea: la coscrizione obbligatoria di 300.000 uomini per le guerre che la Convenzione aveva dichiarato agli Stati Trono e Altare e la Costituzione civile del clero del 12 luglio 1790 attraverso la quale si modificarono i rapporti tra Stato e Chiesa: i preti, vescovi e cardinali dovevano rispettare i dogmi della rivoluzione francese, senza prendere più ordini da Roma (anche le ordinazioni dovevano essere approvate dalla convenzione).Appare lampante e cristallino che ad un contadino analfabeta della Francia feudale del Settecento, lo stravolgimento dell’orario con l’introduzione del nuovo calendario, della geografia, della Santa Messa e la coscrizione obbligatoria venivano viste come un procedimento di aggressione. Inoltre la vendita diretta dei beni ecclesiali non confluisce ai contadini, ma a ricchi borghesi provenienti spesso addirittura da altri territori. Non dobbiamo osservare l’insurrezione delle guerre di Vandea come qualcosa di isolato a quattro provincie francesi, ma tra il 1793 e il 1794 avvenne in tutta la Francia un sollevamento generale di moltissime provincie francesi. Tale opposizione era molto variegata e spesso anche di carattere conservator-liberale. Una di queste forze erano ad esempio i Federalisti, chiamati anche “Girondini” (1791-93) guidati da Jacques Pierre Brissot de Warville (1754-93) che dominano la convenzione nazionale tra il 1792 e l’inizio del 1793. Essi sono politicamente all’opposto dei Montagnardi (sfera radicale di sinistra, la quale si suddivideva nei club dei giacobini e dei cordiglieri, periodo 1792-99), poiché ambiscono ad una distribuzione del potere di tipo federale e sono molto potenti nelle grandi città di provincia della Francia. Quando i montagnardi, con i loro decreti, espellono i girondini dalla Convenzione nazionale, molte città sotto l’influenza girondina si sollevarono contro il governo centrale. [caption id="attachment_16345" align="aligncenter" width="1000"] Jacques Pierre Brissot de Warville (1754-93) leader dei “Girondini” (1791-93).[/caption] Tra le principali città in rivolta, troviamo Marsiglia, Lione, Bordeaux e Rouen in Normandia e proprio in questo caos – da guerra civile – molti movimenti monarchici si inseriscono all’interno delle compagini girondine. Ovviamente non si può parlare di controrivoluzione in questi casi, ma unicamente di opposizione al regime centrale montagnardo, poiché nessun girondino (anche se appoggiato da correnti monarchiche) voleva inserire nuovamente la monarchia costituzionale. I due episodi più marcanti di queste rivolte sono l’assedio di Lione (1793) durato diversi mesi tra l’estate e la fine dell’anno, finito con la quasi completa distruzione, da parte dei giacobini, della città definita “città senza nome”, quasi a monito per altre eventuali proteste; e la città di Marsiglia che subisce più o meno la stessa sorte. Il sollevamento contadino, dunque, si presenta inizialmente come una “jacquerie” contadina, poiché l’aspetto “monarchico” è arrivato dopo l’aspetto “cattolico”. Difatti inizialmente la nobiltà locale, a carattere feudale, non ha avuto nessun tipo di reazione ai moti rivoluzionari di Parigi (per parte monarchica, ci fu solo la reazione del barone di Sainte-Croix Jean Pierre de Batz, si salvare Luigi XVI dal patibolo). Così rispetto ad un regime lontano, confiscatorio, oppressivo, esterno all’organicità del sistema feudale, portano i primi moti della Vandea a poter essere qualificati come una iniziale rivolta contadina disordinata, senza alcun tipo di obiettivo: con la sola intenzione di colpire i reclutatori repubblicani e i persecutori della fede cattolica. I primi episodi della prima guerra di Vandea iniziano a metà marzo del 1793 con iniziali sporadici episodi di ribellione di braccianti, mezzadri e alcuni artigiani, soprattutto tessitori per via della città di Cholet, famosa per i suoi atelier di filatura e tessitura. Questi attacchi alle sedi locali della milizia della Guardia Nazionale hanno fin dalla prima ora successo, anche per via della scarsa opposizione degli stessi gendarmi che – anch’essi di umile estrazione -, abbandonavano spesso il posto di guardia per sottrarsi al conflitto. Fu così che con queste vittorie, i gruppi di insorti iniziarono a riunirsi e presto dovettero trovare dei leader che li guidassero e che iniziassero a pianificare l’evolversi della rivolta che stata per trasformarsi in una guerra civile. Da notare inoltre che fino a quel momento la Vandea non era una terra militarizzata, per cui non vi era motivo di inserire grandi cantonamenti militari. Caso unico di tutte le ribellioni controrivoluzionarie di quella Francia settecentesca, i vandeani iniziano ad assumere una struttura militare organizzata: nasce l’Armée Catholique Royale (l’Armata Cattolica e Reale), la quale si divise inizialmente in tre grandi armate, secondo la geografia del territorio; nascono così l’Armata del Basso Poitou, l’Armata del Centro (insorti intorno a Cholet) e l’Armata dell’Alto Poitou ed Anjou. Tale struttura militare non aveva conoscenza dell’arte militare, per via dell’estrazione sociale dei propri componenti: i contadini conoscevano il territorio, ma non sapevano delineare una strategia militare; così entrò in gioco quella nobiltà locale composta da tutti ex militari in congedo forzato per il Re di Francia. Il ricorso ai nobili fu coatto, poiché l’aristocrazia locale aveva percezione che tale esercito non poteva tenere testa a quello regolare, ed inoltre era consapevole che i loro possedimenti sarebbero stati – nel corso della guerra – bruciati o confiscati. Perdita di patrimonio e consapevolezza pragmatica delle forze in campo avevano spinto la nobiltà a non intervenire a favore della causa, ma dopo le insistenze – che spesso hanno sfiorato la violenza – diversi aristocratici, si arruolano e saranno poi quei leader che ancora oggi la storia pone a memoria. Così la controrivoluzione vandeana cambia volto: gli obiettivi militari si delineano, insieme a quelli politici: il ripristino della monarchia e della Chiesa di Roma. Un patto tra contadini e nobili viene siglato: “guidateci in battaglia per salvare le nostre terre e noi accetteremo di buon grado il ritorno del Re”. La disorganizzazione della Convenzione di Parigi che non aveva inviato truppe sufficienti per arrestare la rivolta, unita anche allo scarso addestramento della Guardia Nazionale, consegnarono, in breve, nella prima fase della guerra – da ottobre a maggio – , quasi l’intero territorio della “Vandea Militare” in mano agli insorti; addirittura in certe porzioni della Loira, le truppe repubblicane non attraversarono mai il fiume per almeno tre mesi. Le vittorie decisive iniziano con la presa di Cholet, città centrale della Vandea, il 14 marzo del 1793. I successi continuano con presa della grande roccaforte repubblicana di Thouars, avvenuta il 5 maggio del 1793, ma l’apogeo della controrivoluzione avviene con la presa della città si Saumur il 09 giugno dello stesso anno. Dopo altre piccole vittorie, lo sguardo volge alla città di Nantes, il vero caposaldo Repubblicano in tutto il territorio: la sua presa avrebbe significato non solo il controllo di tutta la Vandea, ma anche quel ricongiungimento con le truppe bretoni degli Sciuani che combattevano al di là della Loira, senza dimenticare l’anticipato sbarco dell’Armata di Condè sulle coste bretoni, con parte dell’armata britannica. L’intero Nord-Ovest francese si sarebbe reso indipendente. Dopo un assedio furente, il combattimento campale finisce con un pareggio, che però confluisce a favore dei Repubblicani, per diverse cause tra cui diversi errori tattici tra i Generali vandeani, in primis di comunicazione, e successivamente il ferimento (che poi lo portò alla morte) del Generalissimo Cathelineau. Dopo un’intelligente vittoria di Charette, presso La Noirmoutier il 12 ottobre 1793, che aveva assicurato un importante sbocco sul mare. Successivamente nella Battaglia di La Tremblaye il 15 ottobre verrà ferito a morte anche il Generale Lescure e successivamente con la sconfitta di Cholet del 17 ottobre, arriverà anche il ferimento a morte di Bonchamps, che prima di spirare, il giorno dopo, ebbe il tempo di graziare i 1.500 prigionieri in mano ai monarchici. L’esercito Cattolico e Reale, privato dei leader più carismatici e tatticamente più preparati, si ritrovò ben presto in balia degli eventi e dopo una riunione tra i Capi militari rimasti, ad eccezione di Charette, La Rochejaquelein avrebbe tentato quella che sarà chiamata la Virée de Galerne, ovvero una spedizione in terra di Normandia che aveva lo scopo di conquistare una testa di ponte sulla spiaggia per far sbarcare l’esercito di Condé, ma i vandeani, decimati, con il morale basso e soprattutto per via delle numerose malattie a cui già erano afflitti per il conflitto prolungato non arrivarono mai al loro obiettivo e superata la Loira, le diserzioni furono massicce. I contadini, lasciato il loro focolare, lasciata la loro terra per la quale si erano battuti, non avevano una disciplina militare propria di un esercito e non aveva l’interesse per una guerra alla Convenzione di dimensioni nazionali. Nonostante alcune vittorie in terra bretone e normanna, l’esercito perse l’iniziativa e annientando se stesso iniziò la ritirata. Successivamente la repubblica iniziò a pianificare lo sterminio di massa dei civili a partire dal 1794-95. Altri eroi sarebbero morti, i villaggi così come i boschi sarebbero stati dati alle fiamme: iniziavano le Colonne Infernali e il genocidio della Vandea Militare.   Per approfondimenti: Baiocchi G., Storia delle Guerre di Vandea 1793 - 1795 - 1799, 1815 - La reazione di penna e spada alla rivoluzione Vol.1, Il Cerchio Srl, Rimini, 2023.
 
 
 
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di Giuseppe Baiocchi del 13/06/2024

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Dall’Aquila Imperiale alla bandiera rossa può essere paragonato, a buon onore, come il “Guerra e Pace” della Rivoluzione e della Guerra Civile russa che intercorse un periodo storico molto lungo e travagliato (1894-1921). A scriverla è un personaggio controverso, l’Atamano (Capo camerata dei Cosacchi) Krasnov Petr Nikolaevich (1869 - 1947): eroe della prima guerra mondiale, premiato sia con la croce di San Giorgio che con l’arma d’oro, Maggiore Generale dell’esercito imperiale russo, leader della breve e combattiva Repubblica del Don (Grande armata del Don 1918-20), pubblicista per gli esiliati bianchi a Parigi e scrittore; nel 1926, il famoso filologo e slavo Vladimir Andreevich Frantsev (1867 - 1942) lo nominò addirittura per il Premio Nobel.

[caption id="attachment_16298" align="aligncenter" width="1000"] Pyotr Nikolaevich Krasnov ( 10 settembre 1869 , San Pietroburgo - 16 gennaio 1947 , prigione di Lefortovo , Mosca ) - Generale di cavalleria russo, nobile Atamano del Grande Esercito del Don, figura militare e politica, scrittore e pubblicista. Fu candidato al Premio Nobel per la letteratura (1926). Uno dei leader del movimento bianco nel Sud della Russia. Durante la seconda guerra mondiale prestò servizio come capo della direzione principale delle truppe cosacche del ministero imperiale per i territori orientali occupati della Germania.[/caption]

