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di Giuseppe Baiocchi del 11/02/2024

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I grandi cacciatori mitteleuropei, così come le grandi cacce della nostra recente antichità venatoria europea, trasmettono sempre un fascino romantico verso un’epoca passata gloriosa e piena di tradizioni. Il “cacciatore” di questi tempi prestigiosi, aveva un profilo molto diverso dal cacciatore odierno, poiché quella che appunto veniva definita “arte venatoria”, era in realtà l’essere votati completamente verso la caccia: una vera e propria professione. Questi uomini rappresentano la vera tradizione venatoria austriaca: per lo più proprietari terrieri, fungevano anche da veri e propri “ambientalisti” della conservazione, fungendo di rimando ovviamente anche da modelli per la società dell’epoca.

[caption id="attachment_16218" align="aligncenter" width="1000"] L'imperatore Franz Joseph I posa dopo aver abbattuto un cervo presso Karapancsa nel 1896. Foto originale dell'arciduchessa Isabella d'Austria.[/caption]
Con il passare del tempo, tutto diventa storia e le memorie di questi “antichi signori”, come li chiamano affettuosamente oggi i parenti, soddisfano bene la loro passione. L’amore per la natura e la caccia erano lo stesso comune denominatore, il vivere questa passione variava a seconda del carattere di ognuno di loro. Certamente l’Austria di fine Ottocento ed inizio Novecento possedeva un numero di selvaggina molto superiore all’epoca odierna per via della minore urbanizzazione dell’uomo e soprattutto la caccia era una professione incentivata dallo Stato: da qui le grandi battute storiche e i grandi raccolti di selvaggina autoctona. Sotto l’Impero dell’Austria-Ungheria vigeva l’antico motto A.E.I.O.U. «Alles Erdreich Ist Österreich Untertan», ovvero «Tutta la terra è soggetta all’Austria», ma con la caduta della monarchia danubiana le imprese dei grandi cacciatori erano concluse e le loro tenute – in grande quantità – confiscate dai nuovi Stati nazionali.
I frammenti e i racconti ci pervengono quando nel 1984 due aristocratici sono a dialogo fra loro: da una parte il conte László Szápáry e dall’altra il barone Ernst Edwin Offermann. Capitava spesso che i due discutessero fino al mattino degli incidenti della giornata di caccia nel loro Pavillon. Durante le conversazioni non veniva mai riprodotta alcuna cassetta né presi appunti scritti perché ciò distraeva i signori da ciò che avevano da dire! Tra gli svariati invitati lo scrittore Klaus Neuberger (1955) continuava spesso tali conversazioni ascoltando incredulo l’enorme quantità di storie e aneddoti; analoga situazione avveniva con il barone Offermann. Solo successivamente, ciò che veniva ascoltato fu richiamato dalla memoria e trascritto: con il conte Karl Draskovich, il conte Franz Meran e Hans von Kienast iniziarono le trascrizioni durante le conversazioni.
[caption id="attachment_16219" align="aligncenter" width="1000"] Pranzo propiziatorio di caccia agli inizi del secolo scorso a Vienna.[/caption]
Di conseguenza, molte storie emerse gradualmente e costantemente ascoltate, sono state scritte e sono state condotte molte interviste. Nel modo in cui venivano poste le domande, venivano ricordate e interrogate varie personalità, e i narratori rivelavano i loro personali ricordi, con lo scopo di creare un piccolo monumento scritto a queste persone e ai grandi della caccia, per salvare dall’oblio odierno le loro esperienze e alcuni aneddoti e per regalare al lettore alcuni momenti belli e interessanti mentre legge il grande e glorioso passato: un riflesso storico che vedrà le gesta venatorie dei Laszlo Szapary, Albrecht von Bayer, Carl Hugu Seilern, Feri Meran, Ernst Edwin Offermann ed altri. Dunque cos’era la caccia? Il grande cacciatore dei Carpazi Herbert Nadler (1883 - 1951) scrisse: «chi non ha mai visto l’alba dopo una partita mattutina e non ha mai visto il risveglio del giorno, non sa cosa sia la caccia». Per il famoso cacciatore e scrittore di caccia conte Zsigmond Széchényi (1898 - 1967), «la caccia è devozionale», e il filosofo José Ortega y Gasset (1883 - 1955) affermava: «Si uccide per aver cacciato […] ecco perché vai a caccia, quando sarai stanco di essere nel XX secolo, prendi la tua pistola, fischietta al tuo cane e vai nel bosco e concediti qualche ora di divertimento, per tornare ad essere un uomo dell’epoca antica».
“I bei vecchi tempi” a Vienna erano dunque un’epoca in cui era ancora possibile organizzare cacce di massa e lasciare che tutta la passione e la professione diventassero quasi religiose. Un tempo che non è più, con circostanze e condizioni che non esistono più. Proprio la società dell’epoca rese possibile tale pienezza atmosferica. C’erano ancora saloni e cocktail, séjour e pomeriggi a carte. Il biliardo era ancora di moda, nei club si giocava anche a bridge (St. Johann, Jockey Club), dopodiché di tanto in tanto si faceva visita al Red Bar dell’Hotel Sacher o al Bristol Bar. Il bacia mano alle dame era più di una semplice formalità galante, era ancora uno stile di vita, non una parola popolare. Si viveva ancora in castelli, ville, palazzi cittadini o in residenze feudali lungo la Ringstrasse o in grandi appartamenti nel terzo e quarto distretto. E non sono solo i rappresentanti dell’aristocrazia erano coloro che portavano avanti l’arte venatoria, ma anche la borghesia benestante dava il suo contributo: industriali che producevano mattoni, producevano birra o barbabietola da zucchero lavorata, così come costruttori, produttori tessili e di seta, avvocati e altri. Se uno dei signori del pomeriggio voleva premiarsi, o magari incontrare qualcuno con cui discutere di questioni di caccia, si recava al Cafe Demel, il tanto decantato tempio dei dolciumi sul Kohlmarkt. Dal K.u.K. Hofzuckerbacker si poteva inoltre portare un regalo alla moglie rimasta a casa e proprio lì, dal 1936 in poi, l’artista di alto livello conte Friedrich Berzeviczy-Pallavicini (1909 - 89) decorò magistralmente le vetrine con le sue famose e ineguagliabili decorazioni, dove molti curiosi si recavano periodicamente in pellegrinaggio per ammirare le sue ultime creazioni. Successivamente si recò a New York via Parigi. Allora la comunicazione, se non parlata di persona, si chiamava ancora “corrispondenza”. C’erano ancora spettacoli di varietà e locali notturni dignitosi. I protagonisti si incontravano nei club maschili e all’ippodromo e molti avevano la propria scuderia (ad esempio Stall Seilern e Stall Meran).
[caption id="attachment_16221" align="aligncenter" width="1000"] Casa Imperiale Austriaca per l'Esposizione internazionale della caccia - Padiglione della Bucovina, 1910.[/caption]
C’erano ancora maggiordomi, autisti e personale in livrea, cuochi propri – anche loro specializzati nella cucina di selvaggina – e gioiellieri specializzati in gioielli da caccia. Il titolo professionale del K.u.K, letteralmente “Imperiale e regio”. I fornitori della corte pagavano sempre qualcosa e ciò forniva grande pubblicità alle aziende. I negozi di armi avevano ancora un’ampia scelta di fucili nei calibri 12, 16 e 20, e talvolta 28 e 410. Era ancora di moda la località di villeggiatura estiva, dove naturalmente la popolare regione del Salkammergut offriva molte opportunità per la caccia al camoscio estivo. Questa zona era estremamente frequentata all'epoca grazie all’Imperatore Francesco Giuseppe. All’epoca e prima vi era rappresentata anche l’élite culturale, che vi svolse anche la sua opera creativa, dove i protagonisti ne trassero forza e ispirazione: Johann Nestroy, i pittori, poeti e musicisti Waldmüller, Bauernfeld, Nikolaus Lenau, Carl Millocker, Johann Strauss, gli attori Katherina Schratt e Alexander Girardi, e più tardi Franz Lehar e Ralph Benatzky. Oggi Klaus Maria Brandauer, il direttore d’orchestra Franz Welser Most e gli scrittori Barbara Frischmuth e Alfred Komarek sono i rappresentanti culturali di spicco della omonima regione. L’imperatore stesso amava molto il pittore e cacciatore Friedrich Gauermann (1807 - 12) e Franz von Pausinger (1839 - 1915), di cui conservò molti dipinti a Bad Ischl. In questo periodo, anche i “baroni del sale” e gli industriali del Greater Burgh tenevano i loro ricevimenti sociali nella zona. Il tempo in cui non si cacciava lo si trascorreva con la famiglia, rendendo omaggio, giocando a tennis, a carte e occasionalmente assistendo a concerti alle terme o dal pasticcere Zauner con il suo caffè annesso. Allo stesso tempo, si facevano trattamenti termali con salamoia in una delle numerose terme. Si organizzavano anche gli amori autunnali dei cervi di montagna e si affittavano battute di caccia all’interno dei latifondi. Si poteva addirittura far realizzare sul posto una tradizionale pelle di camoscio o ritirare le famose “barbe di camoscio” legate artisticamente l’anno precedente. Nei giorni in cui a Vienna non c’era la caccia, le persone si incontravano per caso mentre stavano aggiornando o ampliando la propria attrezzatura in uno dei numerosi e rinomati negozi di caccia della città, o anche semplicemente acquistando nuove munizioni. C’era il k.u.k. Springer, fornitore del tribunale del 1° distretto e di Josefstadt. Prima con Kalezky nella Babenbergerstrasse, poi con i maestri Denk, Mulacz, Kruschitz, Gschwantner e Brandeis. Il grande magazzino Groh in Kartnerstrasse aveva un proprio reparto di caccia: venivano acquistate grandi quantità di cartucce. Oppure le persone si incontravano nel 7° distretto presso il famoso tassidermista Hodek. Eduard Hodek (1827 - 1911) accompagnò il principe ereditario Rodolfo nelle battute di caccia e fu preferito dall’aristocrazia austroungarica per le sue abilità: il maestro Hodek lavorava con precisione e stile incomparabili. Lavorò anche per il Museo di Storia Naturale di Vienna e per la Haus der Natur di Salisburgo. Oppure si poteva acquistare armi con incastonature in argento presso l’argentiere di corte Halder – il padre fondatore dell’azienda era il gioielliere Franz Josef Halder (1884 - 1972) – in Michaelerplatz; ed ancora si poteva acquistare gioielli da caccia per donne. L’imperatore Francesco Giuseppe I fu il primo acquirente della leggendaria figura mitologica dello “Jagdsau” (Cinghiale da caccia mitologico) nel 1910. La miniatura avente forma di cinghiale, possedeva in capo dei palchi di cervo ed al posto della coda due palchi di camoscio: le orecchie avevano due grandi foglie ed al centro della bestia era incastonato un rubino, che simboleggiava il sangue e il desiderio della preda. Haldersau su marmo di Salisburgo fu composto – ed è ancora in produzione presso “Halder Juwelier und Silberschmied” con argento, granato, marmo di Salisburgo e la leggenda narra che porti fortuna al cacciatore. Così nel 1910 l’Imperatore, quando aprì in suo onore la prima esposizione mondiale della caccia, Franz Halder presentò questo gioiello speciale: Francesco Giuseppe, accompagnato dal suo seguito, chiese cosa fosse questo nuovo oggetto e Halder spiegò il simbolismo umoristico a Sua Maestà; così Sua Maestà Imperiale e Regia preso il gioiello, lo consegnò a uno dei suoi aiutanti, noto per la sua mancanza di precisione, con le succinte parole «guarda, principe; forse questo migliorerà le cose». Il disegno di questa produzione proviene dal professor Waldmüller, discendente diretto del famoso pittore Biedermeier.
[caption id="attachment_16220" align="aligncenter" width="1000"] La leggendaria figura mitologica dello “Jagdsau” (Cinghiale da caccia mitologico) creato nel 1910. La miniatura avente forma di cinghiale, possedeva in capo dei palchi di cervo ed al posto della coda due palchi di camoscio: le orecchie avevano due grandi foglie ed al centro della bestia era incastonato un rubino, che simboleggiava il sangue e il desiderio della preda. Altra tradizione era rappresentata dai distintivi venatori della rispettiva zona geografica. Modelli eleganti con lavorazioni molto solide caratterizzano gli esemplari della ditta Halder, tradizione anch’essa oggi viva nell’antico negozio viennese in Reitschulgasse 4.[/caption]
Una tradizione dell’epoca d’oro della caccia era la presentazione del distintivo di caccia della rispettiva zona geografica. Modelli eleganti con lavorazioni molto solide caratterizzano gli esemplari della ditta Halder, tradizione anch’essa oggi viva nell’antico negozio viennese in Reitschulgasse 4. Le persone indossavano ancora copricapi individuali e i distintivi di caccia degli antichi maestri erano presentati sui copricapi venatori con grande orgoglio. I tessuti venivano acquistati o confezionati su misura al Loden Plankl, a pochi passi da Michaelerplatz, o da Turczynski a Wollzeile. La ditta Morz in Mariahilferstrasse ha risolto i problemi relativi alle scarpe. La già citata Esposizione Mondiale della Caccia fu un evento straordinario e un’opera d’arte in cui è stato presentato il meglio dell’arredamento e della cultura venatoria. Le officine viennesi e la ditta Thonet hanno lavorato e costruito falegnamerie appositamente per questa mostra. E i grandi detentori del territorio della monarchia hanno sfoggiato i loro trofei unici e prestigiosi. Questa è stata una parata di performance straordinaria e incomparabile. I cacciatori più famosi da ogni parte del mondo si sono riuniti. Non solo gli amministratori forestali ne hanno parlato, ma tutti i cacciatori furono molto orgogliosi di questo evento unico, che ha portato anche alti profitti. Alcune persone furono ispirate a intraprendere nuove battute di caccia, così furono stabiliti contatti e firmati contratti di tiro. Questa grande mostra ha avuto per molto tempo un’influenza duratura sulla scena della caccia e ha plasmato anche il lato dei produttori e persino l’intero settore della caccia. Fu eretto un monumento all’ego della caccia in quanto le foto venivano pubblicate in numerose riviste venatorie, quando i maestri cacciatori annunciavano i loro percorsi o, come fece ad esempio il conte Rudolf Chotek, il quale descriveva ogni giorno l’esperienza dell’amore del cervo in interi saggi che furono pubblicati insieme alle fotografie. La notizia dei grandi percorsi per la caccia-bassa di Totmegyer si diffuse all’epoca sulle riviste indiane. Durante la stagione autunnale la caccia-bassa, che proseguiva fino all’inverno, godeva di una buona reputazione e molti tiratori avevano tempo a disposizione e disponevano anche dei mezzi finanziari necessari e della relativa indipendenza, per trascorrere settimane venatorie. Tutti avevano dei buoni aiutanti con i quali si aveva già molta esperienza e routine. Il lavoro del cacciatore distrettuale, dell’allevatore di selvaggina, perfino dell’allevatore di cani, del boxmaker, del pastore e di altre professioni specializzate era molto stimato, e c’era anche la professione di maestro fagiano.
[caption id="attachment_16223" align="aligncenter" width="1000"] Gruppo di escursionisti: al centro Francesco Ferdinando, Alfonso XIII in piedi davanti a un albero a sinistra, l'arciduca Federico a destra, Halbturn, 1906.[/caption]
Grande rispetto è stato riservato al personale. Le grandi cacce si svolgevano durante la settimana, di solito martedì e giovedì, a volte per più giorni. I maestri di caccia preferivano i buoni tiratori e gli inviti arrivavano principalmente in base alla qualità di tiro dei partecipanti e non in previsione di inviti di ritorno. In alcuni casi, però, gli inviti si basavano anche sul talento dell’intrattenitore. Naturalmente qua e là il grande nome di un allevatore di piccioni di successo aggiungeva valore alle liste degli inviti. E sui percorsi e sui rifugi delle altre cacce si sapeva molto e quasi tutto, in parte pubblicato anche sulle riviste specializzate. C’erano ancora fumettisti venatori ed uno o due scrittori di caccia si univano spesso alle squadre per raccogliere esperienze e storie, raggiungendo un’alta reputazione letteraria. Di conseguenza, gentiluomini avventurosi e ben navigati stuzzicarono il loro appetito per l’Africa, il Canada e persino l’India, ed attraverso i cronisti, le loro storie di caccia attraversavano il globo tramite diverse pubblicazioni di successo. Il richiamo dell'Africa, era glorioso, ma pericoloso: Fritz Schindelar di Vienna, lavoro nel continente africano come cacciatore professionista; tuttavia, Schlinder rinomato per i suoi calzoni bianchi immacolati e gli stivali lucenti, per la sua audacia e il suo essere donnaiolo, fu ucciso intorno al 1912 mentre assisteva il miliardario regista americano Paul Rainey, nel fotografare un leone che caricava verso la telecamera. I viaggi tra le cacce individuali, alternate, tra Boemia, Moravia, Slovacchia, i paesi dei Carpazi, Vojvodina, Ungheria e Austria erano molto faticosi. E poi ci sono i viaggi all’estero. Si viaggiava molto in treno, anche con l’O.K.W., ma si verificavano comunque molti guasti, soprattutto danni ai pneumatici sulle cattive strade di campagna. Alcune persone arrivavano a caccia solo all’ultimo momento, quando si mettevano in fila, dopo aver viaggiato tutta la notte – provenendo da un’altra battuta di caccia il giorno prima. I Waidmanner e gli Schützen spesso avevano bisogno nella loro vita di diversi libri di caccia e di tiro per documentare i loro percorsi e le loro esperienze. Anche i medici partecipavano spesso alle battute di caccia, per ragioni di sicurezza e per rassicurare, così da poter intervenire tempestivamente e con competenza in situazioni di particolare importanza (colpi di rimbalzo) e in un possibile incidente di caccia. Le massaie servivano ancora il pranzo nel campo o curavano la degustazione. Ultime, ma non meno importanti, le varie mostre di caccia (come quella annuale di Budapest) mostravano agli appassionati cosa era stato ucciso da chi e dove e le persone potevano confrontare gli esemplari. I cacciatori professionisti che confermavano un determinato capriolo al loro capocaccia o l’ora della loro partenza seguivano il rintocco dell’orologio del campanile di una chiesa vicina, oppure utilizzavano il proprio orologio da tasca. In breve: era il tempo dei grandi gentiluomini, delle grandi cacce, delle grandi distanze, dei tiratori eleganti e bravi, il tempo del saper vivere e la gente amava la compagnia, soprattutto la battuta di caccia. Le persone cacciavano al massimo e si vivevano bene, nell’organicità del mondo. Oggi, coloro che ricordano quelle persone pensano ancora di poter “sentire” il suono delle loro parole e la melodia dei loro racconti: a venatione mihi salus.
 
Per approfondimenti:
_Frevert Heinke, Meine Waidmänner und ich, BLV Verlagsgesellschaft, Monaco, 1965; _Erste Internationale Jagd Austellung Wien 1910; _Nadler H., Spari nel bosco. Dal mio diario di caccia, Bietti, Milano, 1965; _Neuberger K., Tolle Zeiten & Grosse Jäger, Bernodorf, 2009.
 
