Dall’Aquila Imperiale alla bandiera rossa: il grande romanzo di Krasnov

di Giuseppe Baiocchi del 13/06/2024

Dall’Aquila Imperiale alla bandiera rossa può essere paragonato, a buon onore, come il “Guerra e Pace” della Rivoluzione e della Guerra Civile russa che intercorse un periodo storico molto lungo e travagliato (1894-1921). A scriverla è un personaggio controverso, l’Atamano (Capo camerata dei Cosacchi) Krasnov Petr Nikolaevich (1869 – 1947): eroe della prima guerra mondiale, premiato sia con la croce di San Giorgio che con l’arma d’oro, Maggiore Generale dell’esercito imperiale russo, leader della breve e combattiva Repubblica del Don (Grande armata del Don 1918-20), pubblicista per gli esiliati bianchi a Parigi e scrittore; nel 1926, il famoso filologo e slavo Vladimir Andreevich Frantsev (1867 – 1942) lo nominò addirittura per il Premio Nobel.

Pyotr Nikolaevich Krasnov ( 10 settembre 1869 , San Pietroburgo – 16 gennaio 1947 , prigione di Lefortovo , Mosca ) – Generale di cavalleria russo, nobile Atamano del Grande Esercito del Don, figura militare e politica, scrittore e pubblicista. Fu candidato al Premio Nobel per la letteratura (1926). Uno dei leader del movimento bianco nel Sud della Russia. Durante la seconda guerra mondiale prestò servizio come capo della direzione principale delle truppe cosacche del ministero imperiale per i territori orientali occupati della Germania.

Perché allora tale particolare personaggio vive nell’oblio? A spiegarcelo in soldoni è un altro scrittore russo, naturalizzato francese, figlio di emigrati russi Vladimir Volkoff (1932 – 2005) che in un’altra perla letteraria “Il Montaggio” ci regala questa descrizione: «Gli emigrati russi detti “bianchi”, di cui gli uni avevano scelto di battersi per la Germania perché il diavolo era migliore dei comunisti, gli altri di servire l’Unione Sovietica, perché il diavolo era migliore del tedesco. […] Innanzi tutto, la vittoria della Russia eterna sulla Germania appariva agli emigrati come una vittoria della Santa Russia sull’usurpazione bolscevica. Sì la bandiera che sventolava sul Reichstag era soltanto rossa e non bianco-azzurro-rossa, ma i soldati sovietici che incontravamo parlavano della Russia più che “dell’Unione” […] in poche parole sembrava che il corpo della patria avesse spontaneamente eliminato gli antigeni che vi erano stati introdotti. […] Infine, c’era un segno, visibile e tangibile, della rinascita della nostra Russia, della sua restaurazione interiore. […] quel rettangolo di cartone rivestito di stoffa e fissato sulla spalla con un bottone di rame aveva acquistato tanto significato quanto avevano potuto averne, in altre epoche, le croci di questa o quella forma. […] L’incubo, vagheggiavano, era finito».
Difatti la vita dello scrittore, che aveva abbracciato – in piena coerenza con le sue idee monarchiche anti-sovietiche – a piene mani l’Operazione Barbarossa di Adolf Hitler per l’invasione dell’Unione Sovietica (diresse da dietro le linee per la sua età avanti nel tempo il XV SS-Kosaken Kavallerie Korps), mori di morte violenta: finì il 16 gennaio 1947 alle 20:45, quando fu impiccato nel cortile della prigione di Lefortovo1. Famosa rimase la sua frase: «Contro i bolscevichi, anche con il diavolo». Krasnov apparteneva ad una famosa famiglia cosacca del Don che aveva da sempre sfornato agli Zar, nelle epoche antecedenti, i migliori ufficiali di cavalleria2. Prima dell’incredibile carriera militare che lo attendeva, iniziò la sua seconda passione: quella di scrittore. Le sue attività sorgono già all’età di 12 anni nel 1891, per poi avviarsi verso una letteratura che glorificava l’esercito dove l’abile penna descrisse la vita di cadetti e alfieri (molte opere contenevano una storia d’amore), per sviluppare l’idea degli ufficiali come una speciale casta nobile e nella difesa dei privilegi delle guardie. Tuttavia, il tema determinante dei primi lavori dell’Atamano fu quello dell’eroismo. La stessa tematica infatti fu ripresa nel suo esilio in terra tedesca nel 19203.
Un posto importante nel vasto processo creativo è l’eredità di un ciclo di romanzi dedicati alla “Grande tragedia russa” (rivoluzione del 1917): “Uno indivisibile” (1925), “Capire – perdonare” (1928), “Rotolo bianco” (1928). Questo ciclo preparato per 27 anni lo porta alla stesura del suo romanzo più celebre “Dall’aquila Imperiale alla bandiera rossa” (pubblicazione in quattro volumi 1921-224). Riflettendo gli eventi chiave del regno dell’imperatore Nicola II, il protagonista della tragica storia è l’ufficiale delle Guardie dello Zar, Alessandro Nicolaievitch Sablin chiamato affettuosamente dagli amici “Sasha”, che durante la Grande Guerra sarà infine nominato Generale.
Il romanzo straordinario di carattere letterario realista è basato su eventi reali, su circostanze e fatti che non solo hanno fatto parte della vita dell’autore, ma che inevitabilmente ne hanno plasmato il destino.