Perché allora tale particolare personaggio vive nell’oblio? A spiegarcelo in soldoni è un altro scrittore russo, naturalizzato francese, figlio di emigrati russi Vladimir Volkoff (1932 - 2005) che in un’altra perla letteraria “Il Montaggio” ci regala questa descrizione: «Gli emigrati russi detti “bianchi”, di cui gli uni avevano scelto di battersi per la Germania perché il diavolo era migliore dei comunisti, gli altri di servire l'Unione Sovietica, perché il diavolo era migliore del tedesco. [...] Innanzi tutto, la vittoria della Russia eterna sulla Germania appariva agli emigrati come una vittoria della Santa Russia sull'usurpazione bolscevica. Sì la bandiera che sventolava sul Reichstag era soltanto rossa e non bianco-azzurro-rossa, ma i soldati sovietici che incontravamo parlavano della Russia più che “dell'Unione” [...] in poche parole sembrava che il corpo della patria avesse spontaneamente eliminato gli antigeni che vi erano stati introdotti. [...] Infine, c'era un segno, visibile e tangibile, della rinascita della nostra Russia, della sua restaurazione interiore. [...] quel rettangolo di cartone rivestito di stoffa e fissato sulla spalla con un bottone di rame aveva acquistato tanto significato quanto avevano potuto averne, in altre epoche, le croci di questa o quella forma. [...] L'incubo, vagheggiavano, era finito». Difatti la vita dello scrittore, che aveva abbracciato – in piena coerenza con le sue idee monarchiche anti-sovietiche – a piene mani l’Operazione Barbarossa di Adolf Hitler per l’invasione dell’Unione Sovietica (diresse da dietro le linee per la sua età avanti nel tempo il XV SS-Kosaken Kavallerie Korps), mori di morte violenta: finì il 16 gennaio 1947 alle 20:45, quando fu impiccato nel cortile della prigione di Lefortovo1. Famosa rimase la sua frase: «Contro i bolscevichi, anche con il diavolo». Krasnov apparteneva ad una famosa famiglia cosacca del Don che aveva da sempre sfornato agli Zar, nelle epoche antecedenti, i migliori ufficiali di cavalleria2. Prima dell’incredibile carriera militare che lo attendeva, iniziò la sua seconda passione: quella di scrittore. Le sue attività sorgono già all’età di 12 anni nel 1891, per poi avviarsi verso una letteratura che glorificava l’esercito dove l’abile penna descrisse la vita di cadetti e alfieri (molte opere contenevano una storia d’amore), per sviluppare l’idea degli ufficiali come una speciale casta nobile e nella difesa dei privilegi delle guardie. Tuttavia, il tema determinante dei primi lavori dell’Atamano fu quello dell’eroismo. La stessa tematica infatti fu ripresa nel suo esilio in terra tedesca nel 19203. Un posto importante nel vasto processo creativo è l’eredità di un ciclo di romanzi dedicati alla “Grande tragedia russa” (rivoluzione del 1917): “Uno indivisibile” (1925), “Capire – perdonare” (1928), “Rotolo bianco” (1928). Questo ciclo preparato per 27 anni lo porta alla stesura del suo romanzo più celebre “Dall'aquila Imperiale alla bandiera rossa” (pubblicazione in quattro volumi 1921-224). Riflettendo gli eventi chiave del regno dell’imperatore Nicola II, il protagonista della tragica storia è l’ufficiale delle Guardie dello Zar, Alessandro Nicolaievitch Sablin chiamato affettuosamente dagli amici “Sasha”, che durante la Grande Guerra sarà infine nominato Generale. Il romanzo straordinario di carattere letterario realista è basato su eventi reali, su circostanze e fatti che non solo hanno fatto parte della vita dell’autore, ma che inevitabilmente ne hanno plasmato il destino.

Tutto inizia quando la Rivoluzione russa è nella sua fase finale: i Soviet sono già al potere e il regime di Aleksandr Fëdorovič Kerenskij (1881 - 1970) è caduto con il Governo provvisorio russo (1917) sfaldatosi in appena un anno di Governo, dopo l’ultima offensiva al fronte fallita, con i Soviet che contrariamente alle elezioni politiche perse, effettuano il colpo di Stato con Lenin leader. Nel Paese vige l’anarchia e l’assassinio anche solo per poco denaro, cibo o vestiario. Siamo in un vagone merci nella cittadina di Voronezh diretto a Rostoff nel Sud della Russia, ed è qui che avviene la prima descrizione di un bolscevico da parte di una giovane ragazza: «Ella esaminava ora i lineamenti del soldato dallo sguardo duro e del robusto giovanotto che si vantava di avere ucciso un agente di polizia. I loro visi erano belli, ma volgari e grossolani. Erano adatti ai ruvidi cappotti che portavano; cercò di figurarseli in un salotto, vestiti da ufficiali o in eleganti abiti borghesi, e sentì subito che sarebbe stata una cosa impossibile. Vi era come un richiamo all’età della pietra e di un umanità primitiva in quella potente muscolatura, in quelle mascelle formidabili, che testimoniavano una salute animale, in quei crani massicci, dalle folte arcate sopracciliari, ricadenti come una visiera, in quei capelli a spazzola, duri come crini» e subitanea un’altra riflessione della giovane ragazza, che rispecchiava invece “il mondo di ieri”, ovvero quello aristocratico: «E lei, Olia, saprebbe cavarsi d’impaccio, se si trovasse priva di qualunque aiuto? Certo, ella non ne sarebbe capace […] con quelle mani delicate che tradiscono la sua origine aristocratica. Olia si ricordò che Nika aveva un giorno ucciso una lepre a caccia e l’aveva consegnata alla cuoca, non sapendo né spellarla né vuotarla […] ella rise fra sé al pensiero che egli potesse fare una di queste cose. […] Erano dei parassiti in questo mondo. Erano dei burjuyes. […] degli sfruttatori e delle sanguisughe. Ella dovrebbe fare da se stessa il letto, lavare la biancheria, tenere in ordine il cortile, l’orto, il bestiame, preparare il desinare, cucire i vestiti per sé e per quelli che lavorano nei campi, faticare tutta la giornata senza riposo, come fanno le contadine. Mio Dio! Ma la giornata non basterebbe per tanto lavoro. Quando avrebbe il tempo di leggere, di studiare le lingue, di riflettere, di passeggiare, di ammirare le bellezze della Creazione? […] il mondo intero sarebbe dunque obbligato di abbassarsi al livello di quegli uomini e di dedicarsi esclusivamente ad un lavoro che abbruttisce per arrivare semplicemente a procurarsi il sostentamento: non vi sarebbe più né poesia, né religione, né bellezza sulla terra»5.

