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di Giuseppe Baiocchi del 24/12/2024

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La fama nell’età adulta non dissipa l’oscurità dell’infanzia. Se gli archivi offrono molte pagine di studio sulla famiglia degli Asburgo, o sui suoi fratelli, che sono meno dotati di lui, si oppongono a un silenzio ostinato non appena la ricerca si evolve sotto il blasone che così recita: «D’argento al leone di blu». Il mio viaggio per le lande austriache doveva condurmi verso la ridente cittadina di Luising nel Burgenland meridionale. Ci sono molti tranquilli villaggi di confine, ma nessuno è così popolare come questo. La comunità di 135 anime lo deve principalmente a una persona: l’umoristico Alfons Eduard Alexander Antonius Maria Andreas Hubertus Christoph Grafen von Mensdorff-Pouilly (1953). I suoi titoli professionali sono quasi altrettanto lunghi: consulente, organizzatore di caccie venatorie, agricoltore e allevatore di tacchini. Come ama affermare, proviene da una famiglia nobile povera, anche se sua madre, la nobildonna Ilona Gräfin Erdődy (1917 - 2003) possedeva vasti possedimenti in Ungheria.

[caption id="attachment_16426" align="aligncenter" width="1000"] Intrappolato in casa sua: Alfons Mensdorff-Pouilly scontò quattro degli otto mesi iniziali della sua condanna nel suo castello di Luising. Grazie al braccialetto alla caviglia non poteva accedere ad alcune parti del suo castello.[/caption]

Nel suo castello di nuova costruzione, che lui stesso chiama affettuosamente “Glumpert” e che valuta un milione di euro, il conte accoglie i suoi ospiti in lederhosen e tracht. L’interno è dominato dallo stile della casa di campagna inglese: carta da parati verde e tende lussureggianti nel salone, rendono squisitamente elegante l’interno, dove tra una marmotta impagliata, e trofei di cervo o di gnu, vi sono anche molte armi da cinghiale incorniciate in argento. Nel tranquillo villaggio, Mensdorff-Pouilly colleziona trofei e avvia affari milionari come consulente. Ma quali sono le orme familiari di questo liberal-conservatore austriaco? Corre voce – ma non si hanno prove concrete – che sia iscritto alla Massoneria? Quante maldicenze si dicono per invidia! Ebbene la storia doveva portare il piccolo Alfons in Austria, facendolo crescere in circostanze piuttosto modeste. Suo padre Alexander Mensdorff-Pouilly (1924 - 2009) già impoverito, si era sposato nel 1952 con la nobildonna ungherese Ilona Gräfin Erdődy (1917 - 2003), proveniente da un’antica famiglia di magnati. È cresciuto con i suoi fratelli Antonius ed Elisabeth nella vecchia dogana di Luising nel Burgenland. La famiglia viveva in gran parte dell’eredità, che comprendeva a circa 200 ettari di boschi e terreni agricoli a Luising e dintorni, che la madre riuscì a salvare, dopo aver perso le proprietà di famiglia nell’antica Cecoslovacchia e Ungheria nel 1948, a causa dell’arrivo del comunismo, che nazionalizzò le proprietà. Così gli Erdödy, che per secoli avevano avuto la loro casa ancestrale a Eberau, a circa 10 km a nord di Luising, riuscirono a mantenere alcune significative proprietà in Austria. Discendente da un’antica e venerabile famiglia baronale della Lorena “Graf Ali” così come è stato rinominato in Austria, mostra non senza un certo orgoglio, le armi araldiche della famiglia: un leone blu su sfondo argento, con un pellicano sacrificale raffigurato nella parte superiore dello stemma. In araldica il pellicano è simbolo di pietà, amore e carità per il prossimo e può rappresentare il buon padre di famiglia che alimenta i figli con la sua virtù o la carità di un buon governante verso i propri sudditi. Nel 1395 il dominio di Pouilly vicino a Stenay fu elevato a baronia. Nel 1818 alla famiglia venne conferito il titolo di conte austriaco. Da quel momento in poi, il Generale Imperiale e Regio Emmanuel von Mensdorff-Pouilly (1777 - 1852) poté fregiarsi del titolo ereditario di conte applicando il tanto controverso, oggi vietato in Austria, appellativo di “von”. È il capostipite di numerosi discendenti della nobile famiglia Mensdorff-Pouilly, tra cui il 72enne Alfons Mensdorff-Pouilly. Il ramo austriaco della famiglia ebbe alcuni personaggi noti. Il suo pro-pro-prozio Alexander conte von Mensdorff-Pouilly (figlio del conte Emmanuel) fu ministro degli Esteri austriaco e primo principe di Dietrichstein zu Nikolsburg dal 1864 al 1866. Il figlio minore di Alexander, Albert conte von Mensdorff-Pouilly-Dietrichstein, a sua volta svolse un ruolo importante come diplomatico d’Austria-Ungheria prima e durante la prima guerra mondiale. Il fratello della sua bis-bisnonna fu Eduard von Paar, l’ultimo Aiutante Generale di Campo dell’Imperatore Francesco Giuseppe I. Nomi molto più noti si trovano nell’albero genealogico Mensdorff-Pouilly se si va ancora più indietro nel tempo. Ci sono collegamenti con le famiglie reali britannica e belga e anche con gli Asburgo.

[caption id="attachment_16427" align="aligncenter" width="1000"] Albero genealogico della famiglia Mensdorff-Pouilly e stemma araldico.[/caption]
Il duca Franz Friedrich Anton di Sassonia-Coburgo-Saalfeld (1750 - 1806) fu nonno della regina Vittoria di Gran Bretagna e Irlanda e trisnonno della defunta regina britannica Elisabetta II. Sua figlia Sophie Friederike Karoline Luise di Sassonia-Coburgo-Saalfeld si sposò con il conte di Emmanuel Mensdorff-Pouilly, il capostipite. Quest'ultimo era a sua volta il padre di Alexander conte von Mensdorff-Pouilly, il trisavolo del “Conte Alì”. A causa di questo legame familiare, diversi media hanno riferito nel 2011 che Mensdorff-Pouilly sarebbe dovuto essere il 124esimo in linea di successione al trono britannico.. tuttavia, i cattolici ne sono esclusi dal 1701 per l’Act of Settlement. Esiste anche un legame con la famiglia reale belga e con gli Asburgo: lo stesso Franz Friedrich Anton di Sassonia-Coburgo-Saalfeld fu anche padre di Leopoldo I del Belgio, primo Re dei belgi. Suo figlio, Leopoldo II del Belgio, fu a sua volta sposato con Maria Enrichetta Anna d’Austria della Casa d’Asburgo-Lorena. Il quadro sembra così perfetto per riprendere la celebre frase di apertura di Anna Karenina, noto romanzo dello scrittore russo Lev Tolstoj: «Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece infelice a modo suo». Intorno al 1990 Alfons Mensdorff-Pouilly fece costruire sul confine settentrionale di Luising un castello neostorico, che divenne noto al pubblico soprattutto grazie alle cacce sociali che vi si svolgevano. Secondo i media, nella tenuta di Mensdorff erano ospiti frequenti imprenditori, manager e politici, tra cui l’allora Ministro degli Interni Ernst Strasser e l’allora vicecancelliere Hubert Gorbach. Nella percezione pubblica, il castello è visto come il luogo in cui Alfons Mensdorff-Pouilly allaccia nuovi contatti politici ed economici e mantiene quelli esistenti, nonché dove avvia e, se necessario, conclude affari milionari. Il castello è costituito da un edificio quadrato ad un solo piano su pianta rettangolare con tetto a mansarda. La facciata a flangia ha una proiezione centrale con timpano triangolare a nord-ovest e sud-est. Nella salita nord-ovest è presente un portale ad arco a tutto sesto che dà accesso al cortile interno. La salita sud-est fa parte del fronte del giardino e presenta un’ampia scalinata esterna , sopra la quale si trova una terrazza sorretta da colonne in mattoni nel sottotetto. Del complesso fanno parte anche gli edifici della guardia doganale su lato nord.
[caption id="attachment_16428" align="aligncenter" width="1000"] Vista aerea del Castello Luising, presso l'omonima cittadina.[/caption]
Da alcune cornici si può osservare come il “Graf Alì” sia stato sposato con una nota politicante del partito popolare austriaco (Österreichische Volkspartei, ÖVP) di stampo liberal-conservatore: Maria Rauch-Kallat (1949), oggi – dopo aver ricoperto il ruolo di Ministro della Salute e delle Donne dal 2003 al 2007 nel governo austriaco – è una consulente aziendale. Contrariamente alla legge sui nomi matrimoniali dell’epoca, Rauch-Kallat mantenne il suo doppio cognome dal suo primo matrimonio. Questa “Lex Rauch-Kallat” portò all’eccitazione dei media e dell’opposizione, che portò successivamente ad una riforma delle leggi sui nomi coniugali. Oggi il conte vive separato dalla moglie da molti anni, mantenendo comunque un ottimo rapporto. Mensdorff-Pouilly ha anche un figlio, Ferdinand Mensdorff-Pouilly, da una precedente relazione. Ferdinand dal 2021 è sposato con la contessa Franziska von Walderdorff. La coppia si è conosciuta ad un corso di danza nel 2009 e si sono fidanzati dal 1° gennaio 2013. Ferdinand, che è agricoltore e guardaboschi e lavora nell'azienda di famiglia, ha proposto alla sua dolce metà tedesca di sposarsi durante una battuta di caccia a Luising nel maggio 2020. Piccole storie di paese narrano con malizia, che il conte viva solo in una stanza del castello. Il resto è a servizio della sua fiorente attività venatoria. Difatti Mensdorff-Pouilly che ama farsi chiamare “un agricoltore, senza talenti particolari” è un grande proprietario terriero e lavora come guardia forestale. In questa veste è presidente dell’Associazione delle tenute agricole e forestali del Burgenland. Per la caccia commerciale alleva fagiani e anatre nella sua proprietà a Luising nel Burgenland. Molti anni fa provò l’allevamento di struzzi e l’idea di vendere carne di cervo in scatola negli Stati Uniti come parte della sua “Burgenland Game Specialties Production Company”, ma ahinoi tutti i tentativi di produrre con successo carne macinata di cervo o zuppa in scatola caddero in un fallimento.
Il 7 novembre del 2015, circa 25 attivisti per i diritti degli animali si sono riuniti davanti alla proprietà di caccia a Bildein per documentare quelle che credevano fosse una pratica di caccia illegale. In verità gli ambientalisti sono stati sempre il suo primo nemico atavico. Tuttavia, una zona di interdizione di 200 metri intorno alla zona di caccia, fu controllata dagli agenti di polizia, i quali hanno impedito agli attivisti di avanzare. Il presidente dell’associazione contro gli allevamenti di animali, Martin Balluch, è però riuscito a raggiungere la recinzione della porta di caccia sul lato ungherese. «Dato che ero in Ungheria, qui non esisteva alcuna zona di esclusione», ha affermato con una nota di malizia Balluch, che ha presentato una denuncia contro Mensdorff-Pouilly per crudeltà sugli animali. I giornali distrettuali hanno avuto l’opportunità di visitare la proprietà di caccia di Mensdorff-Pouilly. La prima impressione: una vasta zona boscosa, nella quale gli animali si vedono con molta difficoltà. Solo dopo pochi minuti di guida si videro in lontananza alcuni cinghiali. «L’area in cui cacciamo qui è di 200 ettari. Spesso abbiamo cacciatori in postazione per tutto il fine settimana e non sparano a niente», afferma Mensdorff-Pouilly, rispondendo alle accuse secondo cui gli animali vengono portati «proprio davanti alle armi dei cacciatori. Preferirei essere un cervo che sta nel prato e mangia e poi eventualmente muore indolore con un colpo di carabina, piuttosto che un toro che attraversa mezza Europa e poi si prende una pallottola in testa. Morire non è mai divertente, ma centinaia di migliaia di animali morirebbero ugualmente se noi non cacciassimo. Il signor Balluch ha detto che il povero cervo sembrava terrorizzato, ma non abbiamo un cervo in tutta la zona».
In un’altra occasione gli attivisti per la protezione degli animali ebbero la meglio, liberando 16 pernici dalla proprietà del conte a Luising. L'Associazione contro le fabbriche di animali (VGT) vuole protestare contro l’allevamento di pernici, fagiani e germani reali, come viene praticato da Mensdorff-Pouilly. «Migliaia di questi uccelli vengono trattenuti, solo per essere rilasciati in scatole e immediatamente abbattuti. Le autorità evidentemente non vogliono o non possono confiscare gli uccelli – affermò il presidente della VGT Martin Balluch, giustificando l’azione –, le azioni di Mensdorff-Pouilly erano illegali e la liberazione degli animali era il mezzo più blando per ripristinare la situazione legale». Inutile dire che “Graf Alì” vinse anche questa sfida. Il conte possiede anche numerose aziende e investimenti in Austria e in altri paesi europei che non si occupano di agricoltura e silvicoltura. È azionista unico (settembre 2008) ed ex amministratore delegato della “MPA Handelsgesellschaft mbH” di Vienna, fondata come società commerciale per tutti i tipi di merci, ma il cui scopo dichiarato è quello della consulenza aziendale. Fu da questo semplice ed onesto lavoro che Mensdorff-Pouilly fu definito dai media come il “conte Alì”, il lobbista delle armi. A Luising c’era sempre qualcosa da fare: feste in smoking, dopo una stancante giornata di caccia al Drive per fagiani, colazioni, pranzi e avvenne per molti anni una sorta di pellegrinaggio al castello di politici di primo piano e top manager. Sarà forse per aver contato troppe banconote, che iniziarono le prime piccole disgrazie del conte, poiché attirò gli invidiosi media progressisti, che iniziarono a creare intorno al nobiluomo una sorta di romanzo criminale fatto di tangenti e corruzione. Quando Mensdorff-Pouilly se ne accorse affermò sprezzante: «Non sono l’Einstein della corruzione. Credete davvero che quando un uomo si siede su di una poltrona, possa affermare al suo vicino di fare qualcosa di sbagliato? Se voglio fare qualcosa di storto, è più probabile che mi rechi da solo sulle rive del Danubio e non vada più a caccia».
Si venne poi a sapere che una sua foto albergava nel clubbing anti-corruzione dei Verdi al Volksgarten di Vienna. Inizialmente l’allegro Alì, insieme agli amici Grasser e Meischberger ridevano della notizia: creò, per hobby pomeridiano, numerose caricature e fotomontaggi di se stesso dietro le sbarre: correva l’anno 2007 e così passava la gloria. Non tutti potevano entrare facilmente nella sofisticata tenuta del conte Mensdorff-Pouilly: sia in Austria, che nel suo possedimento scozzese. Ha acquistato il “Dalnaglar Castle” a Glenshee, a due ore di macchina da Edimburgo nelle Highlands, attraverso la sua società ungherese MPA, acquistata il 24 settembre 2008. Chi vuole affittare il castello nelle Highlands del conte, per un fine settimana paga 15.000 sterline (19.000 euro). Naturalmente, i membri dei gabinetti dei ministri dell’Interno e dell’Agricoltura non dovevano pagare così tanto, poiché erano invitati dal conte Alfons e certamente non se lo fecero ripetere due volte. «Faceva piuttosto freddo perché il riscaldamento non funzionava bene – ecco cosa ricorda l’ex compagno di caccia di Mensdorff-Pouilly –, per il resto le battute di caccia al castello di Dalnaglar in Scozia erano piuttosto piacevoli». La vicenda è sicuramente politicamente altamente esplosiva perché il Nostro, non è solo un cacciatore, ma anche un proprietario terriero e uno dei lobbisti delle armi più noti d’Austria. Ma secondo gli avvocati, questa “accettazione illegale di doni” di tipo venatorio non dovrebbe violare il diritto penale. In ogni caso, si tratta di una grave violazione della legge sul pubblico impiego. Nascono per il povero “Graf Alì” i primi sospetti di corruzione: i buoni contatti al Ministero dell’Agricoltura, ma soprattutto al Ministero dell’Interno, secondo l’accusa valgono come oro. In definitiva, per la legge sui materiali bellici è responsabile il Ministero degli Interni: è lui che autorizza l’importazione, l’esportazione e il transito di materiale bellico.
[caption id="attachment_16430" align="aligncenter" width="1000"] Alfons Mensdorff-Pouilly al lavoro nella sua azienda a Vienna. La società commerciale MPA.[/caption]