Tutto inizia quando la Rivoluzione russa è nella sua fase finale: i Soviet sono già al potere e il regime di Aleksandr Fëdorovič Kerenskij (1881 – 1970) è caduto con il Governo provvisorio russo (1917) sfaldatosi in appena un anno di Governo, dopo l’ultima offensiva al fronte fallita, con i Soviet che contrariamente alle elezioni politiche perse, effettuano il colpo di Stato con Lenin leader. Nel Paese vige l’anarchia e l’assassinio anche solo per poco denaro, cibo o vestiario. Siamo in un vagone merci nella cittadina di Voronezh diretto a Rostoff nel Sud della Russia, ed è qui che avviene la prima descrizione di un bolscevico da parte di una giovane ragazza: «Ella esaminava ora i lineamenti del soldato dallo sguardo duro e del robusto giovanotto che si vantava di avere ucciso un agente di polizia. I loro visi erano belli, ma volgari e grossolani. Erano adatti ai ruvidi cappotti che portavano; cercò di figurarseli in un salotto, vestiti da ufficiali o in eleganti abiti borghesi, e sentì subito che sarebbe stata una cosa impossibile. Vi era come un richiamo all’età della pietra e di un umanità primitiva in quella potente muscolatura, in quelle mascelle formidabili, che testimoniavano una salute animale, in quei crani massicci, dalle folte arcate sopracciliari, ricadenti come una visiera, in quei capelli a spazzola, duri come crini» e subitanea un’altra riflessione della giovane ragazza, che rispecchiava invece “il mondo di ieri”, ovvero quello aristocratico: «E lei, Olia, saprebbe cavarsi d’impaccio, se si trovasse priva di qualunque aiuto? Certo, ella non ne sarebbe capace […] con quelle mani delicate che tradiscono la sua origine aristocratica. Olia si ricordò che Nika aveva un giorno ucciso una lepre a caccia e l’aveva consegnata alla cuoca, non sapendo né spellarla né vuotarla […] ella rise fra sé al pensiero che egli potesse fare una di queste cose. […] Erano dei parassiti in questo mondo. Erano dei burjuyes. […] degli sfruttatori e delle sanguisughe. Ella dovrebbe fare da se stessa il letto, lavare la biancheria, tenere in ordine il cortile, l’orto, il bestiame, preparare il desinare, cucire i vestiti per sé e per quelli che lavorano nei campi, faticare tutta la giornata senza riposo, come fanno le contadine. Mio Dio! Ma la giornata non basterebbe per tanto lavoro. Quando avrebbe il tempo di leggere, di studiare le lingue, di riflettere, di passeggiare, di ammirare le bellezze della Creazione? […] il mondo intero sarebbe dunque obbligato di abbassarsi al livello di quegli uomini e di dedicarsi esclusivamente ad un lavoro che abbruttisce per arrivare semplicemente a procurarsi il sostentamento: non vi sarebbe più né poesia, né religione, né bellezza sulla terra»5.

Nella foto di destra un giovane cadetto dell’aristocrazia di campagna russa. Nella foto di destra 2° laurea accelerata presso l’Università di Tashkent del 1 maggio 1915. Le scuole per sottufficiali (circa 60) furono create nell’Impero russo con l’inizio della Prima Guerra Mondiale, a causa della carenza di sottoufficiali e ufficiali morti prematuramente durante l’inizio del conflitto: la Russia perdeva gli uomini più fedeli dell’Impero. La durata della formazione durava 3 mesi. Le scuole furono aperte sulla base delle scuole militari esistenti, e concluso il periodo, il corpo dei cadetti veniva indirizzato direttamente al fronte.