[caption id="attachment_16299" align="aligncenter" width="1000"] Nella foto di destra un giovane cadetto dell'aristocrazia di campagna russa. Nella foto di destra 2° laurea accelerata presso l'Università di Tashkent del 1 maggio 1915. Le scuole per sottufficiali (circa 60) furono create nell'Impero russo con l'inizio della Prima Guerra Mondiale, a causa della carenza di sottoufficiali e ufficiali morti prematuramente durante l'inizio del conflitto: la Russia perdeva gli uomini più fedeli dell'Impero. La durata della formazione durava 3 mesi. Le scuole furono aperte sulla base delle scuole militari esistenti, e concluso il periodo, il corpo dei cadetti veniva indirizzato direttamente al fronte.[/caption]
Qui avviene, immediata e prima ancora della presentazione del nostro protagonista – la prima perla del romanzo: due mondi opposti e inavvicinabili, due classi sociali non dialoganti e lontani, i primi ignoranti, numerosi, opportunisti e forti, senza storia e con futuro incerto; i secondi colti, fragili, educati, chiusi nella loro società inaccessibile, deboli e con il futuro segnato da povertà o morte. Ora il momento storico è a favore dei primi, che scovano e uccidono i secondi, che per secoli hanno dominato la scena politica russa. Nello scompartimento ferroviario vi è anche il Generale Sablin che scoperto da una guardia rossa fugge dal treno: qui si interrompe il prologo e inizia il vero romanzo. Il salto temporale è al 1894 e subito si denota il cambiamento sociale con la sua gerarchia di classe: i dialoghi tra gli svariati personaggi mostrano subito al lettore le differenze tra il prologo “rivoluzionario” e il primo capitolo “zarista”: si avverte che si è in un’altra epoca, ma siamo solo 23 anni prima. La vita del nostro protagonista è colma di serenità e piena di quei valori ideologici dove il Dio, la Patria e la famiglia sono propriamente i cardini di un’esistenza sana e retta. In primis il Dio cristiano che si incarna nello Zar. Proprio sull’Imperatore russo vi è una delle più brillanti descrizioni dell’intero libro, che ci trasmettere il senso del Sacro, ovvero l’autore ci inoltra indirettamente un concetto che oggi più che mai si è perso: la fede, il credere in un principio di vita: «La Bruna non soltanto aveva invaso le colline, ma anche i piedi del monte […]. Nulla faceva prevedere il sole, che pure doveva brillare quando sarebbe apparso lo Zar, “l’Unto del Signore”. Questa convinzione era condivisa da tutti, dal Generale coi capelli bianchi fino alla più giovane delle reclute. In uno splendore da sogno lo Zar doveva apparire in faccia al suo esercito in una aureola di raggi solari, magnifico eppur lontano. Era sempre stato così, dicevano i vecchi: il sole accompagnava sempre l’Imperatore, ed in ciò si vedeva la grazia divina, un miracolo che provava che lo Zar non era stato posto là dagli uomini, ma da Dio. […] Sablin era profondamente persuaso che il sole sarebbe venuto, ma talvolta, alla vista di quel cielo grigio che provava da un momento all’altro un acquazzone, sentiva il dubbio penetrargli nell’anima. […] Il sole verrà […] perché ci sarà l’Imperatore, e perché è sempre stato così in tutti i tempi! […] Le trombe della scorta di Sua Maestà squillarono. In testa, su un piccolo cavallo grigio di razza araba, dalle froge nere e ricoperto di una gualdrappa azzurra ricamata d’oro, l’Imperatore si teneva graziosamente e leggermente in sella. Il suo berretto rosso da Ussaro era piegato un poco da un lato, e al disotto della visiera nera, i suoi occhi grigi guardavano con bontà. Il suo dolmann rosso era coperto di alamari d’oro. […] Nello stesso istante, un raggio luminoso di sole brillò sul berretto di porpora e avvolse il cavaliere imperiale. Si sarebbe detto che la natura avesse atteso lo slancio potente di quegli urrà e quell’inno che risonava come una preghiera di fede incrollabile. Il miracolo era avvenuto. Il semidio appariva al popolo e i pensieri terrestri se ne volavano ben lontani dagli uomini. I cuori entusiasmati si sentivano più vicini al cielo. […] Si sentiva la voce carezzevole dell’Imperatore che diceva: - grazie, miei prodi.. - e già non si vedeva più. Davanti a loro si stendeva la pianura vuota; le note della musica, rimasta indietro, non arrivavano più che per ondate, simili a lontani ricordi di una gioia passata»6.
Inizialmente l’aristocratico Sablin è un Alfiere di Pietroburgo che trascorre la sua giovinezza tra riviste militari e feste mondane nei palazzi dell’aristocrazia russa. Sarà proprio in una di queste feste che conoscerà la ballerina Caterina Philipovna che in breve tempo lo svezzerà sotto il profilo amoroso e indirettamente – ma solo momentaneamente – ne ammorbidisce il suo profilo militare, difatti proseguendo la lettura “Sasha” inizierà ad avere dubbi sull’esistenza di Dio e sull’importanza dello Zar: semplici domande introspettive, umane, che qualsiasi persona nella vita si pone di fronte un comportamento poco corretto che esegue: un lavaggio di coscienza insomma. In tale ambito avviene un aspetto molto interessante del romanzo, inerente l’esercito poiché Krasnov inizierà ad introdurre personaggi sinistri che saranno coloro che nel tempo logoreranno l’esercito russo, fino a portarlo alla dissoluzione e all’anarchia, con il conseguente sbandamento delle truppe dovuto anche ai comportamenti inaccettabili del Governo Provvisorio già menzionato. Tengo a riportare ancora un piccolo passo nel quale si capisce lo scontro sia generazionale tra i “padri e i figli” all’interno del complesso militare: «Se tu tenti di predicare la rivolta fra i miei uomini, o di fare una propaganda qualunque, ti farò ammazzare, non mi scapperai. So che sei protetto. Il generale Martoff ha interceduto per te. Non me ne importa. Io non ho che un’idea in testa: il dovere, il servizio e l’osservanza del giuramento. Se ne son viste di tutti i colori qui. Abbiamo avuto ladri, degli ubriaconi […] All’occasione io posso perdonar tutto e anche nasconder tutto; ma mai, m’intendi, Liubovin, mai il socialismo è entrato in queste mura. Di modo che, comprendimi bene, se una follia di questo genere germinasse in una testa qualunque, sei tu che me ne renderai ragione. Tu la pagherai con la tua testa, e nessuno ti potrà salvare! Ti strangolerò con le mie mani! - Terminò il sergente con un mormorio roco. - Puoi andare, ora, ho voluto avvertirti, così al volo. Ma non mi viene neppure in mente che nel nostro reggimento possa trovarsi un solo uomo che osi avere un pensiero contro la Fede, l’Imperatore e la Patria. Via! »7.
Tali profili, in tempi non sospetti verso la Rivoluzione, ci fanno comprendere come essa ebbe radici profonde, già alla fine dell’Ottocento. Nemici interni all’esercito iniziarono a plasmarsi, ma vi erano anche i nemici esterni; uno di questi è l’eterno studente Fedoro Feodorovitch Korgikoff, che poi divenne leader rivoluzionario il quale così esprimeva al militare Vittorio Mikhailovitch Liubovin come doveva comportarsi all’interno dell’esercito: «La sola cosa che vi rimane da fare è di agire con dolcezza, nelle conversazioni a quattr’occhi. C’è una parola che è eccellente. È la parola “compagno”. Servitevene quando parlate al soldato. Attaccatelo isolatamente, egli non ha mai udito quella parola; lo sorprenderà dapprima e gli parrà in seguito di una straordinaria dolcezza che gli penetrerà insensibilmente nell’anima. Datemi un solo uomo ben preparato da voi alla rivolta, e avrete fatto opera utile. Cercate di averne uno soltanto, che sia sempre malcontento, che critichi ogni cosa; dopo cercate di prepararne il secondo. Bisognerà anche guadagnarsi l’animo di un sottufficiale; senza di ciò è molto difficile agire»8.
Così scatta il piano di Korgikoff di avvicinare Sablin al processo rivoluzionario. Il meccanismo è semplice: usare la sorella di Liubovin, Marussa ad incontrare l’ufficiale per poi farlo diventare un agente della rivoluzione strisciante. Ma il nostro protagonista si rivela un vero figlio dello Zar, fedele e dall’anima immacolata. Il piano fallisce e addirittura Marussa si innamora perdutamente di Sablin. Marussa proviene dalla piccola borghesia, che all’epoca in Russia comprendeva una parte esigua della popolazione, poiché la borghesia europea – così come la conosciamo noi – in Russia fino all’Ottocento era praticamente quasi inesistente, vigendo un sistema feudale. In una conversazione tra i due, la giovane donna affermerà a Sasha come: «Voi avete una profonda fede, lo vedo, - disse Marussia - tutto è stabilito con tanta semplicità nel vostro spirito; si direbbero dei compartimenti classificati contenenti tutte le nozioni ammesse: Dio, la Chiesa, i ceri, le immagini, le genuflessioni, lo zar, la devozione, le riviste; poi il reggimento, l’uniforme, l’onore e finalmente la famiglia. Vi è una distinzione precisa tra quello che è permesso e quello che è proibito, tra quello che è possibile e quello che è impossibile. […] invece in me vi è un caos completo nelle mie idee, Alessandro Nicolaievitch […] Tutti e due cerchiamo la verità, e ciascuno di noi la comprende come può, per quanto essa non sia stata scoperta da nessuno. Io voglio la felicità per il mondo intero, voglio amare l’umanità intera, mentre voi non date il vostro amore che ad un piccolo cerchio di esseri e non riconoscete degna del vostro affetto che una piccola parte dell’universo. Ci siamo incontrati, abbiamo discusso e ci siamo interessati uno all’altro. Un idolo ci ha ravvicinati. Questo idolo è la bellezza. Voi l’adorate e ne siete fiero, mentre io la considero come una debolezza, quasi come un vizio.. Voi mi avete fatto vedere un quadro da racconti da fate: lo Zar e il suo Regno. Io nel cuore ho un altro racconto che vi dirò un giorno; per il momento non siete preparato a comprenderlo. Permettetemi di restare per Voi una sconosciuta, come Cenerentola al ballo del principe». Ebbene ancora una volta l’autore cerca di trasmettere, prima degli eventi decisivi del romanzo, quelle differenze ambientali e ideologiche tra le varie classi sociali. L’amore tuttavia è ricambiato, ma il principe Repnin lo richiama all’ordine, rispetto alla sua situazione nell’esercito, poiché un matrimonio “misto” tra classi sociali non paritarie impartirebbe uno scandalo pubblico all’onore del reggimento. Sablin pensa di suicidarsi, poi di lasciare il reggimento per amore, di cambiare radicalmente vita, poi torna il senso del dovere verso l’ideale, verso i principi del suo “bel mondo”: rispettare le convenzioni per essere preservati da esse stesse. Ancora l’autore ci instilla un altro concetto, oggi scomparso: di fronte ad un desiderio individualista, compiere un sacrificio grave ci rende uomini e ci fa sentire in armonia con il contesto sociale al quale apparteniamo. Sablin però aspetta un figlio da Marussa, ma non può tenerlo, così in un aspro scontro verbale con Korgikoff, quest’ultimo si impegnerà a crescere suo figlio con gli ideali della rivoluzione, mentre nel frattempo Marussa muore di malattia. Siamo di fronte alla prima piccola tragedia sulla pelle del protagonista.
Di tanto in tanto l’autore inserisce nel romanzo il classico personaggio opportunista, lo zio Oblenissimoff: sarà fervente zarista prima della guerra, per il Governo provvisorio rivoluzionario nel 1917 ed infine dopo essere stato spogliato dai suoi averi, come la sua casa, dai Soviet fuggirà con codardia in Svezia, dove nel frattempo – guadagnando soldi al mercato nero sulle persone più disagiate – aveva guadagnato una fortuna e aveva trasferito i soldi nel paese della corona scandinava. I dialoghi di scontro ideologici con il protagonista sono epocali: «Vi fu un tempo, in un lontano passato, in cui il monarca precedeva il popolo. Ora le parti sono invertite. Viene prima il popolo e poi il monarca. - Non so figurarmi un gregge che guidi i passi del pastore, - disse Sablin. - Ma, in ogni gregge vi sono dei montoni di guida che conducono il gregge e senza il loro aiuto le pecore rischierebbero di rovesciare il pastore»9.
Il seguito scorre veloce agli occhi attenti del lettore: se la guerra russo-giapponese (1904-05) si rivela essere un autentico disastro militare mal gestito dal comparto militare zarista, sarà la Prima Guerra Mondiale (1914-18) che assesterà il colpo decisivo all’Imperatore per il proliferare della Rivoluzione che in primis riuscirà a distruggere il morale dell’esercito al fronte. Una volta che l’esercito si sfalderà, l’anarchia rivoluzionaria iniziale e gli omicidi degli ufficiali sia al fronte che all’interno del Regno inizieranno. Il nostro protagonista, dopo la tragica esperienza amorosa si sposa con una sua pari-grado, la contessa Vera Constantinovna dalla quale avrà due figli, un maschio Kolia e una femmina Olga. Nel frattempo, a corte la zarina sempre più intrigata dalla fascinazione di Rasputin, vero e proprio demone ed incarnazione del male – così come confermato dalla bellissima autobiografia del principe Félix Yussupov, nel suo “Dalla corte all’esilio” – cade sotto la critica della stampa, mentre anche sua moglie Vera viene irretita e “assaggiata” sessualmente dal monaco depravato. Yussupov così descrive Rasputin: «Fu proprio alla fine di quell'anno, il 1909, che incontrai per la prima volta Rasputin. [...] Questa giovanetta era troppo pura per capire l'ignominia del “sant'uomo” e troppo ingenua per giudicare i suoi atti con conoscenza di causa. Era, così ella diceva, un essere dotato di una rara forza spirituale, inviato in questo mondo per purificare e guarire le anime e per guidare i nostri pensieri e i nostri atti. Questo ditirambo mi aveva lasciato scettico giacché, pur senza avere dati precisi su Rasputin, un oscuro presentimento me lo rendeva sospetto. [...] A sentirla, egli era un inviato del Cielo, un nuovo apostolo; le debolezze umane non avevano presa su di lui, i vizi gli erano ignoti, e tutta la sua vita altro non era che ascetismo e preghiera. Queste parole fecero nascere in me il desiderio di conoscere un uomo tanto straordinario; accettai dunque di recarmi [...] alcuni giorni dopo per incontrarvi il celebre starez. [...] Poco dopo la porta dell’anticamera si aprì e Rasputin entrò a piccoli passi. Si avvicinò a me e mi disse: “Buongiorno, mio caro”, con l’aria di volermi baciare. Arretrai istintivamente. [...] Di primo acchito, qualche cosa in lui mi spiacque, anzi mi ripugnò. Era di statura media, muscoloso, piuttosto magro. Aveva le braccia di una lunghezza esagerata. Dove cominciavano i capelli mal pettinati, si scorgeva una larga cicatrice (più tardi seppi che era la traccia di una ferita ricevuta durante uno dei suoi atti di brigantaggio in Siberia); gli si sarebbero dati quarant’anni. Indossava un caffetano, un paio di calzoni larghi e calzava grossi stivali. Nell’insieme aveva l’aria di un semplice contadino. Il suo volto, incorniciato da una barba irsuta, era volgare, i lineamenti grossolani, il naso lungo, e i piccoli occhi di un grigio trasparente e dallo sguardo evasivo stavano come imboscati sotto le folte sopracciglia. Benché affettasse una grande disinvoltura, si avvertiva in lui un certo imbarazzo, persino una vigile diffidenza; si sarebbe detto che spiasse continuamente il proprio  interlocutore»10. [caption id="attachment_16301" align="aligncenter" width="1000"] Principe Felix Felixovich Yusupov , conte Sumarokov-Elston ( 11 marzo 1887 , San Pietroburgo - 27 settembre 1967 , Parigi ) - Aristocratico e giornalista russo, l'ultimo dei principi Yusupov. Noto per aver partecipato all'assassinio di Grigory Rasputin. Marito della principessa Irina Alexandrovna , nipote dello Zar Nicola II.[/caption]