Il Serious Fraud Office (SFO) di Londra accusò Mensdorff-Pouilly di essere coinvolto come lobbista per la società di difesa britannica BAE Systems “in processi di corruzione attiva e passiva nei processi di approvvigionamento nazionali e internazionali di attrezzature militari”. Così conquistò i titoli dei giornali britannici, svedesi, cechi e ungheresi nel 2007, quando lui e la sua rete di società sono stati coinvolti nella distribuzione di commissioni in vista della conclusione di contratti per l’acquisto o il leasing di aerei da caccia Saab-Gripen da parte di Repubblica Ceca e Ungheria, tra il 1999 e il 2006. In relazione al suo lavoro di consulenza per BAE Systems è stato accusato di corruzione e riciclaggio di denaro in diversi paesi. L’intermediazione di queste transazioni, che includevano anche il pagamento di commissioni a politici cechi e ungheresi, è stata infine gestita dalla società Valurex, con sede a Ginevra, del brigadiere e multimilionario britannico Timothy Landon, con sede a Ginevra , registrata a Panama. Solo un caso vuole che, fino alla sua morte nel 2007, Landon è stato sposato con Katharina Esterházy, cugina di Mensdorff-Pouilly, la quale era rappresentante autorizzata per le sue proprietà in Austria. A loro nome nel 2006 ha venduto il castello di Pottendorf all’omonimo comune. Anche Mensdorff-Pouilly aveva un contratto di consulenza con Valurex, ma secondo le sue stesse dichiarazioni solo dopo la conclusione dei contratti con la Repubblica Ceca e l’Ungheria. Nell’ottobre 2008 è stato fermato dalla polizia britannica mentre si recava dalla sua tenuta scozzese Dalnaglar Castle a Glenshee (Perthshire) all’aerodromo. Gli è stato chiesto di seguire la polizia a Carlisle, in Inghilterra, per essere interrogato perché l’OFS non ha giurisdizione in Scozia. Alla fine gli aerei da caccia Saab Gripen non furono acquistati dallo Stato ceco, ma furono noleggiati per dieci anni nel 2005. Il 29 gennaio 2010, Mensdorff-Pouilly è stato interrogato e arrestato dall’SFO a Londra. L’arresto è stato una sorpresa per l’avvocato di Mensdorff-Pouilly. L’SFO ha tuttavia reso noto che l’operazione è stata coordinata a livello internazionale dall’Unità europea di cooperazione giudiziaria. Il 4 febbraio 2010, la Corte distrettuale di Westminster ha deciso di rilasciare Mensdorff-Pouilly dietro cauzione dell’equivalente di oltre 570.000 euro. Tuttavia, ha dovuto consegnare i suoi passaporti e restare a disposizione per ulteriori interrogatori in qualsiasi momento. Tuttavia, il 5 febbraio 2010, il procedimento contro Mensdorff-Pouilly in Inghilterra è stato definitivamente archiviato. Il motivo di ciò sono stati gli accordi tra l’SFO, il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti e la BAE Systems sul pagamento di sanzioni per circa 280 milioni di sterline, volute dal governo britannico, ma che poi si sono rivelate illegali. Dopo il pagamento delle multe, tutte le ulteriori indagini da parte delle autorità statunitensi e dell’SFO contro persone che avrebbero potuto essere coinvolte in questi casi sono state interrotte. Il direttore dell’SFO Richard Alderman ha dichiarato che “non è più nell’interesse pubblico portare avanti le indagini sui singoli individui”. L’inchiesta Mensdorff-Pouilly in Austria non è influenzata da questa interruzione dell’indagine in Inghilterra. Il 25 maggio 2011 è stato annunciato che a Mensdorff-Pouilly era stato riconosciuto un risarcimento carcerario di 430.000 euro per il periodo in cui era stato detenuto a Londra. Così, con qualche piccola arrabbiatura per le gravi accuse il conte “Alì”, ne uscì indenne e con qualche centinaio di mila euro in tasca. Appena uscito dalla carcerazione, affermò sarcastico: «La prigione non è mai divertente. Dovevo usare rasoi usa e getta e la biancheria intima, era di pessima qualità. Se potessi scegliere, sceglierei la prigionia austriaca e non c’è dubbio che la magistratura sarebbe felice di soddisfare anche questo mio desiderio». Risolta questa delicata questione ecco che un certo Michael Piatti-Fünfkirchen , proprietario terriero ceco-austriaco e cugino di terzo grado del conte, ha sporto denuncia per frode proprio contro il suo “cugino-serpente” nel dicembre 2008, sostenendo che quest’ultimo gli aveva offerto un milione di dollari nel 1998 se avesse “contattato le persone coinvolte nella decisione che fu presa dai rappresentanti del governo della Repubblica Ceca coinvolti nella procedura di appalto”. Secondo Piatti-Fünfkirchen ci sono stati incontri con rappresentanti del governo ceco, dirigenti della BAE e un rappresentante della Mensdorff-Pouilly. Tuttavia, lui stesso non ha ricevuto alcun pagamento da Mensdorff-Pouilly. L’avvocato di Mensdorff-Pouilly, Harald Schuster, ha respinto le accuse e ha affermato che il pagamento non era possibile perché lo stesso Mensdorff-Pouilly non aveva ricevuto alcuna commissione per l’attività nella Repubblica ceca. Quando tutto sembrava essere tornato alla normalità, tra un viaggio in Scozia e una caccia nel suo fondo chiuso con solo qualche piccola festa insieme ai suoi amici più stretti, ecco il grande caso dell’Eurofighter che preoccupa l’Austria da 20 anni ormai. Dopo che all’inizio del 2007 era venuto alla luce come Christer van der Kwast, procuratore capo dell’agenzia anticorruzione svedese, aveva avviato un’indagine contro Valurex a causa degli eventi legati all’aggiudicazione dell’appalto per gli aerei da caccia Saab Gripen da parte della Repubblica ceca, Alfons Mensdorff-Pouilly fu nominato nell’indagine. Il 21 maggio 2007 in Austria è stato convocato presso la commissione parlamentare d’inchiesta sulle procedure di appalto degli aerei da caccia Eurofighter. Tuttavia, il Serious Fraud Office ha sequestrato un rapporto dell’MPA – la società del conte “Alì” –, indirizzato alla BAE in data 27 marzo 2003, in cui si affermava che l’MPA aveva “esercitato pressioni” per annullare la prima gara per l’acquisto di aerei militari da parte della Repubblica d’Austria. Dopo la gara d’appalto la scelta sarebbe ricaduta sull’F-16 della Lockheed Martin. Il contratto è stato nuovamente bandito, dando all’Eurofighter la possibilità di presentare una nuova offerta in cui l’Austria ha annunciato un ordine da 1,79 miliardi di euro per l’Eurofighter Typhoon. Secondo un resoconto dei fatti inviato da Pilz alla procura austriaca il 1° ottobre 2008, il pubblico ministero responsabile ha avviato dal gennaio 2009 un’indagine contro Alfons Mensdorff-Pouilly perché sospettato di falsa testimonianza davanti alla commissione investigativa parlamentare dell’Eurofighter. Il 27 febbraio 2009 Mensdorff-Pouilly è stato arrestato nel suo castello di Luising. La custodia cautelare è durata cinque settimane. Quando il matrimonio stava andando ancora meglio, la moglie Rauch-Kallat fece visita anche ad “Alì” in custodia cautelare. In coda aveva sempre il cappello sceso sul viso. Tuttavia accadde un evento poco piacevole per la signora, la quale fu riconosciuta da un ubriacone che le gridò: “Signora Ministro”. Quasi un anno dopo la sua custodia cautelare presso il Tribunale penale regionale di Vienna, in Austria non era ancora stata presentata alcuna accusa contro Alfons Mensdorff-Pouilly, ma la procura ha continuato a lavorare sul caso.

La vita del conte Alfons continua, così come proseguono i suoi leciti affari. Se lo si incontra, sempre affabile e gentile, ci appare come uno di quegli antichi Signori che hanno servito con amore l’antica monarchia Imperiale e Regia: certamente non un porta-valigette dagli occhi di ghiaccio, manipolatore e truffaldino. I fatti danno ragione alla mia prima impressione. Nel settembre 2011, anche la Securities and Exchange Commission degli Stati Uniti ha iniziato a indagare su Mensdorff-Pouilly, relativamente ai suoi rapporti con Motorola. Dall’aprile 2004 l’azienda elettronica avrebbe versato al lobbista un totale di 2,2 milioni di euro. Questo avrebbe effettuato “pagamenti illegali” sotto forma di vacanze e regali a decisori politici in Europa e nel Medio Oriente, tra l’altro per influenzare l’assegnazione del progetto radiofonico del governo austriaco TETRON a favore di Motorola. Telekom Austria avrebbe trasferito altri 1,1 milioni di euro alla Mensdorff-Pouilly e avrebbe inoltre ordinato battute di caccia per un valore di oltre 170.000 euro. Leggende narrano che Mensdorff-Pouilly abbia usato il denaro per invitare l’allora ministro dell’Interno Ernst Strasser (ÖVP) e il suo gabinetto (tra cui Christoph Ulmer, Mathias Vogl, Michael Kloibmüller, Oskar Gallop e Philipp Ita) a una battuta di caccia. Il deputato verde e presidente della commissione d’inchiesta sull’Eurofighter Peter Pilz vede in ciò un’incompatibilità e un’accettazione di doni vietata per i dipendenti pubblici. In un'intervista domenicale di due pagine sul quotidiano Kurier , condotta alla presenza del suo avvocato interno, Mensdorff-Pouilly ha difeso il suo compenso: «Ho fornito consulenza a Telekom per tre anni in diversi paesi, ero disponibile 24 ore su 24 e contribuito a sviluppare strategie. Ma il contratto durò solo otto mesi. Allora perché dovrebbe essere immorale»? Secondo quanto riportato dai media, tra il 2006 e il 2009 il gruppo tedesco di tecnologia medica Drägerwerk ha pagato 3,146 milioni di euro alla Mensdorff-Pouillys MPA Budapest. Nel 2006, Drägerwerk ha pagato oltre 275.000 euro all’MPA Handelsgesellschaft di Vienna di Mensdorff-Pouilly. Nello stesso anno, il Ministero della Sanità austriaco, che all’epoca era subordinato a sua moglie Maria Rauch-Kallat (ÖVP), iniziò la vendita di maschere antinfluenzali e Dräger ai rivenditori. Successivamente il ministero ha dovuto riacquistare le mascherine invendute al doppio del prezzo di un prodotto concorrente. Il 14 dicembre 2015, in relazione ai pagamenti di Telekom Austria, è stato condannato a tre anni di reclusione incondizionata per abuso di fiducia e al rimborso di 1,1 milioni di euro più interessi di risarcimento danni, ma nell’ottobre 2017, il Tribunale regionale superiore di Vienna ha ridotto la pena a due anni di reclusione, di cui 16 mesi agli arresti domiciliari nel suo castello. Il 23 marzo 2018 si è saputo che il condannato non doveva scontare la parte incondizionata – 8 mesi – della sua pena detentiva come reclusione, ma gli era stato concesso il permesso di indossare un braccialetto alla caviglia. Il capo della prigione di Eisenstadt giustifica l’uso di un braccialetto alla caviglia con GPS – con una precisione di localizzazione di 3 m – per la particolare “fama” del conte Mensdorff. I requisiti sono: divieto di caccia, mantenimento di un raggio di movimento inferiore a quello dell’edificio del castello e divieto di viaggiare all’estero. Tutto accettabile per l’uomo, ma non per il cacciatore!

Ma la provvidenza agisce contro le cattiverie dell’uomo. Così cinque mesi (2024) fa Mensdorff-Pouilly è stato assolto in appello nel complesso dell’Eurofighter per riciclaggio di denaro. Il Tribunale regionale superiore di Vienna ha annullato il verdetto di colpevolezza del Tribunale regionale di Vienna del 2022 e ha assolto l’imputato. Il giudizio è definitivo.

Mensdorff-Pouilly è stato condannato a sei mesi con sospensione della pena con un periodo di prova di tre anni. Ha dovuto pagare anche 50.000 euro, che avrebbe ricevuto in contanti. Mentre il giudice di primo grado era sostanzialmente d’accordo con le affermazioni dell’accusa, il Tribunale regionale superiore ha visto la questione in modo diverso. Secondo la situazione giuridica rilevante al momento del reato contestato, il reato di riciclaggio sarebbe soddisfatto qualora i beni occultati (il “denaro riciclato”) “provenissero” da un atto criminoso. Per “riciclare denaro” in senso penale è necessario un “reato presupposto” da cui proviene questo denaro “riciclato”, secondo la dichiarazione della corte. Nel caso specifico, però, dagli accertamenti del primo tribunale non è emerso che il “predecessore” abbia ricevuto del denaro dal reato di cui è stato accusato (infedeltà ai danni della società). L’accusa contro il conte, era piuttosto quella di aver fatto trasferire a terzi i fondi dell’azienda per cui lavorava sulla base di contratti fittizi.

«Dopo la mia persecuzione, io stesso mi aspettavo un ribaltamento del verdetto. Per sostenere l'invidia e il risentimento posso solo dire: le cose ora andranno meglio che mai». Il conte però da adesso in poi si terrà lontano dalla consulenza per le aziende di proprietà della Repubblica. «Una cosa ingenua non deve essere fatta due volte», affermò in un’intervista il nobile di campagna.

Il 9 settembre del 2023, di buon umore e con quasi 300 ospiti, Alfons Mensdorff-Pouilly, il più importante lobbista del Burgenland, ma che preferisce definirsi un “contadino senza particolari talenti”, ha festeggiato il suo 70esimo compleanno nel suo castello di Luising. E quando il “Conte Alì”, organizza un party, anche il fattore celebrità è eccezionale. Oltre all’ex vicecancelliere Hubert Gorbach era presente anche l’ex Miss Mondo Ulla Weigerstorfer, ma alla festa di compleanno non potevano mancare anche i vigili del fuoco locali. Ha fornito pollo alla griglia e bevande fredde per garantire che i sostenitori non dovessero tornare a casa affamati e assetati. I suoi ospiti gli hanno fatto solo i migliori auguri di buon compleanno. Per il signor “Graf” conta solo una cosa: «rimanere in salute a lungo». La sua vita è stata spesso emozionante, anche se non sempre egli – da onesto uomo qual’era – poteva comprendere il trambusto che lo circondava.

Ma nel mondo di Mensdorff-Pouilly c’è ancora un accenno alla monarchia d’Austria-Ungheria. Quando l’imponente Mensdorff, alto 1,95 m, soggiorna nella contea pannonica, la bandiera con lo stemma di famiglia viene issata sempre sul tetto del suo castello (come per tutti i capi di Stato) in segno della sua presenza benigna. Come ama ricordarci: «Così i contadini sanno se sono lì. La mia porta è sempre aperta per loro».

 
 
 
 
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di Ronald Friedrich Schwarzer del 28/11/2024

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Il principe Metternich era preoccupato. Il principe Hardenberg era ubriaco. Almeno questo era quanto emergeva dal verbale della polizia segreta che si trovava sulla scrivania del Cancelliere di Stato. Quali nuovi disaccordi di carattere ebraico potevano accadere nel Palais Arnstein in Hoher Markt 541? Fu così che il 26 dicembre 1814 la baronessa Vogele von Arnstein nata Itzig, gran “salottiera” della Sprea, invitò tutti, secondo l’usanza berlinese, ad una festa particolare, al centro della quale si trovava un albero di Natale addobbato e illuminato da candele. La gente ballava intorno al nuovo oggetto vegetale, la signora von Münch-Bellinghausen cantava canzoni di Punch & Judy e si riunivano le grandi personalità del Congresso di Vienna. Erano presenti i consiglieri di Stato Jordan e Hoffmann, il principe Radziwill e tutti i parenti battezzati e circoncisi della famiglia Arnstein. Dopotutto il signor von Humboldt non c’era . Questa cerimonia natalizia dell’albero di Natale era completamente sconosciuta nella capitale imperiale e nella città residenziale; le innovazioni non facevano sospettare nulla di buono al cancelliere di stato von Metternich. Tuttavia a Vienna prevalse l’albero di Natale, che brillò per la prima volta il 26 dicembre 1814.

Come leggenda narra, solo due anni dopo furono accese le candele dell’albero di Natale nel Palazzo Erzherzog Carl in Annagasse. Enrichetta, la principessa di Nassau-Weilburg di origine elvetica, moglie del grande vincitore di Aspern, conobbe l’usanza dalla sua terra d’origine calvinista e la fece rivivere nel suo palazzo per far felice la figlia, nata nel luglio dello stesso anno. All’arciduca Giovanni la cosa non andava troppo a genio, era stanco degli alberi e dell’insensato spreco di denaro in scherzi così nuovi: forse proprio perché la cosa non piaceva a suo fratello, l’Imperatore Francesco ordinò che fosse allestito il primo albero di Natale nell’Hofburg. Oggi tutti noi non possiamo immaginare un Natale senza il nostro amato albero di Natale, il delizioso profumo del bosco che porta nelle nostre case e il tenue bagliore delle candele. Questa bellissima tradizione è diventata per noi più importante del presepe di Natale e della partecipazione alla messa di mezzanotte, e guardando le cartoline di Natale che arrivano nel mio ufficio anno dopo anno, qualcuno di cultura straniera penserebbe che qui ci fosse una religione che adorava un albero di luci alla fine dell’anno. È facile infatti comprendere che in questo periodo, in cui finalmente le giornate stanno tornando ad allungarsi e le nostre speranze e aspirazioni sono rivolte alla prossima primavera, le piante sempreverdi presenti nelle stanze ci danno da sempre speranza. I Romani decoravano le loro case con tralci di alloro sempreverdi al solstizio d’inverno, i popoli germanici lo facevano con rami di abete o abete rosso e i Celti utilizzavano nespole e agrifoglio. In epoca cristiana, queste settimane, in gran parte non lavorative in agricoltura, venivano utilizzate per spettacoli spirituali al fine di avvicinare il contenuto delle Sacre Scritture alle persone credenti e analfabete. Questi giochi duravano talvolta alcuni giorni e rappresentavano anche un albero del paradiso, prima decorato con mele e poi come il tronco della croce di Cristo. Inutile dire che alle nostre latitudini venivano utilizzate conifere sempreverdi. Si discute molto sull’origine del primo vero albero di Natale. Tallinn e soprattutto Riga la rivendicano come propria, ma si tratta di un malinteso. A Riga, sulla piazza davanti alla “Casa delle Teste Nere”, è esposto un monumento in metallo di quello che si dice sia il primo albero di Natale del 1510. In effetti, dal loro regolamento di carnevale del 1510 risulta chiaramente che si trattava di un’usanza carnevalesca: un albero di luci che veniva dato alle fiamme per il carnevale. È noto che gli abeti furono acquistati per la comunità di Strasburgo alla fine del XV secolo, ma non esistono prove dei gioielli associati. Si dice che nel 1419 i fornai di Friburgo in Brisgovia avessero appeso un albero con dolci, frutta e noci che i bambini potevano raccogliere a Capodanno. Infatti, fu l’apostata agostiniano Martin Lutero a rendere popolare l’albero di Natale.
[caption id="attachment_16387" align="aligncenter" width="1000"] San Nicola di Myra, Vescovo, nato intorno al 280/286 a Patrasso, Grecia e morto: 6 dicembre al 345/351 a Myra, ora Demre, Türkiye. Patrono della Russia; Lorena; i chierichetti; dei bambini; delle vergini; di pellegrini e viaggiatori; di avvocati, giudici, notai, commercianti, farmacisti, osti, commercianti di vino, produttori e commercianti di profumi, barcaioli, pescatori, marinai, zatterieri, mugnai, fornai, commercianti di cereali e sementi, macellai, birrai, distillatori di grappa, agricoltori, tessitori, Mercanti di merletti e stoffe, scalpellini, cavatori, bottai, bottonieri, fabbricanti di candele; i vigili del fuoco; dei prigionieri; per un matrimonio felice; contro gli ostacoli acquatici e l’emergenza in mare; recuperare oggetti rubati; contro i ladri. La sua grande carità e la sua grande filantropia gli hanno dato un grande nome e una profonda venerazione. Il santo ci predica l’amore vero, cristiano, che vuole donarsi volentieri e con gioia.[/caption]
Secondo la tradizione cattolica, i doni furono portati da San Nicola il 6 dicembre oppure dai Magi il 6 gennaio. Tuttavia, i cittadini di Wittenberg abbandonarono vigorosamente il culto dei Santi. Il Cristo bambino dovrebbe portare i regali e nessun altro! (È uno strano scherzo della storia che oggi i circoli cattolici tradizionali debbano difendere il Cristo Bambino dall’invadenza dell’uomo ubriaco, panciuto, con la barba bianca e una veste rossa sotto il nome di Babbo Natale; ma questa è un’altra storia). In ogni caso il protestantesimo propaganda l’albero di Natale con i suoi doni contro il presepe con le sue figure.
[caption id="attachment_16388" align="aligncenter" width="1000"] Stampa a colori della regina Vittoria e del principe Alberto mentre ammirano l’albero di Natale al Castello di Windsor con i loro figli, 1848.[/caption]

È documentato con certezza il primo albero di Natale pienamente valido nel 1539 nella cattedrale di Strasburgo. Dapprima fece la sua marcia trionfale nel nord della Germania, arrivò in Austria attraverso Vienna, nel 1825 per la prima volta a Graz al palazzo del conte Brandis e nel 1841 addirittura in Tirolo. Un professore universitario tedesco di Harvard importò l’usanza negli Stati Uniti e così fece anche il principe Alberto di Sassonia-Coburgo, in quanto marito della regina Vittoria, in Gran Bretagna. La Regina ne fu felicissima e gli regalo l’Impero! Il magnifico albero di Natale in Trafalgar Square è un regalo economico per Londra, dato che la città di Oslo lo dona agli inglesi dal 1945, come ringraziamento per il sostegno britannico nella Seconda Guerra Mondiale. Solo gli indomabili monaci cattolici dell’Oratorio di Brompton non lo vogliono. Per loro è decisamente troppo protestante, così come la Santa Messa nella lingua vernacola. Qui la tradizione non conosce compromessi.