Qui avviene, immediata e prima ancora della presentazione del nostro protagonista – la prima perla del romanzo: due mondi opposti e inavvicinabili, due classi sociali non dialoganti e lontani, i primi ignoranti, numerosi, opportunisti e forti, senza storia e con futuro incerto; i secondi colti, fragili, educati, chiusi nella loro società inaccessibile, deboli e con il futuro segnato da povertà o morte. Ora il momento storico è a favore dei primi, che scovano e uccidono i secondi, che per secoli hanno dominato la scena politica russa. Nello scompartimento ferroviario vi è anche il Generale Sablin che scoperto da una guardia rossa fugge dal treno: qui si interrompe il prologo e inizia il vero romanzo. Il salto temporale è al 1894 e subito si denota il cambiamento sociale con la sua gerarchia di classe: i dialoghi tra gli svariati personaggi mostrano subito al lettore le differenze tra il prologo “rivoluzionario” e il primo capitolo “zarista”: si avverte che si è in un’altra epoca, ma siamo solo 23 anni prima. La vita del nostro protagonista è colma di serenità e piena di quei valori ideologici dove il Dio, la Patria e la famiglia sono propriamente i cardini di un’esistenza sana e retta. In primis il Dio cristiano che si incarna nello Zar. Proprio sull’Imperatore russo vi è una delle più brillanti descrizioni dell’intero libro, che ci trasmettere il senso del Sacro, ovvero l’autore ci inoltra indirettamente un concetto che oggi più che mai si è perso: la fede, il credere in un principio di vita: «La Bruna non soltanto aveva invaso le colline, ma anche i piedi del monte […]. Nulla faceva prevedere il sole, che pure doveva brillare quando sarebbe apparso lo Zar, “l’Unto del Signore”.
Questa convinzione era condivisa da tutti, dal Generale coi capelli bianchi fino alla più giovane delle reclute. In uno splendore da sogno lo Zar doveva apparire in faccia al suo esercito in una aureola di raggi solari, magnifico eppur lontano. Era sempre stato così, dicevano i vecchi: il sole accompagnava sempre l’Imperatore, ed in ciò si vedeva la grazia divina, un miracolo che provava che lo Zar non era stato posto là dagli uomini, ma da Dio. […] Sablin era profondamente persuaso che il sole sarebbe venuto, ma talvolta, alla vista di quel cielo grigio che provava da un momento all’altro un acquazzone, sentiva il dubbio penetrargli nell’anima. […] Il sole verrà […] perché ci sarà l’Imperatore, e perché è sempre stato così in tutti i tempi! […] Le trombe della scorta di Sua Maestà squillarono. In testa, su un piccolo cavallo grigio di razza araba, dalle froge nere e ricoperto di una gualdrappa azzurra ricamata d’oro, l’Imperatore si teneva graziosamente e leggermente in sella. Il suo berretto rosso da Ussaro era piegato un poco da un lato, e al disotto della visiera nera, i suoi occhi grigi guardavano con bontà. Il suo dolmann rosso era coperto di alamari d’oro. […] Nello stesso istante, un raggio luminoso di sole brillò sul berretto di porpora e avvolse il cavaliere imperiale. Si sarebbe detto che la natura avesse atteso lo slancio potente di quegli urrà e quell’inno che risonava come una preghiera di fede incrollabile. Il miracolo era avvenuto. Il semidio appariva al popolo e i pensieri terrestri se ne volavano ben lontani dagli uomini. I cuori entusiasmati si sentivano più vicini al cielo. […] Si sentiva la voce carezzevole dell’Imperatore che diceva: – grazie, miei prodi.. – e già non si vedeva più. Davanti a loro si stendeva la pianura vuota; le note della musica, rimasta indietro, non arrivavano più che per ondate, simili a lontani ricordi di una gioia passata»6.
Inizialmente l’aristocratico Sablin è un Alfiere di Pietroburgo che trascorre la sua giovinezza tra riviste militari e feste mondane nei palazzi dell’aristocrazia russa. Sarà proprio in una di queste feste che conoscerà la ballerina Caterina Philipovna che in breve tempo lo svezzerà sotto il profilo amoroso e indirettamente – ma solo momentaneamente – ne ammorbidisce il suo profilo militare, difatti proseguendo la lettura “Sasha” inizierà ad avere dubbi sull’esistenza di Dio e sull’importanza dello Zar: semplici domande introspettive, umane, che qualsiasi persona nella vita si pone di fronte un comportamento poco corretto che esegue: un lavaggio di coscienza insomma.
In tale ambito avviene un aspetto molto interessante del romanzo, inerente l’esercito poiché Krasnov inizierà ad introdurre personaggi sinistri che saranno coloro che nel tempo logoreranno l’esercito russo, fino a portarlo alla dissoluzione e all’anarchia, con il conseguente sbandamento delle truppe dovuto anche ai comportamenti inaccettabili del Governo Provvisorio già menzionato.
Tengo a riportare ancora un piccolo passo nel quale si capisce lo scontro sia generazionale tra i “padri e i figli” all’interno del complesso militare: «Se tu tenti di predicare la rivolta fra i miei uomini, o di fare una propaganda qualunque, ti farò ammazzare, non mi scapperai. So che sei protetto. Il generale Martoff ha interceduto per te. Non me ne importa. Io non ho che un’idea in testa: il dovere, il servizio e l’osservanza del giuramento. Se ne son viste di tutti i colori qui. Abbiamo avuto ladri, degli ubriaconi […] All’occasione io posso perdonar tutto e anche nasconder tutto; ma mai, m’intendi, Liubovin, mai il socialismo è entrato in queste mura. Di modo che, comprendimi bene, se una follia di questo genere germinasse in una testa qualunque, sei tu che me ne renderai ragione. Tu la pagherai con la tua testa, e nessuno ti potrà salvare! Ti strangolerò con le mie mani! – Terminò il sergente con un mormorio roco. – Puoi andare, ora, ho voluto avvertirti, così al volo. Ma non mi viene neppure in mente che nel nostro reggimento possa trovarsi un solo uomo che osi avere un pensiero contro la Fede, l’Imperatore e la Patria. Via! »7.
Tali profili, in tempi non sospetti verso la Rivoluzione, ci fanno comprendere come essa ebbe radici profonde, già alla fine dell’Ottocento. Nemici interni all’esercito iniziarono a plasmarsi, ma vi erano anche i nemici esterni; uno di questi è l’eterno studente Fedoro Feodorovitch Korgikoff, che poi divenne leader rivoluzionario il quale così esprimeva al militare Vittorio Mikhailovitch Liubovin come doveva comportarsi all’interno dell’esercito: «La sola cosa che vi rimane da fare è di agire con dolcezza, nelle conversazioni a quattr’occhi. C’è una parola che è eccellente. È la parola “compagno”. Servitevene quando parlate al soldato. Attaccatelo isolatamente, egli non ha mai udito quella parola; lo sorprenderà dapprima e gli parrà in seguito di una straordinaria dolcezza che gli penetrerà insensibilmente nell’anima. Datemi un solo uomo ben preparato da voi alla rivolta, e avrete fatto opera utile. Cercate di averne uno soltanto, che sia sempre malcontento, che critichi ogni cosa; dopo cercate di prepararne il secondo. Bisognerà anche guadagnarsi l’animo di un sottufficiale; senza di ciò è molto difficile agire»8.
Così scatta il piano di Korgikoff di avvicinare Sablin al processo rivoluzionario. Il meccanismo è semplice: usare la sorella di Liubovin, Marussa ad incontrare l’ufficiale per poi farlo diventare un agente della rivoluzione strisciante. Ma il nostro protagonista si rivela un vero figlio dello Zar, fedele e dall’anima immacolata. Il piano fallisce e addirittura Marussa si innamora perdutamente di Sablin. Marussa proviene dalla piccola borghesia, che all’epoca in Russia comprendeva una parte esigua della popolazione, poiché la borghesia europea – così come la conosciamo noi – in Russia fino all’Ottocento era praticamente quasi inesistente, vigendo un sistema feudale. In una conversazione tra i due, la giovane donna affermerà a Sasha come: «Voi avete una profonda fede, lo vedo, – disse Marussia – tutto è stabilito con tanta semplicità nel vostro spirito; si direbbero dei compartimenti classificati contenenti tutte le nozioni ammesse: Dio, la Chiesa, i ceri, le immagini, le genuflessioni, lo zar, la devozione, le riviste; poi il reggimento, l’uniforme, l’onore e finalmente la famiglia. Vi è una distinzione precisa tra quello che è permesso e quello che è proibito, tra quello che è possibile e quello che è impossibile. […] invece in me vi è un caos completo nelle mie idee, Alessandro Nicolaievitch […] Tutti e due cerchiamo la verità, e ciascuno di noi la comprende come può, per quanto essa non sia stata scoperta da nessuno. Io voglio la felicità per il mondo intero, voglio amare l’umanità intera, mentre voi non date il vostro amore che ad un piccolo cerchio di esseri e non riconoscete degna del vostro affetto che una piccola parte dell’universo. Ci siamo incontrati, abbiamo discusso e ci siamo interessati uno all’altro. Un idolo ci ha ravvicinati. Questo idolo è la bellezza. Voi l’adorate e ne siete fiero, mentre io la considero come una debolezza, quasi come un vizio.. Voi mi avete fatto vedere un quadro da racconti da fate: lo Zar e il suo Regno. Io nel cuore ho un altro racconto che vi dirò un giorno; per il momento non siete preparato a comprenderlo. Permettetemi di restare per Voi una sconosciuta, come Cenerentola al ballo del principe». Ebbene ancora una volta l’autore cerca di trasmettere, prima degli eventi decisivi del romanzo, quelle differenze ambientali e ideologiche tra le varie classi sociali. L’amore tuttavia è ricambiato, ma il principe Repnin lo richiama all’ordine, rispetto alla sua situazione nell’esercito, poiché un matrimonio “misto” tra classi sociali non paritarie impartirebbe uno scandalo pubblico all’onore del reggimento. Sablin pensa di suicidarsi, poi di lasciare il reggimento per amore, di cambiare radicalmente vita, poi torna il senso del dovere verso l’ideale, verso i principi del suo “bel mondo”: rispettare le convenzioni per essere preservati da esse stesse. Ancora l’autore ci instilla un altro concetto, oggi scomparso: di fronte ad un desiderio individualista, compiere un sacrificio grave ci rende uomini e ci fa sentire in armonia con il contesto sociale al quale apparteniamo. Sablin però aspetta un figlio da Marussa, ma non può tenerlo, così in un aspro scontro verbale con Korgikoff, quest’ultimo si impegnerà a crescere suo figlio con gli ideali della rivoluzione, mentre nel frattempo Marussa muore di malattia. Siamo di fronte alla prima piccola tragedia sulla pelle del protagonista.
Di tanto in tanto l’autore inserisce nel romanzo il classico personaggio opportunista, lo zio Oblenissimoff: sarà fervente zarista prima della guerra, per il Governo provvisorio rivoluzionario nel 1917 ed infine dopo essere stato spogliato dai suoi averi, come la sua casa, dai Soviet fuggirà con codardia in Svezia, dove nel frattempo – guadagnando soldi al mercato nero sulle persone più disagiate – aveva guadagnato una fortuna e aveva trasferito i soldi nel paese della corona scandinava. I dialoghi di scontro ideologici con il protagonista sono epocali: «Vi fu un tempo, in un lontano passato, in cui il monarca precedeva il popolo. Ora le parti sono invertite. Viene prima il popolo e poi il monarca. – Non so figurarmi un gregge che guidi i passi del pastore, – disse Sablin. – Ma, in ogni gregge vi sono dei montoni di guida che conducono il gregge e senza il loro aiuto le pecore rischierebbero di rovesciare il pastore»9.