La moglie Vera non regge alla situazione e per senso di colpa, all’insaputa di Sablin, si suicida. Per il protagonista della nostra storia il colpo è tremendo: qui si comprende come la stessa nobiltà russa inizia a comprendere come la politica del Regno si sia arenata politicamente anche per via di personaggi profittatori, ambigui e dalla dubbia eticità o moralità ed il caso di Rasputin calza a pennello. Sablin è distrutto, ma ha ancora il figlio Kolia e per lui prevede una grande carriera militare. Inizialmente il figlio non può partecipare al conflitto per via dell’età, ma invogliato dallo zio Oblenissimoff, Kolia si presenta alla vigilia di una delle primissime cariche di cavalleria dell’iniziale offensiva russa. L’evento è epico e drammatico e qui l’autore mirabilmente ci descrive da soldato qual è, la crudeltà della guerra: «I serventi della batteria tedesca non videro subito che stava per arrivare la carica della cavalleria. Sablin ebbe il tempo di discendere in un’ampia vallata e di risalire su di una collina senza essere stato scorto dal nemico. […] La batteria tirava a sinistra in diagonale e Sablin poteva vedere i lampi dei colpi. Poi essa cominciò a voltarsi rapidamente dalla sua parte. […] Al galoppo allungato! - comandò […] Sablin vide scoppiare una gran fiamma dritto dinanzi a sé; apparve una nuvola bianca; il cavallo di Rotbeck cadde. […] Un colpo violento lo aveva colpito al petto. Gli sembrò che il suo cavallo s’impennasse e fu gettato di sella. La terra nera e odorosa rinfrescò il suo viso e gli entrò in bocca. Sablin sollevò la testa. […] «sono ferito», pensò; vide sulla testa il cielo azzurro e infinito, poi delle miriadi di piccole bolle trasparenti passarono davanti ai suoi occhi e lo accecarono. Chiuse le palpebre e perdette i sensi. Il conte Blanckenburg fu il primo a giungere alla battaglia e con un colpo di sciabola fece stramazzare un uomo che gli sparava contro. Il suo squadrone e quello di Rotbeck circondarono i pezzi e fecero strage di tutto ciò che li circondava. Alla loro destra un urrà sonoro si ripercosse nell’aria. La fanteria russa, uscendo dalle trincee, correva dietro ai tedeschi in ritirata. […] la vittoria era completa. E questa vittoria, l’esercito russo la doveva all’assalto temerario, insensato, del mezzo reggimento di Sablin. Sablin stesso, gravemente ferito al petto, era rimasto a terra senza conoscenza. Suo figlio Kolia, col torso crivellato e la testa asportata, giaceva in una pozza di sangue fumante. Il capitano in seconda Artemief, l’alfiere Pokrovsky, il tenente Agapoff, l’alfiere Barone Lieser eran morti; il tenente Kuscnaref, il barone Livdal ed il conte Toll erano feriti. Traversando la pianura silenziosa, un cavaliere si avvicinò al trotto: era il principe Repnin. Il suo volto era maestosamente calmo. - Grazie, ragazzi; è stata una mischia gloriosa, un episodio eroico, - disse Repnin. - Avete glorificato per sempre il nostro reggimento. […] Ma come è stata falciata la nostra gioventù russa! Bisogna che tutto l’universo sappia che il nostro popolo è unito, e che i nostri ufficiali sanno morire insieme ai nostri soldati, e in testa ai soldati […] la bellezza di quest’impresa è rimasta a Sablin! Che egli muoia o che viva, il giorno dell’assalto che egli ha condotto e che ci ha dato la vittoria brillerà d’uno splendore eterno!»11.Arriva infine la terza tragedia di Sablin. Proprio in questo scontro il figlio rimane ucciso, anche in maniera brutale da una palla di cannone che gli taglia la testa. Ora il Colonnello Sablin – che dopo questo scontro diventerà Generale acquisendo anche la croce di San Giorgio – ha solo come obiettivo di vita il servizio alla Patria e presto gli verrà tolta anche questa.La guerra che fece perdere allo Zar i suoi figli più fedeli nei primi due anni del conflitto provocò la Rivoluzione. Messi fuori gioco l’apparato dell’esercito fedele all’Imperatore e successivamente chiamate le seconde linee non esperte e soprattutto già indottrinate politicamente dalla rivoluzione, le gerarchie tra ufficiali e soldati cessarono, scatenando il caos. Eroi del romanzo, senza macchia, come il Sottotenente cosacco Alessio Karpoff furono mandati al macello per conquistare piccoli metri di terra, che poi il Governo dei Soviet avrebbe svenduto ai tedeschi per la pace, tradendo quegli stessi morti dello stesso popolo russo. Intanto il fronte interno si sfalda, il tradimento è ovunque, tutti si rivoltarono contro la polizia. I «cittadini soldati» dimenticarono che il nemico era il tedesco e stabilirono che il nemico fosse il russo. Inizia la caccia anche agli ufficiali, questi furono divisi in ufficiali rivoluzionari e ufficiali controrivoluzionari. Ai primi fu messa una coccarda rossa all’occhiello, poi furono disarmati e i soldati li trascinarono per mano cantando a squarciagola. Gli altri furono ricercati e inseguiti; tutti quelli che s’incontravano furono uccisi per la strada. Il Governatore di Pietrogrado, il Generale Khabaloff, tentò di protestare. Fu arrestato e condotto in fortezza. Mentre la Duma festeggiava la folla andò alla fortezza di Pietro e Paolo, massacrò gli ufficiali e i guardiani e mise in libertà tutti i prigionieri dello «zarismo», sia politici, sia di delitti comuni. La città fu riempita di delinquenti di tutti i generi. Furono incendiate le caserme dei pompieri, rotti i vetri e saccheggiati i magazzini. Tutte le città risuonavano della parola “compagno”. Ma non è la gente del popolo che ha tradito. A loro molto sarà perdonato perché non sanno quello che fanno; sono le alte sfere che hanno tradito l’Imperatore; non gli hanno permesso di arrivare fino a Tzarskoie Selo. Il suo treno è stato fermato per la strada e il comandante delle armate del Nord, il Generale Russky, è andato a trovarlo con i rappresentanti del popolo, che del resto non sono stati delegati da nessuno, Gutchkoff e Sciulghin. Tutti e due appartengono alle destra: uno è ottobrista, e l’altro, Sciulghin, redattore del giornale Kievlianin. Essi erano latori di un manifesto già redatto, nel quale l’imperatore dichiarava di abdicare in favore di suo figlio. Non c’era che da firmare il documento. Vicino all’imperatore nessuno per consigliarlo, per sostenerlo. Gli dissero che tutta la Russia si era dichiarata contro di lui. Russky affermava che se non firmava il manifesto, i soldati del fronte delle armate del Nord avrebbero marciato su Pietrogrado. Così l’Imperatore affermò «se sono la causa dell’infelicità della Patria, sono pronto a sacrificare tutto, anche la vita, purché la Russia sia felice». Ma il sentimento ebbe il sopravvento e per non consegnare suo figlio al popolo, fece quello che non aveva diritto di fare, abdicò anche a nome di suo figlio. L’Imperatore ha abdicato in favore di suo fratello Michele Alessandrovitch, ma quest’ultimo ha rifiutato di assumere il potere sovrano. Così il principe Lvoff è Capo del Governo, Gutchkoff Ministro della Guerra, Kerensky, socialista d’estrema sinistra, ministro della Giustizia, e così di seguito, quasi tutti personaggi insignificanti, com’è del resto la Duma dalla quale vengono. Si arriva così verso l’epilogo caotico e sanguinoso dell’intera epopea. L’autore ci descrive con mirabile ingegno come poco a poco la macchina bellica si sgretola: come l’ufficiale coscienzioso viene sostituito dall’amico militare del governo provvisorio, per inserire piccoli commissari politici sotto sembianze da ufficiali; ci descrive come il saluto militare diviene quasi facoltativo; fino all’ammutinamento, alla rivolta, ed infine agli omicidi dei generali e degli ufficiali. «La 204ª divisione stava preparandosi a prestare giuramento di fedeltà al Governo provvisorio […]. Sablin si preparava già ad andarsene, quando fu bruscamente fermato da un violento rumore di voci. Vide i soldati dirigersi verso di lui spingendo avanti brutalmente un ufficiale; Sablin riconobbe il tenente Ermoloff. Quegli stessi soldati che poco tempo prima avevano espresso la loro adorazione per questo comandante con il quale avevano condiviso la vita della trincea, adesso lo maltrattavano. - Che c’è? - gridò Sablin. - Come osate?.. - Il gruppo si avvicinò e subito fu contornato dalla folla dei soldati. - Generale, - disse un giovanotto con aria insolente continuando a tenere Ermoloff per la giubba - permettetetemi di spiegarvi. Tutti hanno prestato giuramento, e hanno firmato la formula, ma il tenente Ermoloff si è diretto improvvisamente verso la foresta. Dunque egli non vuole prestare giuramento. - Anzitutto come osate malmenare un ufficiale? Lasciatelo in pace e ritornate nelle vostre file! - gridò Sablin. Nessuno si mosse. […] - Ho prestato giuramento al mio Imperatore, - disse Ermoloff con voce rotta, ma ferma e distinta - e non presterò giuramento a nessun altro. Io non sono un traditore. - Un mormorio passò tra la folla. - L’imperatore ha abdicato; è il popolo che governa, ora, ed egli rinnega il popolo. - Rientrate nell vostre file! - gridò con collera Sablin. - Perché rientrare nelle file? Compagni, bisogna ancora sapere se anche il generale ha prestato giuramento. Essi son forse d’accordo; non vogliono servire sotto la bandiera rossa. - Vi è stato detto di rientrare nelle file; - ripetè Kozloff - volete dunque provocare un ammutinamento? - I rivoltosi sono quelli che non vogliono prestare giuramento; bisogna arrestarli. - Si arrestiamo il Generale! - Non più Zar, non più padroni; arrestiamo il Generale! Avanti compagni afferratelo! - La situazione divenne critica. Le prime file non si muovevano ancora, non osando levare le mani sul comandante del corpo d’armata; ma erano spinte dalla folla retrostante che rumoreggiava minacciosa. Sablin sentì che qualcosa di terribile stava per accadere»12. Il Generale Sablin viene arrestato, rilasciato ed infine, durante l’Affare Kornilov, di nuovo catturato – sul vagone appunto, dopo una breve fuga - per essere giustiziato in maniera tremenda da quel figlio perduto in gioventù, adottato e istruito all'odio dal suo antico nemico Korgikoff. Negli ultimi giorni di vita del protagonista, gli viene chiesto di servire l'Armata Rossa e di riacquisire il rango di Generale, con i conseguenti benefit provenienti dalla posizione, ma Sablin rifiuta categorico, ricordando sia al lettore, che a se stesso il suo antico giuramento di fede allo Zar. Dopo tremende sevizie da parte di suo figlio Korgikoff, appartenente alla Ceca, morirà senza un lamento. La sua uccisione è simile a quella del Cristo per l’autore. Dio è morto, è stato crocifisso dai bolscevichi, il male ha trionfato, la Russia così come la si era conosciuta – nella sua forma più europea – scompare per sempre. Sablin rappresenta la morte dell’ultimo figlio fedele di un mondo che stava entrando nell’oltretomba. Dunque perché leggere Dall’Aquila Imperiale alla bandiera rossa? Perché è un libro autentico, scritto da una penna straordinaria con una tale ampiezza e facilità che molti dei nostri veri scrittori di narrativa non si sarebbero mai sognati; un libro vero, sublime e crudo nello stesso tempo: un mix che solo i grandi della letteratura riescono a fondere. Voglio concludere, così come ho iniziato con Volkoff, sul concetto di Rivoluzione Russa: «La Confraternita della verità dei popoli si chiama così in onore della Confraternita della verità russa, i cui membri furono arrestati e giudicati durante il terrore post-leniniano. Invece di umiliarsi, di prosternarsi, di accusarsi di tutti i delitti, come hanno fatto le canaglie comuniste che sfilavano davanti allo stesso tribunale, i fratelli della verità russa rispondevano a tutte le domande che venivano loro poste cantando in coro: “Dio salvi lo Zar”. Si può non condividere le loro opinioni; non si può non ammirare il loro martirio. [...] Il popolo russo è effettivamente il popolo porta-verità, come ho scritto. Gli stessi cattolici sanno, dopo l’apparizione di Fatima, che noi abbiamo un destino a parte. La Rivoluzione cosiddetta russa è un tentativo non russo per pareggiare questo destino. La Russia ha un cuore mistico, il cui nome vero è Monastero della Trinità-San Sergio. Quel luogo è stato ribattezzato Zagorsk in onore di un oscuro rivoluzionario il cui pseudonimo era Zagorski e il nome vero Krachman. Non è simbolico? Conoscete i nomi degli assassini che hanno massacrato lo zar, la zarina, lo zarevič, le zarevne e quattro dei loro fedeli in quel sotterraneo di Ekaterinburg, il 17 luglio 1918 all'1 e 15? Tre sono russi, ma sentite i nomi degli altri: Iurovski, Horvat, Fischer, Edelstein, Fekete, Nagy, Grünfeld, Vergazy. Il vero nome di Trotski era Bronštein; di Zinov'ev, Apfelbaum; di Kamenev, Rosenfeld. Non ha importanza che alcuni di questi siano nomi ebraici: Dzeržinskij era polacco, Stalin georgiano, Berija mingreliano, Lenin un po' svedese e molto tartaro. Dunque non c'è ragione di gridare all'antisemitismo, come fanno gli Usurai, ogni volta che si constata che la Rivoluzione russa in realtà è una rivoluzione antirussa»13. [caption id="attachment_16302" align="aligncenter" width="1000"] Monumento all’Atamano Krasnov, che dal 2007 si trova nel villaggio di Elanskaya, distretto di Sholokhov, in un museo privato dei cosacchi. Alcuni chiedono la demolizione del monumento, altri sono contrari. Inoltre, la proprietà privata in Russia è rispettata dalla legge. E a volte sono rispettati molto più del ricordo di coloro che morirono nella Grande Guerra Patriottica. Tuttavia, sembra che sia stato trovato un compromesso: il cartello che diceva che si trattava di Ataman Krasnov è stato rimosso dal monumento. Adesso è solo un cosacco. Il 17 gennaio 2008, l’Atamano dei cosacchi del Don, deputato della Duma di Stato della Russia Unita Viktor Vodolatsky, ha firmato un decreto sulla creazione di un gruppo di lavoro per la riabilitazione di Pyotr Krasnov in connessione con una richiesta ricevuta dall’organizzazione cosacchi all’estero. Il 28 gennaio 2008, il consiglio degli atamani dell’organizzazione “Great Don Army” ha preso una decisione in cui ha osservato: “i fatti storici indicano che fu un combattente attivo contro i bolscevichi durante la guerra civile, e lo scrittore Krasnov durante la Grande Guerra Patriottica collaborò con la Germania nazista. Attribuendo un’importanza eccezionale a quanto sopra, il Consiglio degli Atamani ha deciso: di rifiutare la richiesta della fondazione senza scopo di lucro “Cossack Abroad” di risolvere la questione della riabilitazione politica di P. N. Krasnov”. Lo stesso Viktor Vodolatsky sottolinea: “il fatto della sua collaborazione con Hitler durante la guerra rende per noi del tutto inaccettabile l’idea della sua riabilitazione”. L’iniziativa di riabilitazione è stata condannata dai veterani della Grande Guerra Patriottica e dai rappresentanti della Chiesa ortodossa russa.[/caption]  
Per approfondimenti:
1 Nel maggio 1945, quando si arresero alla prigionia inglese, i cosacchi della Wehrmacht contavano 24mila militari e civili. Gli inglesi consegnarono al comando sovietico oltre duemila ufficiali cosacchi, incluso Krasnov; 
2 Pronipote del Maggiore Generale I. K. Krasnov, capo militare della scuola Suvorov, eroe della guerra del 1812; nipote del Tenente Generale I. I. Krasnov, storico e pubblicista del Don; figlio del Tenente Generale N. I. Krasnov, storico del Don, scrittore di prosa e pubblicista, scientifico, la cui opera “Cosacchi di Terek” è stata premiata con una medaglia d’oro dall’Accademia Imperiale delle Scienze; fratello minore del botanico e geografo prof. A. N. Krasnov e Platon N. Krasnov poeta e traduttore;
3 Nel maggio 1918, i cosacchi ribelli cacciarono i distaccamenti delle Guardie Rosse dal territorio della regione del Don. Il 16 maggio 1918, il “Circolo per il salvataggio del Don” elesse Krasnov Atamano dei cosacchi del Don. Avendo stabilito rapporti commerciali con la Germania e non obbedendo a A.I. Denikin, che era ancora concentrato sull’Intesa, guidò la lotta contro i bolscevichi a capo dell’esercito del Don. Krasnov annullò i decreti adottati dal governo sovietico e dal governo provvisorio e creò l'Esercito del Grande Don come stato indipendente. Tutto ciò portò al fatto che dopo la sconfitta della Germania nella prima guerra mondiale, l'esercito del Don nel novembre 1918 si trovò sull'orlo della distruzione e Krasnov fu costretto a decidere di unirsi all’esercito volontario sotto il comando di Denikin. Il 15 febbraio 1919 Krasnov, sotto la pressione di Denikin, fu costretto a dimettersi e partire per la Germania;
4 Esce in Italia nel 1929 con l’Editore Adriano Salani. Attualmente il libro non è andato più in ristampa ed è acquistabile sui vari mercatini dell’usato online;
5 Krassnoff P.N., Dall’Aquila Imperiale alla bandiera rossa, A. Salani, 1926, pp. 13-14;
6 Ibidem, pp.49-53;
7 Ibidem, p.39;
8 Ibidem, p.45;
9 Ibidem, pp. 457-58;
10 Yussupov F., Dalla Corte all’esilio - Memorie dell’uccisione di Rasputin - parte prima, capitolo decimo;
11 Krassnoff P.N., Dall’Aquila Imperiale alla bandiera rossa, A. Salani, 1926, pp. 307-10;
12 Ibidem, pp. 479-80;
13 Volkoff V., Il Montaggio, Guida Editori, pp.304-05.
 