 
 
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata
 

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di Francesca Angelini del 27-02-2021

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“La Chiesa è il Vangelo che continua”, in questo modo viene definita dal cardinale svizzero Charles Journet (1891 - 1975). In molti altri hanno tentato di descriverla, spesso in modo scorretto, ognuno modellando la propria definizione in base al personale punto di vista ed al tipo di rapporto intrattenuto con essa - quasi il Vangelo fosse emblema del relativismo odierno. Per capire cosa sia realmente la Chiesa è però necessario partire dalla sua origine e ripercorrere le tappe storiche con le conseguenti vicissitudini affrontate. La Tradizione fa risalire la sua nascita all’evento di Pentecoste, riportato negli Atti degli Apostoli: "Vi tramsetto quello che ho ricevuto" amava ripetere Monsignor Marcel Lefebvre, ed ancora tradere significa "trasmettere".
[caption id="attachment_12395" align="aligncenter" width="1000"] La cattedra di San Pietro (in latino Cathedra Petri) è un trono ligneo, che la leggenda medioevale identifica con la cattedra vescovile appartenuta a san Pietro apostolo in quanto primo vescovo di Roma e Papa. Quello che si conserva è un manufatto del IX secolo, donato nell'875 dal re dei Franchi Carlo il Calvo a papa Giovanni VIII in occasione della sua discesa a Roma per la propria incoronazione a imperatore. L'opera del Bernini è collocata nell'abside di fondo della Basilica Vaticana, aggettante con effetto scenografico dalla cornice architettonica delle lesene. Al centro si trova il trono in bronzo dorato, al cui interno è situata la cattedra lignea vera e propria. Su un drappo frontale è rappresentata la traditio clavum (la "consegna delle chiavi", ovvero l'atto secondo cui, nella dottrina cattolica, Cristo conferisce a Pietro il primato papale). Quattro colossali statue anch'esse in bronzo, raffiguranti quattro dottori della Chiesa (in primo piano sant'Agostino e sant'Ambrogio per la Chiesa latina e in secondo piano sant'Atanasio e san Giovanni Crisostomo per la Chiesa greca), sono rappresentate nell'atto di sorreggere la cattedra, che pare librarsi senza peso su nuvole di stucco dorato.[/caption]
Secondo l’evangelista Giovanni, ha inizio dal costato ferito di Gesù sulla croce nel momento in cui questi dona lo Spirito. Il quarto evangelista mostra la Chiesa come dono di Dio e sottolinea il carattere trinitario della sua nascita, infatti, nasce dal Padre, per mezzo del Figlio, con l’aiuto dello Spirito.
Il termine Chiesa deriva dal greco ekklēsía, con cui si indicava l’assemblea pubblica dei cittadini. Questo vocabolo è stato poi utilizzato dalla Bibbia dei Settanta (versione della Bibbia in lingua greca) per tradurre l’ebraico qahal, con cui si intendeva la convocazione del popolo da parte di Dio, oppure per tradurre l’ebraico edah, con cui si chiamava la comunità raccolta per pregare o il luogo di preghiera. I due termini hanno diverse sfumature in quanto il primo indica maggiormente una convocazione passiva, mentre il secondo un raduno attivo.
Nel Nuovo Testamento l’ecclesia (termine latino) non è la sinagoga che è, invece, la comunità degli ebrei. Utilizzando il termine al plurale si indica una particolare Chiesa locale, invece, al singolare l’insieme di tutte le Chiese. È da tenere presente che nell’Antico Testamento non è possibile parlare di Chiesa nel senso moderno del termine, ma in quello originario, per questo motivo è un concetto che viene espresso con varie immagini come quella del “popolo di Dio”, che racchiude un aspetto storico visibile (popolo) ed un aspetto teologico invisibile (Dio). Espressione usata dopo l’esilio perché Israele acquisisce sempre "maggiore coscienza" di essere il popolo eletto che appartenendo a Dio non appartiene a se stesso, a differenza degli altri popoli definiti come le “genti”. Un’altra espressione usata è “alleanza”, Dio vuole stabilire un’alleanza e libera con essa, all’alleanza sinaitica Israele deve sentire il bisogno di rispondere con la fedeltà. Altro termine è “resto di Israele”, utilizzato nel periodo dell’esilio, indica la piccola porzione degli israeliti che è riuscita a rimanere fedele.
Si potrebbe facilmente pensare che il fondatore della Chiesa, intesa come l’istituzione odierna, sia Cristo, ma occorre fare delle precisazioni. Spesso si utilizza la celebre frase del Vangelo secondo Matteo Tu es Petrus, et super hanc petram aedificabo ecclesiam meam – Tibi dabo claves Regni Caelorum (Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevaranno contro di essa - Mt 16,18) per sostenere questa idea, ma l’espressione va intesa in senso post pasquale, infatti, la Chiesa per Matteo è opera del Risorto e vive con lui, inoltre l’evangelista sottolinea la sua natura apostolica e l’importanza di Pietro. Quindi, se per fondazione si intende la forma giuridica, Gesù non l’ha fondata. Cristo ha parlato di un Regno e raccoglie cerchi concentrici di persone che ruotano intorno a lui: i dodici apostoli, i settantadue discepoli, la folla, indicando una connessione tra Regno e comunità. Il suo scopo non era radunare persone per creare una Chiesa come forma giuridica vicino la già esistente comunità di Israele, ma per fondare Israele stesso, un Israele escatologico, mostrando un’apertura verso tutti. In poche parole non ha fondato la Chiesa, ma l’ha preparata. La sua nascita effettiva avviene con il mistero pasquale.
Per l’evangelista Marco la Chiesa è universale, aperta ai giudei ed ai pagani - affinché tendino alla Verità cristica, dunque alla conversione -, ed è chiamata a seguire Gesù fino alla croce e ad ascoltare la Parola e a metterla in pratica. Mette anche in evidenza la fragilità propria della comunità.
Secondo l’evangelista Luca il peccato della Chiesa è l’attaccamento di alcuni suoi membri ai beni terreni. Inoltre l’esperienza del martirio è un evento fondamentale per la sua coscienza, infatti, usa il termine Chiesa, mai usato nel suo Vangelo, negli Atti degli apostoli ad esempio dopo il martirio di Stefano. Negli Atti, poi, è evidenziata la dimensione ministeriale della Chiesa, che è una comunità organizzata gerarchicamente. Per Luca il tempo della Chiesa è il tempo dello Spirito che la sostiene sempre ed è donato a tutte le persone a partire dal Battesimo.
Nemmeno nel Vangelo di Giovanni compare il termine ecclesia, ma solo nella sua terza lettera. È interessato alla dimensione intima della Chiesa, la koinonìa (comunione) tra Gesù e i discepoli e interna a questi ultimi. La Chiesa è la schiera dei credenti in Cristo, non dà importanza all’aspetto istituzionale, ma presenta un’ecclesiologia universalista. Nell’Apocalisse, Gesù ricorda tutto l’amore che ha avuto per la Chiesa. Essa vince il male con la propria testimonianza. L’ultimo libro della Bibbia finisce con l’immagine della Chiesa celeste. San Paolo è il primo ad utilizzare la parola ecclesia per indicare la comunità locale. Invece nelle lettere deuteropaoline (composte successivamente alla sua vita, ma attribuite a lui) il termine viene usato per indicare quella universale. Per l’apostolo la Chiesa è corpo mistico di Cristo come è evidente soprattutto nella frase contenuta nella lettera ai Corinzi “Ora voi siete corpo di Cristo e le sue membra, ciascuno per la sua parte.” (1Cr 12,27). Nei secoli la Chiesa ha vissuto varie trasformazioni che hanno rispecchiato il particolare periodo storico attraversato. Nella patristica (filosofia cristiana dei primi secoli) è vista come: “mistero”, “Corpo di Cristo”, “comunione dei Santi”, “tempio di Dio”. Nello specifico i padri dei primi tre secoli utilizzano l’immagine della barca, per i latini Pietro ne è al timone. Prima del IV secolo è vista come mistero, successivamente come Impero. Questo è dovuto agli importanti fatti storici che hanno caratterizzato questo secolo: l’Editto di Milano dell’Imperatore Costantino del 313 sulla libertà di culto e l’Editto di Tessalonica dell’Imperatore Teodosio con il quale il cristianesimo diventa la religione ufficiale dell’Impero. La Chiesa, quindi, perde la sua dimensione escatologica, ma ha uno sguardo fisso sul presente. La Chiesa, precedentemente all’anno 1000, era detta “Corpo di Cristo” e l’Eucaristia “Corpo mistico di Cristo”. Dopo il 1000 d.C. avviene un capovolgimento per cui l’Eucaristia viene indicata come “Corpo di Cristo” e la Chiesa come “Corpo mistico di Cristo”, cambiamento fatto per difendere la presenza reale di Gesù nell’Eucaristia. Nel 1054 si colloca lo scisma tra Chiesa d’Oriente e Chiesa d’Occidente che presentano ecclesiologie differenti in quanto in Oriente prevale un’ecclesiologia di comunione fra le Chiese, invece, in Occidente si subisce l’influsso della Riforma gregoriana (XI secolo) e successivamente dell'eresia luterana (XVI secolo).
[caption id="attachment_12396" align="aligncenter" width="1000"] Il notissimo ritratto di papa Giulio II della Rovere, realizzato da Raffaello Sanzio a Roma (particolare), si trova alla National Gallery di Londra.[/caption]  
Papa Gregorio VII vuole una Chiesa libera dal male, scomunica Enrico IV per il suo rifiuto di rinunciare a nominare i vescovi, il quale, per ottenere la revoca della scomunica, si umilia attendendo tre giorni e tre notti in ginocchio sulla neve davanti al portale d’ingresso del castello di Matilde di Canossa prima di essere ammesso al cospetto del Pontefice, nell’episodio storico noto come l’Umiliazione di Canossa. Redige il Dictatus Papae, raccolta assiomatica di ventisette affermazioni sui poteri dei pontefici, sono elencati, quindi, i princìpi della Riforma gregoriana che dà il via ad un’ecclesiologia dove il Papa è centrale come il ruolo di Roma. Chiesa intesa come societas perfecta. Prima della riforma tutti i vescovi erano considerati il vicario di Cristo, tutte le Chiese fondate da un apostolo oppure che avevano ricevuto una lettera da un apostolo erano considerate una sede apostolica.
I capisaldi dell'eresia luterana, oltre l'aspetto politico della sottomissione ai Conti Elettori tedeschi e la lotta alla vendita delle indulgenze, sono: sola scriptura e sola fide, indicando con il primo l’esclusività della Parola a discapito della Tradizione, invece, con il secondo l’egemonia della fede contro le opere. In termini liturgici Lutero attua tre delle due caratteristiche che oggi la Chiesa attua: in primis non vi è più la transustanziazione - dunque manca il Santissimo, poi per conseguenza il "prete" non deve dare più le spalle ai fedeli, che divengono centrali nella conferenza e abolisce la lingua universale del latino a favore di quella vernacolare. 
Per Martin Lutero la Chiesa non è un impero, infatti, il potere spirituale è separato da quello temporale, non è volontà divina che i vescovi abbiano il potere. Predica, inoltre, l’importanza del sacerdozio universale dei fedeli per cui non solo il Papa, ma tutti possono leggere ed interpretare la Bibbia. Per rispondere all'eresia protestante è stato istituito nel 1545 il Concilio di Trento che mette al centro il Vangelo, i Sacramenti (la Riforma accetta, invece, solo il Battesimo e l’Eucaristia) e la gerarchia. Si ribadisce che la Chiesa è una società perfetta e si insiste sulla potestà pontificia. Successivamente nell’illuminismo (XVIII secolo) si sottolinea la centralità del diritto nella Chiesa facendole perdere l’aspetto soprannaturale ed sarà solo sotto il beato Pio IX nel 1868 che sarà convocato il Concilio Vaticano I che fu il primo Concilio che intende affrontare in maniera sistematica il tema della Chiesa.
 
[caption id="attachment_12397" align="aligncenter" width="1000"] Il concilio di Trento o concilio Tridentino fu il XIX concilio ecumenico della Chiesa cattolica, convocato per reagire alla diffusione dell'eresia protestante in Europa. L'opera svolta dalla Chiesa per porre argine al dilagare della diffusione della dottrina di Martin Lutero produsse la controriforma.[/caption]
Viene emanata la Costituzione apostolica Pastor Aeternus (costituita da un prologo e da quattro capitoli) che, già nello schema preparatorio, presenta un aspetto mistico in quanto si abbandona la categoria della società perfetta e, al contrario, si sottolinea la categoria del Corpo mistico di Cristo essendo la Chiesa una società soprannaturale e spirituale. Nel documento definitivo è centrale l’aspetto dell’infallibilità pontificia quindi il potere papale è di diritto divino, potere pieno senza mediazioni sulla materia di fede, dei costumi e sulla materia ecclesiale. L’infallibilità non ha bisogno del consenso della Chiesa essendo un carisma proprio del pontefice. Il papa è superiore al concilio.
Nel 1959 Giovanni XXIII convoca il Concilio Vaticano II, esprimendo nell’annuncio la sua idea di Chiesa in dialogo con il mondo e non in opposizione con i suoi aspetti moderni. Dunque essendo il mondo del maligno (luciferino) che propone mode terrene e la Chiesa si oppone ad esse grazie alla Verità di Cristo scritta nel Magistero, si evince già l'errore dottrinale: la Chiesa si adegua al mondo. Viene, poi, continuato e portato a termine nel 1965 da San Paolo VI. Il Concilio ha emanato numerosi documenti, alcuni dei quali trattano nello specifico il tema della Chiesa. Il primo fra tutti è la Costituzione dogmatica Lumen Gentium (costituita da otto capitoli) che si mostra rivoluzionaria nel presentare la Chiesa non tanto in forma gerarchica, ma come popolo di Dio, superando, quindi, la sua concezione clericale. Antepone la stessa trattazione sul popolo di Dio a quella sulla costituzione gerarchica, tanto che si parla di “rivoluzione copernicana”.
Viene ribadita la Chiesa come “Corpo mistico di Cristo”, al cui interno ci sono diversi compiti e diversi doni ed è lo Spirito a renderla un Corpo solo (orizzonte pneumatologico). Viene recuperato anche l’orizzonte agapico perché i diversi carismi non sono questione di potere, ma di amore. La Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa cattolica, con sussistenza si vuole indicare la piena identità, ma non si tratta di una realtà escludente, infatti, il documento ha un profilo inclusivista secondo il quale Cristo ha salvato tutti (cristocentrismo). Nella Chiesa cattolica c’è la pienezza dei mezzi di salvezza, nelle altre confessioni ce ne sono comunque alcuni.
La Costituzione pastorale Gaudium et Spes (costituita da proemio, prima e seconda parte e conclusione) afferma che la Chiesa deve dialogare con il mondo, cogliere i segni dei tempi e la grazia presente. Con il dialogo "adempie la sua missione" perché non deve solo trasmettere la verità, ma anche imparare dal mondo (non possedendo più un'unica Verità, quella Cristica).
Questa esposizione dei fatti storici principali riguardanti la Chiesa la mostra come una realtà in continuo rinnovamento, ma che nella sua essenza rimane sempre la stessa e per captare questa sua essenza ci si può affidare alle note (proprietà essenziali) con cui è stata definita dal simbolo niceno-costantinopolitano risalente al Concilio di Nicea (325).
La Chiesa è Una perché questa è l’intenzione di Cristo, l’unità richiama l’unicità (alle nuove tesi) ed entrambe si trovano all’interno della molteplicità che non è nemica dell’unità. La divisione non è da intendere come molteplicità, ma come peccato (qui il paradosso discusso da molteplici teologici). La Chiesa è santa in quanto è composta da santità e peccato, ma Cristo è venuto per la salvezza di tutti. È indistruttibile perché anche se perseguitata non può essere annientata. È indefettibile perché anche se al suo interno ci sono peccatori è accompagnata fino alla fine dei tempi da Cristo. È infallibile perché anche se può sbagliare non può essere preda della potenza del male.
La Chiesa è cattolica che significa universale perché riflette la volontà salvifica di Dio che si è fatto carne per tutti gli uomini. La Chiesa è apostolica nel senso di inviata da Dio per mezzo di Cristo. L’apostolicità per sua natura è profetica quindi genera continuamente la parola di Dio in mezzo all’umanità. Un cambiamento, questo, che genera ancora importanti discussioni nel mondo cattolico.
 
Per approfondimenti:
 _Wiedenhofer S., La Chiesa. Lineamenti fondamentali di ecclesiologia, San Paolo.
 
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di Giuseppe Baiocchi del 04/09/2020

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Uno dei personaggi celebri che cercarono di rovesciare nel 1944 Adolf Hitler (1889 - 1945), così affermava poco prima della sua esecuzione: «Colui che conserva nel suo petto puro ed immacolato la fede di un fanciullo e osa vivere contro la derisione del mondo – come sognava da bambino – fino all’ultimo giorno: questo è un uomo»! Quell’uomo era Henning Hermann Robert Karl von Tresckow (1901 - 44), martire della Germania moderna e forse questa frase, più di ogni altra, identifica il nuovo saggio edito dalla casa editrice tedesca Wolff Verlag. Leggendo l’opera di don Philipp Maria Karasch (1984) e del professore Daniel Plassnig (1990) non si può non rimanere impressionati dalla singolarità della loro fatica letteraria, che prende il titolo tedesco di Träumer Kämpfer Gentleman: una guida per la moralità dell’uomo di oggi, all’insegna dei valori tradizionali dell’Europa. 
In una realtà sociale, dove dominano modelli di moralità contrari alla nostra storia e esempi degenerativi sui comportamenti e sulla presentabilità delle persone, sicuramente questo prezioso scritto, formalmente un vademecum per l’uomo contemporaneo, dimostra di scavare davvero in fondo al nostro animo.
Le epoche passate, con tutte le loro vicissitudini e i diversi sistemi sociali, avevano una cosa in comune: la conoscenza di dove si trovava l’uomo e cosa ci si poteva aspettare da lui. È stato procreatore e produttore, guerriero e inventore, avventuriero e poeta. Ha sempre avuto qualcosa da offrire. Ma poi, il suo stesso successo sembrò distruggerlo: la tecnologia lo ha privato del lavoro, l’intera produzione alimentare è stata industrializzata, e anche le guerre diventarono in gran parte anonime. L’uomo può vegetare in casa, perdendo metà della sua vita in mondi digitali illusori. Egli non è più legato ad un ciclo biologico – né in guerra, né nel guadagnarsi da vivere, né nella procreazione. Tutto è a sua disposizione sempre e ovunque. Così, le sue pulsioni mentali e fisiche sembrano essere diventate paralizzate, adipose e desolate.
Come spiegare altrimenti che l’uomo sfugge in larga misura al ruolo che Dio gli ha destinato? Molti padri lasciano i propri figli da soli (se di figli ancora ne vengono fatti), la frammentazione sociale viene silenziosamente accettata, il patrimonio culturale viene distrutto e non si trova nessuno che lo difenda. La lista potrebbe continuare all’infinito. D’altro canto, come il saggio ci invita a riflettere, la virilità nel culto del corpo è caricaturale su ogni manifesto pubblicitario, oppure si creano talvolta piccoli rifugi che prendono la forma di centri estetici o di templi del fitness, dove l’uomo può chiudersi in se stesso e abbandonarsi a un culto superficiale della mascolinità. Spuntano anche innumerevoli riviste per il “Signore del Creato”, il quale però si presenta come guscio vuoto, pallido nell’aspetto, che parallelamente mostra anche la volontà di riscoprire la consapevolezza del pericolo per la propria identità.
Sotto tutte le ceneri delle certezze bruciate, vi è un desiderio segreto installato nei cuori di molti uomini che risplende per quel qualcosa di Grande che vogliono servire, che vogliono scoprire e conquistare – per il quale vogliono morire. La repressione ed il tabù delle caratteristiche e delle virtù maschili sono penetrati persino nel sacro regno della vita ecclesiale. Anche se si dovrebbe assumere il contrario, considerando che l’ordinazione sacerdotale è riservata agli uomini, questi ultimi spesso si sentono fuori posto nella Chiesa, in quanto sembra che quest’ultima venga appannata da una patina di femminismo confuso e vuoto. Anche se ciò non parla in favore dell’uomo, al quale l’inganno del sentimentalismo superficiale impedisce di vedere la pretesa di Gesù sui suoi discepoli, l’obiettivo contrariamente deve essere quello di dimostrare che egli stesso ha bisogno della Chiesa, come quest’ultima ha bisogno di lui. Che egli troverà la propria vocazione solo attraverso un cristianesimo vero e sentito, che richiede sacrificio e dono di sé.
Da questo sentimento nasce il “vademecum per l’uomo”, al quale si antepone la triade del sognatore, del guerriero e del gentiluomo. Così che ogni lettore incline si ritrovi già nel titolo e intraprenda il viaggio esplorativo di una virilità raffinata.

Negli Stati Uniti d’America, ci sono innumerevoli opere contemporanee sul mercato del libro cristiano che si presentano in modo accattivante. Nei paesi di lingua tedesca e in Italia, tuttavia, l’editoria in questo contesto si distingue per la sua scarsa produzione. Nella misura in cui in Europa, prevale una diversa sensibilità linguistica, gli autori hanno deciso di raccontarsi e raccontare la loro idea maschile, che in realtà risulta poi essere quella dei nostri nonni e con uno sguardo più generalizzato, risulta essere quello della nostra storia. Alcune lobby, come sappiamo, stanno cercando di eliminare la storia: è sotto gli occhi di tutti.

Ed è proprio per questo che questo piccolo tomo, che tratta di virtù e atteggiamenti diversi che dovrebbero contraddistinguere un uomo, acquisisce ancor di più maggior valore. Ad ogni tematica trattata, con intelligenza, si prende un “personaggio” ad esempio che, nel concreto e come figura storica, da buon cattolico, può servire da mentore e da esempio per noi lettori scoraggiati. Ma questa Europa, oggi tecnocratica, nella quale non conta più l’appartenenza culturale di ogni popolo, ma unicamente viene osservato il mero dato finanziario per essere comunità, non si basa ancora sulla grecità, sulla cristianità, sulla filosofia tedesca del 900 e sulla storia delle grandi famiglie europee che l’hanno – de facto – plasmata? E non sono forse gli uomini citati in Träumer Kämpfer Gentleman ad essere tasselli di quella terra che calpestiamo e di quell’aria che respiriamo?