Il seguito scorre veloce agli occhi attenti del lettore: se la guerra russo-giapponese (1904-05) si rivela essere un autentico disastro militare mal gestito dal comparto militare zarista, sarà la Prima Guerra Mondiale (1914-18) che assesterà il colpo decisivo all’Imperatore per il proliferare della Rivoluzione che in primis riuscirà a distruggere il morale dell’esercito al fronte. Una volta che l’esercito si sfalderà, l’anarchia rivoluzionaria iniziale e gli omicidi degli ufficiali sia al fronte che all’interno del Regno inizieranno.
Il nostro protagonista, dopo la tragica esperienza amorosa si sposa con una sua pari-grado, la contessa Vera Constantinovna dalla quale avrà due figli, un maschio Kolia e una femmina Olga. Nel frattempo, a corte la zarina sempre più intrigata dalla fascinazione di Rasputin, vero e proprio demone ed incarnazione del male – così come confermato dalla bellissima autobiografia del principe Félix Yussupov, nel suo “Dalla corte all’esilio” – cade sotto la critica della stampa, mentre anche sua moglie Vera viene irretita e “assaggiata” sessualmente dal monaco depravato. Yussupov così descrive Rasputin: «Fu proprio alla fine di quell’anno, il 1909, che incontrai per la prima volta Rasputin. […] Questa giovanetta era troppo pura per capire l’ignominia del “sant’uomo” e troppo ingenua per giudicare i suoi atti con conoscenza di causa. Era, così ella diceva, un essere dotato di una rara forza spirituale, inviato in questo mondo per purificare e guarire le anime e per guidare i nostri pensieri e i nostri atti. Questo ditirambo mi aveva lasciato scettico giacché, pur senza avere dati precisi su Rasputin, un oscuro presentimento me lo rendeva sospetto. […] A sentirla, egli era un inviato del Cielo, un nuovo apostolo; le debolezze umane non avevano presa su di lui, i vizi gli erano ignoti, e tutta la sua vita altro non era che ascetismo e preghiera. Queste parole fecero nascere in me il desiderio di conoscere un uomo tanto straordinario; accettai dunque di recarmi […] alcuni giorni dopo per incontrarvi il celebre starez. […] Poco dopo la porta dell’anticamera si aprì e Rasputin entrò a piccoli passi. Si avvicinò a me e mi disse: “Buongiorno, mio caro”, con l’aria di volermi baciare. Arretrai istintivamente. […] Di primo acchito, qualche cosa in lui mi spiacque, anzi mi ripugnò. Era di statura media, muscoloso, piuttosto magro. Aveva le braccia di una lunghezza esagerata. Dove cominciavano i capelli mal pettinati, si scorgeva una larga cicatrice (più tardi seppi che era la traccia di una ferita ricevuta durante uno dei suoi atti di brigantaggio in Siberia); gli si sarebbero dati quarant’anni. Indossava un caffetano, un paio di calzoni larghi e calzava grossi stivali. Nell’insieme aveva l’aria di un semplice contadino. Il suo volto, incorniciato da una barba irsuta, era volgare, i lineamenti grossolani, il naso lungo, e i piccoli occhi di un grigio trasparente e dallo sguardo evasivo stavano come imboscati sotto le folte sopracciglia. Benché affettasse una grande disinvoltura, si avvertiva in lui un certo imbarazzo, persino una vigile diffidenza; si sarebbe detto che spiasse continuamente il proprio  interlocutore»10.