 
 
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di Giuseppe Baiocchi del 04/03/2024

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Franz Josef Otto Robert Maria Anton Karl Max Heinrich Sixtus Xaver Felix Renatus Ludwig Gaetan Pius Ignatius (1912 - 2011), noto come Otto d’Asburgo ha sicuramente ricoperto nella storia del secondo dopoguerra un ruolo di spicco all’interno della politica europea. Capo della Casa d’Asburgo dal 1922 al 2007, anno in cui abdicò in favore del figlio Karl Thomas Robert Maria Franziskus Georg Bahnam von Habsburg-Lothringen (1961), fu il primogenito maschio dell’imperatore austriaco e re d’Ungheria Karl I (1887 - 1922) e di sua moglie Zita di Borbone-Parma (1892 - 1989). L’educazione dell’arciduca Otto, nonostante le ristrettezze economiche dettate dall’esilio, non sarà trascurata. L’erede, di una delle più importanti famiglie europee, fu seguito dal precettore conte Henri de Degenfeld, che lo avvia verso un’istruzione portata avanti anche da ex-ministri e direttori della Monarchia Duale, i quali avranno il gravoso compito di elevarlo verso un livello d’istruzione corrispondente al diploma superiore. Coerente con la tradizione asburgica sviluppa, come il padre, un alto senso di responsabilità, che successivamente gli tornerà utile in vista delle sue battaglie politiche.

[caption id="attachment_16255" align="aligncenter" width="1000"] Otto von Habsburg-Lothringen in età giovanile.[/caption]

Ma come poteva essere la giornata di un arciduca? Sicuramente molto dura: ci si alzava alle 06:30 di mattina, seguiva la Santa messa, la prima colazione, una breve pausa e successivamente si praticava equitazione o scherma, secondo le tradizioni di famiglia. Dunque lezioni e compiti, fino a colazione, poi Ottone poteva avere una ricreazione per riprendere i suoi studi fino al pranzo serale. Incredibile ci appare oggi, anche la conoscenza delle lingue europee: oltre il francese e l’inglese, il tedesco e l’ungherese, si esprimeva correttamente in italiano, spagnolo, ceco, croato e serbo. La famiglia gli insegna presto che ogni sua azione è sempre sotto «gli occhi di Dio», istruendolo verso i temi della tradizione cristiana. Con il passare del tempo, tutto diventa storia e le memorie di questi “antichi signori”, come li chiamano affettuosamente oggi i parenti, soddisfano bene la loro passione. L’amore per la natura e la caccia erano lo stesso comune denominatore, il vivere questa passione variava a seconda del carattere di ognuno di loro. Certamente l’Austria di fine Ottocento ed inizio Novecento possedeva un numero di selvaggina molto superiore all’epoca odierna per via della minore urbanizzazione dell’uomo e soprattutto la caccia era una professione incentivata dallo Stato: da qui le grandi battute storiche e i grandi raccolti di selvaggina autoctona. Oltre al rigore, degno di un Imperatore, la sua infanzia doveva toccare anche la problematica delle ristrettezze economiche, dettate dalla condizione, sempre instabile, della famiglia soprattutto dopo la morte del padre nel 1922 nell’esilio portoghese di Madeira. Accade anche che Otto non possa uscire di casa per diversi giorni finché il calzolaio del villaggio spagnolo non gli ripari il suo unico paio di scarpe, o che il ragazzo veda piangere una delle dame di compagnia della madre Zita, perché non vi erano i soldi per la spesa. La famiglia imperiale, in esilio, sarà prima ospitata da Alfonso XIII de Borbón (1886 - 1941) che li trattò da vero signore e galantuomo dal 1922 al 1929, successivamente si trasferirono in Belgio in uno château vicino Louvain, dove l’arciduca ereditario d’Austria poté frequentare l’università nella medesima città. La madre nel suo primo giorno universitario gli disse: «È una gran cosa essere fino a questo punto nelle mani di Dio». Alcuni amici della famiglia imperiale, gli offrirono un’auto per spostarsi e all’età di 23 anni conseguirà il dottorato in scienze politiche sociali, bruciando i tempi: siamo agli inizi degli anni trenta.