Uno dei punti fermi del saggio sembra essere la citazione di Ernst Jünger (1895 - 1998): «il coraggio è il vento che spinge verso lidi lontani, la chiave di tutti i tesori, il martello che forgia grandi imperi, lo scudo senza il quale non esiste cultura. Il coraggio è l’impegno della propria persona ad affrontare la conseguenza più dura, il salto dell’idea contro la materia, indipendentemente da ciò che ne può scaturire. Coraggio significa lasciarsi crocifiggere come individuo per la propria causa; coraggio significa confessare, nell’ultimo spasmo dei nervi, con il respiro spento, il pensiero per il quale si è resistito e si è caduti. Al diavolo un tempo che vuole portarci via il nostro coraggio e i nostri uomini»!

Sul tema della paternità, ad esempio, troviamo il Lord Cancelliere Thomas More (1478 - 1535) o Claus Philipp Maria Schenk conte von Stauffenberg (1907 - 44), i quali divengono sinonimo di orgoglio cristiano; il padre della Chiesa Aurelio Agostino d’Ippona (354 d.C. - 430 d.C.) ci fa riflette sulla vera amicizia e lo scrittore John Ronald Reuel Tolkien (1892 - 1973) viene citato come esempio di cavalleria. Alcuni fra gli altri temi trattano l’amore per la Patria, l’identità, la bellezza, il corpo e lo sport, il perdono, il desiderio.

Ogni capitolo inizia con un brevissimo profilo biografico del personaggio, seguito dall’argomento vero e proprio e si conclude con domande di riflessione o suggerimenti per l’attuazione di quanto letto. Gli autori austriaci, nella scelta dei personaggi, si sono soffermati su modelli di riferimento di lingua tedesca, sicuramente come atto d’amore e dolore che lo stesso odio tedesco ha avuto su se stesso. Ma anche l’attuale Italia trova alleati nativi in Filippo Romolo Neri (1515 - 95) e Pier Giorgio Frassati (1901 - 25). Ovviamente nessuno è specialista quando si tratta di tracciare modelli per il prossimo, tuttavia, gli autori sembrano comprendere quale è il loro personale obiettivo: un libro per se stessi e per tutti coloro che vorranno assaporarne l’incipit. Tuttavia, una delle riflessioni più toccanti del testo si installa propriamente sullo smarrimento dei valori giovanili, senza più cardini e punti di riferimento. L’affidarsi spesso a “consiglieri” sbagliati, spesso agli stessi media, sta facendo crollare la morale e l’etica dei giovani: gli autori sperano con questo piccolo saggio, di aver fatto un servizio a se stessi e agli altri. In realtà, tale vademecum, fornisce al lettore anche spunti per approfondimenti e indici di lettura su altri testi e saggi: affinché ci sia qualcosa anche per il sognatore, poiché non sono incluse solo opere filosofiche, teologiche o pratiche, ma anche una piccola selezione di narrativa. Il tutto si completa con una breve sezione di preghiera. L’opera è certamente arricchita da Sua Eccellenza Reverendissima Athanasius Schneider (1961), vescovo di Astana in Kazakistan, il quale ha contribuito alla prefazione: «Come Dio ha iscritto l’esser madre, la maternità, nella natura della donna, così ha iscritto l’essere padre, la paternità, nella natura dell’uomo. Ogni uomo dovrebbe quindi, con l’aiuto di Dio, elaborare sempre più chiaramente nella sua vita le caratteristiche del Padre; e queste sono soprattutto: prendersi cura degli altri, proteggere, difendersi, sacrificarsi per gli altri. Anche se non tutti gli uomini in questa vita sono un padre biologico, cioè un padre di famiglia, ogni uomo dovrebbe vivere le qualità paterne. Solo allora dà alla sua virilità una vera dignità e solo allora diventa felice, anche se con fatica e non senza una croce, ma felice». L’augurio certamente è quello di una rinascita spirituale, prima che fisica, che porti conforto sia all'Heimat degli autori e in seconda istanza anche a questa travagliata Europa: che sia di nuovo benedetta da uomini forti e disposti a fare sacrifici.
Per approfondimenti:
_Karasch-Plassnig, Träumer Kämpfer Gentleman, Wolff Verlag, Berlino, 2020.
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

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di Giuseppe Baiocchi del 01-09-2020

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Per chiarire il rapporto tra il Mutu ProprioSommorum Pontificum” di Benedictus PP. XVI (1927) e il processo di secolarizzazione della società contemporanea, bisogna necessariamente analizzare quest'ultimo termine. Non a caso lo stesso Ioannes Paulus II (1920 - 2005), in un suo discorso del febbraio 2002, affermava come: «purtroppo la metà dello scorso millennio, avuto inizio dal Settecento in poi, si è particolarmente sviluppato un processo di secolarizzazione che ha preteso di escludere Dio e il cristianesimo da tutte le espressioni della vita umana. Il punto di arrivo di tale processo è stato il laicismo, il secolarismo agnostico e ateo, cioè l’esclusione assoluta e totale di Dio, della legge morale naturale, da tutti gli ambiti della vita umana. Si è relegata la religione cristiana entro i confini della vita privata di ciascuno».
[caption id="attachment_12137" align="aligncenter" width="1000"] Xilografia Flammarion, un'opera enigmatica di un artista sconosciuto. La prima apparizione documentata è all'interno di L'atmosphère: météorologie populaire di Camille Flammarion (Parigi 1888, pagina 163, un lavoro sulla meteorologia per un pubblico generale), raffigurante un uomo che scruta attraverso la cortina dell'atmosfera terrestre che avvolge l'universo esterno (del 1888).[/caption]
Da tali parole emerge come la secolarizzazione sia un processo storico che ha inizio alla metà dello scorso millennio con l’umanesimo rinascimentale, che si articola nel Settecento con l’illuminismo e avrà il suo punto di arrivo nel laicismo e nel già citato – appunto – secolarismo agnostico e ateo che caratterizzano prima il marxismo e poi la società post-moderna. La meta, l’obiettivo è l’esclusione di Dio e del cristianesimo dalla sfera pubblica e la riduzione della religione a fenomeno puramente individuale. Si tratta di un fenomeno più volte denunciato, sia da Giovanni Paolo II, sia da Benedetto XVI. Il primo Pontefice citato, considera il secolarismo come l’esito radicale necessario della secolarizzazione e con ciò cade la distinzione tra una secolarizzazione “buona” ed una porzione di secolarismo vista come “perversione dell’idea di secolarizzazione”.
Difatti tra secolarizzazione e secolarismo non esiste una logica e coerente continuità. C’è chi crede che per evitare il secolarismo anti-cristiano, la Chiesa dovrebbe fare propria e “battezzare” la secolarizzazione: quasi una inevitabilità data dal processo storico. Se, diversamente, si rifiuta questa visione immanente e storicistica e si stabilisce un criterio che ci permetta di valutare gli eventi della storia alla luce di princìpi organici e trascendenti, non possiamo considerare in sé “positivo e buono” nessun fatto storico solo perché avvenuto. Come gli atti umani, i fatti storici – prodotti razionali e liberi dell’uomo – devono essere giudicati o in positivo o in negativo.
La società secolarizzata non può definirsi in sé neutra, ma va giudicata proprio perché siamo davanti non ad un processo inevitabile, ma ad un frutto di scelte culturali e morali dell’uomo. L’accettazione della secolarizzazione come un fatto storico inevitabile, porta inevitabilmente verso una filosofia e una teologia della secolarizzazione. La filosofia della secolarizzazione già implicita nell’umanesimo pagano, si forma nei circoli illuministici, viene portata nel XX secolo ad una sua coerenza logica da Gramsci nei suoi “Quaderni del Carcere” e penetra nella seconda metà del XX secolo nella teologia, prima protestante, poi cattolica con Dietrich Bonhoeffer (1906 - 45). Quest’ultimo, celebre pastore luterano, concepisce la storia del cristianesimo in chiave evolutiva, come un passaggio dall’età dell’infanzia, all’età adulta. Secondo Bonhoeffer l’adulto sarebbe quello che abbraccia il mondo e nel mondo si immerge e si immedesima, trovando a questa realizzazione la sua maturità: la sua celebre “maturità del mondo”, nella quale avviene l’espulsione del sacro da ogni ambito sociale e con l’estirpazione delle radici cattoliche dalla società.
Nel Seicento, un giurista Huig de Groot (1583 - 1645) aveva auspicato la nascita di un diritto liberato dalla metafisica. Fu proprio il batavo a coniare la formula etsi deus non daretur: un diritto naturale, come se Dio non esistesse. Bonhoeffer sapientemente, riprende questa formula e la applica alla teologia. Dissidente del partito nazionalsocialista tedesco, in carcere scriverà: «Non possiamo essere onesti senza riconoscere che dobbiamo vivere nel mondo etsi deus non daretur e appunto questo riconosciamo davanti a Dio. Dio stesso ci obbliga a questo riconoscimento, così il nostro diventare adulti, ci conduce a riconoscere in modo più veritiero la nostra condizione davanti a Dio. Egli ci dà la conoscenza, che dobbiamo vivere come uomini capaci di far fronte alla vita senza Dio. Il Dio che è con noi è il Dio che ci abbandona, il Dio che ci fa vivere nel mondo senza ipotesi di lavoro, è il Dio davanti al quale permanentemente stiamo».
[caption id="attachment_12138" align="aligncenter" width="1000"] Dietrich Bonhoeffer (1906 - 1945) è stato un pastore luterano, teologo, dissidente anti-nazista e fondatore della Confessing Church. I suoi scritti sul ruolo del cristianesimo nel mondo secolare sono diventati ampiamente influenti e il suo libro The Cost of Disipleship è stato descritto come un classico moderno.[/caption]
Da questa allocuzione, sappiamo come l’oggi Papa Emerito Joseph Ratzinger, prima di divenire Benedetto XVI, in un suo dialogo con Marcello Pera (1943) contrappose un’altra formula: etsi deus daretur e tale formula contiene chiaramente un’opposta visione alla secolarizzazione, poiché è la proposta fatta a chi non crede, di accettare una società cristiana, in cui il cristianesimo riacquisti il suo spazio pubblico. I cattolici, in tale prospettiva, devono evangelizzare il mondo e non farsi secolarizzare da esso.
Certamente è dato notorio come le tesi del luterano tedesco penetrarono nella teologia cattolica, come ha dimostrato Cornelio Fabro (1911 - 95), in particolar modo nel teologo Karl Rahner (1904 - 84). Nel quattordicesimo volume dei suoi scritti teologici Sulla teologia del culto divino, padre Rahner scriveva che «la liturgia per il principio lex credendi, lex orandi, avrebbe dovuto esprimere questo nuovo rapporto con il mondo, farsi essa stessa liturgia del mondo». Fu così che don Fabro affermò propriamente come la radice della secolarizzazione consiste nel far sprofondare inarrestabilmente l’uomo nel mondo, e nel riconoscersi proprio nell’homo mundanus, ovvero l’essere dell’uomo come essere in e per il mondo.
L’illusione è quella di fondare un ordine mondano, all’infuori del cristianesimo, dove questo si invererebbe. Esiste tuttavia un significato positivo di mondo. Oggi ci dimentichiamo troppo facilmente l’esistenza di un mondo inteso invece nel senso delle tre concupiscenze e del rifiuto di Dio, un mondo che tende a divenire dell’apostasia. C’è un mondo che è costituito da uomini che devono essere salvati dalla redenzione. Ce ne parlava San Giovanni, di un mondo terreno in cui il suo Re, non era Dio, ma il demonio. Tale mondo si fonda sulle tendenze disordinate dell’animo umano, così come amava affermare l’intellettuale brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira (1908 - 95). Tale concezione, oggi ancora evocata dalla politica, porta il nome di nuovo umanesimo. Tale termine raccoglie certamente gli altri già citati: secolarizzazione, secolarismo, laicismo. Non più Dio al centro dell’uomo, ma l’uomo stesso e la sua volontà di potenza. L’umanesimo, difatti, assegna all'uomo due fini: uno spirituale – da raggiungere in paradiso, di cui si occuperebbe la Chiesa –, e un fine terreno in cui la Chiesa dovrebbe rimanere estranea. Si separa così l’ordine naturale da quello spirituale, pretendendo di realizzare un ordine umano al di fuori della Chiesa. Lo sguardo dal cielo, si sposta sulla terra. Nei suoi scritti il cardinale Giuseppe Siri (1906 - 89) affermava come «una redenzione puramente terrestre non ha significato per l’uomo, essa può finire al contrario col rendere il nostro mondo invivibile, un segno di inferno nella vita degli uomini. La Chiesa non è un potere mondano, né può divenirlo. Le parole di Cristo al tentatore hanno segnato l’indole della Chiesa. La Chiesa – corpo mistico di Cristo – ha certamente un fine soprannaturale, ma oltre ad essere una società invisibile è anche una società visibile che opera nel mondo, è un’istituzione pubblica, dotata di una sua struttura giuridica e i suoi membri hanno come fine il cielo, ma sono uomini composti di anima e di corpo che vivono nel mondo, lottano contro il mondo, devono affermare nel globo le proprie idee e i propri valori».
[caption id="attachment_12139" align="aligncenter" width="1000"] Giuseppe Siri (Genova, 20 maggio 1906 – Genova, 2 maggio 1989) è stato un cardinale e arcivescovo cattolico italiano. Convinto difensore della tradizione liturgica e dottrinale della Chiesa e avversario delle ideologie totalitarie del XX secolo, che riteneva incompatibili con la fede cattolica, Giuseppe Siri salì rapidamente i gradi della gerarchia ecclesiastica fino a diventare vescovo ausiliare a 38 anni, arcivescovo di Genova a 40 e cardinale a 47. Governò l'arcidiocesi ligure dal 1946 al 1987, e, con i suoi 41 anni di durata, il suo episcopato fu probabilmente il più lungo della chiesa genovese. Partecipò a quattro conclavi, durante i quali venne sempre indicato fra i papabili. Siri fu anche, fra le varie cariche ricoperte, presidente della Conferenza Episcopale Italiana dal 1959 al 1965. Il suo carattere deciso, poco incline ai compromessi, e la tenace difesa delle proprie convinzioni divisero spesso l'opinione pubblica, suscitando grandi consensi e forti opposizioni. A Genova, città cui fu profondamente legato, fondò e sostenne numerose organizzazioni assistenziali, pastorali e culturali. Scrittore molto prolifico, la sua vastissima produzione si articola in centinaia di titoli, suddivisi fra lettere pastorali, libri, discorsi, omelie, articoli e relazioni.[/caption]
In tal senso la Chiesa non può assolutamente essere una madre part-time, ma deve svolgere la sua funzione a tempo pieno. Non a caso l’autorità della Chiesa non ha una fonte umana, ma si esercita su tutto il mondo e questa autorità sulle “cose” temporali è esercitata dalla Chiesa per difendere la propria libertà, ma per difendere anche la libertà dei propri figli, poiché ordinando gli uomini alla vita eterna la Chiesa non assicura loro solo la felicità eterna in cielo, ma offre loro anche il miglior modo di vivere nella sua terra. Il Vangelo non è una dottrina politica e sociale, ma solo nel rispetto del Vangelo l’ordine politico e sociale è fecondo e l’uomo è felice.
La tesi neo-modernista che si andava affermando negli anni Settanta era quella che occorreva purificare invece la Chiesa dalla sua “compromissione” con il potere: da una parte immergerla nel mondo, ma dall’altra liberarla “dalle incrostazioni”. La Chiesa sarebbe dovuta uscire dall’epoca costantiniana per sciogliere ogni legame con le strutture antiche del potere, farsi povera ed evangelica in ascolto del mondo.
L’avvento dell’era della secolarizzazione è ancora oggi presentato negli ambienti progressisti come «fine dell’epoca costantiniana». Per tale epoca si intende ovviamente quella inaugurata dall’Imperatore romano Flavio Valerio Aurelio Costantino (272 d.C. – 337 d.C.) il quale non solo restituì la libertà alla Chiesa con il celebre editto di Milano (313 d.C.), ma avviò con la Chiesa una politica di collaborazione, poi proseguita dai suoi successori.
Uno dei padri della Nouvelle Théologie, il domenicano Marie-Dominique Chenu (1895 - 1990) in una celebre conferenza tenuta nel 1961, rifiutava a piene mani la politica di Costantino, ma pretendeva di emancipare la Chiesa da quelli che definiva come i tre fattori decisivi della sua intromissione con il potere: il primato del diritto romano, quello del logos greco-romano e quello del latino come lingua liturgica. Non bisognava più porsi il problema di evangelizzare il mondo, ma contrariamente accettarlo così come si presentava e collocarsi al proprio interno. In pieno Concilio Vaticano II, nel 1963, continuava nella sua opera La Chiesa e il mondo l’affermazione della sua idea-progetto che insisteva sulla fuoriuscita dalla cristianità per liberarsi dall’influenza costantiniana che gravava ancora sulla Chiesa: «usciamo dalla preistoria, il mondo esiste. Tale realtà, rispetto al Vaticano I, è la grande originalità del Concilio».