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di Leo von Hohenberg del 16/11/2024

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Permettetemi subito un chiarimento: non sono uno storico, un politico o un filosofo. In effetti, non ho alcuna qualifica particolare per stare qui e parlarvi, se non per un caso di nascita. Sono, tuttavia, un padre, un marito, un ufficiale della riserva dell'esercito austriaco e un cattolico, e sento il dovere di cercare di fare tutto ciò che posso al servizio della pace. Proprio come tutti voi qui, voglio salvaguardare le nostre convinzioni, norme e libertà come base per una vita appagante e pacifica per le future generazioni. [caption id="attachment_16365" align="aligncenter" width="1000"] Sua Altezza Serenissima il Principe Leo Johannes von Hohenberg presso il piano nobile del castello di famiglia ad Artstetten.[/caption] Gli sconvolgimenti politico-sociali dell'ultimo decennio con l'immigrazione di massa, l'erosione totale dei valori tradizionali dell'Occidente e, più di recente, l'appoggio "morale" e "etico" verso delle guerre definite "giuste" mi hanno spinto a fare tale dichiarazione. L'assassinio del mio bisnonno S.A.I.R. Franz Ferdinand, ha annunciato la prima catastrofe del XX secolo, che è stata preceduta da un'ondata di confusione morale e, in ultima analisi, da un entusiasmo per la guerra, non dissimile dalla nostra situazione attuale. Prima di parlare di pace, vorrei fare un passo indietro e analizzare come siamo arrivati ​​alla situazione attuale: un mondo diviso che sta di nuovo pericolosamente avvicinandosi alla guerra mondiale e che sta attualmente vivendo una guerra di tipo diverso. Non è una guerra combattuta con le armi come in Ucraina o in Medio Oriente, ma una guerra molto più profonda, una guerra spirituale. È una guerra per la mente pubblica e politica, la quale viene combattuta con tutta la potenza e il potere finanziario delle grandi istituzioni internazionali. L'obiettivo è l'uniformità centralizzata a livello globale, e solo coloro che si conformano possono unirsi e attingere al denaro dei contribuenti. Alla maggior parte delle persone non importa o non vede la necessità di preoccuparsene, altri si inginocchiano e si adeguano perché sentono di doverlo fare, ma che lo vogliamo o no, che lo ignoriamo o no, siamo nel mezzo di questa guerra. [caption id="attachment_16376" align="aligncenter" width="1000"] L'organizzatore dell'evento: Ronald Friedrich Schwarzer, nato a Vienna nel 1965, ha studiato storia e storia dell'arte a Parigi ed è la quarta generazione nella gestione dell'attività di famiglia all'ingrosso di gioielli e diamanti. Cattolico, da un decennio e mezzo svolge anche l'attività di impresario e mecenate di concerti barocchi al Ferdinandihof di Vienna; è anche un collezionista d'arte e di tessuti di provenienza esotica. Fin dalla giovinezza ha viaggiato instancabilmente attraverso l'Asia, l'Africa, l'America e l'Europa e soprattutto attraverso le ex terre asburgiche, che Schwarzer attraversa costantemente, anche per motivi professionali. Inoltre, per devozione, è un instancabile pellegrino. Vivace nell'attività giornalistica, in particolare sui viaggi, ha pubblicato diversi saggi storici e di narrativa, ultimo: Durch Habsburgs Lande (Attraverso le terre degli Asburgo).[/caption] Dobbiamo essere consapevoli che questa guerra viene combattuta con mezzi molto sottili: non ci sono campi di battaglia, né un commando di esecuzione, né gulag nel senso tradizionale. Ridefinendo i concetti e selezionando le parole, cambiando le norme attraverso la ripetizione universale di mantra nei media, nei film e in televisione, cambiando i programmi scolastici, manipolando selettivamente i dati con l'aiuto dell'intelligenza artificiale e l'uso di altre tecnologie sottili, le opinioni vengono influenzate, le identità culturali vengono modificate, il nostro tessuto sociale viene distrutto, il nostro comportamento di voto viene modificato e siamo spaventati dalle ideologie del nuovo mondo in uno stato di sottomissione inconsapevole. [caption id="attachment_16369" align="aligncenter" width="1000"] Il nome Artstetten venne menzionato per la prima volta in un documento a metà del XIII secolo. La fortezza medievale fu presto trasformata in un castello, che ebbe diversi proprietari in rapida successione fino all'acquisizione da parte dell'imperatore Francesco I nel 1823. A partire dal 1861 l'arciduca Carlo Ludovico (fratello dell'imperatore Francesco Giuseppe) rinnovò generosamente la casa sia all'interno che all'esterno. Nel 1889 l'arciduca Carlo Ludovico cedette il castello di Artstetten al figlio maggiore, l'arciduca Francesco Ferdinando d'Austria-Este, che lo fece ricostruire secondo le sue idee. Dal 1913 il castello di Artstetten si presenta come lo conosciamo oggi: come un complesso architettonicamente attraente fiancheggiato da sette caratteristiche torri.[/caption] Chi non si adegua viene cancellato. L'accesso al loro denaro viene congelato, i permessi di lavoro e di viaggio vengono revocati e vengono quindi "messi da parte" con un semplice clic di un interruttore, come abbiamo già visto in alcuni paesi delle cosiddette "democrazie" occidentali. Come siamo potuti arrivare a questo? Inizia sempre con un appello alla tolleranza: prima ci viene chiesto di tollerare le anomalie, poi le promuoviamo in una dimostrazione di maturità civile e imparziale. In un successivo passaggio logico, le legalizziamo e persino le celebriamo, finché alla fine siamo perseguitati quando ancora le chiamiamo con il loro vero nome. Come disse giustamente Dostoevskij: «La tolleranza raggiungerà un livello tale che alle persone intelligenti sarà proibito di pensare per non offendere gli imbecilli». Se sei tollerante su tutto, di conseguenza non rappresenti nulla e quindi si può essere manipolati per operare qualsiasi cosa, ed è lì che la società odierna ci conduce. La guerra è pace e la pace è guerra. Sembra che il capolavoro letterario di Orwell "1984", e "La fattoria degli animali" non siano più opere di fantasia. La maggior parte dei cristiani fraintende completamente la tolleranza. Sai, Gesù non mangiava con i peccatori perché voleva apparire tollerante, inclusivo e accogliente. Mangiava con loro per chiamarli a cambiare per una vita fruttuosa con Lui. La sua chiamata è per la trasformazione della vita, non per l'affermazione di un'ideologia utopica. Riguarda la conversione a tutto ciò che è buono, veritiero e bello. Signore e signori, il nostro obbligo verso la prossima generazione è quello di salvaguardare la pace è di generare il coraggio per la responsabilità di salvare la normalità! Dobbiamo influenzare non solo il nostro ambiente circostante immediato, ma anche la nostra cultura, difendendo la normalità contro questi "normofobi" e la loro influenza distruttiva sulle nostre identità culturali e sulla famiglia. Di recente ho sentito l'espressione tedesca "Mut zur Verantwortung", che tradotto approssimativamente significa: "avere il coraggio di assumersi la responsabilità". Ciò ha toccato una corda profonda dentro di me e mi ha fatto riflettere. Considero un tradizionalista qualcuno che ha il massimo rispetto per Dio, l'umanità e i suoi antenati. Un tradizionalista non rimpiange il passato a scapito del presente o del futuro. Un tradizionalista non si crogiola nel passato e non sorvola sugli errori storici. Attraverso le lezioni apprese dal passato, accetta la sua responsabilità per il futuro! Un tradizionalista ha un tale rispetto per il costo delle lezioni apprese dai suoi antenati, che si protegge dall'amnesia con tutte le sue facoltà. Vorrei ripetere ancora una volta tale concetto: un tradizionalista ha un tale rispetto per il costo delle lezioni apprese dai suoi antenati, che si protegge dall'amnesia con tutte le sue facoltà! [caption id="attachment_16370" align="aligncenter" width="999"] L'arciduca Francesco Ferdinando non vuole separarsi dalla moglie, la duchessa Sofia di Hohenberg, nemmeno da morta, ma a causa del suo status ineguale le viene negata la sepoltura nella cripta dei Cappuccini. Il motivo diretto della costruzione della cripta fu la nascita morta del quarto figlio nell'autunno del 1908. La piccola bara fu temporaneamente collocata in un'anticamera della chiesa del castello. Nel 1909 l'arciduca Francesco Ferdinando fece costruire la cripta di famiglia sotto il cortile della chiesa del castello: davanti ad una piccola cappella fu allestita una semplice stanza e le bare dovevano essere semplicemente posizionate una accanto all'altra sul pavimento secondo i desideri dell'erede al trono. C'è spazio per dodici. Poco dopo la sepoltura di Francesco Ferdinando e Sofia, avvenuta il 4 luglio 1914, la cripta divenne luogo di pellegrinaggio. Il guardiano dei tre orfani decide di dare alla tomba un aspetto più dignitoso. Nel 1917 furono realizzati nuovi sarcofagi monumentali in marmo dell'Untersberg. La piccola bara del bambino morto, che finora si trovava tra quelle dei genitori, è conservata in una nicchia chiusa nel muro. Nel 1955/56 fu ampiamente ampliata la cripta sotto il campanile della chiesa e la terrazza sud del castello. Oggi riposano qui i figli dell'erede al trono e le loro mogli, nonché i suoi nipoti.[/caption] La lezione più ovvia ed essenziale è il costo della guerra: un modo innegabilmente inefficiente di gestire i conflitti a cui ricorriamo ancora e ancora, giurando che ogni volta sarà l'ultima. Una lezione simile è che tutti i tentativi di istituire forme coercitive di governo hanno sempre portato a miseria e annientamento. Non è né coraggioso né responsabile imporre un'ideologia mascherata da leadership. Prendiamo ad esempio l'attuale tendenza delle organizzazioni globali a chiamare il loro potere incontrollato "governance". Queste organizzazioni sono fortemente influenzate dai conglomerati globali e dai loro finanziatori, che impongono in modo non democratico i loro interessi e le loro utopie globaliste, istituendo leggi che non sono state votate dal loro sovrano, il popolo. Storicamente, la governance autoritaria sovranazionale ha fallito a causa della tendenza a trascurare le identità delle nazioni che cerca di governare. Se, come nazione, non sai cosa ti rende unico e cosa rappresenti, qualcun altro lo saprà. Il formato dello stato-nazione è la forma naturale dell'organizzazione umana, con non solo la cooperazione tra nazioni, ma anche la salvaguardia precisa della definizione e dell'identità di ogni singola nazione. Non confondiamo la centralizzazione del potere con la cooperazione internazionale. Pertanto, un governo sovranazionale veramente coraggioso ed efficace dovrebbe avere come unico obiettivo la salvaguardia della cultura, della storia e delle libertà economiche e politiche di ogni singolo stato membro. Un governo sovranazionale veramente coraggioso ed efficace si limiterebbe quindi esclusivamente alle questioni sovranazionali, assicurando il mandato del popolo sull'imposizione di programmi artificiali. In altre parole, dal basso verso l'alto, non dall'alto verso il basso. Una cooperazione veramente democratica tra stati dovrebbe rispettare il patrimonio e l'eredità di ogni singolo stato. Sfortunatamente, le istituzioni europee e globali rendono omaggio solo a parole ai principi sovranazionali. Attraverso il prisma miope dei periodi legislativi, l'azione legale e normativa diventa l'unico obiettivo. Le "leggi di emergenza" recentemente ratificate e votate dall'Organizzazione Mondiale della Sanità sono un esempio di questo tipo di legislazione dittatoriale. Il potere ha bisogno di controllo! Stiamo vivendo il crollo concertato dell'identità nazionale e delle libertà personali e attualmente siamo incoraggiati a respingere ogni credenza, usanza e norma e a sostituirli con una "nuova verità". [caption id="attachment_16371" align="aligncenter" width="1000"] Un frammento fotografico alla conclusione del convegno sulla pace.[/caption] Ovviamente non abbiamo imparato dalla storia. Mi vengono in mente alcune volte nella nostra storia recente in cui l'ostinata imposizione dell'ideologia contro ogni verità ha causato sofferenze indicibili e offese a Dio. Quindi, come può il rispetto dei nostri antenati aiutarci a proteggere la nostra civiltà dall'eccesso di organizzazioni utopiche e garantire un futuro luminoso e pacifico? Credo che la risposta sia nell'uomo allo specchio. Dio ci ha dato la capacità di trasformare i nostri pensieri in azioni. Dalle azioni nascono le abitudini, e le abitudini plasmano la nostra vita. Dove scegliamo di mettere insieme i nostri pensieri, è ciò che plasma la nostra società. Dio ha dato a ciascuno di noi la capacità e la libertà di pensare, di allenare la nostra mente a concentrarsi su tutto ciò che è giusto, vero e dato da Dio. Nessuno, che sia un credente o un ateo, può contestare la validità dei Dieci Comandamenti, o come si potrebbero chiamare i 10 consigli per la vita. La libertà divina di pensiero è progettata per proteggerci dall'imposizione tirannica delle ideologie. La nostra eredità cristiana è progettata per proteggerci dalla cattiva guida. Siamo divinamente programmati per sapere che ci sono verità assolute e che le "verità personali" sono opinioni, non fatti, e sono semplicemente una distorsione della verità. L'esempio più lampante della distorsione a cui siamo sottoposti è il linguaggio. Il linguaggio è lo strumento che non solo esprime i nostri pensieri, ma condiziona il modo in cui pensiamo e agiamo. Negli ultimi 15 anni abbiamo assistito a un rapido cambiamento nel modo in cui vengono chiamate le cose e il nuovo vocabolario usa eufemismi per distorcere la verità. Cosa suona meglio: "castrazione e mutilazione" o "assistenza sanitaria che afferma il genere?" "Infanticidio" o "assistenza sanitaria riproduttiva?" Censura o "tutela dalla disinformazione?" Una scelta diversa di parole cambierà la tua percezione di un concetto, cambierà i tuoi pensieri e le tue azioni. Dobbiamo combattere contro questi giochi mentali. Non sottovalutare il tuo senso divino per la Verità. Se qualcosa puzza di pesce, probabilmente è marcio! [caption id="attachment_16372" align="aligncenter" width="1000"] Il presidente dell'associazione Das Andere l'arch. Giuseppe Baiocchi, con il conte Albert Pethò, autore di diverse pubblicazioni anche in Italia.[/caption] Per essere un veicolo di cambiamento e pace, ci sono abitudini quotidiane che possiamo esercitare come cittadini: - Prestiamo attenzione alle parole, a ciò che scegliamo di ascoltare e a ciò che decidiamo di leggere. Dobbiamo sempre essere consapevoli di cosa vogliamo esprimere, prima di parlare, essere selettivi e coscienziosi del nostro vocabolario. - Una persona responsabile esercita un sano scetticismo verso tutte le forme di media e ha il coraggio di formare opinioni indipendenti sugli eventi attuali seguendo la bussola che Dio ci ha donato. - Mettiamo in discussione la tendenza. Non dobbiamo aver paura di essere la classica "pecora nera". Ricordiamoci che se seguiamo il gregge, finiremo per calpestare ciò che abbiamo lasciato alle spalle! - Limitiamo il nostro tempo davanti allo schermo della televisione e all'audio delle radio, riscopriamo i classici, gli antichi filosofi, cerchiamo quanto possibile di attivare la conoscenza dei nostri antenati, parliamo con gli anziani, insegniamo ai nostri figli! - Anche i più timidi tra noi dovrebbero cercare attivamente opportunità per parlare con gli altri di ogni cosa e usare il nostro senso di ciò che è giusto come guida. Sia in un ambiente empatico, come quello di oggi, sia in uno più anticonformista, la nostra credibilità e integrità, la nostra forza morale interiore, ci forniranno gli argomenti più sinceri ed efficaci. "Questo non mi sembra giusto" o "puoi spiegarmelo?" sono argomenti di discussione che tutti possono rispettare. Non aver paura di dire il proprio pensiero, anche se potrai trovarti in ambienti molto vicini alla tua persona: sarai sorpreso di quante persone saranno d'accordo con te. - Evitiamo di sentirci isolati e impotenti, cerchiamo attivamente conversazioni con persone che la pensano come noi, per rafforzare la nostra determinazione e il nostro benessere spirituale. - Quando siamo in mezzo a degli sconosciuti, distogliamo lo sguardo dal telefonino e proviamo ad avviare delle conversazioni informali, con il cassiere, il tassista, il passeggero di un treno o di un aereo, ad esempio! Ogni incontro, non importa quanto banale, è un'opportunità divina: non possiamo mai sapere che effetto possono avere le nostre parole su un'altra persona. - Preghiamo affinché, nel nostro essere piccoli di fronte al creato, lo Spirito Santo possa operare attraverso di noi. Rimaniamo sinceri di spirito e nella fiducia verso il prossimo, Dio farà il resto. - Cerchiamo la saggezza e la guida di Dio in qualsiasi modo e cerchiamo sempre di avere coraggio di alzarci in piedi e parlare con educazione e moderazione, ma proferendo la Verità! Infine, non permettiamo che questi tempi difficili ci faccino sentire una vittima impotente. Non cediamo a sentimenti di insicurezza o di vera e propria paura. Combattiamo attivamente la tentazione di rinchiuderci in una confortevole passività e sottomissione contro il nostro miglior giudizio. Lasciamo che la nostra mente pensi al di fuori della narrazione dominante. Disciplinati per mettere in discussione rispettosamente l'autorità e le opinioni dei cosiddetti esperti.
Può sembrarci impossibile come individui possiamo combattere contro la corruzione della mente collettiva. Tuttavia, possiamo riprendere il potere dalle istituzioni anonime. Il cambiamento avviene quando rifiuteremo di essere condizionati dallo status quo. Il cambiamento avviene quando rifiuteremo di accettare silenziosamente la narrazione onnipresente. Come ci ha insegnato Santa Teresa d'Avila: Cristo non ha altro corpo ora se non il tuo./Nessuna mano, nessun piede sulla terra se non i tuoi./I tuoi sono gli occhi attraverso i quali guarda con compassione questo mondo./I tuoi sono i piedi con cui cammina per fare del bene./Le tue sono le mani attraverso le quali benedice tutto il mondo./Le tue sono le mani,/I tuoi sono i piedi,/I tuoi sono gli occhi,/Tu sei il suo corpo./Cristo non ha altro corpo ora sulla terra se non il tuo. Per approfondimenti: _Fürst Leo von Hohenberg: „Wir befinden uns in einem spirituellen Krieg“
_Fürst Leo von Hohenberg: "Wir werden global-zentralistisch gesteuert"
 
 
 
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di Giuseppe Baiocchi del 11/02/2024

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I grandi cacciatori mitteleuropei, così come le grandi cacce della nostra recente antichità venatoria europea, trasmettono sempre un fascino romantico verso un’epoca passata gloriosa e piena di tradizioni. Il “cacciatore” di questi tempi prestigiosi, aveva un profilo molto diverso dal cacciatore odierno, poiché quella che appunto veniva definita “arte venatoria”, era in realtà l’essere votati completamente verso la caccia: una vera e propria professione. Questi uomini rappresentano la vera tradizione venatoria austriaca: per lo più proprietari terrieri, fungevano anche da veri e propri “ambientalisti” della conservazione, fungendo di rimando ovviamente anche da modelli per la società dell’epoca.