Una generazione di ex sudditi imperiali lo guardava, nonostante l'esilio, come punto di riferimento per un’eventuale restaurazione e in alternativa come leader politico. Uno di questi era lo scrittore Joseph Roth (1894 - 1939), afflitto dalla piaga dell’alcolismo. Alcuni suoi amici conoscendo l’infatuazione dello scrittore per gli Asburgo, ebbe l’idea di chiedere all’arciduca di intervenire. Il giovane, dopo aver convocato lo scrittore galiziano asserì: «Roth, in qualità di vostro imperatore, io vi ordino di smettere di bere». Roth, già ex soldato dell’Imperiale e regio esercito, in piedi sull’attenti, rispose una decisa esclamazione affermativa, prima di lasciare la stanza. Nel frattempo la Repubblica d’Austria, nel 1933, con il cancelliere austro-fascista Engelbert Dollfuss (1892 - 1934) – per scongiurare la presa del partito nazionalsocialista hitleriano in Austria -, rafforza il suo potere politico: viene sospeso il regime parlamentare creando un sistema corporativistico fascista a partito unico, con il Fronte Patriottico. L’arciduca Otto è inquieto per gli avvenimenti e riceve molti attestati di stima e sostegno da numerosi austriaci, sotto l’ala del cugino, il principe Maximilian Fürst von Hohenberg (1902 - 1962), figlio dell’arciduca assassinato a Sarajevo nel 1914, Franz Ferdinand.
[caption id="attachment_16254" align="aligncenter" width="1000"] Il Monumento di guerra sovietico di Vienna, più formalmente conosciuto come Heldendenkmal der Roten Armee si trova a Schwarzenbergplatz. Il colonnato semicircolare in marmo bianco che racchiude parzialmente una figura di dodici metri di un soldato dell'Armata Rossa è stato inaugurato nel 1945[/caption]
Tutto precipita un anno dopo, quando nel 1934 Dollfuss viene assassinato il 25 luglio a Vienna, durante un tentativo di Colpo di Stato nazionalsocialista. Sarà in tale periodo che avviene un evento alquanto particolare e portentoso, a simbolo dell’attaccamento della popolazione austriaca nei confronti della casata degli Asburgo: il 26 agosto il piccolo borgo di Kopfstetten ha il coraggio di nominare l’arciduca Otto, cittadino onorario – ricordando come l’asburgo fosse apolide in quel periodo. Da due anni, 269 comuni avevano già compiuto questo gesto di sfida di fronte alla minaccia di Adolf Hitler che amava affermare: «L’Austria? Sono cinque Asburgo e cento ebrei». Riconoscente, il giovane rampollo di Casa Asburgo e pretendente al trono, invia dal suo esilio belga una lettera aperta al sindaco di Kopfstetten, proprio l’ultima cittadina – come ci ricorda Zweig ne “Il Mondo di ieri” - da dove la famiglia imperiale aveva lasciato l’Austria: «Gli adii di Kopfstetten sono incisi per sempre nella mia memoria, anche se allora ero molto piccolo. Non dimenticherò mai l’angoscia che percepivo sul viso dei miei genitori nell’atto di separarsi da un popolo al quale avevano dedicato tutto se stessi […] Mi sembra sempre di sentire mio padre, l’Imperatore Karl, gridare “Arrivederci!” ai soldati che erano venuti alla stazione per portargli l’ultimo saluto. Purtroppo non ha più rivisto la sua patria, questo re della pace! E per quanto mi riguarda, con questa lettera conto di trovarmi già tra voi. So che i vostri cuori sono tutti in festa pronti ad accogliermi.. e per questo vi dico cordialmente a presto!». Successore di Dollfuss, il cancelliere Kurt Alois von Schuschnigg (1897 - 1977), da lui designato, nel 1935 riesce a far adottare dal parlamento alcune misure favorevoli alla dinastia il cui soggiorno in Austria era vietato. I decreti anti-Asburgo del 1919 sono parzialmente aboliti e due Burg, così come cinque case a Vienna, gli sono restituite. Possiamo pensare che Otto potesse cogliere il momento storico per una restaurazione nero-oro in Austria? Il cancelliere, viste le pressioni politiche si reca da Otto e nelle sue memorie scriverà: «dal pretendente al trono si diffondeva l’immagine di una personalità molto simpatica, cosciente delle sue responsabilità, sobrio nei modi, dotato di una intelligenza aperta, affinata dalle molteplici conoscenze e da una estrema gentilezza, una persona che sopportava a stento il suo destino di esiliato, con un impero giovanile che lo portava a non vedere gli effetti prospettici dovuti alla lontananza». Ancora tentativi, come quello avvenuto sempre tra il cancelliere, in lotta con l’estrema destra e l’estrema sinistra, e il capo del governo francese Pierre Laval (1883 - 1945). Ancora von Schuschnigg annoterà: «L’Austria e gli Asburgo sono concetti che, storicamente parlando, sono inseparabili come quello di Vienna dall’Austria o quello della Francia dai Borboni». Otto rappresentava l’uomo della tradizione e del legante culturale austriaco, colui che potrebbe garantire l’indipendenza d’Austria, nei confronti della Germania. Inoltre Otto d’Asburgo fu uno dei leader del tempo a opporsi nettamente alle lusinghe di Hitler, il quale prometteva all’interno del Mein Kampf, la restaurazione della monarchia asburgica in cambio del sostegno al nazionalsocialismo austriaco. La risposta di Otto mostra grande coraggio, quando senza ambiguità risponde su di una testata giornalistica: «Hitler è il solo uomo con cui ho sempre rifiutato di avere la benché minima relazione». Otto fin dall’inizio fu convinto, leggendo attentamente la sua opera, che il leader del partito nazionalsocialista voleva la guerra.
Intanto gli avvenimenti precipitano: nel 1936, in segno di riconoscenza verso il Führer per non essersi opposto alla campagna d’Etiopia del regime fascista (1935), Benito Mussolini ritira il suo appoggio al governo austriaco come “protettore dell’Austria” ritirando le truppe del Regio-esercito dal Brennero. Al fine di mantenere l’indipendenza, il cancelliere Schuschnigg è costretto a firmare un accordo con Hitler nel quale quest’ultimo prometteva di non invadere l’Austria in cambio della partecipazione dei “nazisti moderati” al governo di Vienna: ancora un’ultima illusione. È da affermare, di contro, che quasi la metà del Paese voleva ed ambiva all’annessione alla Germania, per ricreare quello che fu Il Sacro Romano Impero a lingua unicamente tedesca, dunque pangermanista. Addirittura anche i socialisti austriaci erano impegnati a sostenere l’Anschluss e così il 12 marzo del 1938, avveniva quello che passerà alla storia come Delenda Austria: la nazione veniva inglobata al Reich tedesco, con i blindati della Wehrmacht che supereranno la frontiera della Repubblica austriaca, senza incontrare resistenza dall’esercito. L’Austria si trasformava nella Ostmark (La Marca dell’Est), una provincia del Grande Reich. L’avversione di Otto al nazismo, fin dagli albori, lo pose come l’acerrimo nemico di Hitler, per quanto riguardava le posizioni del Führer sull’istituzione monarchica. È tristemente famosa la frase del nome in codice dell’Anschluss “Operazione Otto” e altrettanto forti furono le frasi di Hitler sprezzante sul passato dell’Austria-Ungheria, che definiva “impero meticcio”. Ancora due inviti da parte del cancelliere tedesco vengono rifiutate nettamente da Otto. Una posizione diversa, rispetto a quella presa dagli Hohenzollern, specialmente dal Kronprinz August Wilhelm Heinrich Günther Viktor Hohenzollern (1887 – 1949, il primogenito del Kaiser Guglielmo II) il quale aveva pubblicamente appoggiato Hitler durante la campagna elettorale, per avere in cambio una restaurazione della propria famiglia. L’arciduca ricorderà come una volta incontratosi con il principe prussiano, questi si presentò in camicia bruna delle SA, mettendolo «a forte disagio». Come in altri casi politici, Hitler sfruttò il nome della Casa reale per prendere voti, poi una volta al potere, scaricò gli Hohenzollern, non restituendo alcun “Trono e Altare”.
[caption id="attachment_16256" align="aligncenter" width="1000"] La vigilia del matrimonio una cena di gala si svolge all’hotel Excelsior. Otto indossa il collare dell’ordine del Toson d’Oro di cui è Gran Maestro; la regina esibisce un cerchietto di diamanti che apparteneva alla duchessa Maria Giuseppe, nonna del marito. A sua nuora Zita consegna le insegne in diamanti dell’ordine della Croce stellata che lei portava il giorno del suo matrimonio con Karl – onorificenza femminile in cui la sposa del capo del casato d’Austria è detentrice da quasi due secoli.[/caption]
Una settimana dopo l’annessione dell’Austria, il giorno di compleanno del Führer, il Ministro austriaco della Giustizia emette un mandato d’arresto contro Otto d’Asburgo e si legge nella nota «alto tradimento», poiché domandò aiuto alle Potenze straniere per impedire l’annessione. La stampa di lingua tedesca è dura, additandolo come «un reietto degenerato degli Asburgo» e un «criminale in fuga»: inizia la caccia all’uomo, che terminerà solo con la fine della seconda guerra mondiale. Il primo tentativo di rapimento da parte nazista, avviene nel 1939, quando un commando della Gestapo tenta di rapirlo: a Parigi, Otto soggiorna in un hotel di boulevard Raspail e, dopo l’armistizio del 1940, esso figura nella lista dei 76 nomi stabilità dall’alto comando come “elementi pericolosi e sovversivi”. Le autorità francesi hanno ordine espresso di arrestare tali individui; addirittura Walter Richard Rudolf Hess (1894 - 1987) voleva assassinarlo immediatamente dopo l’arresto avvenuto. L’arciduca si trovava in una situazione di immenso pericolo: la sera del 9 giugno 1940, quando il governo francese era già stato trasferito a Bordeaux, Otto è invitato ad un pranzo al Ritz da un ex ambasciatore americano presso il re dei belgi, per le 20:30. Una cena alquanto surreale se si pensa che cinque giorni dopo le truppe tedesche entravano trionfalmente a Parigi. La città è un deserto e gli uomini possono sentire il rumore dei loro passi che risuono nella sottostante piazza: «Eravamo i soli ospiti dell’albergo. Era incredibile quando ci penso… […] La cena era stata servita secondo le regole dell’albergo da camerati in frac come se niente fosse. La cena fu sontuosa, la discussione entusiasmante». Curioso che il libro degli ospiti del Grand Hotel veda, dopo la firma dell’arciduca, quella del feldmaresciallo Erwin Johannes Eugen Rommel (1891 - 1944), avvenuta pochi giorni dopo; qualche anno più tardi Otto d’Asburgo affermerà «di sicuro il mio nome non gli sarà sfuggito»! Il giorno dopo egli partirà per la Spagna ed il Portogallo, aiutando anche un centinaio di compatrioti austriaci alla frontiera con la Spagna franchista. A breve approda negli Stati Uniti, dove a Washington, convince l’amministrazione Roosevelt a dichiarare il 25 luglio “l’Austrian Day” e pubblica articoli per la rivista “The Voice of Austria”. Il prestigio della sua figura è tale che viene ricevuto anche presso la Casa Bianca dal presidente e sua moglie, incontrerà banchieri e industriali. Le sue conferenze affascinano il pubblico americano: le sue esposizioni sono chiare e precise, per un pubblico che conosce a malapena la Mitteleuropa. Sarà anche grazie al lavoro di Otto d’Asburgo, che alla conferenza dei ministri degli affari esteri che si era tenuta a Mosca il 19 ottobre 1943, gli alleati dichiararono che a conclusione del conflitto l’Austria sarebbe dovuta essere libera e indipendente, annullando, de facto, l’Anschluss. Infaticabile difensore dell’identità dell’Austria Otto d’Asburgo lavorerà a Washington fino al 1944, mentre la sua famiglia si era trasferita in Québec. Il suo ruolo negli Stati Uniti diviene essenziale, poiché egli si sforzò di far capire l’importanza dell’equilibrio geopolitico mitteleuropeo verso gli americani, ricordando loro molto spesso i gravi errori dei trattati post 1918, dove l’incoscienza, l’ignoranza e il disprezzo avevano regnato sovrane sui paesi sconfitti. Scoperto ben presto il piano egemonico comunista di Stalin nei confronti dell’Austria, che prese il nome di “Morghenthau” (dal nome di un segretario di Stato americano al Tesoro che l’aveva elaborato), vi si oppose con grande energia. Tale programma prevedeva la divisione dell’Austria in due parti: Vienna sarebbe andata sotto il controllo dell’Unione Sovietica (come poi avverrà per circa dieci anni) insieme a metà del territorio austriaco. I negoziati, quando Otto ne viene a conoscenza, sono già in uno stadio avanzato. Il presidente americano riferisce all’arciduca che è possibile ancora rivedere tale piano a condizione che lo richieda il Primo Ministro britannico, un certo Winston Churchill. L’inglese decretò, con molta semplicità che «la strada per l’India, vitale per l’Inghilterra, passava per Vienna e che quindi bisognava modificare il piano d’occupazione dell’Austria». Un lavoro oscuro e silenzioso quello dell’arciduca: se il piano Morgenthau fosse stato applicato l’Austria sarebbe scomparsa. L’armata Rossa entra in Vienna il 12 aprile 1945, presentandosi come “liberatrice” e facendo temere un trionfo bolscevico alle elezioni. Stalin ordinerà l’edificazione di un monumento alla loro gloria in piazza Schwarzenberg, ancora presente, inquadrato oggi da una fontana. L’Austria viene così “salvata” in quattro zone e non data interamente ai sovietici. La zona britannica controlla la Stiria, la Carinzia e il Tirolo orientale; la zona francese occupa il Tirolo settentrionale e il Vorarlberg; la porzione americana la parte sud dell’Alta Austria e Salisburgo; infine la Russia la Bassa Austria, il Burgenland e la parte dell’Alta Austria. Vienna stessa è scorporata in ben cinque zone, dove nel primo distretto era presente la sede amministrativa delle quattro potenze di occupazione e la capitale divenne dal 1948 il crocevia della guerra fredda.
L’esilio per Otto d’Asburgo sembra finire e dopo 25 anni può tornare nella sua terra (1945 - 1946): altra speranza effimera dopo tanti sforzi. Su richiesta del governo austriaco, gli Alleati ristabiliscono le leggi anti-Asburgo del 1919. L’accanimento ingiustificato porta la firma del presidente repubblicano Karl Renner (1870 - 1950), colui che nel 1938 aveva approvato l’annessione dell’Austria da parte di Hitler. La famiglia è costretta a ripartire per l’esilio, mentre l’Europa andava trasformandosi in quel “campo di battaglia” tra le due ideologie imperialiste che si affrontavano. L’arciduca risiede in Francia, ma viaggia spesso come conferenziere. Per lui, l’evento più importante nell’immediato dopoguerra è il matrimonio: a 39 anni nel 1951, sposerà a Nancy, antica capitale del ducato della Lorena, la regina ventiseienne di Sassonia-Meiningen. L’atmosfera è particolare: oltre alle 80.000 persone presenti, è presente una scorta di soldati in uniforme ungherese e diversi dignitari sfilano con le uniformi dell’antico Impero. I due si conobbero nel 1950, dopo lo scoppio della guerra di Corea. I campi dei rifugiati ungheresi in Germania erano scossi dalla paura del vicino confine sovietico: «È così che ho incontrato la mia futura sposa. Lei cooperava con la caritas che si occupava degli ungheresi con i quali ne condivideva la sorte. I beni della sua famiglia che si trovavano in zona di occupazione sovietica, quella che sarebbe poi diventata la “Repubblica democratica tedesca”, erano stati confiscati integralmente. Questa giovane donna coraggiosa, esiliata come lo ero io e proveniente da una famiglia provata dalla sorte, mi ha subito attirato». Dopo il matrimonio la coppia si trasferisce in Baviera, nella confortevole villa di Pöcking sul lago di Starnberg a sud di Monaco, romanticamente lo stesso luogo dove trovò la morte Ludwig II il 13 giugno del 1886. Le nascite si susseguono: Andrea (1953), le gemelle Monika e Michaela (1954), Gabriella (1956), Walburga (1958), Karl (l’erede tanto atteso nel 1961) e Georg (1964). Sulla moglie l’arciduca asserirà: «La favola non è mai terminata. Abbiamo avuto sette figli, cinque bambine e due bambini. Penso che le famiglie numerose siano una buona cosa, sia per i bambini come per il Paese». Dopo la liberazione da parte sovietica dell’Austria nel 1955 (Trattato di Belvedere), Otto ottiene nuovamente la nazionalità austriaca, senza il permesso di tornare sul suolo natio. Nel 1957 Otto dichiara di riconoscere apertamente la Repubblica d’Austria, ma ancora i socialisti si oppongo forzatamente al suo rientro. Ancora il 31 maggio del 1962, egli rinuncia “in conformità all’articolo 2 della legge del 3 aprile 1919 al suo ruolo di membro del casato degli Asburgo-Lorena e alle rivendicazioni di sovranità che ne derivano. Nonostante i suoi gesti di distensione, il “dottor Asburgo” fa ancora paura in Austria. Solo nel 1966, il 31 ottobre, potrà rimettere piede su suolo austriaco, ma continuerà sempre a risiedere in Baviera, ottenendo anche la cittadinanza tedesca nell’aprile de 1978: tale operazione gli permetterà di candidarsi alle elezioni del parlamento europeo del 1979. Il ministro presidente della Bassa Austria accetterà la doppia cittadinanza – vietata in Austria – poiché il dottor Asburgo-Lorena ha merito di aver fatto «ricomparire sulle carte geografiche del mondo l’Austria, dopo la seconda guerra mondiale».
[caption id="attachment_16257" align="aligncenter" width="1000"] Otto von Habsburg-Lothringen in età avanzata.[/caption]
Otto viaggia in molti Paesi d’Europa per cooperare politicamente alla sua ricostruzione: famosa la conferenza del 28 marzo 1968 al gran teatro di Le Mans, avente titolo “Austria tra est e ovest” organizzata dall’Accademia du Maine diretta da Guy des Cars. Recentemente, teneva ancora una conferenza “a braccio” al Circolo dell’Unione interalleata con “L’Europa degli anni 2000”, seducendo il numerosissimo pubblico presente. Possiamo capire come egli potesse essere ascoltato anche dai politici di primissima classe, in occasione della guerra di Jugoslavia (1991 - 2001). La famiglia Asburgo, perso il potere temporale, dopo essere sopravvissuta a tante rivoluzioni, persecuzioni e guerre, oggi si impegna con costanza – seguendo l’esempio di Otto – in numerose attività diplomatiche, caritative, amministrative e culturali, sempre in segno dei valori dell’Unità Europea. Certamente nel segno di un Vecchio Continente non asservito dall’attuale tecnocrazia economica e politica: Otto si sorprese nel vedere sulle banconote europee nessun personaggio storico celebre per il nostro continente, né nell’aver denotato alcun elemento del patrimonio artistico, architettonico, spirituale, scientifico e industriale, ma vuoti archi astratti che non conservano in sé nessun valore. La soppressione delle feste cristiane, figlio di un pretenzioso calendario europeo comparso nel 2011 rammaricò molto l’arciduca, che da sempre si era battuto per altri valori. Il complotto per far dimenticare le radici e l’identità “dell’Europa dei popoli”, oggi è ancora in atto. Un vero e proprio lavaggio della coscienza europeo. Come afferma anche il dott. Federico Nicolaci nei suoi studi: «Lo stupore con cui l’Europa scopre oggi di essere una “tecnocrazia senza radici” (Habermad 2014, p.21) e una costruzione “fondamentalmente vuota” (Judt 1996), come la crisi dei debiti sovrani e la conflittualità intra-europea che da essi si è sprigionata dimostrano chiaramente, ricorda lo stupore del miope, giacché tale esito non è accidentale, ma è il risultato ultimo di un parossistico rafforzamento dell'approccio funzionalistico e tecnocratico all'integrazione europea. Un'auto-comprensione altamente impoverita dell'Europa ha reso possibile che venissero abbracciati quegli stessi processi di spoliticizzazione che sono oggi la causa della sua disintegrazione politica e culturale. È evidente, infatti, che un'Europa unita e legittimata solo dai benefici materiali (dispensati da una “polity” sovranazionale sottratta in linea di principio, e nel caso della BCE de iure, all'influenza politica democratica) è un'Europa profondamente instabile, essenzialmente disunita: quando tali benefici si rivoltano in svantaggi, come sta accadendo con la crisi dell'Euro, nessuna “energia” rimane ad arginare le forze centrifughe e disintegranti. Un’unione dei progetti è un tempio completamente vuoto, inanimato, e nella misura in cui l’Europa pensa di sé semplicemente in termini pragmatico-funzionali, allora essa pronuncia volontariamente la propria condanna». Ancora, proseguendo con le problematiche europee, ci sono voluti ben 92 anni per pagare i 269 miliardi di Reichmarks, ossia i 200 milioni di euro, dovuti alle riparazioni di guerra della Germania, estrapolate nel trattato di Versailles, saldato solo il 3 ottobre 2010. Il ritorno dell’Imperatrice Zita, con i suoi funerali di Stato in Austria sono stati oggetto di ampie discussioni da parte dell’opinione pubblica europea. Meno contestata, la beatificazione dell’Imperatore Karl I, avvenuta il 3 ottobre del 2004, per mano di Papa Giovanni Paolo II, che permise l’esposizione del ritratto del beato Imperatore sulle finestre di città del Vaticano, ricordate anche da Otto, il quale lascia un grande vuoto politico il 14 luglio del 2011 alla veneranda età di 99 anni, presso il suo domicilio di Pöcking in Baviera. L’arciduca si era molto indebolito, dopo essere caduto da una scalinata e soprattutto dopo la perdita della sua amata moglie un anno e mezzo prima. Lascia i famigliari in punta di piedi, addormentandosi nel sonno, con stile, così come aveva vissuto senza mai alzare la voce, per tutta la sua vita. I suoi funerali solenni a Vienna il 1°agosto sono stati accompagnati da 1 milione di austriaci (in un paese di 8,3 milioni di abitanti), ma anche da ungheresi, ruteni, galiziani, croati, italiani, boemi: il vecchio Impero scomparso, si riuniva per l’ultima volta. Nella cattedrale di Santo Stefano, la cerimonia si è svolta in presenza di numerosi monarchi e principi europei, del bel mondo, ma l’evento solenne ha visto anche alte personalità della politica europea e personaggi di rilievo religioso. Presenti tutti i cavalieri dell’Ordine del Toson D’Oro, ordine di cui l’Arciduca era stato Gran Maestro in Austria ed erano presenti anche un nutrito gruppo di quattrocento Kaiserjäger in gran tenuta tirolese, simbolo dell’attaccamento dell’ex contea del Tirolo all’erede al Trono. La televisione pubblica ORF ha trasmesso le esequie in diretta con diversi reportage storici e attuali, fino alla storica cerimonia di sepoltura presso la Cripta dei Cappuccini, che si apprestava ad accogliere ancora una volta “un semplice peccatore”.
 