L’undici ottobre del 1962, giorno della solenne inaugurazione del Concilio Vaticano II, un discepolo e confratello di Chenu, tale padre Yves Marie-Joseph Congar (1904 - 95) nel suo diario, pubblicato una decina di anni fa, deplorava il fatto che la Chiesa non aveva mai avuto in programma l’uscita dall’era costantiniana. Per Congar simbolo dell’era costantiniana era lo sventurato Pio IX che con il procedere della storia «non aveva compreso nulla» e inorridito da una possibile notizia di beatificazione di Papa Mastai-Ferretti, il sacerdote francese scrisse: «più ci penso, più trovo che Pio IX sia stato un uomo meschino e rovinoso. Quando gli eventi lo invitavano ad abbandonare l’orribile menzogna della donazione di Costantino e ad assumere l’atteggiamento evangelico non ha avvertito questa chiamata e ha sprofondato la Chiesa nella rivendicazione del potere temporale. Nulla avverrà di decisivo finché la Chiesa romana non avrà completamente abbandonato le sue pretese feudali e temporali ed è necessario che tutto questo sia distrutto e lo sarà».
Vale la pena sottolineare che Chenu presenta come coincidenti due prerogative che per il Papato sono assolutamente distinte: da una parte l’autorità indiretta della Chiesa su tutte le cose temporali che implicano questioni di fede e di morale e dall’altra la podestà terrena, rivendicata da Pio IX – mai sulla base della donazione di Costantino – del possedere quei domini temporali che garantivano la libertà di espressione e di culto dei cattolici in piena autonomia e senza ingerenze straniere. Questo diritto irrinunciabile della Chiesa, sempre negato dai suoi nemici nel corso della storia, si manifesta oggi nella presenza simbolica, ma reale, dello Stato della Città del Vaticano.
[caption id="attachment_12143" align="aligncenter" width="1000"] Da sinistra a destra, tre dei principali pensatori della Nouvelle Théologie: Karl Rahner (1904 - 84), Marie-Dominique Chenu (1895 - 1990), Yves Marie-Joseph Congar (1904 - 95).[/caption]
La perdita delle teorie concettuali cattoliche avvenuta negli anni Sessanta e Settanta, come la rinuncia alla Dottrina Sociale della Chiesa, significò de facto una subordinazione indiretta al socialismo francese di matrice marxista. Dunque al tramonto dell’epoca costantiniana, seguì l’alba dell’era anti-cristiana. Il silenzio del Concilio Vaticano II sul comunismo, non interruppe la persecuzione comunista del cattolicesimo e favorì contrariamente la migrazione dei cattolici verso il comunismo a tutti i livelli. Negli anni Settanta, mentre si intensificava la persecuzione anti-cattolica, i brigadisti “cattolici” come Renato Curcio (1941) – formatosi culturalmente in una facoltà cattolica a Trento –, imbracciavano le armi in favore del comunismo e nasceva in America Latina la Teologia della Liberazione.
La riforma liturgica del 1969 fu attuata in questo clima. La conclusione dell’epoca costantiniana, esigeva la fine della liturgia, che di quell’era della Chiesa era stata espressione. Ma quale era il principio di quella liturgia che si voleva sopprimere? La stessa che come ribadì Benedetto XVI, «resta liturgia della Chiesa».
La visione cristiana del mondo afferma che Dio è creatore e Signore del cielo e della terra: il riconoscimento e l’amore che a lui si deve, tende al suo dominio, ad ogni cosa che egli ha creato e che mantiene in vita e nella creazione e nel dominio del Signore avvengono tutte le cose private e pubbliche, materiali, spirituali e sociali. Dunque da ogni cosa si deve elevare il riconoscimento, ossia il culto a Dio. Proprio quest’ultimo è la relazione dell’uomo con Dio. Aristotele ha definito l’uomo un «essere sociale», ma il filosofo che non possedeva l’idea della creazione, ha ridotto la socialità degli uomini al loro rapporto con i propri simili. In realtà ciò che fa di un uomo un essere estroflesso, dipendente, è la sua relazione con Dio Creatore. Tale rapporto si può esprimere unicamente con la preghiera, che fa dell’uomo non un «animale sociale», ma un «homo religiosus».
Poiché Dio non è homo-homini-lupus (uomo, nemico dell'uomo), ma homo-homini-Deus (si è fatto uomo egli stesso, è Dio per l’uomo), e per salvare l’umanità – colpita dal peccato originale – ha fondato la Chiesa, la preghiera per eccellenza dell’uomo, l’unica che lo redime, è quella che lui fa all’interno della Chiesa, attorno all’Altare. La liturgia è la preghiera pubblica della Chiesa, l’atto non privato del singolo uomo, ma della comunità dei battezzati riuniti intorno al Santo Sacrificio dell’Altare. Questa liturgia non è solo la trasmissione della parola di Dio, l’uomo e la sua santificazione attraverso i sacramenti, ma essa è anche un insieme di forme sensibili che elevano l’uomo verso Dio e che lo aiutano a glorificarlo e a rendergli il culto dovuto.
La concezione secolarista pretende l’emancipazione del Creato da Dio stesso, relegare la sovranità di Cristo, di eliminarne l’autorità e l’influenza della Chiesa dalla società. Il secolarismo afferma il primato del profano sul Sacro, anzi l’espulsione stessa del sacro da ogni ambito della società: la perdita e la rinuncia di ogni legame trascendente e quindi dell’essenza stessa della religione, poiché quest'ultima ri-lega l’uomo a Dio. La condizione dunque della realtà ad un orizzonte terrestre e mondano e l’essenza di questo secolarismo è propriamente quel relativismo culturale che è a sua volta la maschera delle tendenze sregolate dell’uomo. La maschera intellettuale della ricerca del proprio piacere, dell’appagamento dei propri bisogni, del culto del proprio Io, all’interno di una gnosi creata appositamente che non dialoga con la realtà organica, proprio perché questa diviene separata da Dio, non coordinata a Lui.
Al contrario “sacro” è ciò che è ordinato a Dio e in questo senso è separato dal profano. La civitas Dei, radicalmente separata dalla civitas diaboli, è la sociètà di cui Gesù Cristo è il Capo. La perfezione della sacralità sta nella persona stessa di Gesù Cristo, perché in Gesù Cristo, Dio si dà massimamente ad una natura umana unita inscindibilmente a Lui in unità di persona. «In Lui – afferma San Paolo – abita corporalmente, tutta la grandezza della Trinità». E dunque nulla vi è di più antitètico alla secolarizzazione della Liturgia espressa dal sacrificio della Messa: quel sacrificio in cui trovano compimento quei misteri quali la passione, la resurrezione e l’ascensione di Gesù Cristo.
I protestanti hanno negato che la Santa Messa sia vero sacrificio, perché in essa non c’è immolazione del corpo di Cristo, che ora è glorioso e impassibile, ma il Concilio di Trento e la dottrina della Chiesa rispondono che il sacrificio non comporta necessariamente una immolazione reale e cruenta. Nella Santa Messa vi è una immolazione incruenta o sacramentale che rappresenta l’immolazione cruenta della Croce e ne applica i frutti. Il sacrificio della Messa non è dunque un memoriale o una semplice oblazione, ma è un vero sacrificio offerto da Cristo medesimo, sacerdote e vittima. Non a caso Réginald Garrigou-Lagrange (1877 - 1964) ci ricordava come San Giovanni nell’Apocalisse contempla l’Angelo che incensa con un turibolo d’oro l’Altare si cui sta l’agnello immolato. La celebrazione liturgica ha ricordato Giovanni Paolo II, nella lettera alla Congregazione per il culto divino del 21-09-2001 «è un atto della virtù di religione che coerentemente con la sua natura deve caratterizzarsi per un profondo senso del sacro. In essa l’uomo e la comunità devono essere consapevoli di trovarsi in modo speciale dinanzi a colui che è tre volte Santo e trascendente. Di conseguenza l’atteggiamento richiesto non può che essere permeato dalla riverenza e dal senso dello stupore che scaturisce dal sapersi alla presenza della Maestà di Dio. Non voleva forse esprimere questo Dio nel comandare a Mosè di togliersi i sandali davanti al rogo ardente»?
Certamente si può affermare come nulla meglio della Santa Messa Tradizionale esprime ciò che la celebrazione è nella sua intima essenza: il Santo sacrificio. Se c’è un luogo in cui il mondo secolarizzato non è penetrato, questo luogo e questo momento si ritrova nel rito romano straordinario. Dopo le parole introibo ad Altare Dei, la marea schiumosa della secolarizzazione che tutto sembra inquinare, si arresta davanti alle porte del santuario. Questa marea non penetra davanti al recinto immacolato in cui viene offerta e immolata a Dio, una vittima pura e senza macchia.
Il punto più sacro della Messa è il canone romano, la formula consacratoria composta – come ricorda il Concilio di Trento – in parte dalle parole stesse del Signore, in parte da ciò che è stato tramandato dagli apostoli e in parte da ciò che è stato stabilito dai Pontefici. Le parole immutabili del Canone, sono pronunciate nella Liturgia Tridentina a bassa voce, proprio per sottolineare la sacralità. Il silenzio esprime la distanza infinita, tra il Dio ineffabile che non può essere conosciuto nella sua essenza e l’umile creatura che senza di lui cadrebbe nel nulla. Ma questo Dio adorato nella sua Maestà divina non è lontano, anzi infinitamente vicino, perché si è donato in Cristo ed è presente sull’Altare: in corpo, sangue, anima e divinità e solo nella assoluta trascendenza divina si esprime la radicale ed estrema vicinanza di Dio all’uomo. Così il linguaggio del silenzio, si accompagna alle parole liturgiche per rendere somma gloria a Dio in questo rito. Nel suo saggio Introduzione allo Spirito della liturgia l’allora cardinale Ratzinger si espresse così: «il silenzio si oppone al frastuono, alla confusione, che Regna nella civitas diaboli e permette che più perfettamente si renda a Dio creatore la riverenza che spetta a Sua Maestà».
La Riforma Liturgica del 1969 venne considerata come espressione della svolta antropologica degli anni Sessanta e Settanta. Una grande novità che pretendeva colmare l’infinita distanza tra Dio e l’uomo, spogliando leggermente – qualora ciò fosse possibile – Dio della sua gloria ed elevando molto, se fosse possibile, l’uomo verso Dio, nell’illusione di abbreviarne la distanza.
Si può certamente discutere se la riforma di Paolo VI abbia apportato quella continuità o quella rottura con la tradizione precedente della Chiesa, ma il solo fatto che se ne discuta è sufficiente per denotarla quanto meno come una riforma ambigua. Difatti se la Riforma liturgica avesse avuto un rapporto di inequivocabile continuità, tale dibattito non si sarebbe aperto.
Il rito romano antico non permette equivoci di alcuna sorta e in esso vi è un senso ineguagliabile della trascendenza divina. Esso evidentemente non è l’unico rito possibile, ma è un rito che esprime con perfetta chiarezza l’ecclesiologia cattolica: quell’unica ecclesiologia, anche con differenti riti che la esprimono.
Ed allora come non poter ricordare il Mutu Proprio del 2007 di Benedetto XVI e definito come Summorum Pontificum, il quale concede una categorica, quanto fondamentale chiave interpretativa secondo cui «il rito antico non è stato e non avrebbe potuto essere abrogato». Le conseguenze di queste affermazioni sono più vaste di quanto si possa a prima vista immaginare, perché in primo luogo cadono le speranze o i timori di chi aveva evocato l’ipotesi di una «riforma della riforma», intesa come ibridazione tra le due tipologie della Santa Messa: la nuova e l’antica.
Di riforma è certamente possibile parlare per il nuovo rito, ma non per l’antico che non potendo essere abrogato non può essere strutturalmente modificato. Oggi, l’aumento importante dei coetus fidelium in tutta Europa – nonostante alcune difficoltà -, deve fornire un dato oggettivo di come il rito romano straordinario promosso dal Pontefice tedesco abbia ripreso piena forza non solo per il suo impianto teologico, ma anche dalla sua storia pressoché millenaria.
La storia delle nazioni europee – ha affermato Giovanni Paolo II – procede di pari passo a quella della sua evangelizzazione. L’Europa medievale si è costruita attorno al Vangelo, ossia attraverso la trasmissione di una fede annunciata dai successori degli apostoli, secondo la consegna data da nostro Signore: andate e battezzate tutte le genti. Non a caso il vecchio continente a partire dal IV secolo inizia a formarsi intorno ad una traditio, ovvero ad una consegna e trasmissione di Verità. La dimensione rituale e in un certo senso una dimensione costitutiva della nascita e dello sviluppo della società europea e cristiana dei primi secoli. Perché la parola traditio nel suo senso originale si riferisce alla trasmissione dei singula fidei, ovvero quelle formule verbali confermate dalla autorità ecclesiastica destinate alla pubblica professione della fede e fin dal quarto secolo il simbolo è rappresentato come la quinta essenza del Vangelo nelle cerimonie della traditio simboli e della redditio simboli che precedono il battesimo. La traditio e la redditio del simbolo, significano che il catecumeno riceve la fede della Chiesa e si impegna a vivere e a confessarla pubblicamente davanti alla comunità cristiana. Ma la traditio se si esprime nella consegna di verità destinate a formare il Depositum Fidei e anche ricerca dei modi in cui queste verità vengono trasmesse. Ogni verità si traduce in una liturgia secondo la nota formula di Sant’Ireneo, poiché «si custodiva fedelmente la tradizione venuta dagli apostoli» e l’Europa medievale in questo senso nasce intorno ad una tradizione liturgica, attorno ad un rito. Tale considerazione ci viene confermata anche dallo storico inglese Christopher Henry Dawson (1889 - 1970), il quale osserva come «dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente (476 d.C.) l’ordine sacro della liturgia rimase intatto nel caos, mentre tutto crollava mutando». Dunque la liturgia costituì il principale legante interiore della società e nello stesso tempo fu sede della tradizione e della fede, poiché in essa le due realtà si incontravano conciliandosi.
L’affermazione del primato romano, sotto Dàmaso I (305 d.C. - 384 d.C.), corre parallela all’affermazione dell’Ordo liturgico romano, la cui definitiva configurazione avviene fra il IV e il VI secolo, culminando nella creazione del Liber Sacramentorium di Papa Gregorio I (540 d.C. - 604 d.C.). La Liturgia dàmaseno-gregoriana, così come affermava Monsignor Klaus Gamber (1919 - 89), si andò imponendo progressivamente in Occidente rimanendo quello che è stata celebrata nella Chiesa latina fino alla riforma liturgica del 1969. Questo è esattamente il rito che Benedetto XVI ripropone alla Chiesa: tale liturgia gregoriana, espressione del rito romano antico, ci ricorda attraverso il suo silenzio, le sue genuflessioni, la sua riverenza, l’infinita distanza, che separa il cielo dalla terra; ci ricorda che il nostro orizzonte non è quello terreno, ma quello celeste; ci ricorda che nulla è possibile senza sacrificio e che il dono della vita naturale e soprannaturale è un mistero. Scrivendo ciò non possiamo certamente dimenticare l’esistenza di una nuova messa celebrata che rinnova anch’essa il sacrificio della croce in tutto il mondo promulgata e autorizzata dagli ultimi Pontefici.
Non si deve, né si può porre in contrapposizione il rito antico con la nuova Messa, ma si tratta unicamente di comprendere come la restituzione della libertà del rito antico opponga una nuova barriera al secolarismo avanzato. La messa degli apostoli aprì e chiuse tutti i 21 Concili Ecumenici della Chiesa, da Nicea al Vaticano II. Il rito romano straordinario di oggi, viene celebrato sotto le volte grandiose di San Pietro e nelle più umili e remote cappelle agli estremi confini della terra, ma fu anche la Santa Messa di tutti gli ordini religiosi fondati nella storia: fu celebrata sui campi delle Crociate, sulle galee pontificie prima della Battaglia di Lepanto e sulla collina di Kahlenberg prima della liberazione di Vienna. Questo rito romano, costituisce oggi la risposta più radicale e più perfetta alla sfida della secolarizzazione, quel guanto di sfida dell’umanesimo, orizzontale e laicista al mondo organico e verticale. Il Papa nel 2007 ha restituito a questo rito piena legittimità, piena cittadinanza e nessuno può impedirne la celebrazione o l’espressione dell’amore dei fedeli. Amiamo il rito romano perché amiamo la Chiesa e ringraziamo il Papa Emerito Benedetto XVI per aver restituito piena libertà a questa celebrazione troppo a lungo mortificata, essendo consapevoli che potrà donare alla Chiesa e alla società, nei prossimi anni e decenni, un nuovo sviluppo e un nuovo splendore.
 