[caption id="attachment_16218" align="aligncenter" width="1000"] L'imperatore Franz Joseph I posa dopo aver abbattuto un cervo presso Karapancsa nel 1896. Foto originale dell'arciduchessa Isabella d'Austria.[/caption]
Con il passare del tempo, tutto diventa storia e le memorie di questi “antichi signori”, come li chiamano affettuosamente oggi i parenti, soddisfano bene la loro passione. L’amore per la natura e la caccia erano lo stesso comune denominatore, il vivere questa passione variava a seconda del carattere di ognuno di loro. Certamente l’Austria di fine Ottocento ed inizio Novecento possedeva un numero di selvaggina molto superiore all’epoca odierna per via della minore urbanizzazione dell’uomo e soprattutto la caccia era una professione incentivata dallo Stato: da qui le grandi battute storiche e i grandi raccolti di selvaggina autoctona. Sotto l’Impero dell’Austria-Ungheria vigeva l’antico motto A.E.I.O.U. «Alles Erdreich Ist Österreich Untertan», ovvero «Tutta la terra è soggetta all’Austria», ma con la caduta della monarchia danubiana le imprese dei grandi cacciatori erano concluse e le loro tenute – in grande quantità – confiscate dai nuovi Stati nazionali.
I frammenti e i racconti ci pervengono quando nel 1984 due aristocratici sono a dialogo fra loro: da una parte il conte László Szápáry e dall’altra il barone Ernst Edwin Offermann. Capitava spesso che i due discutessero fino al mattino degli incidenti della giornata di caccia nel loro Pavillon. Durante le conversazioni non veniva mai riprodotta alcuna cassetta né presi appunti scritti perché ciò distraeva i signori da ciò che avevano da dire! Tra gli svariati invitati lo scrittore Klaus Neuberger (1955) continuava spesso tali conversazioni ascoltando incredulo l’enorme quantità di storie e aneddoti; analoga situazione avveniva con il barone Offermann. Solo successivamente, ciò che veniva ascoltato fu richiamato dalla memoria e trascritto: con il conte Karl Draskovich, il conte Franz Meran e Hans von Kienast iniziarono le trascrizioni durante le conversazioni.
[caption id="attachment_16219" align="aligncenter" width="1000"] Pranzo propiziatorio di caccia agli inizi del secolo scorso a Vienna.[/caption]
Di conseguenza, molte storie emerse gradualmente e costantemente ascoltate, sono state scritte e sono state condotte molte interviste. Nel modo in cui venivano poste le domande, venivano ricordate e interrogate varie personalità, e i narratori rivelavano i loro personali ricordi, con lo scopo di creare un piccolo monumento scritto a queste persone e ai grandi della caccia, per salvare dall’oblio odierno le loro esperienze e alcuni aneddoti e per regalare al lettore alcuni momenti belli e interessanti mentre legge il grande e glorioso passato: un riflesso storico che vedrà le gesta venatorie dei Laszlo Szapary, Albrecht von Bayer, Carl Hugu Seilern, Feri Meran, Ernst Edwin Offermann ed altri. Dunque cos’era la caccia? Il grande cacciatore dei Carpazi Herbert Nadler (1883 - 1951) scrisse: «chi non ha mai visto l’alba dopo una partita mattutina e non ha mai visto il risveglio del giorno, non sa cosa sia la caccia». Per il famoso cacciatore e scrittore di caccia conte Zsigmond Széchényi (1898 - 1967), «la caccia è devozionale», e il filosofo José Ortega y Gasset (1883 - 1955) affermava: «Si uccide per aver cacciato […] ecco perché vai a caccia, quando sarai stanco di essere nel XX secolo, prendi la tua pistola, fischietta al tuo cane e vai nel bosco e concediti qualche ora di divertimento, per tornare ad essere un uomo dell’epoca antica».
“I bei vecchi tempi” a Vienna erano dunque un’epoca in cui era ancora possibile organizzare cacce di massa e lasciare che tutta la passione e la professione diventassero quasi religiose. Un tempo che non è più, con circostanze e condizioni che non esistono più. Proprio la società dell’epoca rese possibile tale pienezza atmosferica. C’erano ancora saloni e cocktail, séjour e pomeriggi a carte. Il biliardo era ancora di moda, nei club si giocava anche a bridge (St. Johann, Jockey Club), dopodiché di tanto in tanto si faceva visita al Red Bar dell’Hotel Sacher o al Bristol Bar. Il bacia mano alle dame era più di una semplice formalità galante, era ancora uno stile di vita, non una parola popolare. Si viveva ancora in castelli, ville, palazzi cittadini o in residenze feudali lungo la Ringstrasse o in grandi appartamenti nel terzo e quarto distretto. E non sono solo i rappresentanti dell’aristocrazia erano coloro che portavano avanti l’arte venatoria, ma anche la borghesia benestante dava il suo contributo: industriali che producevano mattoni, producevano birra o barbabietola da zucchero lavorata, così come costruttori, produttori tessili e di seta, avvocati e altri. Se uno dei signori del pomeriggio voleva premiarsi, o magari incontrare qualcuno con cui discutere di questioni di caccia, si recava al Cafe Demel, il tanto decantato tempio dei dolciumi sul Kohlmarkt. Dal K.u.K. Hofzuckerbacker si poteva inoltre portare un regalo alla moglie rimasta a casa e proprio lì, dal 1936 in poi, l’artista di alto livello conte Friedrich Berzeviczy-Pallavicini (1909 - 89) decorò magistralmente le vetrine con le sue famose e ineguagliabili decorazioni, dove molti curiosi si recavano periodicamente in pellegrinaggio per ammirare le sue ultime creazioni. Successivamente si recò a New York via Parigi. Allora la comunicazione, se non parlata di persona, si chiamava ancora “corrispondenza”. C’erano ancora spettacoli di varietà e locali notturni dignitosi. I protagonisti si incontravano nei club maschili e all’ippodromo e molti avevano la propria scuderia (ad esempio Stall Seilern e Stall Meran).
[caption id="attachment_16221" align="aligncenter" width="1000"] Casa Imperiale Austriaca per l'Esposizione internazionale della caccia - Padiglione della Bucovina, 1910.[/caption]
C’erano ancora maggiordomi, autisti e personale in livrea, cuochi propri – anche loro specializzati nella cucina di selvaggina – e gioiellieri specializzati in gioielli da caccia. Il titolo professionale del K.u.K, letteralmente “Imperiale e regio”. I fornitori della corte pagavano sempre qualcosa e ciò forniva grande pubblicità alle aziende. I negozi di armi avevano ancora un’ampia scelta di fucili nei calibri 12, 16 e 20, e talvolta 28 e 410. Era ancora di moda la località di villeggiatura estiva, dove naturalmente la popolare regione del Salkammergut offriva molte opportunità per la caccia al camoscio estivo. Questa zona era estremamente frequentata all'epoca grazie all’Imperatore Francesco Giuseppe. All’epoca e prima vi era rappresentata anche l’élite culturale, che vi svolse anche la sua opera creativa, dove i protagonisti ne trassero forza e ispirazione: Johann Nestroy, i pittori, poeti e musicisti Waldmüller, Bauernfeld, Nikolaus Lenau, Carl Millocker, Johann Strauss, gli attori Katherina Schratt e Alexander Girardi, e più tardi Franz Lehar e Ralph Benatzky. Oggi Klaus Maria Brandauer, il direttore d’orchestra Franz Welser Most e gli scrittori Barbara Frischmuth e Alfred Komarek sono i rappresentanti culturali di spicco della omonima regione. L’imperatore stesso amava molto il pittore e cacciatore Friedrich Gauermann (1807 - 12) e Franz von Pausinger (1839 - 1915), di cui conservò molti dipinti a Bad Ischl. In questo periodo, anche i “baroni del sale” e gli industriali del Greater Burgh tenevano i loro ricevimenti sociali nella zona. Il tempo in cui non si cacciava lo si trascorreva con la famiglia, rendendo omaggio, giocando a tennis, a carte e occasionalmente assistendo a concerti alle terme o dal pasticcere Zauner con il suo caffè annesso. Allo stesso tempo, si facevano trattamenti termali con salamoia in una delle numerose terme. Si organizzavano anche gli amori autunnali dei cervi di montagna e si affittavano battute di caccia all’interno dei latifondi. Si poteva addirittura far realizzare sul posto una tradizionale pelle di camoscio o ritirare le famose “barbe di camoscio” legate artisticamente l’anno precedente. Nei giorni in cui a Vienna non c’era la caccia, le persone si incontravano per caso mentre stavano aggiornando o ampliando la propria attrezzatura in uno dei numerosi e rinomati negozi di caccia della città, o anche semplicemente acquistando nuove munizioni. C’era il k.u.k. Springer, fornitore del tribunale del 1° distretto e di Josefstadt. Prima con Kalezky nella Babenbergerstrasse, poi con i maestri Denk, Mulacz, Kruschitz, Gschwantner e Brandeis. Il grande magazzino Groh in Kartnerstrasse aveva un proprio reparto di caccia: venivano acquistate grandi quantità di cartucce. Oppure le persone si incontravano nel 7° distretto presso il famoso tassidermista Hodek. Eduard Hodek (1827 - 1911) accompagnò il principe ereditario Rodolfo nelle battute di caccia e fu preferito dall’aristocrazia austroungarica per le sue abilità: il maestro Hodek lavorava con precisione e stile incomparabili. Lavorò anche per il Museo di Storia Naturale di Vienna e per la Haus der Natur di Salisburgo. Oppure si poteva acquistare armi con incastonature in argento presso l’argentiere di corte Halder – il padre fondatore dell’azienda era il gioielliere Franz Josef Halder (1884 - 1972) – in Michaelerplatz; ed ancora si poteva acquistare gioielli da caccia per donne. L’imperatore Francesco Giuseppe I fu il primo acquirente della leggendaria figura mitologica dello “Jagdsau” (Cinghiale da caccia mitologico) nel 1910. La miniatura avente forma di cinghiale, possedeva in capo dei palchi di cervo ed al posto della coda due palchi di camoscio: le orecchie avevano due grandi foglie ed al centro della bestia era incastonato un rubino, che simboleggiava il sangue e il desiderio della preda. Haldersau su marmo di Salisburgo fu composto – ed è ancora in produzione presso “Halder Juwelier und Silberschmied” con argento, granato, marmo di Salisburgo e la leggenda narra che porti fortuna al cacciatore. Così nel 1910 l’Imperatore, quando aprì in suo onore la prima esposizione mondiale della caccia, Franz Halder presentò questo gioiello speciale: Francesco Giuseppe, accompagnato dal suo seguito, chiese cosa fosse questo nuovo oggetto e Halder spiegò il simbolismo umoristico a Sua Maestà; così Sua Maestà Imperiale e Regia preso il gioiello, lo consegnò a uno dei suoi aiutanti, noto per la sua mancanza di precisione, con le succinte parole «guarda, principe; forse questo migliorerà le cose». Il disegno di questa produzione proviene dal professor Waldmüller, discendente diretto del famoso pittore Biedermeier.
[caption id="attachment_16220" align="aligncenter" width="1000"] La leggendaria figura mitologica dello “Jagdsau” (Cinghiale da caccia mitologico) creato nel 1910. La miniatura avente forma di cinghiale, possedeva in capo dei palchi di cervo ed al posto della coda due palchi di camoscio: le orecchie avevano due grandi foglie ed al centro della bestia era incastonato un rubino, che simboleggiava il sangue e il desiderio della preda. Altra tradizione era rappresentata dai distintivi venatori della rispettiva zona geografica. Modelli eleganti con lavorazioni molto solide caratterizzano gli esemplari della ditta Halder, tradizione anch’essa oggi viva nell’antico negozio viennese in Reitschulgasse 4.[/caption]
Una tradizione dell’epoca d’oro della caccia era la presentazione del distintivo di caccia della rispettiva zona geografica. Modelli eleganti con lavorazioni molto solide caratterizzano gli esemplari della ditta Halder, tradizione anch’essa oggi viva nell’antico negozio viennese in Reitschulgasse 4. Le persone indossavano ancora copricapi individuali e i distintivi di caccia degli antichi maestri erano presentati sui copricapi venatori con grande orgoglio. I tessuti venivano acquistati o confezionati su misura al Loden Plankl, a pochi passi da Michaelerplatz, o da Turczynski a Wollzeile. La ditta Morz in Mariahilferstrasse ha risolto i problemi relativi alle scarpe. La già citata Esposizione Mondiale della Caccia fu un evento straordinario e un’opera d’arte in cui è stato presentato il meglio dell’arredamento e della cultura venatoria. Le officine viennesi e la ditta Thonet hanno lavorato e costruito falegnamerie appositamente per questa mostra. E i grandi detentori del territorio della monarchia hanno sfoggiato i loro trofei unici e prestigiosi. Questa è stata una parata di performance straordinaria e incomparabile. I cacciatori più famosi da ogni parte del mondo si sono riuniti. Non solo gli amministratori forestali ne hanno parlato, ma tutti i cacciatori furono molto orgogliosi di questo evento unico, che ha portato anche alti profitti. Alcune persone furono ispirate a intraprendere nuove battute di caccia, così furono stabiliti contatti e firmati contratti di tiro. Questa grande mostra ha avuto per molto tempo un’influenza duratura sulla scena della caccia e ha plasmato anche il lato dei produttori e persino l’intero settore della caccia. Fu eretto un monumento all’ego della caccia in quanto le foto venivano pubblicate in numerose riviste venatorie, quando i maestri cacciatori annunciavano i loro percorsi o, come fece ad esempio il conte Rudolf Chotek, il quale descriveva ogni giorno l’esperienza dell’amore del cervo in interi saggi che furono pubblicati insieme alle fotografie. La notizia dei grandi percorsi per la caccia-bassa di Totmegyer si diffuse all’epoca sulle riviste indiane. Durante la stagione autunnale la caccia-bassa, che proseguiva fino all’inverno, godeva di una buona reputazione e molti tiratori avevano tempo a disposizione e disponevano anche dei mezzi finanziari necessari e della relativa indipendenza, per trascorrere settimane venatorie. Tutti avevano dei buoni aiutanti con i quali si aveva già molta esperienza e routine. Il lavoro del cacciatore distrettuale, dell’allevatore di selvaggina, perfino dell’allevatore di cani, del boxmaker, del pastore e di altre professioni specializzate era molto stimato, e c’era anche la professione di maestro fagiano.
[caption id="attachment_16223" align="aligncenter" width="1000"] Gruppo di escursionisti: al centro Francesco Ferdinando, Alfonso XIII in piedi davanti a un albero a sinistra, l'arciduca Federico a destra, Halbturn, 1906.[/caption]
Grande rispetto è stato riservato al personale. Le grandi cacce si svolgevano durante la settimana, di solito martedì e giovedì, a volte per più giorni. I maestri di caccia preferivano i buoni tiratori e gli inviti arrivavano principalmente in base alla qualità di tiro dei partecipanti e non in previsione di inviti di ritorno. In alcuni casi, però, gli inviti si basavano anche sul talento dell’intrattenitore. Naturalmente qua e là il grande nome di un allevatore di piccioni di successo aggiungeva valore alle liste degli inviti. E sui percorsi e sui rifugi delle altre cacce si sapeva molto e quasi tutto, in parte pubblicato anche sulle riviste specializzate. C’erano ancora fumettisti venatori ed uno o due scrittori di caccia si univano spesso alle squadre per raccogliere esperienze e storie, raggiungendo un’alta reputazione letteraria. Di conseguenza, gentiluomini avventurosi e ben navigati stuzzicarono il loro appetito per l’Africa, il Canada e persino l’India, ed attraverso i cronisti, le loro storie di caccia attraversavano il globo tramite diverse pubblicazioni di successo. Il richiamo dell'Africa, era glorioso, ma pericoloso: Fritz Schindelar di Vienna, lavoro nel continente africano come cacciatore professionista; tuttavia, Schlinder rinomato per i suoi calzoni bianchi immacolati e gli stivali lucenti, per la sua audacia e il suo essere donnaiolo, fu ucciso intorno al 1912 mentre assisteva il miliardario regista americano Paul Rainey, nel fotografare un leone che caricava verso la telecamera. I viaggi tra le cacce individuali, alternate, tra Boemia, Moravia, Slovacchia, i paesi dei Carpazi, Vojvodina, Ungheria e Austria erano molto faticosi. E poi ci sono i viaggi all’estero. Si viaggiava molto in treno, anche con l’O.K.W., ma si verificavano comunque molti guasti, soprattutto danni ai pneumatici sulle cattive strade di campagna. Alcune persone arrivavano a caccia solo all’ultimo momento, quando si mettevano in fila, dopo aver viaggiato tutta la notte – provenendo da un’altra battuta di caccia il giorno prima. I Waidmanner e gli Schützen spesso avevano bisogno nella loro vita di diversi libri di caccia e di tiro per documentare i loro percorsi e le loro esperienze. Anche i medici partecipavano spesso alle battute di caccia, per ragioni di sicurezza e per rassicurare, così da poter intervenire tempestivamente e con competenza in situazioni di particolare importanza (colpi di rimbalzo) e in un possibile incidente di caccia. Le massaie servivano ancora il pranzo nel campo o curavano la degustazione. Ultime, ma non meno importanti, le varie mostre di caccia (come quella annuale di Budapest) mostravano agli appassionati cosa era stato ucciso da chi e dove e le persone potevano confrontare gli esemplari. I cacciatori professionisti che confermavano un determinato capriolo al loro capocaccia o l’ora della loro partenza seguivano il rintocco dell’orologio del campanile di una chiesa vicina, oppure utilizzavano il proprio orologio da tasca. In breve: era il tempo dei grandi gentiluomini, delle grandi cacce, delle grandi distanze, dei tiratori eleganti e bravi, il tempo del saper vivere e la gente amava la compagnia, soprattutto la battuta di caccia. Le persone cacciavano al massimo e si vivevano bene, nell’organicità del mondo. Oggi, coloro che ricordano quelle persone pensano ancora di poter “sentire” il suono delle loro parole e la melodia dei loro racconti: a venatione mihi salus.
 