Per approfondimenti _Marie-Madaleine Martin, Othon de Habsbourg – Prince d’occident, edizione Du Conquistador, 1959; _Jean Des Cars, La storia degli Asburgo, Udine, Nuova editrice goriziana, 2018; _Flavia Foradini, Otto d’Asburgo. L’ultimo atto di una dinastia, Trieste, Mgs Press, 2004.
 
 
 
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di Giuseppe Baiocchi del 11/02/2024

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I grandi cacciatori mitteleuropei, così come le grandi cacce della nostra recente antichità venatoria europea, trasmettono sempre un fascino romantico verso un’epoca passata gloriosa e piena di tradizioni. Il “cacciatore” di questi tempi prestigiosi, aveva un profilo molto diverso dal cacciatore odierno, poiché quella che appunto veniva definita “arte venatoria”, era in realtà l’essere votati completamente verso la caccia: una vera e propria professione. Questi uomini rappresentano la vera tradizione venatoria austriaca: per lo più proprietari terrieri, fungevano anche da veri e propri “ambientalisti” della conservazione, fungendo di rimando ovviamente anche da modelli per la società dell’epoca.

[caption id="attachment_16218" align="aligncenter" width="1000"] L'imperatore Franz Joseph I posa dopo aver abbattuto un cervo presso Karapancsa nel 1896. Foto originale dell'arciduchessa Isabella d'Austria.[/caption]
Con il passare del tempo, tutto diventa storia e le memorie di questi “antichi signori”, come li chiamano affettuosamente oggi i parenti, soddisfano bene la loro passione. L’amore per la natura e la caccia erano lo stesso comune denominatore, il vivere questa passione variava a seconda del carattere di ognuno di loro. Certamente l’Austria di fine Ottocento ed inizio Novecento possedeva un numero di selvaggina molto superiore all’epoca odierna per via della minore urbanizzazione dell’uomo e soprattutto la caccia era una professione incentivata dallo Stato: da qui le grandi battute storiche e i grandi raccolti di selvaggina autoctona. Sotto l’Impero dell’Austria-Ungheria vigeva l’antico motto A.E.I.O.U. «Alles Erdreich Ist Österreich Untertan», ovvero «Tutta la terra è soggetta all’Austria», ma con la caduta della monarchia danubiana le imprese dei grandi cacciatori erano concluse e le loro tenute – in grande quantità – confiscate dai nuovi Stati nazionali.
I frammenti e i racconti ci pervengono quando nel 1984 due aristocratici sono a dialogo fra loro: da una parte il conte László Szápáry e dall’altra il barone Ernst Edwin Offermann. Capitava spesso che i due discutessero fino al mattino degli incidenti della giornata di caccia nel loro Pavillon. Durante le conversazioni non veniva mai riprodotta alcuna cassetta né presi appunti scritti perché ciò distraeva i signori da ciò che avevano da dire! Tra gli svariati invitati lo scrittore Klaus Neuberger (1955) continuava spesso tali conversazioni ascoltando incredulo l’enorme quantità di storie e aneddoti; analoga situazione avveniva con il barone Offermann. Solo successivamente, ciò che veniva ascoltato fu richiamato dalla memoria e trascritto: con il conte Karl Draskovich, il conte Franz Meran e Hans von Kienast iniziarono le trascrizioni durante le conversazioni.
[caption id="attachment_16219" align="aligncenter" width="1000"] Pranzo propiziatorio di caccia agli inizi del secolo scorso a Vienna.[/caption]
Di conseguenza, molte storie emerse gradualmente e costantemente ascoltate, sono state scritte e sono state condotte molte interviste. Nel modo in cui venivano poste le domande, venivano ricordate e interrogate varie personalità, e i narratori rivelavano i loro personali ricordi, con lo scopo di creare un piccolo monumento scritto a queste persone e ai grandi della caccia, per salvare dall’oblio odierno le loro esperienze e alcuni aneddoti e per regalare al lettore alcuni momenti belli e interessanti mentre legge il grande e glorioso passato: un riflesso storico che vedrà le gesta venatorie dei Laszlo Szapary, Albrecht von Bayer, Carl Hugu Seilern, Feri Meran, Ernst Edwin Offermann ed altri. Dunque cos’era la caccia? Il grande cacciatore dei Carpazi Herbert Nadler (1883 - 1951) scrisse: «chi non ha mai visto l’alba dopo una partita mattutina e non ha mai visto il risveglio del giorno, non sa cosa sia la caccia». Per il famoso cacciatore e scrittore di caccia conte Zsigmond Széchényi (1898 - 1967), «la caccia è devozionale», e il filosofo José Ortega y Gasset (1883 - 1955) affermava: «Si uccide per aver cacciato […] ecco perché vai a caccia, quando sarai stanco di essere nel XX secolo, prendi la tua pistola, fischietta al tuo cane e vai nel bosco e concediti qualche ora di divertimento, per tornare ad essere un uomo dell’epoca antica».
“I bei vecchi tempi” a Vienna erano dunque un’epoca in cui era ancora possibile organizzare cacce di massa e lasciare che tutta la passione e la professione diventassero quasi religiose. Un tempo che non è più, con circostanze e condizioni che non esistono più. Proprio la società dell’epoca rese possibile tale pienezza atmosferica. C’erano ancora saloni e cocktail, séjour e pomeriggi a carte. Il biliardo era ancora di moda, nei club si giocava anche a bridge (St. Johann, Jockey Club), dopodiché di tanto in tanto si faceva visita al Red Bar dell’Hotel Sacher o al Bristol Bar. Il bacia mano alle dame era più di una semplice formalità galante, era ancora uno stile di vita, non una parola popolare. Si viveva ancora in castelli, ville, palazzi cittadini o in residenze feudali lungo la Ringstrasse o in grandi appartamenti nel terzo e quarto distretto. E non sono solo i rappresentanti dell’aristocrazia erano coloro che portavano avanti l’arte venatoria, ma anche la borghesia benestante dava il suo contributo: industriali che producevano mattoni, producevano birra o barbabietola da zucchero lavorata, così come costruttori, produttori tessili e di seta, avvocati e altri. Se uno dei signori del pomeriggio voleva premiarsi, o magari incontrare qualcuno con cui discutere di questioni di caccia, si recava al Cafe Demel, il tanto decantato tempio dei dolciumi sul Kohlmarkt. Dal K.u.K. Hofzuckerbacker si poteva inoltre portare un regalo alla moglie rimasta a casa e proprio lì, dal 1936 in poi, l’artista di alto livello conte Friedrich Berzeviczy-Pallavicini (1909 - 89) decorò magistralmente le vetrine con le sue famose e ineguagliabili decorazioni, dove molti curiosi si recavano periodicamente in pellegrinaggio per ammirare le sue ultime creazioni. Successivamente si recò a New York via Parigi. Allora la comunicazione, se non parlata di persona, si chiamava ancora “corrispondenza”. C’erano ancora spettacoli di varietà e locali notturni dignitosi. I protagonisti si incontravano nei club maschili e all’ippodromo e molti avevano la propria scuderia (ad esempio Stall Seilern e Stall Meran).
[caption id="attachment_16221" align="aligncenter" width="1000"] Casa Imperiale Austriaca per l'Esposizione internazionale della caccia - Padiglione della Bucovina, 1910.[/caption]
C’erano ancora maggiordomi, autisti e personale in livrea, cuochi propri – anche loro specializzati nella cucina di selvaggina – e gioiellieri specializzati in gioielli da caccia. Il titolo professionale del K.u.K, letteralmente “Imperiale e regio”. I fornitori della corte pagavano sempre qualcosa e ciò forniva grande pubblicità alle aziende. I negozi di armi avevano ancora un’ampia scelta di fucili nei calibri 12, 16 e 20, e talvolta 28 e 410. Era ancora di moda la località di villeggiatura estiva, dove naturalmente la popolare regione del Salkammergut offriva molte opportunità per la caccia al camoscio estivo. Questa zona era estremamente frequentata all'epoca grazie all’Imperatore Francesco Giuseppe. All’epoca e prima vi era rappresentata anche l’élite culturale, che vi svolse anche la sua opera creativa, dove i protagonisti ne trassero forza e ispirazione: Johann Nestroy, i pittori, poeti e musicisti Waldmüller, Bauernfeld, Nikolaus Lenau, Carl Millocker, Johann Strauss, gli attori Katherina Schratt e Alexander Girardi, e più tardi Franz Lehar e Ralph Benatzky. Oggi Klaus Maria Brandauer, il direttore d’orchestra Franz Welser Most e gli scrittori Barbara Frischmuth e Alfred Komarek sono i rappresentanti culturali di spicco della omonima regione. L’imperatore stesso amava molto il pittore e cacciatore Friedrich Gauermann (1807 - 12) e Franz von Pausinger (1839 - 1915), di cui conservò molti dipinti a Bad Ischl. In questo periodo, anche i “baroni del sale” e gli industriali del Greater Burgh tenevano i loro ricevimenti sociali nella zona. Il tempo in cui non si cacciava lo si trascorreva con la famiglia, rendendo omaggio, giocando a tennis, a carte e occasionalmente assistendo a concerti alle terme o dal pasticcere Zauner con il suo caffè annesso. Allo stesso tempo, si facevano trattamenti termali con salamoia in una delle numerose terme. Si organizzavano anche gli amori autunnali dei cervi di montagna e si affittavano battute di caccia all’interno dei latifondi. Si poteva addirittura far realizzare sul posto una tradizionale pelle di camoscio o ritirare le famose “barbe di camoscio” legate artisticamente l’anno precedente. Nei giorni in cui a Vienna non c’era la caccia, le persone si incontravano per caso mentre stavano aggiornando o ampliando la propria attrezzatura in uno dei numerosi e rinomati negozi di caccia della città, o anche semplicemente acquistando nuove munizioni. C’era il k.u.k. Springer, fornitore del tribunale del 1° distretto e di Josefstadt. Prima con Kalezky nella Babenbergerstrasse, poi con i maestri Denk, Mulacz, Kruschitz, Gschwantner e Brandeis. Il grande magazzino Groh in Kartnerstrasse aveva un proprio reparto di caccia: venivano acquistate grandi quantità di cartucce. Oppure le persone si incontravano nel 7° distretto presso il famoso tassidermista Hodek. Eduard Hodek (1827 - 1911) accompagnò il principe ereditario Rodolfo nelle battute di caccia e fu preferito dall’aristocrazia austroungarica per le sue abilità: il maestro Hodek lavorava con precisione e stile incomparabili. Lavorò anche per il Museo di Storia Naturale di Vienna e per la Haus der Natur di Salisburgo. Oppure si poteva acquistare armi con incastonature in argento presso l’argentiere di corte Halder – il padre fondatore dell’azienda era il gioielliere Franz Josef Halder (1884 - 1972) – in Michaelerplatz; ed ancora si poteva acquistare gioielli da caccia per donne. L’imperatore Francesco Giuseppe I fu il primo acquirente della leggendaria figura mitologica dello “Jagdsau” (Cinghiale da caccia mitologico) nel 1910. La miniatura avente forma di cinghiale, possedeva in capo dei palchi di cervo ed al posto della coda due palchi di camoscio: le orecchie avevano due grandi foglie ed al centro della bestia era incastonato un rubino, che simboleggiava il sangue e il desiderio della preda. Haldersau su marmo di Salisburgo fu composto – ed è ancora in produzione presso “Halder Juwelier und Silberschmied” con argento, granato, marmo di Salisburgo e la leggenda narra che porti fortuna al cacciatore. Così nel 1910 l’Imperatore, quando aprì in suo onore la prima esposizione mondiale della caccia, Franz Halder presentò questo gioiello speciale: Francesco Giuseppe, accompagnato dal suo seguito, chiese cosa fosse questo nuovo oggetto e Halder spiegò il simbolismo umoristico a Sua Maestà; così Sua Maestà Imperiale e Regia preso il gioiello, lo consegnò a uno dei suoi aiutanti, noto per la sua mancanza di precisione, con le succinte parole «guarda, principe; forse questo migliorerà le cose». Il disegno di questa produzione proviene dal professor Waldmüller, discendente diretto del famoso pittore Biedermeier.
[caption id="attachment_16220" align="aligncenter" width="1000"] La leggendaria figura mitologica dello “Jagdsau” (Cinghiale da caccia mitologico) creato nel 1910. La miniatura avente forma di cinghiale, possedeva in capo dei palchi di cervo ed al posto della coda due palchi di camoscio: le orecchie avevano due grandi foglie ed al centro della bestia era incastonato un rubino, che simboleggiava il sangue e il desiderio della preda. Altra tradizione era rappresentata dai distintivi venatori della rispettiva zona geografica. Modelli eleganti con lavorazioni molto solide caratterizzano gli esemplari della ditta Halder, tradizione anch’essa oggi viva nell’antico negozio viennese in Reitschulgasse 4.[/caption]
Una tradizione dell’epoca d’oro della caccia era la presentazione del distintivo di caccia della rispettiva zona geografica. Modelli eleganti con lavorazioni molto solide caratterizzano gli esemplari della ditta Halder, tradizione anch’essa oggi viva nell’antico negozio viennese in Reitschulgasse 4. Le persone indossavano ancora copricapi individuali e i distintivi di caccia degli antichi maestri erano presentati sui copricapi venatori con grande orgoglio. I tessuti venivano acquistati o confezionati su misura al Loden Plankl, a pochi passi da Michaelerplatz, o da Turczynski a Wollzeile. La ditta Morz in Mariahilferstrasse ha risolto i problemi relativi alle scarpe. La già citata Esposizione Mondiale della Caccia fu un evento straordinario e un’opera d’arte in cui è stato presentato il meglio dell’arredamento e della cultura venatoria. Le officine viennesi e la ditta Thonet hanno lavorato e costruito falegnamerie appositamente per questa mostra. E i grandi detentori del territorio della monarchia hanno sfoggiato i loro trofei unici e prestigiosi. Questa è stata una parata di performance straordinaria e incomparabile. I cacciatori più famosi da ogni parte del mondo si sono riuniti. Non solo gli amministratori forestali ne hanno parlato, ma tutti i cacciatori furono molto orgogliosi di questo evento unico, che ha portato anche alti profitti. Alcune persone furono ispirate a intraprendere nuove battute di caccia, così furono stabiliti contatti e firmati contratti di tiro. Questa grande mostra ha avuto per molto tempo un’influenza duratura sulla scena della caccia e ha plasmato anche il lato dei produttori e persino l’intero settore della caccia. Fu eretto un monumento all’ego della caccia in quanto le foto venivano pubblicate in numerose riviste venatorie, quando i maestri cacciatori annunciavano i loro percorsi o, come fece ad esempio il conte Rudolf Chotek, il quale descriveva ogni giorno l’esperienza dell’amore del cervo in interi saggi che furono pubblicati insieme alle fotografie. La notizia dei grandi percorsi per la caccia-bassa di Totmegyer si diffuse all’epoca sulle riviste indiane. Durante la stagione autunnale la caccia-bassa, che proseguiva fino all’inverno, godeva di una buona reputazione e molti tiratori avevano tempo a disposizione e disponevano anche dei mezzi finanziari necessari e della relativa indipendenza, per trascorrere settimane venatorie. Tutti avevano dei buoni aiutanti con i quali si aveva già molta esperienza e routine. Il lavoro del cacciatore distrettuale, dell’allevatore di selvaggina, perfino dell’allevatore di cani, del boxmaker, del pastore e di altre professioni specializzate era molto stimato, e c’era anche la professione di maestro fagiano.
[caption id="attachment_16223" align="aligncenter" width="1000"] Gruppo di escursionisti: al centro Francesco Ferdinando, Alfonso XIII in piedi davanti a un albero a sinistra, l'arciduca Federico a destra, Halbturn, 1906.[/caption]
Grande rispetto è stato riservato al personale. Le grandi cacce si svolgevano durante la settimana, di solito martedì e giovedì, a volte per più giorni. I maestri di caccia preferivano i buoni tiratori e gli inviti arrivavano principalmente in base alla qualità di tiro dei partecipanti e non in previsione di inviti di ritorno. In alcuni casi, però, gli inviti si basavano anche sul talento dell’intrattenitore. Naturalmente qua e là il grande nome di un allevatore di piccioni di successo aggiungeva valore alle liste degli inviti. E sui percorsi e sui rifugi delle altre cacce si sapeva molto e quasi tutto, in parte pubblicato anche sulle riviste specializzate. C’erano ancora fumettisti venatori ed uno o due scrittori di caccia si univano spesso alle squadre per raccogliere esperienze e storie, raggiungendo un’alta reputazione letteraria. Di conseguenza, gentiluomini avventurosi e ben navigati stuzzicarono il loro appetito per l’Africa, il Canada e persino l’India, ed attraverso i cronisti, le loro storie di caccia attraversavano il globo tramite diverse pubblicazioni di successo. Il richiamo dell'Africa, era glorioso, ma pericoloso: Fritz Schindelar di Vienna, lavoro nel continente africano come cacciatore professionista; tuttavia, Schlinder rinomato per i suoi calzoni bianchi immacolati e gli stivali lucenti, per la sua audacia e il suo essere donnaiolo, fu ucciso intorno al 1912 mentre assisteva il miliardario regista americano Paul Rainey, nel fotografare un leone che caricava verso la telecamera. I viaggi tra le cacce individuali, alternate, tra Boemia, Moravia, Slovacchia, i paesi dei Carpazi, Vojvodina, Ungheria e Austria erano molto faticosi. E poi ci sono i viaggi all’estero. Si viaggiava molto in treno, anche con l’O.K.W., ma si verificavano comunque molti guasti, soprattutto danni ai pneumatici sulle cattive strade di campagna. Alcune persone arrivavano a caccia solo all’ultimo momento, quando si mettevano in fila, dopo aver viaggiato tutta la notte – provenendo da un’altra battuta di caccia il giorno prima. I Waidmanner e gli Schützen spesso avevano bisogno nella loro vita di diversi libri di caccia e di tiro per documentare i loro percorsi e le loro esperienze. Anche i medici partecipavano spesso alle battute di caccia, per ragioni di sicurezza e per rassicurare, così da poter intervenire tempestivamente e con competenza in situazioni di particolare importanza (colpi di rimbalzo) e in un possibile incidente di caccia. Le massaie servivano ancora il pranzo nel campo o curavano la degustazione. Ultime, ma non meno importanti, le varie mostre di caccia (come quella annuale di Budapest) mostravano agli appassionati cosa era stato ucciso da chi e dove e le persone potevano confrontare gli esemplari. I cacciatori professionisti che confermavano un determinato capriolo al loro capocaccia o l’ora della loro partenza seguivano il rintocco dell’orologio del campanile di una chiesa vicina, oppure utilizzavano il proprio orologio da tasca. In breve: era il tempo dei grandi gentiluomini, delle grandi cacce, delle grandi distanze, dei tiratori eleganti e bravi, il tempo del saper vivere e la gente amava la compagnia, soprattutto la battuta di caccia. Le persone cacciavano al massimo e si vivevano bene, nell’organicità del mondo. Oggi, coloro che ricordano quelle persone pensano ancora di poter “sentire” il suono delle loro parole e la melodia dei loro racconti: a venatione mihi salus.
 