Principe Felix Felixovich Yusupov , conte Sumarokov-Elston ( 11 marzo 1887 , San Pietroburgo – 27 settembre 1967 , Parigi ) – Aristocratico e giornalista russo, l’ultimo dei principi Yusupov. Noto per aver partecipato all’assassinio di Grigory Rasputin. Marito della principessa Irina Alexandrovna , nipote dello Zar Nicola II.

La moglie Vera non regge alla situazione e per senso di colpa, all’insaputa di Sablin, si suicida. Per il protagonista della nostra storia il colpo è tremendo: qui si comprende come la stessa nobiltà russa inizia a comprendere come la politica del Regno si sia arenata politicamente anche per via di personaggi profittatori, ambigui e dalla dubbia eticità o moralità ed il caso di Rasputin calza a pennello. Sablin è distrutto, ma ha ancora il figlio Kolia e per lui prevede una grande carriera militare. Inizialmente il figlio non può partecipare al conflitto per via dell’età, ma invogliato dallo zio Oblenissimoff, Kolia si presenta alla vigilia di una delle primissime cariche di cavalleria dell’iniziale offensiva russa. L’evento è epico e drammatico e qui l’autore mirabilmente ci descrive da soldato qual è, la crudeltà della guerra: «I serventi della batteria tedesca non videro subito che stava per arrivare la carica della cavalleria. Sablin ebbe il tempo di discendere in un’ampia vallata e di risalire su di una collina senza essere stato scorto dal nemico. […] La batteria tirava a sinistra in diagonale e Sablin poteva vedere i lampi dei colpi. Poi essa cominciò a voltarsi rapidamente dalla sua parte. […] Al galoppo allungato! – comandò […] Sablin vide scoppiare una gran fiamma dritto dinanzi a sé; apparve una nuvola bianca; il cavallo di Rotbeck cadde. […] Un colpo violento lo aveva colpito al petto. Gli sembrò che il suo cavallo s’impennasse e fu gettato di sella. La terra nera e odorosa rinfrescò il suo viso e gli entrò in bocca. Sablin sollevò la testa. […] «sono ferito», pensò; vide sulla testa il cielo azzurro e infinito, poi delle miriadi di piccole bolle trasparenti passarono davanti ai suoi occhi e lo accecarono. Chiuse le palpebre e perdette i sensi.
Il conte Blanckenburg fu il primo a giungere alla battaglia e con un colpo di sciabola fece stramazzare un uomo che gli sparava contro. Il suo squadrone e quello di Rotbeck circondarono i pezzi e fecero strage di tutto ciò che li circondava. Alla loro destra un urrà sonoro si ripercosse nell’aria. La fanteria russa, uscendo dalle trincee, correva dietro ai tedeschi in ritirata. […] la vittoria era completa. E questa vittoria, l’esercito russo la doveva all’assalto temerario, insensato, del mezzo reggimento di Sablin. Sablin stesso, gravemente ferito al petto, era rimasto a terra senza conoscenza. Suo figlio Kolia, col torso crivellato e la testa asportata, giaceva in una pozza di sangue fumante. Il capitano in seconda Artemief, l’alfiere Pokrovsky, il tenente Agapoff, l’alfiere Barone Lieser eran morti; il tenente Kuscnaref, il barone Livdal ed il conte Toll erano feriti. Traversando la pianura silenziosa, un cavaliere si avvicinò al trotto: era il principe Repnin. Il suo volto era maestosamente calmo. – Grazie, ragazzi; è stata una mischia gloriosa, un episodio eroico, – disse Repnin. – Avete glorificato per sempre il nostro reggimento. […] Ma come è stata falciata la nostra gioventù russa! Bisogna che tutto l’universo sappia che il nostro popolo è unito, e che i nostri ufficiali sanno morire insieme ai nostri soldati, e in testa ai soldati […] la bellezza di quest’impresa è rimasta a Sablin! Che egli muoia o che viva, il giorno dell’assalto che egli ha condotto e che ci ha dato la vittoria brillerà d’uno splendore eterno!»11.Arriva infine la terza tragedia di Sablin. Proprio in questo scontro il figlio rimane ucciso, anche in maniera brutale da una palla di cannone che gli taglia la testa. Ora il Colonnello Sablin – che dopo questo scontro diventerà Generale acquisendo anche la croce di San Giorgio – ha solo come obiettivo di vita il servizio alla Patria e presto gli verrà tolta anche questa.La guerra che fece perdere allo Zar i suoi figli più fedeli nei primi due anni del conflitto provocò la Rivoluzione. Messi fuori gioco l’apparato dell’esercito fedele all’Imperatore e successivamente chiamate le seconde linee non esperte e soprattutto già indottrinate politicamente dalla rivoluzione, le gerarchie tra ufficiali e soldati cessarono, scatenando il caos. Eroi del romanzo, senza macchia, come il Sottotenente cosacco Alessio Karpoff furono mandati al macello per conquistare piccoli metri di terra, che poi il Governo dei Soviet avrebbe svenduto ai tedeschi per la pace, tradendo quegli stessi morti dello stesso popolo russo.