Per approfondimenti:
_Frevert Heinke, Meine Waidmänner und ich, BLV Verlagsgesellschaft, Monaco, 1965; _Erste Internationale Jagd Austellung Wien 1910; _Nadler H., Spari nel bosco. Dal mio diario di caccia, Bietti, Milano, 1965; _Neuberger K., Tolle Zeiten & Grosse Jäger, Bernodorf, 2009.
 
 
 
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di Francesca Angelini del 27-02-2021

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“La Chiesa è il Vangelo che continua”, in questo modo viene definita dal cardinale svizzero Charles Journet (1891 - 1975). In molti altri hanno tentato di descriverla, spesso in modo scorretto, ognuno modellando la propria definizione in base al personale punto di vista ed al tipo di rapporto intrattenuto con essa - quasi il Vangelo fosse emblema del relativismo odierno. Per capire cosa sia realmente la Chiesa è però necessario partire dalla sua origine e ripercorrere le tappe storiche con le conseguenti vicissitudini affrontate. La Tradizione fa risalire la sua nascita all’evento di Pentecoste, riportato negli Atti degli Apostoli: "Vi tramsetto quello che ho ricevuto" amava ripetere Monsignor Marcel Lefebvre, ed ancora tradere significa "trasmettere".
[caption id="attachment_12395" align="aligncenter" width="1000"] La cattedra di San Pietro (in latino Cathedra Petri) è un trono ligneo, che la leggenda medioevale identifica con la cattedra vescovile appartenuta a san Pietro apostolo in quanto primo vescovo di Roma e Papa. Quello che si conserva è un manufatto del IX secolo, donato nell'875 dal re dei Franchi Carlo il Calvo a papa Giovanni VIII in occasione della sua discesa a Roma per la propria incoronazione a imperatore. L'opera del Bernini è collocata nell'abside di fondo della Basilica Vaticana, aggettante con effetto scenografico dalla cornice architettonica delle lesene. Al centro si trova il trono in bronzo dorato, al cui interno è situata la cattedra lignea vera e propria. Su un drappo frontale è rappresentata la traditio clavum (la "consegna delle chiavi", ovvero l'atto secondo cui, nella dottrina cattolica, Cristo conferisce a Pietro il primato papale). Quattro colossali statue anch'esse in bronzo, raffiguranti quattro dottori della Chiesa (in primo piano sant'Agostino e sant'Ambrogio per la Chiesa latina e in secondo piano sant'Atanasio e san Giovanni Crisostomo per la Chiesa greca), sono rappresentate nell'atto di sorreggere la cattedra, che pare librarsi senza peso su nuvole di stucco dorato.[/caption]
Secondo l’evangelista Giovanni, ha inizio dal costato ferito di Gesù sulla croce nel momento in cui questi dona lo Spirito. Il quarto evangelista mostra la Chiesa come dono di Dio e sottolinea il carattere trinitario della sua nascita, infatti, nasce dal Padre, per mezzo del Figlio, con l’aiuto dello Spirito.
Il termine Chiesa deriva dal greco ekklēsía, con cui si indicava l’assemblea pubblica dei cittadini. Questo vocabolo è stato poi utilizzato dalla Bibbia dei Settanta (versione della Bibbia in lingua greca) per tradurre l’ebraico qahal, con cui si intendeva la convocazione del popolo da parte di Dio, oppure per tradurre l’ebraico edah, con cui si chiamava la comunità raccolta per pregare o il luogo di preghiera. I due termini hanno diverse sfumature in quanto il primo indica maggiormente una convocazione passiva, mentre il secondo un raduno attivo.
Nel Nuovo Testamento l’ecclesia (termine latino) non è la sinagoga che è, invece, la comunità degli ebrei. Utilizzando il termine al plurale si indica una particolare Chiesa locale, invece, al singolare l’insieme di tutte le Chiese. È da tenere presente che nell’Antico Testamento non è possibile parlare di Chiesa nel senso moderno del termine, ma in quello originario, per questo motivo è un concetto che viene espresso con varie immagini come quella del “popolo di Dio”, che racchiude un aspetto storico visibile (popolo) ed un aspetto teologico invisibile (Dio). Espressione usata dopo l’esilio perché Israele acquisisce sempre "maggiore coscienza" di essere il popolo eletto che appartenendo a Dio non appartiene a se stesso, a differenza degli altri popoli definiti come le “genti”. Un’altra espressione usata è “alleanza”, Dio vuole stabilire un’alleanza e libera con essa, all’alleanza sinaitica Israele deve sentire il bisogno di rispondere con la fedeltà. Altro termine è “resto di Israele”, utilizzato nel periodo dell’esilio, indica la piccola porzione degli israeliti che è riuscita a rimanere fedele.
Si potrebbe facilmente pensare che il fondatore della Chiesa, intesa come l’istituzione odierna, sia Cristo, ma occorre fare delle precisazioni. Spesso si utilizza la celebre frase del Vangelo secondo Matteo Tu es Petrus, et super hanc petram aedificabo ecclesiam meam – Tibi dabo claves Regni Caelorum (Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevaranno contro di essa - Mt 16,18) per sostenere questa idea, ma l’espressione va intesa in senso post pasquale, infatti, la Chiesa per Matteo è opera del Risorto e vive con lui, inoltre l’evangelista sottolinea la sua natura apostolica e l’importanza di Pietro. Quindi, se per fondazione si intende la forma giuridica, Gesù non l’ha fondata. Cristo ha parlato di un Regno e raccoglie cerchi concentrici di persone che ruotano intorno a lui: i dodici apostoli, i settantadue discepoli, la folla, indicando una connessione tra Regno e comunità. Il suo scopo non era radunare persone per creare una Chiesa come forma giuridica vicino la già esistente comunità di Israele, ma per fondare Israele stesso, un Israele escatologico, mostrando un’apertura verso tutti. In poche parole non ha fondato la Chiesa, ma l’ha preparata. La sua nascita effettiva avviene con il mistero pasquale.
Per l’evangelista Marco la Chiesa è universale, aperta ai giudei ed ai pagani - affinché tendino alla Verità cristica, dunque alla conversione -, ed è chiamata a seguire Gesù fino alla croce e ad ascoltare la Parola e a metterla in pratica. Mette anche in evidenza la fragilità propria della comunità.
Secondo l’evangelista Luca il peccato della Chiesa è l’attaccamento di alcuni suoi membri ai beni terreni. Inoltre l’esperienza del martirio è un evento fondamentale per la sua coscienza, infatti, usa il termine Chiesa, mai usato nel suo Vangelo, negli Atti degli apostoli ad esempio dopo il martirio di Stefano. Negli Atti, poi, è evidenziata la dimensione ministeriale della Chiesa, che è una comunità organizzata gerarchicamente. Per Luca il tempo della Chiesa è il tempo dello Spirito che la sostiene sempre ed è donato a tutte le persone a partire dal Battesimo.
Nemmeno nel Vangelo di Giovanni compare il termine ecclesia, ma solo nella sua terza lettera. È interessato alla dimensione intima della Chiesa, la koinonìa (comunione) tra Gesù e i discepoli e interna a questi ultimi. La Chiesa è la schiera dei credenti in Cristo, non dà importanza all’aspetto istituzionale, ma presenta un’ecclesiologia universalista. Nell’Apocalisse, Gesù ricorda tutto l’amore che ha avuto per la Chiesa. Essa vince il male con la propria testimonianza. L’ultimo libro della Bibbia finisce con l’immagine della Chiesa celeste. San Paolo è il primo ad utilizzare la parola ecclesia per indicare la comunità locale. Invece nelle lettere deuteropaoline (composte successivamente alla sua vita, ma attribuite a lui) il termine viene usato per indicare quella universale. Per l’apostolo la Chiesa è corpo mistico di Cristo come è evidente soprattutto nella frase contenuta nella lettera ai Corinzi “Ora voi siete corpo di Cristo e le sue membra, ciascuno per la sua parte.” (1Cr 12,27). Nei secoli la Chiesa ha vissuto varie trasformazioni che hanno rispecchiato il particolare periodo storico attraversato. Nella patristica (filosofia cristiana dei primi secoli) è vista come: “mistero”, “Corpo di Cristo”, “comunione dei Santi”, “tempio di Dio”. Nello specifico i padri dei primi tre secoli utilizzano l’immagine della barca, per i latini Pietro ne è al timone. Prima del IV secolo è vista come mistero, successivamente come Impero. Questo è dovuto agli importanti fatti storici che hanno caratterizzato questo secolo: l’Editto di Milano dell’Imperatore Costantino del 313 sulla libertà di culto e l’Editto di Tessalonica dell’Imperatore Teodosio con il quale il cristianesimo diventa la religione ufficiale dell’Impero. La Chiesa, quindi, perde la sua dimensione escatologica, ma ha uno sguardo fisso sul presente. La Chiesa, precedentemente all’anno 1000, era detta “Corpo di Cristo” e l’Eucaristia “Corpo mistico di Cristo”. Dopo il 1000 d.C. avviene un capovolgimento per cui l’Eucaristia viene indicata come “Corpo di Cristo” e la Chiesa come “Corpo mistico di Cristo”, cambiamento fatto per difendere la presenza reale di Gesù nell’Eucaristia. Nel 1054 si colloca lo scisma tra Chiesa d’Oriente e Chiesa d’Occidente che presentano ecclesiologie differenti in quanto in Oriente prevale un’ecclesiologia di comunione fra le Chiese, invece, in Occidente si subisce l’influsso della Riforma gregoriana (XI secolo) e successivamente dell'eresia luterana (XVI secolo).
[caption id="attachment_12396" align="aligncenter" width="1000"] Il notissimo ritratto di papa Giulio II della Rovere, realizzato da Raffaello Sanzio a Roma (particolare), si trova alla National Gallery di Londra.[/caption]  
Papa Gregorio VII vuole una Chiesa libera dal male, scomunica Enrico IV per il suo rifiuto di rinunciare a nominare i vescovi, il quale, per ottenere la revoca della scomunica, si umilia attendendo tre giorni e tre notti in ginocchio sulla neve davanti al portale d’ingresso del castello di Matilde di Canossa prima di essere ammesso al cospetto del Pontefice, nell’episodio storico noto come l’Umiliazione di Canossa. Redige il Dictatus Papae, raccolta assiomatica di ventisette affermazioni sui poteri dei pontefici, sono elencati, quindi, i princìpi della Riforma gregoriana che dà il via ad un’ecclesiologia dove il Papa è centrale come il ruolo di Roma. Chiesa intesa come societas perfecta. Prima della riforma tutti i vescovi erano considerati il vicario di Cristo, tutte le Chiese fondate da un apostolo oppure che avevano ricevuto una lettera da un apostolo erano considerate una sede apostolica.
I capisaldi dell'eresia luterana, oltre l'aspetto politico della sottomissione ai Conti Elettori tedeschi e la lotta alla vendita delle indulgenze, sono: sola scriptura e sola fide, indicando con il primo l’esclusività della Parola a discapito della Tradizione, invece, con il secondo l’egemonia della fede contro le opere. In termini liturgici Lutero attua tre delle due caratteristiche che oggi la Chiesa attua: in primis non vi è più la transustanziazione - dunque manca il Santissimo, poi per conseguenza il "prete" non deve dare più le spalle ai fedeli, che divengono centrali nella conferenza e abolisce la lingua universale del latino a favore di quella vernacolare. 
Per Martin Lutero la Chiesa non è un impero, infatti, il potere spirituale è separato da quello temporale, non è volontà divina che i vescovi abbiano il potere. Predica, inoltre, l’importanza del sacerdozio universale dei fedeli per cui non solo il Papa, ma tutti possono leggere ed interpretare la Bibbia. Per rispondere all'eresia protestante è stato istituito nel 1545 il Concilio di Trento che mette al centro il Vangelo, i Sacramenti (la Riforma accetta, invece, solo il Battesimo e l’Eucaristia) e la gerarchia. Si ribadisce che la Chiesa è una società perfetta e si insiste sulla potestà pontificia. Successivamente nell’illuminismo (XVIII secolo) si sottolinea la centralità del diritto nella Chiesa facendole perdere l’aspetto soprannaturale ed sarà solo sotto il beato Pio IX nel 1868 che sarà convocato il Concilio Vaticano I che fu il primo Concilio che intende affrontare in maniera sistematica il tema della Chiesa.
 
[caption id="attachment_12397" align="aligncenter" width="1000"] Il concilio di Trento o concilio Tridentino fu il XIX concilio ecumenico della Chiesa cattolica, convocato per reagire alla diffusione dell'eresia protestante in Europa. L'opera svolta dalla Chiesa per porre argine al dilagare della diffusione della dottrina di Martin Lutero produsse la controriforma.[/caption]
Viene emanata la Costituzione apostolica Pastor Aeternus (costituita da un prologo e da quattro capitoli) che, già nello schema preparatorio, presenta un aspetto mistico in quanto si abbandona la categoria della società perfetta e, al contrario, si sottolinea la categoria del Corpo mistico di Cristo essendo la Chiesa una società soprannaturale e spirituale. Nel documento definitivo è centrale l’aspetto dell’infallibilità pontificia quindi il potere papale è di diritto divino, potere pieno senza mediazioni sulla materia di fede, dei costumi e sulla materia ecclesiale. L’infallibilità non ha bisogno del consenso della Chiesa essendo un carisma proprio del pontefice. Il papa è superiore al concilio.
Nel 1959 Giovanni XXIII convoca il Concilio Vaticano II, esprimendo nell’annuncio la sua idea di Chiesa in dialogo con il mondo e non in opposizione con i suoi aspetti moderni. Dunque essendo il mondo del maligno (luciferino) che propone mode terrene e la Chiesa si oppone ad esse grazie alla Verità di Cristo scritta nel Magistero, si evince già l'errore dottrinale: la Chiesa si adegua al mondo. Viene, poi, continuato e portato a termine nel 1965 da San Paolo VI. Il Concilio ha emanato numerosi documenti, alcuni dei quali trattano nello specifico il tema della Chiesa. Il primo fra tutti è la Costituzione dogmatica Lumen Gentium (costituita da otto capitoli) che si mostra rivoluzionaria nel presentare la Chiesa non tanto in forma gerarchica, ma come popolo di Dio, superando, quindi, la sua concezione clericale. Antepone la stessa trattazione sul popolo di Dio a quella sulla costituzione gerarchica, tanto che si parla di “rivoluzione copernicana”.
Viene ribadita la Chiesa come “Corpo mistico di Cristo”, al cui interno ci sono diversi compiti e diversi doni ed è lo Spirito a renderla un Corpo solo (orizzonte pneumatologico). Viene recuperato anche l’orizzonte agapico perché i diversi carismi non sono questione di potere, ma di amore. La Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa cattolica, con sussistenza si vuole indicare la piena identità, ma non si tratta di una realtà escludente, infatti, il documento ha un profilo inclusivista secondo il quale Cristo ha salvato tutti (cristocentrismo). Nella Chiesa cattolica c’è la pienezza dei mezzi di salvezza, nelle altre confessioni ce ne sono comunque alcuni.
La Costituzione pastorale Gaudium et Spes (costituita da proemio, prima e seconda parte e conclusione) afferma che la Chiesa deve dialogare con il mondo, cogliere i segni dei tempi e la grazia presente. Con il dialogo "adempie la sua missione" perché non deve solo trasmettere la verità, ma anche imparare dal mondo (non possedendo più un'unica Verità, quella Cristica).
Questa esposizione dei fatti storici principali riguardanti la Chiesa la mostra come una realtà in continuo rinnovamento, ma che nella sua essenza rimane sempre la stessa e per captare questa sua essenza ci si può affidare alle note (proprietà essenziali) con cui è stata definita dal simbolo niceno-costantinopolitano risalente al Concilio di Nicea (325).
La Chiesa è Una perché questa è l’intenzione di Cristo, l’unità richiama l’unicità (alle nuove tesi) ed entrambe si trovano all’interno della molteplicità che non è nemica dell’unità. La divisione non è da intendere come molteplicità, ma come peccato (qui il paradosso discusso da molteplici teologici). La Chiesa è santa in quanto è composta da santità e peccato, ma Cristo è venuto per la salvezza di tutti. È indistruttibile perché anche se perseguitata non può essere annientata. È indefettibile perché anche se al suo interno ci sono peccatori è accompagnata fino alla fine dei tempi da Cristo. È infallibile perché anche se può sbagliare non può essere preda della potenza del male.
La Chiesa è cattolica che significa universale perché riflette la volontà salvifica di Dio che si è fatto carne per tutti gli uomini. La Chiesa è apostolica nel senso di inviata da Dio per mezzo di Cristo. L’apostolicità per sua natura è profetica quindi genera continuamente la parola di Dio in mezzo all’umanità. Un cambiamento, questo, che genera ancora importanti discussioni nel mondo cattolico.
 
Per approfondimenti:
 _Wiedenhofer S., La Chiesa. Lineamenti fondamentali di ecclesiologia, San Paolo.
 