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di Cristina Siccardi del 01/04/2019

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Monsignor Marcel Lefebvre è una delle sentinelle più importanti della Tradizione cattolica che si sono distinte nel XX secolo, è un paladino del Depositum Fidei di Santa Romana Chiesa, custode fedele della Santa Messa, dell’integrità del sacerdozio, del primato petrino, dal Credo stabile e fermo. Il suo nome, nell’immaginario collettivo, è spesso legato alla figura di un Vescovo “ribelle”, non obbediente alla Chiesa. Dagli anni Settanta del Novecento il solo pronunciarlo pareva evocare chissà quali negatività, chissà quali scissioni... Buona parte della pubblicistica e dei giornalisti l’ha dipinto come uno «scismatico», uno che voleva farsi una Chiesa tutta sua... In realtà fu una personalità scomoda perché parlò con coraggiosa chiarezza in un tempo di grande confusione nella Chiesa e nel mondo.
[caption id="attachment_11182" align="aligncenter" width="1000"] Marcel François Marie Joseph Lefebvre (29 Novembre 1905 - 25 Marzo 1991) è stato un arcivescovo francese di Santa Romana Chiesa.[/caption]
Cavaliere senza macchia e senza paura, in profonda umiltà, ha realizzato un vero e proprio forte, Écône, dove proteggere e difendere la Tradizione dagli attacchi scristianizzanti, secolarizzanti e relativistici, un luogo dove continuano ad essere formati sacerdoti preparati, pronti al sacrificio e all’abnegazione, attenti, in qualità di Alter Christus, a curare e salvare le anime. Paolo VI nell’omelia del 29 giugno, giorno dei Santi Pietro e Paolo, del 1972 dichiarò con drammaticità: «attraverso qualche fessura il fumo di Satana è entrato nella Chiesa». Monsignor Lefebvre identificò qual era la fessura: il tentativo di allontanarsi dalla Tradizione.
Marcel Lefebvre nasce a Tourcoing (Francia) il 29 novembre 1905 da una famiglia cattolicissima, che donò alla Chiesa, a partire dal 1738, cinquanta suoi figli, tra i quali un cardinale, diversi vescovi, numerosi sacerdoti, religiose e religiosi. Il padre di Marcel, René Lefebvre (1879 - 1944), ricco imprenditore tessile ed esponente di spicco della resistenza francese, venne incarcerato dai tedeschi nel 1941 e trucidato nel lager nazista di Sonnenburg (Brandeburgo). La madre, Gabrielle Watine (1880- 1938), morta in odore di santità, ebbe otto figli, dei quali due maschi (René e Marcel) divennero sacerdoti e due femmine (Bernadette e Christiane) religiose. Marcel, dalla precoce vocazione, entrò in «Santa Chiara», il Seminario francese dell’Urbe, dove acquisì una formazione romana e, dopo aver regolarmente svolto il servizio militare in patria, si laureò in Filosofia ed in Teologia alla Pontificia Università Gregoriana. Il 21 settembre 1929 fu ordinato sacerdote a Lille, dove svolse un breve periodo come vicario in una parrocchia; entrò nel 1931 nella Congregazione missionaria dello Spirito Santo e partì per il Gabon il 12 novembre 1932.
Nei trent’anni di permanenza in Africa fece una prodigiosa semina evangelizzatrice, mietendo stima, considerazione, ammirazione. Appena giunto in terra di missione fu nominato professore di Dogmatica e di Sacra Scrittura al Gran Seminario di Libreville, che raggruppava tutti i seminaristi dell'Africa equatoriale francese.
Quando arrivava padre Marcel portava migliorie alla vita quotidiana. Cibo, indumenti, igiene, senso di vita e voglia di vivere per i popoli dei villaggi: l’evangelizzazione portava il benessere materiale, conseguente alla civilizzazione cattolica. Fondò scuole, seminari, chiese, invitando in Africa congregazioni e ordini religiosi, i quali apportarono una notevole ricchezza spirituale e carità cristiana.
Nel 1943 si trovò vacante il superiorato della missione di Lambaréné, perciò venne affidato all’instancabile padre Lefebvre, che qui rimase da aprile ad ottobre del 1945. Come era accaduto per altre stazioni missionarie, anche in questa si contraddistinse per la sua grande capacità organizzativa. Prima di tutto, però, era sacerdote. Battesimi, confessioni, comunioni, matrimoni, estreme unzioni, somministrati anche nell’ospedale fondato dal celebre medico tedesco Albert Schweitzer (1875 - 1965), luterano, verso il quale padre Marcel ebbe grande ammirazione e rispetto, ampiamente ricambiati, pur non condividendo la sua filosofia piuttosto incline al panteismo. Il dottor Schweitzer si recava alla missione di padre Lefebvre per curare i confratelli malati e il dottore alsaziano, musicista e amante di Bach, andava nella chiesa di San Francesco Saverio, nelle grandi solennità, per suonare l’organo.
Il ricordo di Monsignor Lefebvre, nell’Africa francofona, è ancora vivo, tanto che sono stati emessi francobolli con la sua effigie e sono state intitolate vie e piazze a suo nome. Rinvigorì quelle terre, portando la Buona Novella, sapendo dare al clero locale una spiccata vocazione evangelizzatrice, tanto da triplicare, tra il 1933 ed il 1947, la popolazione cattolica del Gabon; il Paese divenne il più cristiano dell'Africa francofona. Nel 1945 fu richiamato in Francia per assumere la direzione del Seminario dei Padri dello Spirito Santo a Mortain (Normandia). Nel settembre 1947, a 42 anni, monsignor Lefebvre fu, per volontà di papa Pio XII, consacrato Vescovo e nominato Vicario apostolico del Senegal.
[caption id="attachment_11184" align="aligncenter" width="1000"] Fu durante il regno di Pius PP. XII che l'arcivescovo Marcel Lefebvre fu consacrato vescovo, Arcivescovo di Dakar e Delegato Apostolico. Fu dalle labbra di papa Pio XII che arrivò il miglior tributo per lui: "L'arcivescovo Lefebvre è certamente il più efficiente e qualificato dei delegati apostolici".[/caption]
Un anno dopo venne nominato Delegato apostolico per tutta quell'Africa francofona di cui era divenuto punto di riferimento. Nel 1955 diventò il primo Arcivescovo di Dakar, quando in Senegal fu istituita la gerarchia locale. Restò Delegato apostolico fino al 1959 e Arcivescovo fino al 1962. In 11 anni di lavoro come Delegato apostolico le diocesi passarono da 44 a 65, inoltre a Dakar raddoppiò il numero dei cattolici e da 3 chiese presenti si arrivò a 13.
Nel 1962 fu nominato Vescovo di Tulle, piccola diocesi della Francia, quantunque già Arcivescovo, con plateale quanto inusuale, nella storia della Chiesa, umiliazione infertagli da Giovanni XXIII, nel compiacimento dell’episcopato francese e nell’accettazione, in spirito di obbedienza, dell’interessato. Nello stesso anno venne eletto Superiore Generale dei Padri dello Spirito Santo, funzione dalla quale si dimise nel 1968, a causa dei venti modernisti entrati nella Congregazione. Dal 1962 al 1965 fu padre conciliare e guida della resistenza conservatrice al Concilio Ecumenico Vaticano II, coagulata intorno al Coetus Internationalis Patrum. Forte fu la sua presa di posizione contro un Concilio pastorale nei cui dettami vedeva e denunciava pubblicamente le conseguenze scristianizzanti, irragionevoli, relativistiche e lassiste che ne sarebbero sorte. Oggi, a distanza di quasi trent’anni dalla sua scomparsa e a più di cinquanta dalla chiusura del Concilio, possiamo storicamente avvicinarci a lui con maggiore serenità e senza acrimonia, considerando questo sacerdote, non come il nemico di qualcuno, bensì come un impavido e lungimirante soldato di Cristo.
Lefebvre si presenta al Concilio Vaticano II come un riformatore pacelliano molto prudente. Siamo l'11 ottobre 1962 e dopo oltre un secolo la Chiesa Cattolica Romana si riunisce nuovamente. L’arcivescovo francese si presenta all’importante appuntamento come uno dei Padri Conciliari, con spirito relativamente fiducioso: reputa che la preparazione sia stata ben organizzata, ma ben presto inizia a rendersi conto che è presente un’incertezza “liberale” in seno al Concilio, verso la quale bisogna rispondere. Ma gli schemi preparati da Lefebvre in tre anni di lavoro vengono respinti fin dalle prime giornate di lavoro. Con grande prepotenza e fermezza si impongono nel Concilio alcuni uomini di Chiesa che possono essere definiti tranquillamente dei “rivoluzionari”, ispirati soprattutto dalla Nouvelle théologie di indirizzo francofono, ovvero da: Yves Marie-Joseph Congar (1904 - 1995), Marie-Dominique Chenu (1895 - 1990), Henri-Marie Joseph Sonier de Lubac (1896 - 1991), Karl Rahner (1904 - 1984) e Jean-Guenolé-Marie Daniélou (1905 - 1974). Inoltre tali tesi, trattandosi di un Concilio Pastorale e non Dottrinale, si diffondono e influenzano i vescovi, i quali – anche se dichiarano di non toccare il dogma cattolico, votano dei testi fondamentali che modificano i rapporti tra la Chiesa e il mondo. Lefebvre stesso riassume tali comportamenti con la frase: «è la rivoluzione francese». Ora, se la rivoluzione francese è liberté, égalité, fraternité, il Concilio si apprestava a scrivere una dichiarazione sull’importanza della “libertà di coscienza”. Condannata dai Papi nel XIX secolo, la “libertà religiosa” viene riconosciuta dal Concilio Vaticano II e dunque viene concesso ad ogni uomo il diritto di professare apertamente ciò che gli detta la coscienza: il voto provoca reazioni dal mondo intero. Secondo l’arcivescovo francese, la religione cattolica è nella verità, dunque solo la verità ha dei diritti e l’errore conseguentemente non può avere alcun diritto, «non si può mai avere un diritto naturale, cioè un diritto che in definitiva è dato da Dio – perché la Chiesa considera che è Dio che ci ha dato la natura».
Altro cardine nuovo del Concilio è la collegialità, ovvero il Governo della Chiesa vuole dare espressione a tutti: ancora liberté, égalité, fraternité. La collegialità è l’argomento che scatena passioni, poiché riguarda il potere del Papa e dei Vescovi; per Lefebvre e per tutto il filone tradizionalista, la collegialità è ingiusta per il dovere decisionale di un vescovo, poiché se c’è uguaglianza decisionale in seno ad una Conferenza Episcopale avviene la sottomissione di ogni singolo vescovo al giudizio del collegio. Dunque il potere del vescovo nella sua diocesi diminuisce in favore della centralità degli episcopati. Il Concilio modifica anche il rapporto con la Chiesa e le altre religioni: i separati dalla Chiesa, gli scismatici e gli eretici, sono considerati dei “fratelli nella fede”. Su tale punto ancora Lefebvre insiste: «quelli che si sono separati (dalla Chiesa Cattolica) tornino a me, sono loro a dover fare la strada, mentre adesso – questa la profonda novità dottrinale del Concilio – i cattolici ritengono che la conversione che avverrà all’unità della Chiesa non sia in qualche modo a senso unico, ma noi tentiamo, noi sappiamo, noi proclamiamo, noi altri cattolici, che dobbiamo fare un grande sforzo per poter accogliere tutti i nostri fratelli separati in modo che si sentano liberi in una Chiesa veramente Una. [...] L’ecumenismo, mette praticamente tutte le religioni sullo stesso piano e dà il diritto comune a tutte le religioni. Ed è proprio lì un problema, a mio avviso, eccessivamente grave, perché il fatto di mettere tutte le religioni sullo stesso piano, distrugge la Chiesa. Se la Chiesa si definisse.. deve definirsi come l’unica vera.. la sola a detenere la verità, se mette ciò che chiama errori, le altre religioni erronee sul suo stesso piano, necessariamente non le resta che sparire, non ha più ragion d’essere».
Non si parla più dei protestanti come degli eretici, ma essi divengono “nostri fratelli nella fede” e, proseguendo pervicacemente nel dialogo interreligioso, mancherà poco che le altre gerarchie dichiarino che anche i musulmani sono “nostri fratelli” perché credono in Dio. Per Monsignor Lefebvre è il diavolo che penetra, poiché questo si incarna da sempre con i valori della rivoluzione francese, penetrati nella Chiesa. L’organizzazione dei padri “liberali” consegue il successo delle loro idee e solo molto tardivamente avviene un’organizzazione dei Vescovi conservatori con l’italiano Luigi Maria Carli (1914 - 1986), i brasiliani Antônio de Castro Mayer (1904 - 1991) e Geraldo de Proença Sigaud (1909 - 1999), i quali insieme a Monsignor Lefevbre costituiscono Il Coetus Internationalis Patrum (Gruppo Internazionale di Padri conciliari). Il Gruppo riesce a rinviare, per ben cinque volte, il documento sulla libertà religiosa, ma l’8 dicembre del 1965, Paulus PP. VI chiude ufficialmente il Concilio Vaticano II con il grande cambiamento della Chiesa in materia dottrinale. Ma agli occhi dei fedeli il cambiamento più visibile, nato sempre dal Concilio, resta senza dubbio quello della liturgia. Fin dal 1969 Paulus PP. VI ordina l’applicazione del Novus Ordo Missae, al posto dell’antico Messale detto di "San PioV". Nonostante le disposizioni, Marcel Lefevbre decide di continuare a celebrare l’antico Messale di sempre. L’arcivescovo francese era perfettamente cosciente che la nuova messa, era stata pensata e redatta in accordo con i protestanti, per eliminare le porzioni della liturgia che infastidivano la loro eresia. Ebbe a scrivere, nella cosiddetta «dichiarazione» del 21 novembre 1974: «noi aderiamo con tutto il cuore, con tutta la nostra anima alla Roma cattolica, custode della fede cattolica e delle tradizioni necessarie alla conservazione di questa fede, alla Roma eterna, maestra di saggezza e di verità». La verità che andò professando con forza, fino ad apparire disobbediente, con coraggio, fino a rimetterci di persona, e con determinazione, subendo invettive ed umiliazioni.
Nel maggio del 1969 alcuni seminaristi chiesero a monsignor Lefebvre di poter ricevere da lui una formazione sacerdotale cattolica tradizionale e, piegato dalle loro insistenze, decise di fondare a Friburgo il «Convitto internazionale San Pio X», il Papa santo che aveva condannato l’eresia modernista nel 1907 con l’enciclica Pascendi Dominici Gregis. Il 1° ottobre 1970 aprì, con l’autorizzazione del Vescovo di Sion (Svizzera), un anno di spiritualità di preparazione agli studi ecclesiastici ad Écône (Svizzera) e in dicembre vide la luce, con approvazione episcopale, il Seminario della Fraternità San Pio X. Tuttavia si formò un clima di profonda avversione intorno a monsignor Lefebvre, che non rinunciava a denunciare, con la determinazione di un sant’Atanasio (295 - 373) o di una santa Caterina da Siena (1347 - 1380) e con una sorprendente lucidità tomista, le malsane idee neo-moderniste, parlando nei momenti opportuni e inopportuni, come insegna san Paolo (2 Tm 4, 1-2), mettendo in guardia dai cattivi maestri, apportatori, con linguaggio talvolta ambiguo, di erronei insegnamenti in seminari ed università.
Lefevbre più volte ha affermato come «dei seminaristi sono venuti a trovarmi e hanno chiesto di avere una formazione, ci sono dei genitori che mi hanno detto “non abbandonate i nostri figli, vogliono essere sacerdoti, hanno diritto ad una buona formazione”; ci sono dei fedeli che volevano la Messa e i Sacramenti». Questa è stata sempre la condotta di Monsignor Lefevbre: si risponde ai bisogni dei fedeli, ed era tanto più preoccupato della regolarità canonica proprio perché si rendeva ben conto che era obbligato ad essere in contrasto con certe direttive di Roma e voleva assolutamente che i fedeli pregassero per il Papa e per il canone della Messa, per il Vescovo della Diocesi, rifiutando sempre le tesi semi-vacantiste e quindi la sua prima preoccupazione era l’unione con Roma. Per l’arcivescovo francese i superiori sono fatti per il bene e non possono impedire ai fedeli di avere la Messa, di avere i sacramenti e quindi non si può usare il diritto canonico contro il bene dei fedeli, ed è per questo che considerava che ci sono dei momenti in cui si è dispensati – lo stato di necessità nella Chiesa -, risalendo al principio superiore delle leggi della Chiesa, chiamato Salus animarum (la salvezza delle anime) e nulla può impedire al sacerdote di salvare le anime.
Per la quaresima del 1961 monsignor Lefebvre scrisse una lettera pastorale di stupefacente valore contemporaneo: «molti motivi devono suscitare nei nostri animi la sete della verità. Le nostre anime sono fatte per la Verità. Le nostre intelligenze, riflesso dello spirito divino, ci sono state date al fine di conoscere la Verità, di darcene la luce che ci indicherà lo scopo verso il quale deve orientarsi tutta la nostra vita… Chi si forgia una verità sua propria vive l’illusione, in una menzogna immaginaria… La corruzione dei pensieri è ben peggiore della corruzione dei costumi… È per questo che il dovere più pressante dei vostri pastori, che devono insegnarvi la Verità, è quello di diagnosticarvi quelle malattie dello spirito che sono gli errori. E come non deplorare, come già faceva san Paolo, che alcuni di coloro che hanno ricevuto la missione di predicar la Verità non han più il coraggio di dirla, oppure la presentano in un modo tanto equivoco che non si sa più dove si trova il limite fra Verità e l’errore… Si può dire che ancor oggi esiste una certa letteratura religiosa, o che pretende d’occuparsi di religione, che il talento d’impiegare parole equivoche o di forgiare dei neologismi di tale natura… da sperare di poter così mantenere l’approvazione della Chiesa pur compiacendo coloro che sono fuori dalla Chiesa o che la perseguitano… Questa concezione del linguaggio (equivoco) è segno della corruzione dei pensieri». Tale affermazione ricorda le denunce anti-liberali del beato, prossimo alla canonizzazione, cardinale John Henry Newman (1801 - 1890), il quale giunse ad affermare: «in questi cinquant’anni ho pensato che si stiano avvicinando tempi di diffusa infedeltà, e durante questi anni le acque, infatti, sono salite come quelle di un diluvio. Prevedo un’epoca, dopo la mia morte, nella quale si potranno soltanto vedere le cime delle montagne, come isole in un vasto mare. Mi riferisco principalmente al mondo protestante; ma i leaders cattolici dovranno intraprendere grandi iniziative e raggiungere scopi importanti, e avranno bisogno di molta saggezza e di molto coraggio, se la Santa Chiesa deve liberarsi da questa terribile calamità, e, sebbene qualunque prova che cada su di lei sia solo temporanea, può essere straordinariamente dura nel suo decorso». Autorevole fu «il richiamo dell’allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede ed oggi Pontefice f.r., che denunciò in un famoso libro-inchiesta Rapporto sulla Fede – la deleteria presenza d’uno spirito anti: presenza dell’inimicus homo e della zizzania da lui seminata a piene mani nei solchi della Chiesa conciliare e postconciliare per renderne difficile il discernimento secondo la Fede e stemperarlo nel possibilismo, nel relativismo, nell’immanentismo del pensiero moderno. Poco prima d’ascender al soglio di Pietro, fu ancora il card. Ratzinger, nel memorabile e drammatico testo per la “Via Crucis” del venerdì santo 2005, a parlar di “sporcizia”... nella Chiesa, anche fra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a Dio, di “superbia... autosufficienza... e mancanza di Fede”, e concluse con una preghiera che fa rabbrividire: «Signore, spesso la tua Chiesa ci sembra una barca che sta per affondare, una barca che fa acqua da tutte le parti» (J. Ratzinger, Via Crucis, Tip. Vatic. 2005, pp. 63-65). Non era stato da meno il suo predecessore, il quale, nonostante tutto il suo ottimismo tipicamente “conciliare”, aveva dovuto costatare che il Cattolicesimo europeo è in uno «stato d’apostasia silenziosa».
Storico anche il suo discorso sul comunismo, poiché fu uno dei primi vescovi a toccarne l’argomento: «che dicono i comunisti? Dicono che la religione è un’alienazione. Si, è vero, la religione è un’alienazione, nel senso che noi doniamo i nostri corpi, le nostre anime, la nostra intelligenza, la nostra volontà nelle mani di Dio. Noi ci alieniamo per donarci interamente a Dio, interamente a Colui che ci ha creati. Voi vi alienerete per un partito, per degli uomini. Voi mettete tutta la vostra natura, tutta la vostra forza, tutto ciò che avete nelle mani degli uomini».
Prima della «ribellione» ad un sistema che sull’onda della modernità e del relativismo stava trascinando con sé l’ecclesiologia che aveva ceduto alle lusinghe del mondo con la giustificazione di essere al passo con i tempi, Lefebvre era all’unanimità considerato un prete e un Vescovo modello. In seguito, con le burrasche conciliari e postconciliari, dritto come un fuso fino alla fine, continuò a parlare chiaro, senza ambiguità o diplomazie, divenendo maestro, amabile padre e formatore di molti figli, pronti alla «buona battaglia»: «lasciate trasparire in voi il Cristo, affinché i fedeli, accanto a voi, siano un po’ più celesti, un po’ più vicini a Dio, un po’ più lontani dalle cose terrene, affinché possiate condurli veramente a Nostro Signore e al Cielo!». «Le Sacerdoce, c’est l’amour du coeur de Jésus» (Il Sacerdote, è l’amore del cuore di Gesù), diceva il santo Curato d’Ars. Il sacerdote è la massima espressione in terra di unione fra contingente ed eternità. Affermava ancora san Giovanni Maria Vianney: «Tolto il sacramento dell’Ordine, noi non avremmo il Signore. Chi lo ha riposto là in quel tabernacolo? Il sacerdote. Chi ha accolto la vostra anima al primo entrare nella vita? Il sacerdote. Chi la nutre per darle la forza di compiere il suo pellegrinaggio? Il sacerdote. Chi la prepara a comparire innanzi a Dio, lavandola per l’ultima volta nel sangue di Gesù Cristo? Il sacerdote, sempre il sacerdote. E se quest’anima viene a morire per il peccato, chi la resusciterà, chi le renderà la calma e la pace? Ancora il sacerdote... Dopo Dio, il sacerdote è tutto!... Lui stesso non si capirà bene che in cielo» . Tale missione e tale grazia di Dio per l’umanità furono sempre la stella polare di monsignor Lefebvre.
Con desolazione e amarezza Paolo VI, ancora nell’angosciata omelia del 29 giugno 1972, dichiarava: «Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio, di ricerca, di incertezza». Oggi verrebbe da dire: ma Lefebvre, il vituperato Lefebvre, l’aveva detto... L’aveva detto, con ardore e passione, con dolore e forza, subendo conseguenze molto gravi e pagando di persona, con la sospensione a divinis (22 luglio 1976), prima, e con, addirittura, la scomunica (1° luglio 1988), poi.
[caption id="attachment_11186" align="aligncenter" width="1000"] Il 30 giugno 1988, Lefebvre, con il vescovo emerito Antônio de Castro Mayer di Campos (Brasile), come co-consacrante, consacrò quattro sacerdoti FSSPX come vescovi (da sinistra a destra): Bernard Tissier de Mallerais (1954), Richard Williamson (1940) , Alfonso de Galarreta (1957) e Bernard Fellay (1958). Quest'ultimo oggi è il Superiore Generale della FSSPX dal 12 luglio del 2006.[/caption]
Affermerà sulla situazione della Chiesa: «Ora, è evidente che questo nuovo rito, è sotteso – se così si può dire – verso un’altra concezione della religione cattolica, un’altra religione. Non è più il sacerdote che offre il santo sacrificio della messa, è l’assemblea. Questo è tutto un programma. Ormai, è l’assemblea che sostituisce anche l’autorità nella Chiesa: è l’assemblea episcopale che sostituisce il potere dei vescovi, è il consiglio presbiterale che sostituisce il potere del vescovo nella Diocesi, è il numero che comanda oramai nella Santa Chiesa e questo è espresso nella Messa proprio perché l’assemblea sostituisce il sacerdote al punto tale che ora molti sacerdoti non vogliono più celebrare la Santa Messa quando non c’è assemblea. Piano piano è la nozione protestante che s’introduce nella Santa Chiesa […] È vero è sempre penoso essere in difficoltà con le autorità e non desidero altro che di rientrare in buoni rapporti con loro, ma mi sento sostenuto, direi, da 2.000 anni di Cristianità. Di conseguenza, ho perfino l’impressione che la mia posizione sia più tranquilla della loro. Essi si basano su di una Chiesa che è cominciata dal Vaticano II, io ho 2.000 anni di Chiesa dietro di me».
Trascorse gli ultimi anni della sua vita tra i continui spostamenti dovuti al consolidamento e allo sviluppo provvidenziale dell’opera internazionale San Pio X e nella quiete di chi sa di aver seguito la volontà di Dio, si spense nell’ospedale svizzero di Martigny il 25 marzo 1991, giorno dell’Annunciazione di Maria Vergine. Sulla sua semplice tomba, nel caveau di Écône, venne scritto, secondo il suo desiderio: Tradidi quod et accepi («Vi ho trasmesso quello che anch’io ho ricevuto», 1Cor 15,3).
Non possedeva doti profetiche, ma era un profondo realista, guardava la realtà in faccia, senza nascondersi dietro le illusioni, le facili e comode utopie. Ed ecco che la Chiesa di Benedetto XVI con il Motu proprio del 7 luglio 2007, Summorum Pontificum, liberalizza la Santa Messa di sempre, il cui «Messale non fu mai giuridicamente abrogato e, di conseguenza, in linea di principio, restò sempre permesso», e il 24 gennaio 2009 revoca il decreto di scomunica latae sententiae ai vescovi della Fraternità Sacerdotale San Pio X, consacrati da monsignor Marcel Lefebvre nel 1988.
Per approfondimenti
_M. Marín, John Henry Newman. La vita (1801-1890), Jaca Book, Milano 1998;
_B. Gherardini, Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare, Casa Mariana Editrice, Frigento (Avellino) 2009;
_«Semaine religieuse», Tulle, 20 aprile 1962;
_Le Sacerdoce, c’est l’amour du coeur de Jésus, in Le curé d’Ars. Sa pensée - Son coeur. Présentés par l’Abbé Bernard Nodet, éd. Xavier Mappus, Foi Vivante, 1966;
_Cristina Siccardi, Mons. Marcel Lefebvre. Nel nome della verità, Sugarco Edizioni;
_Cristina Siccardi, Maestro in sacerdozio. La spiritualità di Monsignor Marcel Lefebvre, Sugarco Edizioni;
_Cristina Siccardi, Nello specchio del Cardinale John Henry Newman, Fede e Cultura, 2010.
 