Intanto il fronte interno si sfalda, il tradimento è ovunque, tutti si rivoltarono contro la polizia. I «cittadini soldati» dimenticarono che il nemico era il tedesco e stabilirono che il nemico fosse il russo. Inizia la caccia anche agli ufficiali, questi furono divisi in ufficiali rivoluzionari e ufficiali controrivoluzionari. Ai primi fu messa una coccarda rossa all’occhiello, poi furono disarmati e i soldati li trascinarono per mano cantando a squarciagola. Gli altri furono ricercati e inseguiti; tutti quelli che s’incontravano furono uccisi per la strada. Il Governatore di Pietrogrado, il Generale Khabaloff, tentò di protestare. Fu arrestato e condotto in fortezza. Mentre la Duma festeggiava la folla andò alla fortezza di Pietro e Paolo, massacrò gli ufficiali e i guardiani e mise in libertà tutti i prigionieri dello «zarismo», sia politici, sia di delitti comuni. La città fu riempita di delinquenti di tutti i generi. Furono incendiate le caserme dei pompieri, rotti i vetri e saccheggiati i magazzini. Tutte le città risuonavano della parola “compagno”. Ma non è la gente del popolo che ha tradito. A loro molto sarà perdonato perché non sanno quello che fanno; sono le alte sfere che hanno tradito l’Imperatore; non gli hanno permesso di arrivare fino a Tzarskoie Selo. Il suo treno è stato fermato per la strada e il comandante delle armate del Nord, il Generale Russky, è andato a trovarlo con i rappresentanti del popolo, che del resto non sono stati delegati da nessuno, Gutchkoff e Sciulghin. Tutti e due appartengono alle destra: uno è ottobrista, e l’altro, Sciulghin, redattore del giornale Kievlianin. Essi erano latori di un manifesto già redatto, nel quale l’imperatore dichiarava di abdicare in favore di suo figlio. Non c’era che da firmare il documento. Vicino all’imperatore nessuno per consigliarlo, per sostenerlo. Gli dissero che tutta la Russia si era dichiarata contro di lui. Russky affermava che se non firmava il manifesto, i soldati del fronte delle armate del Nord avrebbero marciato su Pietrogrado. Così l’Imperatore affermò «se sono la causa dell’infelicità della Patria, sono pronto a sacrificare tutto, anche la vita, purché la Russia sia felice». Ma il sentimento ebbe il sopravvento e per non consegnare suo figlio al popolo, fece quello che non aveva diritto di fare, abdicò anche a nome di suo figlio. L’Imperatore ha abdicato in favore di suo fratello Michele Alessandrovitch, ma quest’ultimo ha rifiutato di assumere il potere sovrano. Così il principe Lvoff è Capo del Governo, Gutchkoff Ministro della Guerra, Kerensky, socialista d’estrema sinistra, ministro della Giustizia, e così di seguito, quasi tutti personaggi insignificanti, com’è del resto la Duma dalla quale vengono. Si arriva così verso l’epilogo caotico e sanguinoso dell’intera epopea. L’autore ci descrive con mirabile ingegno come poco a poco la macchina bellica si sgretola: come l’ufficiale coscienzioso viene sostituito dall’amico militare del governo provvisorio, per inserire piccoli commissari politici sotto sembianze da ufficiali; ci descrive come il saluto militare diviene quasi facoltativo; fino all’ammutinamento, alla rivolta, ed infine agli omicidi dei generali e degli ufficiali. «La 204ª divisione stava preparandosi a prestare giuramento di fedeltà al Governo provvisorio […]. Sablin si preparava già ad andarsene, quando fu bruscamente fermato da un violento rumore di voci. Vide i soldati dirigersi verso di lui spingendo avanti brutalmente un ufficiale; Sablin riconobbe il tenente Ermoloff. Quegli stessi soldati che poco tempo prima avevano espresso la loro adorazione per questo comandante con il quale avevano condiviso la vita della trincea, adesso lo maltrattavano. – Che c’è? – gridò Sablin. – Come osate?.. – Il gruppo si avvicinò e subito fu contornato dalla folla dei soldati. – Generale, – disse un giovanotto con aria insolente continuando a tenere Ermoloff per la giubba – permettetetemi di spiegarvi. Tutti hanno prestato giuramento, e hanno firmato la formula, ma il tenente Ermoloff si è diretto improvvisamente verso la foresta. Dunque egli non vuole prestare giuramento. – Anzitutto come osate malmenare un ufficiale? Lasciatelo in pace e ritornate nelle vostre file! – gridò Sablin. Nessuno si mosse. […] – Ho prestato giuramento al mio Imperatore, – disse Ermoloff con voce rotta, ma ferma e distinta – e non presterò giuramento a nessun altro. Io non sono un traditore. – Un mormorio passò tra la folla. – L’imperatore ha abdicato; è il popolo che governa, ora, ed egli rinnega il popolo. – Rientrate nell vostre file! – gridò con collera Sablin. – Perché rientrare nelle file? Compagni, bisogna ancora sapere se anche il generale ha prestato giuramento. Essi son forse d’accordo; non vogliono servire sotto la bandiera rossa. – Vi è stato detto di rientrare nelle file; – ripetè Kozloff – volete dunque provocare un ammutinamento? – I rivoltosi sono quelli che non vogliono prestare giuramento; bisogna arrestarli. – Si arrestiamo il Generale! – Non più Zar, non più padroni; arrestiamo il Generale! Avanti compagni afferratelo! – La situazione divenne critica. Le prime file non si muovevano ancora, non osando levare le mani sul comandante del corpo d’armata; ma erano spinte dalla folla retrostante che rumoreggiava minacciosa. Sablin sentì che qualcosa di terribile stava per accadere»12. Il Generale Sablin viene arrestato, rilasciato ed infine, durante l’Affare Kornilov, di nuovo catturato – sul vagone appunto, dopo una breve fuga – per essere giustiziato in maniera tremenda da quel figlio perduto in gioventù, adottato e istruito all’odio dal suo antico nemico Korgikoff. Negli ultimi giorni di vita del protagonista, gli viene chiesto di servire l’Armata Rossa e di riacquisire il rango di Generale, con i conseguenti benefit provenienti dalla posizione, ma Sablin rifiuta categorico, ricordando sia al lettore, che a se stesso il suo antico giuramento di fede allo Zar. Dopo tremende sevizie da parte di suo figlio Korgikoff, appartenente alla Ceca, morirà senza un lamento. La sua uccisione è simile a quella del Cristo per l’autore. Dio è morto, è stato crocifisso dai bolscevichi, il male ha trionfato, la Russia così come la si era conosciuta – nella sua forma più europea – scompare per sempre. Sablin rappresenta la morte dell’ultimo figlio fedele di un mondo che stava entrando nell’oltretomba.
Dunque perché leggere Dall’Aquila Imperiale alla bandiera rossa? Perché è un libro autentico, scritto da una penna straordinaria con una tale ampiezza e facilità che molti dei nostri veri scrittori di narrativa non si sarebbero mai sognati; un libro vero, sublime e crudo nello stesso tempo: un mix che solo i grandi della letteratura riescono a fondere.
Voglio concludere, così come ho iniziato con Volkoff, sul concetto di Rivoluzione Russa: «La Confraternita della verità dei popoli si chiama così in onore della Confraternita della verità russa, i cui membri furono arrestati e giudicati durante il terrore post-leniniano. Invece di umiliarsi, di prosternarsi, di accusarsi di tutti i delitti, come hanno fatto le canaglie comuniste che sfilavano davanti allo stesso tribunale, i fratelli della verità russa rispondevano a tutte le domande che venivano loro poste cantando in coro: “Dio salvi lo Zar”. Si può non condividere le loro opinioni; non si può non ammirare il loro martirio. […] Il popolo russo è effettivamente il popolo porta-verità, come ho scritto. Gli stessi cattolici sanno, dopo l’apparizione di Fatima, che noi abbiamo un destino a parte. La Rivoluzione cosiddetta russa è un tentativo non russo per pareggiare questo destino. La Russia ha un cuore mistico, il cui nome vero è Monastero della Trinità-San Sergio. Quel luogo è stato ribattezzato Zagorsk in onore di un oscuro rivoluzionario il cui pseudonimo era Zagorski e il nome vero Krachman. Non è simbolico?
Conoscete i nomi degli assassini che hanno massacrato lo zar, la zarina, lo zarevič, le zarevne e quattro dei loro fedeli in quel sotterraneo di Ekaterinburg, il 17 luglio 1918 all’1 e 15? Tre sono russi, ma sentite i nomi degli altri: Iurovski, Horvat, Fischer, Edelstein, Fekete, Nagy, Grünfeld, Vergazy. Il vero nome di Trotski era Bronštein; di Zinov’ev, Apfelbaum; di Kamenev, Rosenfeld. Non ha importanza che alcuni di questi siano nomi ebraici: Dzeržinskij era polacco, Stalin georgiano, Berija mingreliano, Lenin un po’ svedese e molto tartaro. Dunque non c’è ragione di gridare all’antisemitismo, come fanno gli Usurai, ogni volta che si constata che la Rivoluzione russa in realtà è una rivoluzione antirussa»13.