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di Giuseppe Baiocchi del 04/09/2020

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Uno dei personaggi celebri che cercarono di rovesciare nel 1944 Adolf Hitler (1889 - 1945), così affermava poco prima della sua esecuzione: «Colui che conserva nel suo petto puro ed immacolato la fede di un fanciullo e osa vivere contro la derisione del mondo – come sognava da bambino – fino all’ultimo giorno: questo è un uomo»! Quell’uomo era Henning Hermann Robert Karl von Tresckow (1901 - 44), martire della Germania moderna e forse questa frase, più di ogni altra, identifica il nuovo saggio edito dalla casa editrice tedesca Wolff Verlag. Leggendo l’opera di don Philipp Maria Karasch (1984) e del professore Daniel Plassnig (1990) non si può non rimanere impressionati dalla singolarità della loro fatica letteraria, che prende il titolo tedesco di Träumer Kämpfer Gentleman: una guida per la moralità dell’uomo di oggi, all’insegna dei valori tradizionali dell’Europa. 
In una realtà sociale, dove dominano modelli di moralità contrari alla nostra storia e esempi degenerativi sui comportamenti e sulla presentabilità delle persone, sicuramente questo prezioso scritto, formalmente un vademecum per l’uomo contemporaneo, dimostra di scavare davvero in fondo al nostro animo.
Le epoche passate, con tutte le loro vicissitudini e i diversi sistemi sociali, avevano una cosa in comune: la conoscenza di dove si trovava l’uomo e cosa ci si poteva aspettare da lui. È stato procreatore e produttore, guerriero e inventore, avventuriero e poeta. Ha sempre avuto qualcosa da offrire. Ma poi, il suo stesso successo sembrò distruggerlo: la tecnologia lo ha privato del lavoro, l’intera produzione alimentare è stata industrializzata, e anche le guerre diventarono in gran parte anonime. L’uomo può vegetare in casa, perdendo metà della sua vita in mondi digitali illusori. Egli non è più legato ad un ciclo biologico – né in guerra, né nel guadagnarsi da vivere, né nella procreazione. Tutto è a sua disposizione sempre e ovunque. Così, le sue pulsioni mentali e fisiche sembrano essere diventate paralizzate, adipose e desolate.
Come spiegare altrimenti che l’uomo sfugge in larga misura al ruolo che Dio gli ha destinato? Molti padri lasciano i propri figli da soli (se di figli ancora ne vengono fatti), la frammentazione sociale viene silenziosamente accettata, il patrimonio culturale viene distrutto e non si trova nessuno che lo difenda. La lista potrebbe continuare all’infinito. D’altro canto, come il saggio ci invita a riflettere, la virilità nel culto del corpo è caricaturale su ogni manifesto pubblicitario, oppure si creano talvolta piccoli rifugi che prendono la forma di centri estetici o di templi del fitness, dove l’uomo può chiudersi in se stesso e abbandonarsi a un culto superficiale della mascolinità. Spuntano anche innumerevoli riviste per il “Signore del Creato”, il quale però si presenta come guscio vuoto, pallido nell’aspetto, che parallelamente mostra anche la volontà di riscoprire la consapevolezza del pericolo per la propria identità.
Sotto tutte le ceneri delle certezze bruciate, vi è un desiderio segreto installato nei cuori di molti uomini che risplende per quel qualcosa di Grande che vogliono servire, che vogliono scoprire e conquistare – per il quale vogliono morire. La repressione ed il tabù delle caratteristiche e delle virtù maschili sono penetrati persino nel sacro regno della vita ecclesiale. Anche se si dovrebbe assumere il contrario, considerando che l’ordinazione sacerdotale è riservata agli uomini, questi ultimi spesso si sentono fuori posto nella Chiesa, in quanto sembra che quest’ultima venga appannata da una patina di femminismo confuso e vuoto. Anche se ciò non parla in favore dell’uomo, al quale l’inganno del sentimentalismo superficiale impedisce di vedere la pretesa di Gesù sui suoi discepoli, l’obiettivo contrariamente deve essere quello di dimostrare che egli stesso ha bisogno della Chiesa, come quest’ultima ha bisogno di lui. Che egli troverà la propria vocazione solo attraverso un cristianesimo vero e sentito, che richiede sacrificio e dono di sé.
Da questo sentimento nasce il “vademecum per l’uomo”, al quale si antepone la triade del sognatore, del guerriero e del gentiluomo. Così che ogni lettore incline si ritrovi già nel titolo e intraprenda il viaggio esplorativo di una virilità raffinata.

Negli Stati Uniti d’America, ci sono innumerevoli opere contemporanee sul mercato del libro cristiano che si presentano in modo accattivante. Nei paesi di lingua tedesca e in Italia, tuttavia, l’editoria in questo contesto si distingue per la sua scarsa produzione. Nella misura in cui in Europa, prevale una diversa sensibilità linguistica, gli autori hanno deciso di raccontarsi e raccontare la loro idea maschile, che in realtà risulta poi essere quella dei nostri nonni e con uno sguardo più generalizzato, risulta essere quello della nostra storia. Alcune lobby, come sappiamo, stanno cercando di eliminare la storia: è sotto gli occhi di tutti.

Ed è proprio per questo che questo piccolo tomo, che tratta di virtù e atteggiamenti diversi che dovrebbero contraddistinguere un uomo, acquisisce ancor di più maggior valore. Ad ogni tematica trattata, con intelligenza, si prende un “personaggio” ad esempio che, nel concreto e come figura storica, da buon cattolico, può servire da mentore e da esempio per noi lettori scoraggiati. Ma questa Europa, oggi tecnocratica, nella quale non conta più l’appartenenza culturale di ogni popolo, ma unicamente viene osservato il mero dato finanziario per essere comunità, non si basa ancora sulla grecità, sulla cristianità, sulla filosofia tedesca del 900 e sulla storia delle grandi famiglie europee che l’hanno – de facto – plasmata? E non sono forse gli uomini citati in Träumer Kämpfer Gentleman ad essere tasselli di quella terra che calpestiamo e di quell’aria che respiriamo?

Uno dei punti fermi del saggio sembra essere la citazione di Ernst Jünger (1895 - 1998): «il coraggio è il vento che spinge verso lidi lontani, la chiave di tutti i tesori, il martello che forgia grandi imperi, lo scudo senza il quale non esiste cultura. Il coraggio è l’impegno della propria persona ad affrontare la conseguenza più dura, il salto dell’idea contro la materia, indipendentemente da ciò che ne può scaturire. Coraggio significa lasciarsi crocifiggere come individuo per la propria causa; coraggio significa confessare, nell’ultimo spasmo dei nervi, con il respiro spento, il pensiero per il quale si è resistito e si è caduti. Al diavolo un tempo che vuole portarci via il nostro coraggio e i nostri uomini»!

Sul tema della paternità, ad esempio, troviamo il Lord Cancelliere Thomas More (1478 - 1535) o Claus Philipp Maria Schenk conte von Stauffenberg (1907 - 44), i quali divengono sinonimo di orgoglio cristiano; il padre della Chiesa Aurelio Agostino d’Ippona (354 d.C. - 430 d.C.) ci fa riflette sulla vera amicizia e lo scrittore John Ronald Reuel Tolkien (1892 - 1973) viene citato come esempio di cavalleria. Alcuni fra gli altri temi trattano l’amore per la Patria, l’identità, la bellezza, il corpo e lo sport, il perdono, il desiderio.

Ogni capitolo inizia con un brevissimo profilo biografico del personaggio, seguito dall’argomento vero e proprio e si conclude con domande di riflessione o suggerimenti per l’attuazione di quanto letto. Gli autori austriaci, nella scelta dei personaggi, si sono soffermati su modelli di riferimento di lingua tedesca, sicuramente come atto d’amore e dolore che lo stesso odio tedesco ha avuto su se stesso. Ma anche l’attuale Italia trova alleati nativi in Filippo Romolo Neri (1515 - 95) e Pier Giorgio Frassati (1901 - 25). Ovviamente nessuno è specialista quando si tratta di tracciare modelli per il prossimo, tuttavia, gli autori sembrano comprendere quale è il loro personale obiettivo: un libro per se stessi e per tutti coloro che vorranno assaporarne l’incipit. Tuttavia, una delle riflessioni più toccanti del testo si installa propriamente sullo smarrimento dei valori giovanili, senza più cardini e punti di riferimento. L’affidarsi spesso a “consiglieri” sbagliati, spesso agli stessi media, sta facendo crollare la morale e l’etica dei giovani: gli autori sperano con questo piccolo saggio, di aver fatto un servizio a se stessi e agli altri. In realtà, tale vademecum, fornisce al lettore anche spunti per approfondimenti e indici di lettura su altri testi e saggi: affinché ci sia qualcosa anche per il sognatore, poiché non sono incluse solo opere filosofiche, teologiche o pratiche, ma anche una piccola selezione di narrativa. Il tutto si completa con una breve sezione di preghiera. L’opera è certamente arricchita da Sua Eccellenza Reverendissima Athanasius Schneider (1961), vescovo di Astana in Kazakistan, il quale ha contribuito alla prefazione: «Come Dio ha iscritto l’esser madre, la maternità, nella natura della donna, così ha iscritto l’essere padre, la paternità, nella natura dell’uomo. Ogni uomo dovrebbe quindi, con l’aiuto di Dio, elaborare sempre più chiaramente nella sua vita le caratteristiche del Padre; e queste sono soprattutto: prendersi cura degli altri, proteggere, difendersi, sacrificarsi per gli altri. Anche se non tutti gli uomini in questa vita sono un padre biologico, cioè un padre di famiglia, ogni uomo dovrebbe vivere le qualità paterne. Solo allora dà alla sua virilità una vera dignità e solo allora diventa felice, anche se con fatica e non senza una croce, ma felice». L’augurio certamente è quello di una rinascita spirituale, prima che fisica, che porti conforto sia all'Heimat degli autori e in seconda istanza anche a questa travagliata Europa: che sia di nuovo benedetta da uomini forti e disposti a fare sacrifici.
Per approfondimenti:
_Karasch-Plassnig, Träumer Kämpfer Gentleman, Wolff Verlag, Berlino, 2020.
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di Giuseppe Baiocchi del 01-09-2020