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di Federico Giacomini 20/12/2018

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Juan Louis Vives fu un umanista di origine spagnola (nacque a Valencia nel 1492), di origine ebraica (figlio di giudeo-conversi), ma di fede cristiana profonda, rimase fedele a Santa Romana Chiesa in cui trovò l’ispirazione per l’applicazione per nuovi concetti e progetti sociali riguardanti lo studio del fenomeno del pauperismo nonché l’importanza del fattore psicologico e umano nel trattamento dei casi di povertà e malattia mentale.
[caption id="attachment_10938" align="aligncenter" width="1000"] Juan Luis Vives (Valencia, 6 marzo 1492 – Bruges, 6 maggio 1540) è stato un filosofo e umanista spagnolo. Nella foto una sua statua a València (Spagna).[/caption]
Dopo l’adolescenza (1509) partì dalla Spagna per proseguire gli studi a Parigi (tappa decisiva della sua crescita culturale), non fece più ritorno a casa trovando ospitalità nei Paesi Bassi prima a Lovanio poi a Bruges. Lì si stabilì definitivamente tra i suoi numerosi viaggi in Inghilterra (per questo fu definito da Erasmo da Rotterdam, suo amico, “viaggiatore anfibio”), lì fu precettore di Maria Tudor e docente a Oxford finquando il drammatico evento del divorzio tra Enrico VIII e Caterina lo costrinsero a stabilirsi nelle Fiandre definitivamente.
Rifiutò di tornare in patria anche se spesso fu preso da sentimenti nostalgici, da alcuni suoi carteggi degli anni Venti evidenzia come la “sfortuna” si accanisca contro la sua famiglia, la madre prima assolta fu dichiarata eretica dopo la morte e il padre fu arso sul rogo.
Dalle lettere e da ciò si spiega il suo “amore per la pace, il rifiuto della discordia e della sovversione” e un atteggiamento di polemica di stampo erasmiano contro inquisitori e teologi i quali accusano solamente per dissensi culturali. Nella lettura della sua principale opera è possibile constatare più volte la sua devozione alla Chiesa unita ad una sobria critica, ad esempio verso la vendita delle indulgenze: “D’altra parte la disciplina ecclesiastica si è decomposta a tal punto che nessun servizio viene amministrato gratuitamente. Detestano la parola «comprare», ma costringono in ogni caso a contare”.
Opera in buona parte influenzata dai numerosi soggiorni in Inghilterra, “De subventione pauperum” (“L’aiuto ai poveri”, tradotto in inglese, francese, fiammingo e italiano) costituisce il primo testo dove si effettua una attenta ricerca sul fenomeno, ci si pone il problema del “come” aiutare, si tratta un fenomeno il quale esige un’organizzazione, si fornisce dello stesso una spiegazione teoretica e se ne formula una strategia specifica che sarà adottata in seguito da altri consigli municipali. Emblematico è caso della municipalità di Ypres (Francia) nel 1530: vietando le elemosine per i poveri la stessa fu accusata di eresia dagli ordini francescano e domenicano i quali vedevano in ciò uno sconvolgimento della visione evangelica degli stessi, ma questa addusse come prova a favore le tesi del suddetto testo e vi fu un’ innovativa assoluzione (Geremek, 1986).
Si può considerare il testo di grande spessore in quanto affronta di petto situazioni sociali quali cause di povertà, pauperismo (esternazione della stessa), mendicità, ed in quel preciso momento storico (primi del ‘500) nel quale antichi atteggiamenti benevoli nei confronti dei poveri stanno venendo meno come antiche, riduttive e imprecise visioni evangeliche sul “come realmente” aiutare (misericordia gr. elemosina) si stanno sgretolando.
Un contesto di cambiamento per quanto riguarda la storia dell’assistenza. Come si è precedentemente detto, antichi atteggiamenti benevoli nei confronti dei poveri stanno venendo meno ed il fenomeno del pauperismo iniziò a costituire un pericolo per i cittadini, ciò fu dovuto in parte anche ad un aumento demografico superiore all’aumento della produzione agricola. Ad aggravare ulteriormente la questione sociale, nella seconda metà del secolo XIV vi furono pestilenze e carestie le quali provocarono migliaia di mendicanti che furono spinti verso le città. Gli arcaici sistemi di carità si rivelarono insufficienti a risolvere il problema che iniziò a interessare municipalità e governi: “Queste masse di poveri suscitavano, nei gruppi borghesi e nobiliari, soprattutto timore, per il rischio di disordini che minacciavano di mettere in crisi l’ordine sociale. Tale situazione orientò sempre piu i ceti abbienti verso la ‘difesa’ delle proprie fortune e proprietà da questa crescente massa di esclusi […] queste idee portarono alla proliferazione di ordinanze e di provvedimenti legislativi, emessi dalle autorità centrali, che rispecchiavano il ruolo di controllo sociale attribuito all’assistenza”.
Un periodo di aspri cambiamenti all’interno delle città, e di nuove tensioni che Vives nei suoi numerosi viaggi in Inghilterra percepì prima che nelle altre capitali europee. Proprio in Inghilterra tale problematica era più sentita: vennero introdotte infatti lì (anni dopo, dal 1576) le prime leggi elisabettiane sui poveri, il Poor Relief Act (1576) e i Poor Law Acts del 1598 e del 1601, permanenti nel 1640 e in vigore fino al 1834. Queste leggi vanno ricordate in quanto posero le basi normative di un assistenzialismo centrato sull’istituzionalizzazione, sorsero le “case di lavoro” in Inghilterra come gli “alberghi dei poveri” in Italia. In tali strutture venivano rinchiusi i poveri abili al lavoro considerati fannulloni, chi si rifiutava di entrare i queste strutture non aveva diritto ad altri soccorsi né poteva mendicare. Gli anziani, i minori e i diversamente abili erano considerati inabili al lavoro (“poveri buoni”) e venivano soccorsi tramite il ricovero o l’autorizzazione a mendicare.
Vives, con ottimo spirito di osservazione analizza la realtà inglese ed europea e le problematiche del pauperismo; fa tutto questo e con spirito di analisi e di indagine implicitamente ponendo ai lettori quesiti che portano ad una sorta di introspezione, invita alla riflessione sul modo di aiutare, si occupa di una virtuosa ed attenta speculazione sulle cause dell’aiuto e sul perché a volte non dà i frutti sperati.
Ciò che emerge dalla lettura in cui trova luogo “sorprendentemente” il principio di sussidiarietà, è che con il “rivoluzionario” testo di J.L.Vives: il classico modo di “aiutare dall’alto” viene messo fortemente in discussione nonché definito nocivo; emerge e si rafforza il concetto di “persona” che in quanto essere formata da mente e corpo necessita di aiuti per entrambe le sue parti; dietro la condizione del povero c’è un uomo che domanda profondamente sulla sua dignità; non ci sarà mai un completo recupero del povero se non lo si aiuta a ri-elevarsi alla sua “dignità di uomo” facendolo “compartecipare (insieme) al subsidium” nella pratica della “virtù del lavoro” (solo facendo la propria parte conformemente al principio della libertà).
A ragione di ciò si è deciso di condurre l’argomentazione del testo non in maniera canonica, ma focalizzandosi sugli elementi componenti la sussidiarietà che l’autore vuole trasmetterci: L’aiuto in denaro dato dall’alto e senza una partecipazione attiva del povero (nella pratica della virtù e nel lavoro virtù stessa in quanto allontana da comportamenti insani) è inefficace.
Nel corso dei secoli si è offuscato il vero concetto di carità cristiana (il “come aiutare”) nel trattare il fenomeno “inestirpabile” della povertà . L’autore tratta un concetto dell’ aiutare non limitato alla sola e “nociva” elemosina , ma in maniera “integrata” in quanto la persona è composta di mente e di corpo che è visione Cristiana precisa e innovativa per l’epoca: “Orbene, quanto grande e nobile compito consiste nel mettere insieme e nel pacificare gli animi, il che avviene in parte insegnando la virtù, in parte con la conversazione, con le consolazioni, col conforto, con le visite, con la condiscendenza”.
Ne parla in maniera esplicita: “Certuni giudicano che il fare il bene non insista esclusivamente in altro che nel dare o nel ricevere denaro [elemosina]. In questo peccano molti perché, mentre danno un consiglio, hanno in mente esclusivamente il denaro, dimenticandosi della buona coscienza e della virtù. Noi però, dal momento che siamo composti di mente e di corpo, abbiamo beni o vantaggi […] in relazione ad entrambe queste dimensioni: nell’animo sta la virtù; infine tra le cose esteriori, il denaro […], gli alimenti”.
Lasciando al denaro l’ultimo posto: “Quasi l’ultimo posto è lasciato al denaro. E’ cosa generosa ed onesta dare aiuto anche con questo mezzo, scelta che implica una straordinaria dolcezza”.
L’autore prosegue con lo stesso concetto: “come non bisogna provvedere unicamente al vitto, dal momento che tutto quanto l’uomo necessita di aiuto sotto tutti gli aspetti, così i nostri benefici non debbono essere limitati al solo denaro. Bisogna fare del bene coi mezzi spirituali […] col consiglio, con la saggezza, con gli insegnamenti per la vita, con mezzi materiali”.
Dietro alla condizione di povertà si cela una domanda profonda di un uomo che vuole riconquistare una “virtuosa pienezza umana”. Emerge qui il concetto di povertà materiale come conseguenza di un disagio spirituale che trova tra le diverse cause, dei cattivi insegnamenti: “E nella formazione intellettuale ad alcuni non toccò un maestro, altri furono corrotti da un insegnante a sua volta corrotto, come il popolo, grande maestro di errori […] Così l’uomo è diventato, dentro e fuori, completamente misero”.
Si fa riferimento all’ambivalenza del concetto di povertà prima spirituale e poi materiale ma anche, richiamando un concetto che verrà ripreso nel ‘900 dalla dottrina sociale cattolica, di domanda profonda la quale si riferisce non solo alla richiesta di aiuto economico ma (secondo il linguaggio dell’epoca) anche psicologico: “dunque chiunque ha bisogno dell’aiuto altrui, è povero e necessita di quella misericordia, che in greco si chiama ‘elemosina’, la quale non consiste solo nella erogazione di denaro, come la gente comunemente ritiene, ma in ogni opera con la quale si solleva l’indigenza umana”. L’autore sente la necessità di effettuare studî, ricerche e indagini sulla povertà, sul pauperismo, sulla mendicità e sulle loro cause.
Con l’espandersi delle città il fenomeno ha raggiunto vaste dimensioni anche in merito a questioni di pericolosità sociale, si trattano questi temi in entrambi i libri descrivendo anche comportamenti, abitudini e costumi dei mendicanti di Bruges: “alcuni paiono dire, non scioccamente, che essi mendicano non per sé, ma per il taverniere, indubbiamente perché, avendo facilmente raccolto quella determinata somma di denaro in quel giorno, confidano che ne raccoglieranno altrettanta il giorno dopo. Non so per quale ragione la parsimonia è rara tra le persone che posseggono poco e molto più rara se il denaro è stato acquisito senza industria e lavoro”.
Riemerge nuovamente l’importanza del lavoro. L’autore suggerisce delle “innovazioni” per ciò che concerne l’“organizzazione” per una “gestione efficace” delle risorse.
Auspica alla municipalità di designare quattro persone per ogni parrocchia le quali si occupassero: della “classificazione e registrazione dei poveri” , della gestione di una cassa comune, della scelta di persone cui demandare la “assistenza” psicologica e spirituale sulla base della “necessità” nonché indagare e controllare che nessuno si rifiutasse di “lavorare” (fare la propria parte), restando ozioso: “Dunque due senatori con un segretario visitino ed ispezionino una per una queste istituzioni [ospedali], registrino le rendite […] ed anche per quale motivo ciascuno è arrivato lì. Trasmettano queste informazioni ai consoli e al senato nella casa comunale. Coloro che sopportano la povertà a casa, siano registrati insieme ai loro figli da due senatori parrocchia per parrocchia, dopo che è stata aggiunta la segnalazione dei loro bisogni, il modo in cui hanno vissuto precedentemente e le circostanze in cui siano caduti in povertà: sarà facilmente appurabile dai loro vicini che genere di uomini siano”. Si può affermare che ha inizio proprio con l’opera di Vives un assistenza ai poveri basata su “concetti moderni, razionali, di professionalizzazione […] su relazioni gerarchiche e amministrazione autonoma […] questo sistema centralizzato e burocratico presentava la possibilità di controllare e rieducare i poveri”. Proprio nel richiamo al fattore del “lavoro” riemerge un implicito concetto di sussidiarietà, gli assistiti riceveranno un aiuto che non deriverà dall’alto e non sarà soltanto economico, ma saranno chiamati a fare “la loro parte” con il proprio lavoro.
Da qui si evidenzia l’emergere di un concetto di carità nuovo (evangelicamente più preciso e originario) e di un modo più concreto di aiutare il povero il quale “lavorando” e “compartecipando” all’aiuto di una “organizzazione”, “si rieleva alla sua dignità di uomo”. “Coloro che hanno la forza di lavorare non se ne stiano oziosi […] Come adesso non vi è nulla per loro più dolce di un ozio inerte e istupidito, così, se fossero abituati a fare qualcosa, non vi sarebbe per loro nulla di più grave o di più detestato dell’ozio e niente di più gioioso del lavoro”.
Concetto che chiarisce anche nel II libro : “[…] che ciascuno mangi il proprio pane procurato con la fatica. Quando nomino il «mangiare» o «l’essere alimentato» o «l’essere sostentato», voglio che si intenda non soltanto il cibo, ma i vestiti, la casa, la legna, le candele, in definitiva tutto ciò che riguarda la sussistenza fisica.
Dunque nessuno tra i poveri, il quale ovviamente possa lavorare o per l’età o per la salute, se ne stia ozioso […] pertanto non bisogna tollerare che alcuno viva ozioso nella città”.
Sempre nel II libro propone che sia fatta una indagine tra i poveri, da parte dei “segretari” già citati: “Agli individui del posto bisogna domandare se conoscano qualche mestiere. Coloro che non ne conoscono alcuno, se sono idonei per l’età, devono essere istruiti nei confronti della professione verso la quale affermano di essere maggiormente inclinati, se è possibile. Altrimenti, verso qualcosa di simile”.
Secondo autore di grande rilievo è Thomas Chalmers (1780-1847), il quale portò avanti i principi di sussidiarietà come risorse naturali di aiuto.
Dopo aver citato elementi sussidiari nell’opera principale del “primo” che si occupò dell’assistenza in maniera scientifica e razionale, un tributo doveroso è dovuto a Thomas Chalmers.
Nacque in un piccolo villaggio scozzese di pescatori, fu una figura rivoluzionaria nel campo delle riforme sociali, il teologo, ministro presbiteriano nonché matematico e fondatore della Libera Chiesa di Scozia con le sue innovazioni trova luogo nella trattazione del principio di sussidiarietà.
[caption id="attachment_10940" align="aligncenter" width="1000"] Thomas Chalmers (17 marzo 1780 - 31 maggio 1847), era un ministro scozzese, professore di teologia, economista politico e dirigente della Chiesa scozzese e della Free Church of Scotland. È stato definito "il più grande uomo di chiesa ottocentesco della Scozia".[/caption]
Chalmers fu responsabile della più grande e povera parrocchia di Glasgow, dove sviluppò un metodo di assistenza elaborato secondo il parametro dell’efficacia il quale ottenne un incredibile contenimento della spesa pubblica, per questo fu incaricato dalle autorità cittadine di svolgere funzioni inerenti alla legge sui poveri senza sovrapposizione tra i due sistemi di erogazione e utilizzando solamente donazioni.
Nel 1823 ottenne la cattedra di filosofia morale a St.Andrews e nel 1828 quella di teologia all’Università di Edimburgo. Divenuto leader del partito che puntava all’indipendenza della Chiesa scozzese, ne divenne Moderatore e Rettore del Seminario di Edimburgo.
Come precedentemente accennato, Chalmers elaborò un nuovo metodo di assistenza non basato su fondi pubblici. Chalmers poneva l’attenzione sull’organizzazione “le città dovevano essere assimilate a parrocchie rurali” dal forte spirito comunitario e dalle copiose “risorse naturali”.
Il metodo di Chambers aveva un carattere empirico ed era frutto di una sperimentazione nella sua parrocchia la quale era sì grande ma molto povera: la suddivise in distretti affidati a diaconi, loro compito era di effettuare indagini sulla situazione degli assistiti, al decano spettava il compito di scoprire “risorse naturali” idonee al trattamento del caso. Il metodo si basava su quattro fonti da utilizzare in maniera sussidiaria: sobrietà, frugalità, economie dell’assistito ed etica del lavoro (l’assistito era chiamato a fare la “propria parte”); aiuti da parte dei familiari; aiuti da parte del vicinato; aiuti da parte dei benestanti.
Familiari, vicinato e benestanti erano chiamati ad agire in maniera sussidiaria. Con questo sistema, agendo sulla vita privata (mondo vitale) dell’assistito, la si andava ad arricchire dal punto di vista relazionale; da ciò scaturiva una maggiore efficacia dei controlli dell’ambiente naturale. L’assistito veniva così inserito in un sistema fatto di relazioni che maturavano nello stesso autonomia e senso di responsabilità ed inoltre, non creando un sistema “artificiale” di aiuti diminuivano fin quasi ad azzerarsi le spese pubbliche. Tale sistema era volto a rafforzare le relazioni sociali dell’assistito, il suo “mondo vitale” e la sua personalità.
Nelle teorie di Chalmers videro la base le sistematiche metodologie d’aiuto di Mary Richmond (fondatrice del social work professionale) e Charles Loch (fondatore della Charity Organisation Society di Londra).
Per approfondimenti:
_L.Vives, De subventione pauperum, Fabrizio Serra, Pisa-Roma (2008);
_M.Dal Pra Ponticelli, G. Pieroni, Introduzione al Servizio Sociale, Carocci Faber, Roma 2005;
_B.Bortoli, I giganti del lavoro sociale, Erickson, Trento (2006);
_Federico Giacomini, La Santa Romana Chiesa e il principio di sussidiarietà, L'altro - Das Andere, 2018;
_Federico Giacomini, L’azione caritativa di Santa Romana Chiesa, L'altro - Das Andere, 2018.
 
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di Liliane Jessica Tami del 17/11/2018

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La caccia è una delle più antiche esperienze umane. Dal primitivismo, la cultura occidentale è riuscita a rendere questa primordiale necessità naturale, una vera e propria arte. Dall'uomo di Cromagnon che afferrava le donne con la forza, l’amore si è sublimato sino a diventar poesia d’amor cortese, e in modo analogo anche l’atavico istinto del cavernicolo predatore si è evoluto nella raffinata ed elegante arte venatoria. La caccia, intesa come "arte nobile", si è elevata non più come mero soddisfacimento dell’istinto carnivoro dell’uomo, ma si è trasformata in una disciplina regolamentata da codici etici ed estetici ben precisi. Innanzitutto essere cacciatore significa amare la natura e rispettarla, e ciò comporta adoperarla anche nell’abbigliamento.
[caption id="attachment_10809" align="aligncenter" width="1000"] Nella foto di sinistra un dignitario nel 1920 in Germania con una giacca Norfolk; a destra particolare di un gentiluomo nel suo abbigliamento venatorio.[/caption]
L’elemento base del cacciatore, a prescindere dalle coordinate geografiche in cui opera, è la giacca, rigorosamente portata con la camicia. Quest'ultima possibilmente in cotone, la cui origine è legata ai campi di fiore bianco, è coerente con l’amore del cacciatore per la natura. Le t-shirt in polimeri sintetici high-tech con stampe mimetiche lasciamole pure ai marines americani: l’idea di avvicinarsi al grembo di Madre Natura, in una foresta selvaggia, indossando derivati della plastica è fuori contesto, puerile e ridicola. Per amore della tradizione la giacca da caccia andrebbe abbinata ad una cravatta, con colori rigorosamente autunnali, o un fazzoletto. In Inghilterra, secoli addietro, questo pezzo di stoffa era nato, col nome di plastron, per fungere da laccio emostatico in caso il cacciatore si fosse ferito. La giacca e i pantaloni, così come gli accessori, dipendono dalla zona geografica e culturale in cui si pratica la caccia: l’esteta che andrà a stanar cinghiali in Tirolo, per rispetto degli usi e costumi sartoriali locali, indosserà un Loden in lana ed un copricapo da Jäger.
Il cacciatore che nei boschi dello Yorkshire andrà a cercar volpi, invece, per amore delle usanze locali, potrebbe indossare una giacca da equitazione rossa dal bavero nero sotto ad un bel cappotto bourbon cerato verde, abbinato al tipico cappello derstalker.
Tutte le giacche da caccia discendono, ovviamente, da abiti elaborati al fine di essere comodi durante le attività sportive: le giacche da equitazione, in inglese chiamate hacking jacket, sono state pensate in modo da essere eleganti soprattutto quando vengono indossate da un gentiluomo sudato seduto in sella il quale deve potersi muovere comodamente. L'indumento è leggermente stretto in vita, ha tre bottoni ed i baveri che si incontrano a metà petto. Se il risvolto fosse più lungo o avesse meno di tre bottoni, non avrebbe un bel appiombo se indossata stando seduti sul cavallo. Tradizionalmente la giacca da equitazione era fatta in tweed, al fine di essere robusta e resistere a strappi, rovi e lacerazioni varie. In passato le giacche da equitazione avevano un taglio più lungo, con uno spacco sul retro che si biforcava sulla schiena del destriero. Le tasche, inclinate, rivolte all’interno e grandi, sono pensate per permettere al cavaliere di afferrare facilmente gli oggetti in esse contenute.
[caption id="attachment_10810" align="aligncenter" width="1000"] Giacca femminile di equitazione in tessuto Tweed.[/caption]

Nei paesi mediterranei, invece, è uso indossare la giacca maremmana, tipica dell’omonima regione italiana e si riconosce per le forme più morbide rispetto ai tagli diritti delle giacche sportive inglesi. Il tratto distintivo di questo capo sono le due tasche davanti, applicate, arrotondate e così ampie da comprendere quasi tutta la parte davanti della giacca arrivando sino quasi al bavero piccolo e morbido. Il cacciatore spesso può trovarsi ad usare il fucile in posizioni che lo obbligano a tenere il gomito alzato, perciò la giacca deve assolutamente permettergli la massima libertà di movimento e non intralciarlo in alcun modo. Per permettere un’ampia gamma di movimenti a chi indossa questo capolavoro stilistico, la tradizione sartoriale vuole l’attaccatura del braccio, possieda una particolarità chiamata soffietto, ossia una piccola piega di stoffa che si apre a fisarmonica per agevolare i movimenti della spalla. Al fine di resistere al freddo, alle intemperie e alle insidie della foresta, la giacca maremmana deve essere prodotta in un materiale robusto e resistente, come il velluto o, in particolare, il fustagno. Il fustagno, oggi usato per confezionare abiti da caccia o da lavoro, è un tessuto estremamente resistente prodotto con armatura a saia a 3 o a 4. In passato, dopo esser stato sbiancato, veniva usato per la biancheria da letto e le federe, in modo che queste fossero non solo indistruttibili ma anche ben calde. Il fustagno, a dipendenza della lavorazione, presenta diverse varietà, come il il beaverteen, il moleskin e il doeskin che imita le pelle di daino. La parola Fustagno, nel Medioevo, designava un tessuto di cotone mischiato a lana oppure a lino.