Monumento all’Atamano Krasnov, che dal 2007 si trova nel villaggio di Elanskaya, distretto di Sholokhov, in un museo privato dei cosacchi. Alcuni chiedono la demolizione del monumento, altri sono contrari. Inoltre, la proprietà privata in Russia è rispettata dalla legge. E a volte sono rispettati molto più del ricordo di coloro che morirono nella Grande Guerra Patriottica. Tuttavia, sembra che sia stato trovato un compromesso: il cartello che diceva che si trattava di Ataman Krasnov è stato rimosso dal monumento. Adesso è solo un cosacco. Il 17 gennaio 2008, l’Atamano dei cosacchi del Don, deputato della Duma di Stato della Russia Unita Viktor Vodolatsky, ha firmato un decreto sulla creazione di un gruppo di lavoro per la riabilitazione di Pyotr Krasnov in connessione con una richiesta ricevuta dall’organizzazione cosacchi all’estero. Il 28 gennaio 2008, il consiglio degli atamani dell’organizzazione “Great Don Army” ha preso una decisione in cui ha osservato: “i fatti storici indicano che fu un combattente attivo contro i bolscevichi durante la guerra civile, e lo scrittore Krasnov durante la Grande Guerra Patriottica collaborò con la Germania nazista. Attribuendo un’importanza eccezionale a quanto sopra, il Consiglio degli Atamani ha deciso: di rifiutare la richiesta della fondazione senza scopo di lucro “Cossack Abroad” di risolvere la questione della riabilitazione politica di P. N. Krasnov”. Lo stesso Viktor Vodolatsky sottolinea: “il fatto della sua collaborazione con Hitler durante la guerra rende per noi del tutto inaccettabile l’idea della sua riabilitazione”. L’iniziativa di riabilitazione è stata condannata dai veterani della Grande Guerra Patriottica e dai rappresentanti della Chiesa ortodossa russa.