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Per chiarire il rapporto tra il Mutu ProprioSommorum Pontificum” di Benedictus PP. XVI (1927) e il processo di secolarizzazione della società contemporanea, bisogna necessariamente analizzare quest'ultimo termine. Non a caso lo stesso Ioannes Paulus II (1920 - 2005), in un suo discorso del febbraio 2002, affermava come: «purtroppo la metà dello scorso millennio, avuto inizio dal Settecento in poi, si è particolarmente sviluppato un processo di secolarizzazione che ha preteso di escludere Dio e il cristianesimo da tutte le espressioni della vita umana. Il punto di arrivo di tale processo è stato il laicismo, il secolarismo agnostico e ateo, cioè l’esclusione assoluta e totale di Dio, della legge morale naturale, da tutti gli ambiti della vita umana. Si è relegata la religione cristiana entro i confini della vita privata di ciascuno».
[caption id="attachment_12137" align="aligncenter" width="1000"] Xilografia Flammarion, un'opera enigmatica di un artista sconosciuto. La prima apparizione documentata è all'interno di L'atmosphère: météorologie populaire di Camille Flammarion (Parigi 1888, pagina 163, un lavoro sulla meteorologia per un pubblico generale), raffigurante un uomo che scruta attraverso la cortina dell'atmosfera terrestre che avvolge l'universo esterno (del 1888).[/caption]
Da tali parole emerge come la secolarizzazione sia un processo storico che ha inizio alla metà dello scorso millennio con l’umanesimo rinascimentale, che si articola nel Settecento con l’illuminismo e avrà il suo punto di arrivo nel laicismo e nel già citato – appunto – secolarismo agnostico e ateo che caratterizzano prima il marxismo e poi la società post-moderna. La meta, l’obiettivo è l’esclusione di Dio e del cristianesimo dalla sfera pubblica e la riduzione della religione a fenomeno puramente individuale. Si tratta di un fenomeno più volte denunciato, sia da Giovanni Paolo II, sia da Benedetto XVI. Il primo Pontefice citato, considera il secolarismo come l’esito radicale necessario della secolarizzazione e con ciò cade la distinzione tra una secolarizzazione “buona” ed una porzione di secolarismo vista come “perversione dell’idea di secolarizzazione”.
Difatti tra secolarizzazione e secolarismo non esiste una logica e coerente continuità. C’è chi crede che per evitare il secolarismo anti-cristiano, la Chiesa dovrebbe fare propria e “battezzare” la secolarizzazione: quasi una inevitabilità data dal processo storico. Se, diversamente, si rifiuta questa visione immanente e storicistica e si stabilisce un criterio che ci permetta di valutare gli eventi della storia alla luce di princìpi organici e trascendenti, non possiamo considerare in sé “positivo e buono” nessun fatto storico solo perché avvenuto. Come gli atti umani, i fatti storici – prodotti razionali e liberi dell’uomo – devono essere giudicati o in positivo o in negativo.
La società secolarizzata non può definirsi in sé neutra, ma va giudicata proprio perché siamo davanti non ad un processo inevitabile, ma ad un frutto di scelte culturali e morali dell’uomo. L’accettazione della secolarizzazione come un fatto storico inevitabile, porta inevitabilmente verso una filosofia e una teologia della secolarizzazione. La filosofia della secolarizzazione già implicita nell’umanesimo pagano, si forma nei circoli illuministici, viene portata nel XX secolo ad una sua coerenza logica da Gramsci nei suoi “Quaderni del Carcere” e penetra nella seconda metà del XX secolo nella teologia, prima protestante, poi cattolica con Dietrich Bonhoeffer (1906 - 45). Quest’ultimo, celebre pastore luterano, concepisce la storia del cristianesimo in chiave evolutiva, come un passaggio dall’età dell’infanzia, all’età adulta. Secondo Bonhoeffer l’adulto sarebbe quello che abbraccia il mondo e nel mondo si immerge e si immedesima, trovando a questa realizzazione la sua maturità: la sua celebre “maturità del mondo”, nella quale avviene l’espulsione del sacro da ogni ambito sociale e con l’estirpazione delle radici cattoliche dalla società.
Nel Seicento, un giurista Huig de Groot (1583 - 1645) aveva auspicato la nascita di un diritto liberato dalla metafisica. Fu proprio il batavo a coniare la formula etsi deus non daretur: un diritto naturale, come se Dio non esistesse. Bonhoeffer sapientemente, riprende questa formula e la applica alla teologia. Dissidente del partito nazionalsocialista tedesco, in carcere scriverà: «Non possiamo essere onesti senza riconoscere che dobbiamo vivere nel mondo etsi deus non daretur e appunto questo riconosciamo davanti a Dio. Dio stesso ci obbliga a questo riconoscimento, così il nostro diventare adulti, ci conduce a riconoscere in modo più veritiero la nostra condizione davanti a Dio. Egli ci dà la conoscenza, che dobbiamo vivere come uomini capaci di far fronte alla vita senza Dio. Il Dio che è con noi è il Dio che ci abbandona, il Dio che ci fa vivere nel mondo senza ipotesi di lavoro, è il Dio davanti al quale permanentemente stiamo».
[caption id="attachment_12138" align="aligncenter" width="1000"] Dietrich Bonhoeffer (1906 - 1945) è stato un pastore luterano, teologo, dissidente anti-nazista e fondatore della Confessing Church. I suoi scritti sul ruolo del cristianesimo nel mondo secolare sono diventati ampiamente influenti e il suo libro The Cost of Disipleship è stato descritto come un classico moderno.[/caption]
Da questa allocuzione, sappiamo come l’oggi Papa Emerito Joseph Ratzinger, prima di divenire Benedetto XVI, in un suo dialogo con Marcello Pera (1943) contrappose un’altra formula: etsi deus daretur e tale formula contiene chiaramente un’opposta visione alla secolarizzazione, poiché è la proposta fatta a chi non crede, di accettare una società cristiana, in cui il cristianesimo riacquisti il suo spazio pubblico. I cattolici, in tale prospettiva, devono evangelizzare il mondo e non farsi secolarizzare da esso.
Certamente è dato notorio come le tesi del luterano tedesco penetrarono nella teologia cattolica, come ha dimostrato Cornelio Fabro (1911 - 95), in particolar modo nel teologo Karl Rahner (1904 - 84). Nel quattordicesimo volume dei suoi scritti teologici Sulla teologia del culto divino, padre Rahner scriveva che «la liturgia per il principio lex credendi, lex orandi, avrebbe dovuto esprimere questo nuovo rapporto con il mondo, farsi essa stessa liturgia del mondo». Fu così che don Fabro affermò propriamente come la radice della secolarizzazione consiste nel far sprofondare inarrestabilmente l’uomo nel mondo, e nel riconoscersi proprio nell’homo mundanus, ovvero l’essere dell’uomo come essere in e per il mondo.
L’illusione è quella di fondare un ordine mondano, all’infuori del cristianesimo, dove questo si invererebbe. Esiste tuttavia un significato positivo di mondo. Oggi ci dimentichiamo troppo facilmente l’esistenza di un mondo inteso invece nel senso delle tre concupiscenze e del rifiuto di Dio, un mondo che tende a divenire dell’apostasia. C’è un mondo che è costituito da uomini che devono essere salvati dalla redenzione. Ce ne parlava San Giovanni, di un mondo terreno in cui il suo Re, non era Dio, ma il demonio. Tale mondo si fonda sulle tendenze disordinate dell’animo umano, così come amava affermare l’intellettuale brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira (1908 - 95). Tale concezione, oggi ancora evocata dalla politica, porta il nome di nuovo umanesimo. Tale termine raccoglie certamente gli altri già citati: secolarizzazione, secolarismo, laicismo. Non più Dio al centro dell’uomo, ma l’uomo stesso e la sua volontà di potenza. L’umanesimo, difatti, assegna all'uomo due fini: uno spirituale – da raggiungere in paradiso, di cui si occuperebbe la Chiesa –, e un fine terreno in cui la Chiesa dovrebbe rimanere estranea. Si separa così l’ordine naturale da quello spirituale, pretendendo di realizzare un ordine umano al di fuori della Chiesa. Lo sguardo dal cielo, si sposta sulla terra. Nei suoi scritti il cardinale Giuseppe Siri (1906 - 89) affermava come «una redenzione puramente terrestre non ha significato per l’uomo, essa può finire al contrario col rendere il nostro mondo invivibile, un segno di inferno nella vita degli uomini. La Chiesa non è un potere mondano, né può divenirlo. Le parole di Cristo al tentatore hanno segnato l’indole della Chiesa. La Chiesa – corpo mistico di Cristo – ha certamente un fine soprannaturale, ma oltre ad essere una società invisibile è anche una società visibile che opera nel mondo, è un’istituzione pubblica, dotata di una sua struttura giuridica e i suoi membri hanno come fine il cielo, ma sono uomini composti di anima e di corpo che vivono nel mondo, lottano contro il mondo, devono affermare nel globo le proprie idee e i propri valori».
[caption id="attachment_12139" align="aligncenter" width="1000"] Giuseppe Siri (Genova, 20 maggio 1906 – Genova, 2 maggio 1989) è stato un cardinale e arcivescovo cattolico italiano. Convinto difensore della tradizione liturgica e dottrinale della Chiesa e avversario delle ideologie totalitarie del XX secolo, che riteneva incompatibili con la fede cattolica, Giuseppe Siri salì rapidamente i gradi della gerarchia ecclesiastica fino a diventare vescovo ausiliare a 38 anni, arcivescovo di Genova a 40 e cardinale a 47. Governò l'arcidiocesi ligure dal 1946 al 1987, e, con i suoi 41 anni di durata, il suo episcopato fu probabilmente il più lungo della chiesa genovese. Partecipò a quattro conclavi, durante i quali venne sempre indicato fra i papabili. Siri fu anche, fra le varie cariche ricoperte, presidente della Conferenza Episcopale Italiana dal 1959 al 1965. Il suo carattere deciso, poco incline ai compromessi, e la tenace difesa delle proprie convinzioni divisero spesso l'opinione pubblica, suscitando grandi consensi e forti opposizioni. A Genova, città cui fu profondamente legato, fondò e sostenne numerose organizzazioni assistenziali, pastorali e culturali. Scrittore molto prolifico, la sua vastissima produzione si articola in centinaia di titoli, suddivisi fra lettere pastorali, libri, discorsi, omelie, articoli e relazioni.[/caption]
In tal senso la Chiesa non può assolutamente essere una madre part-time, ma deve svolgere la sua funzione a tempo pieno. Non a caso l’autorità della Chiesa non ha una fonte umana, ma si esercita su tutto il mondo e questa autorità sulle “cose” temporali è esercitata dalla Chiesa per difendere la propria libertà, ma per difendere anche la libertà dei propri figli, poiché ordinando gli uomini alla vita eterna la Chiesa non assicura loro solo la felicità eterna in cielo, ma offre loro anche il miglior modo di vivere nella sua terra. Il Vangelo non è una dottrina politica e sociale, ma solo nel rispetto del Vangelo l’ordine politico e sociale è fecondo e l’uomo è felice.
La tesi neo-modernista che si andava affermando negli anni Settanta era quella che occorreva purificare invece la Chiesa dalla sua “compromissione” con il potere: da una parte immergerla nel mondo, ma dall’altra liberarla “dalle incrostazioni”. La Chiesa sarebbe dovuta uscire dall’epoca costantiniana per sciogliere ogni legame con le strutture antiche del potere, farsi povera ed evangelica in ascolto del mondo.
L’avvento dell’era della secolarizzazione è ancora oggi presentato negli ambienti progressisti come «fine dell’epoca costantiniana». Per tale epoca si intende ovviamente quella inaugurata dall’Imperatore romano Flavio Valerio Aurelio Costantino (272 d.C. – 337 d.C.) il quale non solo restituì la libertà alla Chiesa con il celebre editto di Milano (313 d.C.), ma avviò con la Chiesa una politica di collaborazione, poi proseguita dai suoi successori.
Uno dei padri della Nouvelle Théologie, il domenicano Marie-Dominique Chenu (1895 - 1990) in una celebre conferenza tenuta nel 1961, rifiutava a piene mani la politica di Costantino, ma pretendeva di emancipare la Chiesa da quelli che definiva come i tre fattori decisivi della sua intromissione con il potere: il primato del diritto romano, quello del logos greco-romano e quello del latino come lingua liturgica. Non bisognava più porsi il problema di evangelizzare il mondo, ma contrariamente accettarlo così come si presentava e collocarsi al proprio interno. In pieno Concilio Vaticano II, nel 1963, continuava nella sua opera La Chiesa e il mondo l’affermazione della sua idea-progetto che insisteva sulla fuoriuscita dalla cristianità per liberarsi dall’influenza costantiniana che gravava ancora sulla Chiesa: «usciamo dalla preistoria, il mondo esiste. Tale realtà, rispetto al Vaticano I, è la grande originalità del Concilio».
L’undici ottobre del 1962, giorno della solenne inaugurazione del Concilio Vaticano II, un discepolo e confratello di Chenu, tale padre Yves Marie-Joseph Congar (1904 - 95) nel suo diario, pubblicato una decina di anni fa, deplorava il fatto che la Chiesa non aveva mai avuto in programma l’uscita dall’era costantiniana. Per Congar simbolo dell’era costantiniana era lo sventurato Pio IX che con il procedere della storia «non aveva compreso nulla» e inorridito da una possibile notizia di beatificazione di Papa Mastai-Ferretti, il sacerdote francese scrisse: «più ci penso, più trovo che Pio IX sia stato un uomo meschino e rovinoso. Quando gli eventi lo invitavano ad abbandonare l’orribile menzogna della donazione di Costantino e ad assumere l’atteggiamento evangelico non ha avvertito questa chiamata e ha sprofondato la Chiesa nella rivendicazione del potere temporale. Nulla avverrà di decisivo finché la Chiesa romana non avrà completamente abbandonato le sue pretese feudali e temporali ed è necessario che tutto questo sia distrutto e lo sarà».
Vale la pena sottolineare che Chenu presenta come coincidenti due prerogative che per il Papato sono assolutamente distinte: da una parte l’autorità indiretta della Chiesa su tutte le cose temporali che implicano questioni di fede e di morale e dall’altra la podestà terrena, rivendicata da Pio IX – mai sulla base della donazione di Costantino – del possedere quei domini temporali che garantivano la libertà di espressione e di culto dei cattolici in piena autonomia e senza ingerenze straniere. Questo diritto irrinunciabile della Chiesa, sempre negato dai suoi nemici nel corso della storia, si manifesta oggi nella presenza simbolica, ma reale, dello Stato della Città del Vaticano.
[caption id="attachment_12143" align="aligncenter" width="1000"] Da sinistra a destra, tre dei principali pensatori della Nouvelle Théologie: Karl Rahner (1904 - 84), Marie-Dominique Chenu (1895 - 1990), Yves Marie-Joseph Congar (1904 - 95).[/caption]
La perdita delle teorie concettuali cattoliche avvenuta negli anni Sessanta e Settanta, come la rinuncia alla Dottrina Sociale della Chiesa, significò de facto una subordinazione indiretta al socialismo francese di matrice marxista. Dunque al tramonto dell’epoca costantiniana, seguì l’alba dell’era anti-cristiana. Il silenzio del Concilio Vaticano II sul comunismo, non interruppe la persecuzione comunista del cattolicesimo e favorì contrariamente la migrazione dei cattolici verso il comunismo a tutti i livelli. Negli anni Settanta, mentre si intensificava la persecuzione anti-cattolica, i brigadisti “cattolici” come Renato Curcio (1941) – formatosi culturalmente in una facoltà cattolica a Trento –, imbracciavano le armi in favore del comunismo e nasceva in America Latina la Teologia della Liberazione.
La riforma liturgica del 1969 fu attuata in questo clima. La conclusione dell’epoca costantiniana, esigeva la fine della liturgia, che di quell’era della Chiesa era stata espressione. Ma quale era il principio di quella liturgia che si voleva sopprimere? La stessa che come ribadì Benedetto XVI, «resta liturgia della Chiesa».
La visione cristiana del mondo afferma che Dio è creatore e Signore del cielo e della terra: il riconoscimento e l’amore che a lui si deve, tende al suo dominio, ad ogni cosa che egli ha creato e che mantiene in vita e nella creazione e nel dominio del Signore avvengono tutte le cose private e pubbliche, materiali, spirituali e sociali. Dunque da ogni cosa si deve elevare il riconoscimento, ossia il culto a Dio. Proprio quest’ultimo è la relazione dell’uomo con Dio. Aristotele ha definito l’uomo un «essere sociale», ma il filosofo che non possedeva l’idea della creazione, ha ridotto la socialità degli uomini al loro rapporto con i propri simili. In realtà ciò che fa di un uomo un essere estroflesso, dipendente, è la sua relazione con Dio Creatore. Tale rapporto si può esprimere unicamente con la preghiera, che fa dell’uomo non un «animale sociale», ma un «homo religiosus».
Poiché Dio non è homo-homini-lupus (uomo, nemico dell'uomo), ma homo-homini-Deus (si è fatto uomo egli stesso, è Dio per l’uomo), e per salvare l’umanità – colpita dal peccato originale – ha fondato la Chiesa, la preghiera per eccellenza dell’uomo, l’unica che lo redime, è quella che lui fa all’interno della Chiesa, attorno all’Altare. La liturgia è la preghiera pubblica della Chiesa, l’atto non privato del singolo uomo, ma della comunità dei battezzati riuniti intorno al Santo Sacrificio dell’Altare. Questa liturgia non è solo la trasmissione della parola di Dio, l’uomo e la sua santificazione attraverso i sacramenti, ma essa è anche un insieme di forme sensibili che elevano l’uomo verso Dio e che lo aiutano a glorificarlo e a rendergli il culto dovuto.
La concezione secolarista pretende l’emancipazione del Creato da Dio stesso, relegare la sovranità di Cristo, di eliminarne l’autorità e l’influenza della Chiesa dalla società. Il secolarismo afferma il primato del profano sul Sacro, anzi l’espulsione stessa del sacro da ogni ambito della società: la perdita e la rinuncia di ogni legame trascendente e quindi dell’essenza stessa della religione, poiché quest'ultima ri-lega l’uomo a Dio. La condizione dunque della realtà ad un orizzonte terrestre e mondano e l’essenza di questo secolarismo è propriamente quel relativismo culturale che è a sua volta la maschera delle tendenze sregolate dell’uomo. La maschera intellettuale della ricerca del proprio piacere, dell’appagamento dei propri bisogni, del culto del proprio Io, all’interno di una gnosi creata appositamente che non dialoga con la realtà organica, proprio perché questa diviene separata da Dio, non coordinata a Lui.
Al contrario “sacro” è ciò che è ordinato a Dio e in questo senso è separato dal profano. La civitas Dei, radicalmente separata dalla civitas diaboli, è la sociètà di cui Gesù Cristo è il Capo. La perfezione della sacralità sta nella persona stessa di Gesù Cristo, perché in Gesù Cristo, Dio si dà massimamente ad una natura umana unita inscindibilmente a Lui in unità di persona. «In Lui – afferma San Paolo – abita corporalmente, tutta la grandezza della Trinità». E dunque nulla vi è di più antitètico alla secolarizzazione della Liturgia espressa dal sacrificio della Messa: quel sacrificio in cui trovano compimento quei misteri quali la passione, la resurrezione e l’ascensione di Gesù Cristo.
I protestanti hanno negato che la Santa Messa sia vero sacrificio, perché in essa non c’è immolazione del corpo di Cristo, che ora è glorioso e impassibile, ma il Concilio di Trento e la dottrina della Chiesa rispondono che il sacrificio non comporta necessariamente una immolazione reale e cruenta. Nella Santa Messa vi è una immolazione incruenta o sacramentale che rappresenta l’immolazione cruenta della Croce e ne applica i frutti. Il sacrificio della Messa non è dunque un memoriale o una semplice oblazione, ma è un vero sacrificio offerto da Cristo medesimo, sacerdote e vittima. Non a caso Réginald Garrigou-Lagrange (1877 - 1964) ci ricordava come San Giovanni nell’Apocalisse contempla l’Angelo che incensa con un turibolo d’oro l’Altare si cui sta l’agnello immolato. La celebrazione liturgica ha ricordato Giovanni Paolo II, nella lettera alla Congregazione per il culto divino del 21-09-2001 «è un atto della virtù di religione che coerentemente con la sua natura deve caratterizzarsi per un profondo senso del sacro. In essa l’uomo e la comunità devono essere consapevoli di trovarsi in modo speciale dinanzi a colui che è tre volte Santo e trascendente. Di conseguenza l’atteggiamento richiesto non può che essere permeato dalla riverenza e dal senso dello stupore che scaturisce dal sapersi alla presenza della Maestà di Dio. Non voleva forse esprimere questo Dio nel comandare a Mosè di togliersi i sandali davanti al rogo ardente»?
Certamente si può affermare come nulla meglio della Santa Messa Tradizionale esprime ciò che la celebrazione è nella sua intima essenza: il Santo sacrificio. Se c’è un luogo in cui il mondo secolarizzato non è penetrato, questo luogo e questo momento si ritrova nel rito romano straordinario. Dopo le parole introibo ad Altare Dei, la marea schiumosa della secolarizzazione che tutto sembra inquinare, si arresta davanti alle porte del santuario. Questa marea non penetra davanti al recinto immacolato in cui viene offerta e immolata a Dio, una vittima pura e senza macchia.
Il punto più sacro della Messa è il canone romano, la formula consacratoria composta – come ricorda il Concilio di Trento – in parte dalle parole stesse del Signore, in parte da ciò che è stato tramandato dagli apostoli e in parte da ciò che è stato stabilito dai Pontefici. Le parole immutabili del Canone, sono pronunciate nella Liturgia Tridentina a bassa voce, proprio per sottolineare la sacralità. Il silenzio esprime la distanza infinita, tra il Dio ineffabile che non può essere conosciuto nella sua essenza e l’umile creatura che senza di lui cadrebbe nel nulla. Ma questo Dio adorato nella sua Maestà divina non è lontano, anzi infinitamente vicino, perché si è donato in Cristo ed è presente sull’Altare: in corpo, sangue, anima e divinità e solo nella assoluta trascendenza divina si esprime la radicale ed estrema vicinanza di Dio all’uomo. Così il linguaggio del silenzio, si accompagna alle parole liturgiche per rendere somma gloria a Dio in questo rito. Nel suo saggio Introduzione allo Spirito della liturgia l’allora cardinale Ratzinger si espresse così: «il silenzio si oppone al frastuono, alla confusione, che Regna nella civitas diaboli e permette che più perfettamente si renda a Dio creatore la riverenza che spetta a Sua Maestà».
La Riforma Liturgica del 1969 venne considerata come espressione della svolta antropologica degli anni Sessanta e Settanta. Una grande novità che pretendeva colmare l’infinita distanza tra Dio e l’uomo, spogliando leggermente – qualora ciò fosse possibile – Dio della sua gloria ed elevando molto, se fosse possibile, l’uomo verso Dio, nell’illusione di abbreviarne la distanza.
Si può certamente discutere se la riforma di Paolo VI abbia apportato quella continuità o quella rottura con la tradizione precedente della Chiesa, ma il solo fatto che se ne discuta è sufficiente per denotarla quanto meno come una riforma ambigua. Difatti se la Riforma liturgica avesse avuto un rapporto di inequivocabile continuità, tale dibattito non si sarebbe aperto.
Il rito romano antico non permette equivoci di alcuna sorta e in esso vi è un senso ineguagliabile della trascendenza divina. Esso evidentemente non è l’unico rito possibile, ma è un rito che esprime con perfetta chiarezza l’ecclesiologia cattolica: quell’unica ecclesiologia, anche con differenti riti che la esprimono.
Ed allora come non poter ricordare il Mutu Proprio del 2007 di Benedetto XVI e definito come Summorum Pontificum, il quale concede una categorica, quanto fondamentale chiave interpretativa secondo cui «il rito antico non è stato e non avrebbe potuto essere abrogato». Le conseguenze di queste affermazioni sono più vaste di quanto si possa a prima vista immaginare, perché in primo luogo cadono le speranze o i timori di chi aveva evocato l’ipotesi di una «riforma della riforma», intesa come ibridazione tra le due tipologie della Santa Messa: la nuova e l’antica.
Di riforma è certamente possibile parlare per il nuovo rito, ma non per l’antico che non potendo essere abrogato non può essere strutturalmente modificato. Oggi, l’aumento importante dei coetus fidelium in tutta Europa – nonostante alcune difficoltà -, deve fornire un dato oggettivo di come il rito romano straordinario promosso dal Pontefice tedesco abbia ripreso piena forza non solo per il suo impianto teologico, ma anche dalla sua storia pressoché millenaria.
La storia delle nazioni europee – ha affermato Giovanni Paolo II – procede di pari passo a quella della sua evangelizzazione. L’Europa medievale si è costruita attorno al Vangelo, ossia attraverso la trasmissione di una fede annunciata dai successori degli apostoli, secondo la consegna data da nostro Signore: andate e battezzate tutte le genti. Non a caso il vecchio continente a partire dal IV secolo inizia a formarsi intorno ad una traditio, ovvero ad una consegna e trasmissione di Verità. La dimensione rituale e in un certo senso una dimensione costitutiva della nascita e dello sviluppo della società europea e cristiana dei primi secoli. Perché la parola traditio nel suo senso originale si riferisce alla trasmissione dei singula fidei, ovvero quelle formule verbali confermate dalla autorità ecclesiastica destinate alla pubblica professione della fede e fin dal quarto secolo il simbolo è rappresentato come la quinta essenza del Vangelo nelle cerimonie della traditio simboli e della redditio simboli che precedono il battesimo. La traditio e la redditio del simbolo, significano che il catecumeno riceve la fede della Chiesa e si impegna a vivere e a confessarla pubblicamente davanti alla comunità cristiana. Ma la traditio se si esprime nella consegna di verità destinate a formare il Depositum Fidei e anche ricerca dei modi in cui queste verità vengono trasmesse. Ogni verità si traduce in una liturgia secondo la nota formula di Sant’Ireneo, poiché «si custodiva fedelmente la tradizione venuta dagli apostoli» e l’Europa medievale in questo senso nasce intorno ad una tradizione liturgica, attorno ad un rito. Tale considerazione ci viene confermata anche dallo storico inglese Christopher Henry Dawson (1889 - 1970), il quale osserva come «dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente (476 d.C.) l’ordine sacro della liturgia rimase intatto nel caos, mentre tutto crollava mutando». Dunque la liturgia costituì il principale legante interiore della società e nello stesso tempo fu sede della tradizione e della fede, poiché in essa le due realtà si incontravano conciliandosi.
L’affermazione del primato romano, sotto Dàmaso I (305 d.C. - 384 d.C.), corre parallela all’affermazione dell’Ordo liturgico romano, la cui definitiva configurazione avviene fra il IV e il VI secolo, culminando nella creazione del Liber Sacramentorium di Papa Gregorio I (540 d.C. - 604 d.C.). La Liturgia dàmaseno-gregoriana, così come affermava Monsignor Klaus Gamber (1919 - 89), si andò imponendo progressivamente in Occidente rimanendo quello che è stata celebrata nella Chiesa latina fino alla riforma liturgica del 1969. Questo è esattamente il rito che Benedetto XVI ripropone alla Chiesa: tale liturgia gregoriana, espressione del rito romano antico, ci ricorda attraverso il suo silenzio, le sue genuflessioni, la sua riverenza, l’infinita distanza, che separa il cielo dalla terra; ci ricorda che il nostro orizzonte non è quello terreno, ma quello celeste; ci ricorda che nulla è possibile senza sacrificio e che il dono della vita naturale e soprannaturale è un mistero. Scrivendo ciò non possiamo certamente dimenticare l’esistenza di una nuova messa celebrata che rinnova anch’essa il sacrificio della croce in tutto il mondo promulgata e autorizzata dagli ultimi Pontefici.
Non si deve, né si può porre in contrapposizione il rito antico con la nuova Messa, ma si tratta unicamente di comprendere come la restituzione della libertà del rito antico opponga una nuova barriera al secolarismo avanzato. La messa degli apostoli aprì e chiuse tutti i 21 Concili Ecumenici della Chiesa, da Nicea al Vaticano II. Il rito romano straordinario di oggi, viene celebrato sotto le volte grandiose di San Pietro e nelle più umili e remote cappelle agli estremi confini della terra, ma fu anche la Santa Messa di tutti gli ordini religiosi fondati nella storia: fu celebrata sui campi delle Crociate, sulle galee pontificie prima della Battaglia di Lepanto e sulla collina di Kahlenberg prima della liberazione di Vienna. Questo rito romano, costituisce oggi la risposta più radicale e più perfetta alla sfida della secolarizzazione, quel guanto di sfida dell’umanesimo, orizzontale e laicista al mondo organico e verticale. Il Papa nel 2007 ha restituito a questo rito piena legittimità, piena cittadinanza e nessuno può impedirne la celebrazione o l’espressione dell’amore dei fedeli. Amiamo il rito romano perché amiamo la Chiesa e ringraziamo il Papa Emerito Benedetto XVI per aver restituito piena libertà a questa celebrazione troppo a lungo mortificata, essendo consapevoli che potrà donare alla Chiesa e alla società, nei prossimi anni e decenni, un nuovo sviluppo e un nuovo splendore.
 