[caption id="attachment_10811" align="aligncenter" width="1000"] Giacca maremmana vecchio stile confezionata in resistente e comodo pilor, tessuto caldo e impermeabile prodotto esclusivamente in italia da tessiture di assoluta qualità, all’interno del lato sinistro è stato realizzato il taschino porta documenti, il carniere è chiuso con un bottone per parte. Giacca calda e comoda utilizzata da sempre in Toscana da cacciatori e butteri.[/caption]
Il gentiluomo che vuole rifuggire la città andando a caccia sulle selvagge Alpi del Südtirol, potrà ispirarsi agli abiti Trachten ( dal tedesco tragen, indossare), tipici delle Alpi tedesche. La tradizionale giacca, chiamata Joppe, abbinata al cappotto in Loden è perfetta e da sempre onorata dalla nobile tradizione venatoria: celebre è infatti il duca di Stiria Giovanni d'Asburgo-Lorena a cui piaceva andare a caccia indossando il Tracht. Le giacche tirolesi si riconoscono dalla loro forma particolare dei baveri arrotondati e fissati con dei bottoni al petto in modo da seguire bene i movimenti del corpo dell’uomo predatore mentre s’acquatta vicino alla preda. Le giacche tirolesi hanno una duplice eredità: cavallerizza e militare, cosa che si evince dalle spalle squadrate che ricordano l’austerità delle divise, e la martingala. Quest'ultima è quel pezzetto di stoffa, simile ad una mezza cintura, presente sul retro di giacche e cappotti che ne restringe il punto vita e si trova soprattutto nelle divise militari. La tradizione tirolese è grande amante dei colori sgargianti e degli ornamenti: le giacche, infatti, presentano spesso abbinamenti con colori sgargianti che si trovano anche nel piumaggio di fagiani e galli cedroni, come il verde, il rosso o il grigio luccio. L’uomo germanico, un po’ orso e un po’ esteta, ama adornarsi i baveri con decorazioni di corno, spillette, ricami a forma di foglie di quercia e bottoni d’osso finemente intagliati, pur sapendo che andando a caccia ha bisogno di una giacca resistente che lo protegga dalle intemperie e, se possibile, anche dalle zanne di del cinghiale. Sui copricapi il cappello da Jäger può avere una Feldzeichen (ramoscello con tre foglie di quercia) o un Federschmuck (piumetto). La lana cotta delle Joppe e il Loden resistono agli urti, alle lacerazioni e ai tagli. Alla giacca tirolese si può abbinare un cappotto in Loden, ampio, avvolgente, caldo e comodo. Il loden è un panno in lana tipico del Tirolo. La parola Loden deriva da Lodo, che in tedesco arcaico significa balla di lana. Questo panno grezzo è resistente e duraturo, perché viene fatto follare (infeltrire) e garzare, in modo da renderne un lato impermeabile e l’altro peloso.
[caption id="attachment_10812" align="aligncenter" width="1000"] Leopold Kupelwieser, Ritratto di Giovanni Battista Giuseppe Fabiano Sebastiano d'Asburgo-Lorena, arciduca d'Austria (particolare) - 1828.[/caption]
L'uomo europeo, ha perpetrato la caccia anche in ambito coloniale: la giacca sahariana, usata nei primi del ‘900 per la caccia grossa in savana, è nata in ambito bellico e esplorativo. La sua praticità, consiste nelle tasche dalla comoda cintura, che la tengono ben aderente al corpo anche durante le folate di vento desertiche, rendendola molto versatile. Si dice che sia stata portata di moda dall’aviatore canadese Arthur Roy Brown (1893 - 1944), che secondo alcuni potrebbe aver abbattuto, il tragico 21 aprile 1918, l’aviatore ed ufficiale tedesco Manfred Albrecht von Richthofen (1892 - 1918), conosciuto col nome di  Barone Rosso. La sahariana in genere è realizzata in cotone, lino, tessuto impermeabile o anche velluto a coste.
[caption id="attachment_10815" align="aligncenter" width="1000"] A sinistra fotogramma del paziente inglese (The English Patient), film del 1996 diretto da Anthony Minghella, tratto dall'omonimo romanzo dello scrittore canadese Michael Ondaatje: nella foto l'attore e protagonista Ralph Fiennes in Sahariana. Nella foto di destra Sahariana militare di un reale coloniale britannico ai primi del secolo del 900.[/caption]
Le quattro tasche a soffietto e una cintura in vita,  di color  kaki, consentono di riporre comodamente gli oggetti e di proteggersi dalle bufere di sabbia. Il clima africano, ovviamente, è stato determinante per forgiarne la forma. In passato veniva realizzata in drill di cotone, un tessuto molto resistente e di lunga durata, abitualmente destinato alle divise coloniali inglesi. Un celebre amante di questa giacca è stato Ernest Hemingway, che se le faceva appositamente confezionare dal negozio di New York Abercrombie & Fitch, specializzato in abbigliamento sportivo.
 
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di Liliane Jessica Tami del 17/10/2018

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Publio Cornelio Tacito (55 d.C.-117 d.C.) è stato un senatore romano la cui memoria è stata tramandata ai posteri soprattutto grazie alle opere di tipo storiografico. Scrisse perlopiù testi legati alle vicende politiche dell’Impero Romano, ma la sua opera più interessante è indubbiamente quella trattante dei nemici giurati dell’esercito latino: i temibili Germani. Tacito, pur non avendo viaggiato oltre ai limiti a nord dell’Impero, rifacendosi a fonti come Bella Germaniae di Plinio il Vecchio, il De bello Gallico di Gaio Giulio Cesare e Geografia di Strabone, pubblicò un breve testo, in lingua latina, dal titolo De origine et situ Germanorum (sull’origine e gli usi dei germani) in cui analizza l’etnia composta da libere genti che tanto diede filo da torcere all’Impero Romano.
[caption id="attachment_10714" align="aligncenter" width="1000"] Otto Albert Koch, Battaglia di Varus,1909 (Particolare), presso Lippisches Landesmuseum, Germania.[/caption]
La pretesa d’universalità dell’Impero di Roma portò ad una serie di ferocissimi scontri contro ai popoli del Nord, come i celti e i germani. Questi uomini di nordiche origini, suddivisi in decine di tribù, erano fortemente legati alla loro identità e non volevano essere inglobati nei disprezzati limes del regno multietnico d’origine latina. Cimbri e teutoni, due tribù germaniche in cerca di nuove terre, nell’anno 113 prima dell’era volgare, apparvero sulla scena politica estera romana sconfiggendo il console Carbone a Noreia, in Carinzia. Nel 105 a.C. l’esercito romano, guidato dai consoli C.Servilio Cepione e Cn. Mallio Massimo venne sconfitto dai germani ad Arausium (Orange) in Provenza. Nel 102 l’impero latino sconfisse i teutoni a Aquae Sextiae (Aix-en-provence) e i cimbri ai Campi Raudii, nei pressi di Vercelli, mentre cercavano di attraversare il Po. Nel 60 dopo l’era volgare, gli elvezi, etnia celtica assai bellicosa e dotata di uno stupefacente sistema anagrafico di controllo degli abitanti, da cui nacque la Confederazione Elvetica, subendo pressione dai popoli germanici scesi da nord invasero la provincia romana della Gallia cercando nuovi territori. Fu così che Cesare, nel 58 d.C., dovette intervenire in Gallia per difendere i suoi territori dagli Elvezi mossi dai Germani. L’imperatore riuscì a sconfiggere gli agguerriti elvezi, guidati da Orgetorige, e a respingere il temibile esercito dei germanici suebi guidati da Ariovisto oltre al Reno e decise di fortificare il limite del suo regno affinché le tribù germaniche non potessero più entrarvi per compiere razzie. Successivamente l’Imperatore Augusto cambiò tattica: da una politica di difesa portò il regno ad una politica d’offesa, volendo conquistare militarmente la Germania al fine di spostare i confini del regno dal Reno all’Elba. Il tentativo di conquista di quel territorio selvaggio, coperto da foreste e acquitrini, era assai arduo giacché i Germani non possedevano grandi centri urbani, ma erano sparpagliati in centinaia di piccoli agglomerati di non più di 50-100 abitanti. Nonostante la contingenza storica rese i popoli di lingua germanica odiosi ai latini, Tacito ebbe la bravura di descriverne le usanze ed i costumi in modo imparziale e persino di apprezzarne le virtù, tali la rettitudine morale, la fedeltà e la bravura in guerra, contrapposte ai vizi che oramai dilagavano nelle grandi città dell’Impero sempre più corrotte dal denaro, dalla lussuria e dai piaceri triviali.
[caption id="attachment_10716" align="aligncenter" width="1000"] Statua di Tacito (particolare) situata davanti al Parlamento di Vienna, in Austria[/caption]
L’opera di Tacito, che in italiano è conosciuta col titolo Germania, è suddivisa in quattro sezioni. I primi 5 paragrafi trattano del territorio e delle razze che vi abitano, dal sesto al 27 paragrafo degli usi e dei costumi comuni a tutti i Germani, dal 28 al 45esimo compie una disamina delle svariate tribù e nel 46esimo ed ultimo paragrafo tratta, molto brevemente, degli ignoti confini a nord del paese. In questo testo analizzeremo soprattutto le parti più rilevanti, ossia la prima e la seconda, in cui l’autore osserva le usanze germaniche e le contrappone a quelle latine.
La prima sezione, introduttiva, espone una serie di argomenti, razziali e culturali, che caratterizzano questo popolo: l’autore scrive che, secondo lui, le popolazioni della Germania non si sono mescolate con altre genti mediante i matrimoni, e che quindi sono una stirpe a sé stante e pura con una conformazione fisica propria. “Da ciò deriva un aspetto pressoché simile in tutti, nonostante il gran numero di individui; occhi azzurri e torvi, capelli biondo-rossastri, corpi saldi e robusti.”
Un altro argomento molto interessante esposto da Tacito è il fatto che presso questi popoli germani vi è il culto di Ercole ed è ben conosciuta l’Odissea, e che ad Ulisse hanno eretto dei monumenti. Secondo recenti studi di mitologia comprata Ulisse fu, inizialmente, un eroe germanico e non greco, come solitamente si crede, e che avrebbe compiuto l’odissea non nel mare mediterraneo bensì nei mari del Nord. Sul tema dei nordici dori che migrando a sud hanno portato la mitologia classica in Grecia sono stati pubblicati svariati libri, come Omero nel Baltico, di Felici Vinci, di cui consiglio caldamente la lettura.
In seguito Tacito parla dell’economia presso i Germani, che è inesistente. A differenza dei romani i germani non sono stati corrotti dall’avarizia perché non conoscono la moneta e i loro scambi si basano ancora sul baratto. Qui Tacito denuncia la speculazione finanziaria presente nelle città dell’impero, elogiando i Germani che, non avendo la moneta, non possono prestare il denaro ad usura. Anche il modo di trattare le donne e condurre la famiglia è ben diverso dalle usanze latine: l’amore carnale è assai rispettato e non vi è la medesima promiscuità che corrompe i romani delle grandi città. I germani conoscono tardi l’amore e per questo conservano intatta la loro virilità, ed anche le donne non hanno fretta a sposarsi. Inoltre per loro i figli sono importantissimi: limitare le nascite o uccidere i figli successivi al primo è ritenuto un crimine gravissimo. Tacito, criticando la decadenza del suo impero, qui scrive “ le loro buone tradizioni hanno più valore di quanto altrove ne abbiano le buone leggi”. Le donne delle tribù, infatti, conservano la verginità solo per il marito con cui intessono una relazione imperitura e non fanno capricci per ottenere oggetti con cui adornarsi. La sposa novella in genere riceve in regalo dal marito dei buoi e delle armi, diversamente dalle femmine delle città romane che sono ben più vanesie. Nello scambio delle armi tra marito e moglie i Germani vedono simboleggiati il sacro vincolo, i sacri misteri e le divinità delle nozze. Inoltre anche le donne appartenenti al ceto nobile si occupano dei figli e li allattano. Presso i popoli nordici le balie e le nutrici non esistono, e tutti i bambini piccoli vengono cresciuti nella semplicità senza sfarzi e senza lussi.
[caption id="attachment_10715" align="aligncenter" width="1000"] L'Hermannsdenkmal, monumento dedicato ad Arminio accanto alla foresta di Teutoburgo. Arminio (in latino: Gaius Iulius Arminius) fu un principe e condottiero della popolazione dei Germani cherusci, ex prefetto di una coorte cherusca dell'esercito romano. Arminio è noto per aver sconfitto l'esercito romano nella battaglia della foresta di Teutoburgo, quando a capo di una coalizione di tribù germaniche annientò, con l'inganno e il tradimento, tre intere legioni comandate da Publio Quintilio Varo, difendendo così la libertà dei Germani, minacciata da Roma all'apice della sua potenza.[/caption]
I Germani, infatti, ritengono sacri i legami di sangue e nei confronti delle donne e dei bambini nutrono profondo rispetto, e pur amando ubriacarsi vivono quindi in una castità ben salvaguardata e non si lasciano corrompere dagli allettanti spettacoli o dai banchetti che eccitano le passioni. Presso questi popoli l’adulterio è sconosciuto e la donna, madre e sacerdotessa, è rispettata come un Dea, la quale però non teme né il sangue né il sudore affiancando gli uomini nelle feroci imprese belliche. In genere però le donne non combattono: restano presso i villaggi a lavorare i campi in modo che i guerrieri, una volta terminate le battaglie, possano tornare a casa, nutrirsi, oziare, bere e festeggiare sino al successivo combattimento. I Germani maschi amano la guerra e ritengono un atto di pigrizia lavorare per ottenere qualcosa quando mediante la razzia di un villaggio estraneo potrebbero conquistarselo in modo ben più onorevole. Nei pochi periodi di pace i Germani si dedicano ad attività venatorie, al sonno, al cibo e a grandi ed allegre bevute di birra ricavata dall’orzo. Il loro cibo è semplice: selvaggina, frutti selvatici e latte cagliato. Per ciò che riguarda l’arte essi non hanno pretese di tipo economico: la bellezza, sia nelle danze teatrali che nelle opere d’artigianato, è ricercata come fine in sé senza nessun compenso di tipo pecuniario. Essi in genere praticano un solo tipo di spettacolo, composto da due giovani nudi che danzano per divertimento tra spade e framee (una loro arma tipica) per divertimento. L’allenamento li rende abili e l’abilità gli procura eleganza: non danzano in vista di un guadagno e la loro unica ricompensa è il divertimento e il piacere del pubblico, a differenza dei Romani che retribuiscono il mestiere dell’attore. Come nota Tacito con toni moralizzanti, dal particolare s’evince l’universale: la grande libertà dei liberi Germani, ben diversa dalla licenziosità viziosa dei romani abitanti delle città, era proprio il loro vivere in modo spontaneo e conforme alla natura.
 
Per approfondimenti:
_Tacito, Germania, Oscar Mondadori,1991, Milano;
_Cesare, La guerra gallica, Barbera Editore, 2006, Siena.
 
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di Giacomo Filippo Stefanoni 06/07/2018

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Il DSM 5 (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali) include lʼanoressia nervosa nella più ampia categoria dei disturbi della nutrizione e dellʼalimentazione, definendola sulla base di tre criteri fondamentali: la restrizione dellʼassunzione di calorie e la conseguente significativa perdita di peso; lʼintensa paura di aumentare di peso o ingrassare; le alterazioni del modo con cui lʼindividuo vive il proprio peso o la forma del proprio corpo. Da un punto di vista psicodinamico, tuttavia, questa definizione, per quanto utile a livello diagnostico-categoriale, non rende giustizia allʼesperienza soggettiva del paziente, al profilo globale del funzionamento mentale ed allo stile di personalità.
Con quanto detto si vuole sottolineare come lʼanoressia nervosa sia infatti caratterizzata da una sintomatologia definita che può manifestarsi, però, in individui con quadri clinici molto distanti tra loro sia per la gravità, sia dal punto di vista dellʼorganizzazione di personalità. Nel declinare dunque il termine anoressia nervosa al plurale, ossia anoressie nervose, si cerca di dare rilievo alle differenze proprie di ogni individuo che nel corso della sua vita può sviluppare una sintomatologia anoressica.
Massimo Recalcati, noto psicanalista lacaniano, individua alla base del rifiuto del cibo la presenza di diversi desideri sia consci che inconsci che contribuirebbero allʼemergere della sintomatologia. In questo modo diviene maggiormente chiaro come, nonostante i sintomi canonici dellʼanoressia siano simili in ogni individuo, alla loro base esistano dei desideri e delle aspettative molto differenti, legati alla storia ed alla soggettività propria di ciascuno. Di seguito verranno proposti, senza pretese di completezza, alcuni quadri anoressici, descritti da Recalcati, rappresentanti diversi desideri, nel tentativo di illustrare lʼanoressia intesa come anoressie al plurale, vincolate alle differenze strutturali psichiche di ogni soggetto.
Rifiuto come desiderio di separazione.
Questa declinazione della patologia è tipica delle anoressie infantili ed adolescenziali, poiché collegata al passaggio puberale. Fino a questo momento, infatti, nel bambino prevale la spinta a corrispondere al desiderio dellʼAltro, essendo soddisfatto nellʼappagare il genitore. Tale caratteristica infantile esageratamente compiacente tende poi, con lʼadolescenza, a rovesciarsi in unʼopposizione che nega ogni forma di discendenza, filiazione e debito simbolico che, generalmente, si risolve con il passaggio allʼetà adulta. Il soggetto anoressico trova però difficoltà a svincolarsi dallʼopposizione adolescenziale, perché il desiderio infantile di compiacere lʼAltro, di realizzare il desiderio materno, direbbe Lacan, è stato imposto al bambino dal genitore in una modalità troppo intrusiva, cancellatrice di ogni senso del limite. La paura di non riuscire a staccarsi dallʼAltro diventa carburante di una guerra esagerata per dimostrare a sé stessi e al prossimo di essersi effettivamente separati, ma proprio perché necessitante di una continua dimostrazione questo desiderio sottende il mantenimento della dipendenza dallʼAltro. Il cibo assume così le sembianze di contenitore del desiderio altrui e viene rigettato. La volontà di non mangiare difende la singolarità del soggetto contro la volontà genitoriale del: “devi mangiare”. Il rifiuto dellʼoggetto sostiene dunque il desiderio di rivendicare la propria posizione di soggetto contro lʼinsistenza della domanda oggettivizzante dellʼaltro. Con le parole di alcune giovani pazienti di Recalcati (2011): “Per mia madre sono solo una bocca aperta da riempire”; “Non sono un tubo digerente”.
 