Per approfondimenti:
_Frevert Heinke, Meine Waidmänner und ich, BLV Verlagsgesellschaft, Monaco, 1965; _Erste Internationale Jagd Austellung Wien 1910; _Nadler H., Spari nel bosco. Dal mio diario di caccia, Bietti, Milano, 1965; _Neuberger K., Tolle Zeiten & Grosse Jäger, Bernodorf, 2009.
 
 
 
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di Giuseppe Baiocchi del 04/02/2024

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Uno dei massimi prodotti letterari forniti per il filone mitteleuropeo ce lo fornisce il grande scrittore Franz Werfel (1890 - 1945) il quale viene considerato l’emblema di questo conservatorismo spirituale. La sua dignità democratica unita al suo cosmopolitismo, traspare in quasi tutte le sue opere, consegnandoci degli scritti che ci trasmettono pienamente il disorientamento dell’autore, incapace di reagire alla fine di un’epoca e parallelamente non in grado di analizzarla criticamente. Fautore della rivista tedesca Der jüngste Tag (Il giorno del giudizio del 1913), insieme all’editore Kurt Wolff (1887 - 1963) e allo scrittore Max Brod (1884 - 1968), che si poneva come forum per nuove poesie, col tempo divenne uno dei più importanti luoghi di pubblicazione della letteratura espressionista.

[caption id="attachment_16119" align="aligncenter" width="1000"] Franz Werfel (1890-1945).[/caption]
Esordì come lirico nell’ambito dell’espressionismo, con i volumi Der Weltfreund (L’amico del mondo del 1911), Wir sind (Noi siamo del 1913) in cui effonde l’umanitarismo e l’appassionata religiosità della sua natura, divisa fra sangue ebraico e aspirazioni cristiane. Nonostante la sua indole votata al pacifismo, allo scoppio della Grande Guerra, si arruolò nell’Imperiale e regio esercito e fu inviato sul fronte orientale come scrittore dell’ufficio stampa austriaco. Alla costante ricerca di umanità e grazia, il suo percorso fu camaleontico e mutevole, poiché intraprese e con successo, diverse correnti: dal suo essere mistico e simbolista inquadrato in Bocksgesang (1922) e Schweiger (1923); passando successivamente all’ermetico Beschwörungen (Incantesimi del 1923); per leggerlo in chiave epica con Die vierzig Tage des Mussa Dagh (I quaranta giorni di Musa Dagh del 1933), dove viene narrata l’epopea armena nei confronti delle repressioni dei Giovani turchi; concludendo con il Werfel narratore fantascientifico Stern der Ungeborenen (La stella degli uomini futuri del 1946).

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di Giuseppe Baiocchi del 13/01/2024

[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1708007109264{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]Joseph Roth è uno dei grandi sopravvissuti della civiltà ebraica dell’Impero danubiano.

[vc_row css_animation="" row_type="row" use_row_as_full_screen_section="no" type="full_width" angled_section="no" text_align="left" background_image_as_pattern="without_pattern" css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_separator type="normal" color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]

72°incontro Das Andere

[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1704753168643{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Sabato 14/10/2023, dalle ore 18:00/20:00, presso la Sala dei Savi del Palazzo dei Capitani, si è svolto il 72°incontro dell'associazione culturale Das Andere. Ha dissertato l'incontro l'architetto Giuseppe Baiocchi, professionista specializzato nel restauro architettonico di arte sacra e beni culturali, il quale ha parlato della tematica "Progettare l'architettura sacra. Casi studio di progetto, restauro, ripristino".
La problematica della perdita del sacro all'interno dei manufatti edilizi di carattere religioso, è nel tempo odierno una questione di importante riflessione accademica e pratica. Tale perdita, si unisce - di concerto - a quella tipologica, metrica e stilistica che per secoli le Chiese di tutto il mondo hanno sempre posseduto.
Eppure questa crisi ha radici profonde che non spaziano solo nell'architettura, ma vanno ad inquadrarsi all'interno di una complessa krisis sul rinnovamento teologico e liturgico di Santa Romana Chiesa.
La conferenza pertanto, dopo un primo inquadramento storico, legato strettamente alle innovazioni e relativi sventramenti dei luoghi di culto in nome e per conto della Riforma Conciliare vaticana, ha indagato sulla necessità di ritrovare la tradizione architettonica che ha sempre contraddistinto una Chiesa, da un Centro Commerciale, fino a spaziare sul decoro architettonico, inteso come parte integrante non solo della stessa struttura architettonica, ma come elemento che riconcilia l'elemento del sacro all'interno di un luogo di culto.