 

Per approfondimenti:
1 Nel maggio 1945, quando si arresero alla prigionia inglese, i cosacchi della Wehrmacht contavano 24mila militari e civili. Gli inglesi consegnarono al comando sovietico oltre duemila ufficiali cosacchi, incluso Krasnov; 
2 Pronipote del Maggiore Generale I. K. Krasnov, capo militare della scuola Suvorov, eroe della guerra del 1812; nipote del Tenente Generale I. I. Krasnov, storico e pubblicista del Don; figlio del Tenente Generale N. I. Krasnov, storico del Don, scrittore di prosa e pubblicista, scientifico, la cui opera “Cosacchi di Terek” è stata premiata con una medaglia d’oro dall’Accademia Imperiale delle Scienze; fratello minore del botanico e geografo prof. A. N. Krasnov e Platon N. Krasnov poeta e traduttore;
3 Nel maggio 1918, i cosacchi ribelli cacciarono i distaccamenti delle Guardie Rosse dal territorio della regione del Don. Il 16 maggio 1918, il “Circolo per il salvataggio del Don” elesse Krasnov Atamano dei cosacchi del Don. Avendo stabilito rapporti commerciali con la Germania e non obbedendo a A.I. Denikin, che era ancora concentrato sull’Intesa, guidò la lotta contro i bolscevichi a capo dell’esercito del Don. Krasnov annullò i decreti adottati dal governo sovietico e dal governo provvisorio e creò l’Esercito del Grande Don come stato indipendente. Tutto ciò portò al fatto che dopo la sconfitta della Germania nella prima guerra mondiale, l’esercito del Don nel novembre 1918 si trovò sull’orlo della distruzione e Krasnov fu costretto a decidere di unirsi all’esercito volontario sotto il comando di Denikin. Il 15 febbraio 1919 Krasnov, sotto la pressione di Denikin, fu costretto a dimettersi e partire per la Germania;
4 Esce in Italia nel 1929 con l’Editore Adriano Salani. Attualmente il libro non è andato più in ristampa ed è acquistabile sui vari mercatini dell’usato online;
5 Krassnoff P.N., Dall’Aquila Imperiale alla bandiera rossa, A. Salani, 1926, pp. 13-14;
6 Ibidem, pp.49-53;
7 Ibidem, p.39;
8 Ibidem, p.45;
9 Ibidem, pp. 457-58;
10 Yussupov F., Dalla Corte all’esilio – Memorie dell’uccisione di Rasputin – parte prima, capitolo decimo;
11 Krassnoff P.N., Dall’Aquila Imperiale alla bandiera rossa, A. Salani, 1926, pp. 307-10;
12 Ibidem, pp. 479-80;
13 Volkoff V., Il Montaggio, Guida Editori, pp.304-05.

 

 

 

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