- Rifiuto come desiderio di controllo.
Il rifiuto del corpo nellʼanoressia, al contrario del corpo-teatro isterico, assume connotazioni di un corpo-barriera silenzioso e freddo. La non accettazione della dimensione corporea, nellʼanoressia, può essere rifiuto del corpo sessuale e rifiuto di un corpo ingovernabile che per sua natura si trasforma e cambia. In questo modo il corpo è inteso come un corpo con delle necessità, ma la volontà anoressica non riconosce nessuna altra volontà se non quella della propria coscienza per cui non può esistere nulla che non sia sotto il controllo diretto dellʼIo. Il controllo si manifesta così come forza dominatrice del mentale sul somatico, che deve quindi assoggettarsi agli ordini imposti, servendo la volontà disciplinatrice della coscienza. Anche in questo caso, è evidente come il desiderio di controllo e la paura di perderlo rimandino lʼuno allʼaltra, cosicché il controllo rischia continuamente di sfociare nella perdita dello stesso. Secondo G. Bateson (1972), infatti, lʼidea stessa di essere «capitani della propria anima» rimanda sempre ad unʼepistemologia dellʼautocontrollo destinata inevitabilmente al fallimento; inoltre, secondo C. G. Jung, ogni atteggiamento caratterizzato da eccessiva unilateralità corre sempre il rischio di rovesciarsi nel suo opposto.
 
-Rifiuto come desiderio di affetto.
Secondo D. W. Winnicott i disturbi alimentari in età evolutiva rappresentano un dubbio del bambino sullʼaffetto dei propri genitori, ed il rifiuto dellʼoggetto-cibo diventa una modalità per interrogare lʼaltro su questo sentimento. La negazione dellʼoggetto di godimento può essere, in alcuni casi, unʼinvocazione al segno dellʼaffetto del genitore. Precisamente il soggetto anoressico respinge il nutrimento concreto per un nutrimento affettivo e non mangia, rifiutando lʼoggetto per realizzare il desiderio di essere lʼoggetto del desiderio dellʼAltro. Secondo questa modalità il corpo diviene ostaggio di un ricatto che può oscillare verso forme estremamente radicali, arrivando sino allʼesercizio di un potere assoluto. Indubbiamente questa manovra contiene spesso una parte perversa, in quanto, giocando con la vita e la morte, rende il genitore impotente nelle mani dellʼindividuo anoressico che si fa strumento della sua angoscia. Il rifiuto del cibo sottende un desiderio di certezza assoluta sullʼaffetto dellʼAltro che viene tradotto dalla buona o cattiva relazione alla buona o cattiva alimentazione, fino alle forme più disperate dove il soggetto anoressico si fa morto per vedere se il genitore può sopportarne la perdita.
 
-Rifiuto come desiderio di difesa.
Lʼanoressia in questo caso svolge metaforicamente la stessa funzione delle mura di un castello, arroccando il soggetto allʼinterno e tenendo lʼAltro-nemico allʼesterno. La funzione difensiva del rifiuto del cibo protegge lʼindividuo «dallʼincontro traumatico con il godimento dellʼaltro» (Recalcati 2010), preservandolo dalla riduzione ad oggetto utile solo per il soddisfacimento del desiderio altrui. Stupri, intrusioni, lutti e tradimenti sono infatti tra gli elementi scatenanti di questa modalità anoressica che, solidificando i confini del corpo, crea unʼarmatura difensiva. Il rifiuto non svolge più una funzione dialettica con il prossimo, ma agisce come barriera verso la sua violenza distruttiva. «La negazione dellʼessere come strumento per la conservazione dellʼessere» è evidente nelle parole di una giovane paziente di Recalcati (2011): «se la pelle aderisce perfettamente alle ossa, io divento una mummia e le mummie non hanno più paura di nulla».
 
-Rifiuto come desiderio di "snascita".
Questa declinazione dellʼanoressia si inserisce nella clinica delle psicosi gravi, in quanto sembra che il soggetto smetta di interrogare lʼAltro attraverso la propria sintomatologia, recidendo così ogni legame. Ellen West, celebre paziente di L. Binswanger, descriveva la sua anoressia-bulimia come “brama di morte”: un desiderio di fine che esclude la vita spingendo il soggetto fuori dalla scena del mondo. Questa modalità è drasticamente differente da tutte le altre perché non nasconde nessun tentativo dialettico comunicativo con lʼAltro. In questi casi il desiderio è difficilmente analizzabile perché diviene un desiderio di non desiderare.
[caption id="attachment_10425" align="aligncenter" width="1000"] L’ultima fatica di Netflix è “Fino all’osso (To the Bone)” un film che tratta il tema delicato dell’anoressia dal punto di vista di Ellen, una giovanissima ragazza giunta quasi al limite delle sue forze, ma non abbastanza, né per combattere né per lasciarsi vincere.[/caption]
La fine di ogni passione è perseguita e voluta con tutta la passione dellʼessere: quasi una occidentaleggiante rilettura delle religioni orientali che secondo la filosofa Maria Zambrano (1988): «si sforzano di cancellare la differenza umana, di reintegrare ciò che è caratteristico nellʼuomo alla sua origine, di cancellare la nascita; tutte pretendono di snascere (desnacer)». Il soggetto, quindi, per essere aiutato, non necessita più solamente di considerare il proprio desiderio, ma ha bisogno che esso rinasca; attraverso la reintroduzione del desiderio nella e per la vita, il terapeuta tenta di riaccendere nel soggetto quella scintilla «che consente alla vita di continuare ad esistere» (Recalcati 2011).
-L'ingombro fallico e il rifiuto della castrazione nell'anoressia.
Con J. Lacan il discorso freudiano sullʼinvidia del pene si capovolge, mostrando lʼassenza fallica non più come povertà, ma come ricchezza: «il fallo non è più considerato unicamente come simbolo del potere, quanto piuttosto di una certa idiozia, di un ostacolo, di un ingombro del soggetto» (Recalcati 2011). Nella sessuazione maschile, infatti, il fallo immaginario può indicare il prestigio dellʼavere e del possesso «lʼuomo non è ma ha il fallo; la sua posizione è davvero quella del proprietario» (Recalcati 2011). Nel possedere il fallo è però sempre implicata la stessa possibilità di perderlo, che illustra come il rovescio di questa tipologia di sessuazione sia generalmente la castrazione. Nella femmina, al contrario, lʼassenza del fallo è dunque sia povertà che ricchezza, un godimento oltre la monodimensionalità fallica che eleva il discorso verso un apertura con lʼAltro al di là dellʼUno. Tuttavia questo stesso discorso non può valere per la ragazza anoressica, perché, come visto precedentemente, la paura di essere oggettivata dallʼAltro si traduce nel forte rischio difensivo di oggettivare lʼAltro e, in primis, dunque, il corpo. Questo può venire così reso strumento disciplinato e controllato ossessivamente per mantenere lʼidentificazione narcisistica con un idolo fallico. In questo senso, il corpo anoressico può essere il risultato di un femminile che non accettando la natura del corpo, con le proprie caratteristiche e bisogni, finisce per schierarsi allʼopposto più radicale, ovvero dentro la cultura-legge maschile. Facendo questo una ragazza anoressica rischia di divenire una parodia della cultura di controllo occidentale e, essendo sprovvista di un fallo concreto, di utilizzare il proprio corpo come se fosse un fallo ideale, simbolo di potenza e grandiosità. Esso diviene un corpo che assomiglia allʼideale fallico di un maschio nevrotico e un poʼ misogino: un corpo-fallo che non può mai fallire, pegno la propria forza e perfezione. Per lʼanoressica che scappa dalla natura della sua femminilità opponendosi ad essa non cʼè il tempo per notare che la vagina non è solo lʼassenza del pene. Non calcolando la diversità in quanto tale, rischia di adeguarsi alla legge maschile del padre-fallo, diventandone lʼestremizzazione grottesca, un fallorobotico, sotto il potere della volontà e non più un “fapipi” che spaventava il piccolo Hans, celebre paziente di S. Freud, proprio perché agisce fuori dalla coscienza. Con questo tentativo di negazione delle differenze e di tutto ciò che non sottostà alla volontà cosciente, lʼanoressica ambisce, come già detto, allʼUno maschilista che nega lʼAltro e ad un corpo-fallo ideale, ultra prestante, simbolo di potenza e successo.
 
Per approfondimenti:
_Bateson, G. (1971), La cibernetica dellʼIo: una teoria dellʼalcolismo, in Verso unʼecologia della mente, RCS Libri, Milano, 2011;
_C. G. Jung (1957-58), La funzione trascendente, in C. G. Jung, Opere vol. VIII. La dinamica dellʼinconscio, Bollati Boringhieri, Torino, 2016;
_Freud S. (1908), Analisi della fobia di un bambino di cinque anni. Caso clinico del piccolo Hans, in Casi clinici, Bollati Boringhieri, Torino, 2008;
_Recalcati, M. (2010), Lʼuomo senza inconscio, Raffaello Cortina, Milano, 2011;
_Winnicott, D. W. (1993), Colloqui con i genitori, Raffaello Cortina, Milano, 1997;
_Zambrano M. (1988), Lʼagonia dellʼEuropa, Marsilio, Venezia, 2009.
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

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di Maurilio Ginex 29/05/2018

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Nel campo dell’antropologia dedicata al concetto di morte, strutturato secondo un complesso sistema di segni e simbologie, assumono un importante ruolo le lacrime, in quanto rappresentano il “linguaggio della tristezza” e simboleggiano questo legame che si instaura tra i vivi che permangono, e i morti che passano verso una condizione di non-presenza. Una simbologia, quella delle lacrime, che rimanda all’importanza che ha il lamento funebre, in quanto lamento meramente sociale che collettivizza un dolore che nasce come individuale.

[caption id="attachment_10293" align="aligncenter" width="1000"] Ernesto de Martino (Napoli, 1º dicembre 1908 – Roma, 9 maggio 1965) è stato un antropologo, storico delle religioni e filosofo italiano.[/caption]

Il pianto rituale, che costituisce il “lamento funebre”, risulta essere un rito antichissimo che affonda le sue radici in un periodo storico precedente al Cristianesimo, diffusosi in tutta l’area mediterranea. Sul tema del cordoglio e della crisi spirituale-psicologica che l’uomo vive durante la vita, Ernesto De Martino (1908 – 1965) porta avanti una lungimirante analisi. L’autore, in morte e pianto rituale (1958), evidenzia come la crisi vissuta dall’individuo, dopo la scomparsa di un caro, sia elemento costitutivo della natura umana. La crisi del cordoglio genera forme comportamentali che vanno a rappresentare una forma di negazione di un comportamento considerato umanamente “normale”. Queste forme comportamentali a-normali, potrebbero far sfociare il soggetto, che vive il dolore in prima persona, in una follia imperante identificata con la vendetta. Quando De Martino parla del concetto del “far morire i morti in noi” , si riferisce a una pratica interiore ed ideale abbastanza faticosa. Essa si può manifestare in forme anche improprie ed è qui che subentra l’esempio della vendetta, che veicola il soggetto accecato dal dolore e dalla rabbia verso il voler vendicare il morto. Su questo frangente verte il richiamo al Patroclo di Omero, ucciso dal re troiano Ettore, il quale viene vendicato da Achille che non troverà pace finchè non avrà ucciso il carnefice di suo cugino. Tale richiamo all’Iliade di Omero, serve a De Martino per spiegare come nell’oggi un comportamento folle e psicotico, in quanto privo di razionalità, come la vendetta, non potrebbe trovare uno spazio nell’etica universale e dunque non potrebbe essere considerato come “normale”. Il lamento funebre dunque rappresenta una pratica che “preserva” l’individuo dalla possibilità di assumere quei comportamenti anormali. La tipologia del pianto rituale consta di una particolare tecnica costituita da un codice linguistico che designa l’intenzionalità dell’azione rituale in sé , intesa come uno strumento per trasmettere significati. Quest’ultimi codificano il prodotto finale del rito che viene rappresentato da questa generale pratica che serve a preservare l’individuo. In questo modo il rituale diventa un modo per riplasmare culturalmente lo strazio naturale prodotto dal fenomeno . Questa tecnica risulta essere anche un modo per conservare una tradizione che si ricongiunge con i valori morali che la crisi del cordoglio potrebbe potenzialmente compromettere. De Martino elabora quest’analisi evidenziando l’aspetto rituale che si accosta a questo controllo che bisogna avere nei confronti del patire e che nel pianto collettivizzato si concretizza come ritualizzazione delle pulsioni vitali dell’individuo. Come se l’intenzione fosse quella di rendere docile e plasmabile l’impeto di chi in prima persona viene attraversato dalla perdita dell’individuo caro. Qi si dipana un conflitto tra intenzionale (razionale) e non-intenzionale (irrazionale), che viene manipolato dalle regole di un rito che plasma la coscienza. Questa da una condizione incontrollata viene trasformata e riplasmata su forme controllate. È ulla scia di questo senso che il lamento funebre rappresenta una pratica che “preserva” l’individuo. Vi è un rapporto tra cultura e natura, in cui la prima, intesa come insieme di regole che costituiscono la tradizione di un popolo, ha “potere” sulla natura dell’individuo, intesa in questo specifico caso come l’insieme dei fatti emotivi che lo compongono al livello psicologico. Il rischio della mancata negazione e trascendenza del delirio post-trauma, delinea la tipica situazione da crisi del cordoglio. La circostanza in cui bisogna elaborare il lutto deve essere sedata e accompagnata, poiché nell’elaborazione del lutto occorre un duro travaglio interiore che permette di giungere alla razionalizzazione di quella forma di assenza totale che risiede nella morte. In De Martino l’assenza totale è il limite estremo della crisi generata dal cordoglio. In Sud e Magia (1959) De Martino spiega come la fascinazione, la fattura e i riti magici, sono tutti elementi che servono come argine all’orizzonte della crisi che il cordoglio genera negli individui. L’autore evidenzia come i vicini del defunto, attraverso la costituzione del rito, riescano a combattere la temibile conseguenza della crisi che si identifica nel concetto di essere-agito-da. Nell’orizzonte della crisi viene smarrita una potenza che identifica l’uomo, ovvero, il suo esserci nel mondo, come soggetto individuale capace di scegliere e agire secondo valori da lui stesso collaudati. Nella crisi del cordoglio si presenta un fenomeno ambiguo che priva l’uomo di se stesso, portandolo ad essere manipolato da qualcosa di esterno, per l’appunto ad “essere-agito-da” per dirla nei termini utilizzati dall’autore. Dunque l’uomo, che vive il dramma psico-fisico del dolore, viene privato della sua personalità nella sua totalità, perdendo quella facoltà che gli conferisce di essere l’unica causa di se stesso. De Martino si sofferma su una tematica che rispecchia il fenomeno in questione: il “sentimento del vuoto”. Il vuoto interiore e psichico che la crisi del cordoglio genera, rappresenta un problema non soltanto per il soggetto in questione che, estraniato e spaesato, non coglie il fatto di essere dominato da un delirio, ma anche per la realtà che lo circonda, costituita da persone e situazioni che diventano spettatori della follia imperante. L’ortodossia verso le pratiche rituali risulta essere quella garanzia per preservare il soggetto estraniato. Quest’ultimo vive una condizione di oblio interiore che lo porta a consapevolizzare che l’essere-agito-da è in atto e non è più arrestabile per suo volere, ma soltanto attraverso l’aiuto di qualcuno che sta al di fuori di sé.

De Martino mette sullo stesso piano delle malattie mentali, quella crisi generata dal cordoglio poiché in quest’ultimo stato l’uomo può essere ugualmente condotto a commettere qualcosa che razionalmente non farebbe, se non nella condizione estrema dell’essere-agito-da. Condizioni come queste possono essere combattute attraverso vari modi per espiare il dolore, come sentimento del vuoto interiore, che poi sfocia nell’estremismo di questo fenomeno che vede il soggetto sofferente manipolato da pulsioni irrazionali. Quest’ultima un’esperienza che nell’universo del rito popolare consta di varie tappe come per esempio la vestizione del morto, l’accensione di candele per illuminare il viaggio dell’anima e il pianto rituale che rappresenta il momento più catartico del rito. La fatica a cui si alludeva precedentemente, riguardo alla pratica interiore di ciò che De Martino chiama “far morire i morti in noi”, risiede in questa estrema difficoltà che vive il soggetto nel razionalizzare che non deve assolutamente perdere il controllo consapevolizzando quel passaggio di status interno alla perdita. Una continua lotta tra razionale e irrazionale, dove l’individuo non deve perdere il compito che gli conferisce la qualità di uomo, ovvero, quella di essere un ente che agisce secondo propri valori e scelte. De Martino delinea una mappa del fenomeno nella sua totalità, costituita dal cordoglio con le sue possibili conseguenze, dal lamento funebre e dalla vestizione del corpo del defunto, evidenziando l’aspetto protettivo che tale rituale assume per gli individui colpiti. Un medium tra chi consapevolizza il fatto di essere stato colpito dal dolore e chi invece ha il compito di arginare quella crisi che attacca la psicologia di quell’individuo che deve razionalizzare e consapevolizzare.

Nel rituale si incorpora una tipologia specifica di linguaggio simbolico che si discosta dal linguaggio ordinario e parlato. Quando precedentemente parlavamo del “linguaggio della tristezza”, riferendoci alle lacrime, si intendeva dire che per l’appunto all’interno di esso si instaura un sistema di significazioni che rimandano a un comportamento convenzionale teso a comunicare come prodotto finale ciò che identifichiamo con il superamento della crisi del cordoglio. A tal riguardo sono di particolare importanze le cosiddette “prefiche”, figure che nell’universo folklorico del Meridione italiano, zona territoriale che ha interessato le ricerche più importanti di De Martino, sono state ampiamente analizzate da quest’ultimo. Le prefiche erano delle lamentatrici, appositamente ingaggiate per piangere durante il rito funebre. Rappresentano, o per meglio dire rappresentavano, delle figure “professionali” che erano adibite all’accompagnamento del dolore patito dai sopravvissuti della comunità di fronte al lutto per la perdita di un individuo caro. Alcuni studi hanno definito il ruolo delle prefiche come una vera ipocrisia convenzionalmente e socialmente accettata, poiché si tratta di donne che non sono imparentate con il morto e che sono estranee a un coinvolgimento diretto nella morte, ma De Martino, al contrario di questa tesi, vede nella figura della prefica una forma culturale, che non soltanto deve essere protetta, ma che allo stesso tempo racchiude una funzione importante, in quanto appartiene a un orizzonte su cui si dipana la tradizione. Nell’ottica dell’autore, che ha compreso che il rito funebre non soltanto rappresenta un elogio della tradizione, ma è anche una forma di salvaguardia per chi viene colpito dalla perdita di un caro, le prefiche devono piangere quasi forzatamente affinchè venga costituita un’atmosfera ideale per giungere al superamento del cordoglio. Per tale ragione nelle tradizioni di quei luoghi dell’entroterra dell’Italia Meridionale, quando si parla di prefiche si sta indicando ciò che un tempo fu una professione. Era delle figure che accompagnavano il rito ed erano pagate appositamente per vivere il dolore di quell’atmosfera. Esse rappresentano un aspetto del culto della morte nato nei tempi antichi e che si è poi sviluppato per tutta la storia nell’avvenire. Agli occhi di De Martino le prefiche sono espressioni culturali da salvaguardare e proteggere di fronte all’incombere del progresso tecnologico che tende più che altro a etichettare come obsoleto ciò che rappresenta lo scenario delle tradizioni popolari. Il loro piangere, il loro gettare urla di dolore, il loro percuotersi il petto di fronte al corpo del defunto, sono tutti dati che fanno capo al loro compito di essere mediatrici della ritualizzazione del pianto. Non dovrebbe assolutamente essere permesso che tratti così caratteristici di una tradizione fossero estinti dal processo evolutivo dei tempi. De Martino, dunque, è in quest’ottica che fa un quadro dei riti funebri, evidenziando come essi, praticati secondo ortodossia, rappresentano delle tecniche di protezione reale dell’individuo che si appresta a un necessario superamento del fenomeno della morte.

 
Per approfondimenti:
_E. De Martino, Morte e pianto rituale: dal lamento pagano al pianto di Maria, Bollati Boringhieri, Torino, 1958;
_E. De Martino, Sud e magia, Feltrinelli, Milano, 1959;
_E. De Martino, Il mondo magico: prolegomeni per una storia del magismo, Bollati Boringhieri, Torino, 1948;
_S. Tambiah, Rituali e cultura, Il Mulino, Bologna, 1995.
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