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di Cristina Siccardi del 01/04/2019

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Monsignor Marcel Lefebvre è una delle sentinelle più importanti della Tradizione cattolica che si sono distinte nel XX secolo, è un paladino del Depositum Fidei di Santa Romana Chiesa, custode fedele della Santa Messa, dell’integrità del sacerdozio, del primato petrino, dal Credo stabile e fermo. Il suo nome, nell’immaginario collettivo, è spesso legato alla figura di un Vescovo “ribelle”, non obbediente alla Chiesa. Dagli anni Settanta del Novecento il solo pronunciarlo pareva evocare chissà quali negatività, chissà quali scissioni... Buona parte della pubblicistica e dei giornalisti l’ha dipinto come uno «scismatico», uno che voleva farsi una Chiesa tutta sua... In realtà fu una personalità scomoda perché parlò con coraggiosa chiarezza in un tempo di grande confusione nella Chiesa e nel mondo.
[caption id="attachment_11182" align="aligncenter" width="1000"] Marcel François Marie Joseph Lefebvre (29 Novembre 1905 - 25 Marzo 1991) è stato un arcivescovo francese di Santa Romana Chiesa.[/caption]
Cavaliere senza macchia e senza paura, in profonda umiltà, ha realizzato un vero e proprio forte, Écône, dove proteggere e difendere la Tradizione dagli attacchi scristianizzanti, secolarizzanti e relativistici, un luogo dove continuano ad essere formati sacerdoti preparati, pronti al sacrificio e all’abnegazione, attenti, in qualità di Alter Christus, a curare e salvare le anime. Paolo VI nell’omelia del 29 giugno, giorno dei Santi Pietro e Paolo, del 1972 dichiarò con drammaticità: «attraverso qualche fessura il fumo di Satana è entrato nella Chiesa». Monsignor Lefebvre identificò qual era la fessura: il tentativo di allontanarsi dalla Tradizione.
Marcel Lefebvre nasce a Tourcoing (Francia) il 29 novembre 1905 da una famiglia cattolicissima, che donò alla Chiesa, a partire dal 1738, cinquanta suoi figli, tra i quali un cardinale, diversi vescovi, numerosi sacerdoti, religiose e religiosi. Il padre di Marcel, René Lefebvre (1879 - 1944), ricco imprenditore tessile ed esponente di spicco della resistenza francese, venne incarcerato dai tedeschi nel 1941 e trucidato nel lager nazista di Sonnenburg (Brandeburgo). La madre, Gabrielle Watine (1880- 1938), morta in odore di santità, ebbe otto figli, dei quali due maschi (René e Marcel) divennero sacerdoti e due femmine (Bernadette e Christiane) religiose. Marcel, dalla precoce vocazione, entrò in «Santa Chiara», il Seminario francese dell’Urbe, dove acquisì una formazione romana e, dopo aver regolarmente svolto il servizio militare in patria, si laureò in Filosofia ed in Teologia alla Pontificia Università Gregoriana. Il 21 settembre 1929 fu ordinato sacerdote a Lille, dove svolse un breve periodo come vicario in una parrocchia; entrò nel 1931 nella Congregazione missionaria dello Spirito Santo e partì per il Gabon il 12 novembre 1932.
Nei trent’anni di permanenza in Africa fece una prodigiosa semina evangelizzatrice, mietendo stima, considerazione, ammirazione. Appena giunto in terra di missione fu nominato professore di Dogmatica e di Sacra Scrittura al Gran Seminario di Libreville, che raggruppava tutti i seminaristi dell'Africa equatoriale francese.
Quando arrivava padre Marcel portava migliorie alla vita quotidiana. Cibo, indumenti, igiene, senso di vita e voglia di vivere per i popoli dei villaggi: l’evangelizzazione portava il benessere materiale, conseguente alla civilizzazione cattolica. Fondò scuole, seminari, chiese, invitando in Africa congregazioni e ordini religiosi, i quali apportarono una notevole ricchezza spirituale e carità cristiana.
Nel 1943 si trovò vacante il superiorato della missione di Lambaréné, perciò venne affidato all’instancabile padre Lefebvre, che qui rimase da aprile ad ottobre del 1945. Come era accaduto per altre stazioni missionarie, anche in questa si contraddistinse per la sua grande capacità organizzativa. Prima di tutto, però, era sacerdote. Battesimi, confessioni, comunioni, matrimoni, estreme unzioni, somministrati anche nell’ospedale fondato dal celebre medico tedesco Albert Schweitzer (1875 - 1965), luterano, verso il quale padre Marcel ebbe grande ammirazione e rispetto, ampiamente ricambiati, pur non condividendo la sua filosofia piuttosto incline al panteismo. Il dottor Schweitzer si recava alla missione di padre Lefebvre per curare i confratelli malati e il dottore alsaziano, musicista e amante di Bach, andava nella chiesa di San Francesco Saverio, nelle grandi solennità, per suonare l’organo.
Il ricordo di Monsignor Lefebvre, nell’Africa francofona, è ancora vivo, tanto che sono stati emessi francobolli con la sua effigie e sono state intitolate vie e piazze a suo nome. Rinvigorì quelle terre, portando la Buona Novella, sapendo dare al clero locale una spiccata vocazione evangelizzatrice, tanto da triplicare, tra il 1933 ed il 1947, la popolazione cattolica del Gabon; il Paese divenne il più cristiano dell'Africa francofona. Nel 1945 fu richiamato in Francia per assumere la direzione del Seminario dei Padri dello Spirito Santo a Mortain (Normandia). Nel settembre 1947, a 42 anni, monsignor Lefebvre fu, per volontà di papa Pio XII, consacrato Vescovo e nominato Vicario apostolico del Senegal.
[caption id="attachment_11184" align="aligncenter" width="1000"] Fu durante il regno di Pius PP. XII che l'arcivescovo Marcel Lefebvre fu consacrato vescovo, Arcivescovo di Dakar e Delegato Apostolico. Fu dalle labbra di papa Pio XII che arrivò il miglior tributo per lui: "L'arcivescovo Lefebvre è certamente il più efficiente e qualificato dei delegati apostolici".[/caption]
Un anno dopo venne nominato Delegato apostolico per tutta quell'Africa francofona di cui era divenuto punto di riferimento. Nel 1955 diventò il primo Arcivescovo di Dakar, quando in Senegal fu istituita la gerarchia locale. Restò Delegato apostolico fino al 1959 e Arcivescovo fino al 1962. In 11 anni di lavoro come Delegato apostolico le diocesi passarono da 44 a 65, inoltre a Dakar raddoppiò il numero dei cattolici e da 3 chiese presenti si arrivò a 13.
Nel 1962 fu nominato Vescovo di Tulle, piccola diocesi della Francia, quantunque già Arcivescovo, con plateale quanto inusuale, nella storia della Chiesa, umiliazione infertagli da Giovanni XXIII, nel compiacimento dell’episcopato francese e nell’accettazione, in spirito di obbedienza, dell’interessato. Nello stesso anno venne eletto Superiore Generale dei Padri dello Spirito Santo, funzione dalla quale si dimise nel 1968, a causa dei venti modernisti entrati nella Congregazione. Dal 1962 al 1965 fu padre conciliare e guida della resistenza conservatrice al Concilio Ecumenico Vaticano II, coagulata intorno al Coetus Internationalis Patrum. Forte fu la sua presa di posizione contro un Concilio pastorale nei cui dettami vedeva e denunciava pubblicamente le conseguenze scristianizzanti, irragionevoli, relativistiche e lassiste che ne sarebbero sorte. Oggi, a distanza di quasi trent’anni dalla sua scomparsa e a più di cinquanta dalla chiusura del Concilio, possiamo storicamente avvicinarci a lui con maggiore serenità e senza acrimonia, considerando questo sacerdote, non come il nemico di qualcuno, bensì come un impavido e lungimirante soldato di Cristo.
Lefebvre si presenta al Concilio Vaticano II come un riformatore pacelliano molto prudente. Siamo l'11 ottobre 1962 e dopo oltre un secolo la Chiesa Cattolica Romana si riunisce nuovamente. L’arcivescovo francese si presenta all’importante appuntamento come uno dei Padri Conciliari, con spirito relativamente fiducioso: reputa che la preparazione sia stata ben organizzata, ma ben presto inizia a rendersi conto che è presente un’incertezza “liberale” in seno al Concilio, verso la quale bisogna rispondere. Ma gli schemi preparati da Lefebvre in tre anni di lavoro vengono respinti fin dalle prime giornate di lavoro. Con grande prepotenza e fermezza si impongono nel Concilio alcuni uomini di Chiesa che possono essere definiti tranquillamente dei “rivoluzionari”, ispirati soprattutto dalla Nouvelle théologie di indirizzo francofono, ovvero da: Yves Marie-Joseph Congar (1904 - 1995), Marie-Dominique Chenu (1895 - 1990), Henri-Marie Joseph Sonier de Lubac (1896 - 1991), Karl Rahner (1904 - 1984) e Jean-Guenolé-Marie Daniélou (1905 - 1974). Inoltre tali tesi, trattandosi di un Concilio Pastorale e non Dottrinale, si diffondono e influenzano i vescovi, i quali – anche se dichiarano di non toccare il dogma cattolico, votano dei testi fondamentali che modificano i rapporti tra la Chiesa e il mondo. Lefebvre stesso riassume tali comportamenti con la frase: «è la rivoluzione francese». Ora, se la rivoluzione francese è liberté, égalité, fraternité, il Concilio si apprestava a scrivere una dichiarazione sull’importanza della “libertà di coscienza”. Condannata dai Papi nel XIX secolo, la “libertà religiosa” viene riconosciuta dal Concilio Vaticano II e dunque viene concesso ad ogni uomo il diritto di professare apertamente ciò che gli detta la coscienza: il voto provoca reazioni dal mondo intero. Secondo l’arcivescovo francese, la religione cattolica è nella verità, dunque solo la verità ha dei diritti e l’errore conseguentemente non può avere alcun diritto, «non si può mai avere un diritto naturale, cioè un diritto che in definitiva è dato da Dio – perché la Chiesa considera che è Dio che ci ha dato la natura».
Altro cardine nuovo del Concilio è la collegialità, ovvero il Governo della Chiesa vuole dare espressione a tutti: ancora liberté, égalité, fraternité. La collegialità è l’argomento che scatena passioni, poiché riguarda il potere del Papa e dei Vescovi; per Lefebvre e per tutto il filone tradizionalista, la collegialità è ingiusta per il dovere decisionale di un vescovo, poiché se c’è uguaglianza decisionale in seno ad una Conferenza Episcopale avviene la sottomissione di ogni singolo vescovo al giudizio del collegio. Dunque il potere del vescovo nella sua diocesi diminuisce in favore della centralità degli episcopati. Il Concilio modifica anche il rapporto con la Chiesa e le altre religioni: i separati dalla Chiesa, gli scismatici e gli eretici, sono considerati dei “fratelli nella fede”. Su tale punto ancora Lefebvre insiste: «quelli che si sono separati (dalla Chiesa Cattolica) tornino a me, sono loro a dover fare la strada, mentre adesso – questa la profonda novità dottrinale del Concilio – i cattolici ritengono che la conversione che avverrà all’unità della Chiesa non sia in qualche modo a senso unico, ma noi tentiamo, noi sappiamo, noi proclamiamo, noi altri cattolici, che dobbiamo fare un grande sforzo per poter accogliere tutti i nostri fratelli separati in modo che si sentano liberi in una Chiesa veramente Una. [...] L’ecumenismo, mette praticamente tutte le religioni sullo stesso piano e dà il diritto comune a tutte le religioni. Ed è proprio lì un problema, a mio avviso, eccessivamente grave, perché il fatto di mettere tutte le religioni sullo stesso piano, distrugge la Chiesa. Se la Chiesa si definisse.. deve definirsi come l’unica vera.. la sola a detenere la verità, se mette ciò che chiama errori, le altre religioni erronee sul suo stesso piano, necessariamente non le resta che sparire, non ha più ragion d’essere».
Non si parla più dei protestanti come degli eretici, ma essi divengono “nostri fratelli nella fede” e, proseguendo pervicacemente nel dialogo interreligioso, mancherà poco che le altre gerarchie dichiarino che anche i musulmani sono “nostri fratelli” perché credono in Dio. Per Monsignor Lefebvre è il diavolo che penetra, poiché questo si incarna da sempre con i valori della rivoluzione francese, penetrati nella Chiesa. L’organizzazione dei padri “liberali” consegue il successo delle loro idee e solo molto tardivamente avviene un’organizzazione dei Vescovi conservatori con l’italiano Luigi Maria Carli (1914 - 1986), i brasiliani Antônio de Castro Mayer (1904 - 1991) e Geraldo de Proença Sigaud (1909 - 1999), i quali insieme a Monsignor Lefevbre costituiscono Il Coetus Internationalis Patrum (Gruppo Internazionale di Padri conciliari). Il Gruppo riesce a rinviare, per ben cinque volte, il documento sulla libertà religiosa, ma l’8 dicembre del 1965, Paulus PP. VI chiude ufficialmente il Concilio Vaticano II con il grande cambiamento della Chiesa in materia dottrinale. Ma agli occhi dei fedeli il cambiamento più visibile, nato sempre dal Concilio, resta senza dubbio quello della liturgia. Fin dal 1969 Paulus PP. VI ordina l’applicazione del Novus Ordo Missae, al posto dell’antico Messale detto di "San PioV". Nonostante le disposizioni, Marcel Lefevbre decide di continuare a celebrare l’antico Messale di sempre. L’arcivescovo francese era perfettamente cosciente che la nuova messa, era stata pensata e redatta in accordo con i protestanti, per eliminare le porzioni della liturgia che infastidivano la loro eresia. Ebbe a scrivere, nella cosiddetta «dichiarazione» del 21 novembre 1974: «noi aderiamo con tutto il cuore, con tutta la nostra anima alla Roma cattolica, custode della fede cattolica e delle tradizioni necessarie alla conservazione di questa fede, alla Roma eterna, maestra di saggezza e di verità». La verità che andò professando con forza, fino ad apparire disobbediente, con coraggio, fino a rimetterci di persona, e con determinazione, subendo invettive ed umiliazioni.
Nel maggio del 1969 alcuni seminaristi chiesero a monsignor Lefebvre di poter ricevere da lui una formazione sacerdotale cattolica tradizionale e, piegato dalle loro insistenze, decise di fondare a Friburgo il «Convitto internazionale San Pio X», il Papa santo che aveva condannato l’eresia modernista nel 1907 con l’enciclica Pascendi Dominici Gregis. Il 1° ottobre 1970 aprì, con l’autorizzazione del Vescovo di Sion (Svizzera), un anno di spiritualità di preparazione agli studi ecclesiastici ad Écône (Svizzera) e in dicembre vide la luce, con approvazione episcopale, il Seminario della Fraternità San Pio X. Tuttavia si formò un clima di profonda avversione intorno a monsignor Lefebvre, che non rinunciava a denunciare, con la determinazione di un sant’Atanasio (295 - 373) o di una santa Caterina da Siena (1347 - 1380) e con una sorprendente lucidità tomista, le malsane idee neo-moderniste, parlando nei momenti opportuni e inopportuni, come insegna san Paolo (2 Tm 4, 1-2), mettendo in guardia dai cattivi maestri, apportatori, con linguaggio talvolta ambiguo, di erronei insegnamenti in seminari ed università.
Lefevbre più volte ha affermato come «dei seminaristi sono venuti a trovarmi e hanno chiesto di avere una formazione, ci sono dei genitori che mi hanno detto “non abbandonate i nostri figli, vogliono essere sacerdoti, hanno diritto ad una buona formazione”; ci sono dei fedeli che volevano la Messa e i Sacramenti». Questa è stata sempre la condotta di Monsignor Lefevbre: si risponde ai bisogni dei fedeli, ed era tanto più preoccupato della regolarità canonica proprio perché si rendeva ben conto che era obbligato ad essere in contrasto con certe direttive di Roma e voleva assolutamente che i fedeli pregassero per il Papa e per il canone della Messa, per il Vescovo della Diocesi, rifiutando sempre le tesi semi-vacantiste e quindi la sua prima preoccupazione era l’unione con Roma. Per l’arcivescovo francese i superiori sono fatti per il bene e non possono impedire ai fedeli di avere la Messa, di avere i sacramenti e quindi non si può usare il diritto canonico contro il bene dei fedeli, ed è per questo che considerava che ci sono dei momenti in cui si è dispensati – lo stato di necessità nella Chiesa -, risalendo al principio superiore delle leggi della Chiesa, chiamato Salus animarum (la salvezza delle anime) e nulla può impedire al sacerdote di salvare le anime.
Per la quaresima del 1961 monsignor Lefebvre scrisse una lettera pastorale di stupefacente valore contemporaneo: «molti motivi devono suscitare nei nostri animi la sete della verità. Le nostre anime sono fatte per la Verità. Le nostre intelligenze, riflesso dello spirito divino, ci sono state date al fine di conoscere la Verità, di darcene la luce che ci indicherà lo scopo verso il quale deve orientarsi tutta la nostra vita… Chi si forgia una verità sua propria vive l’illusione, in una menzogna immaginaria… La corruzione dei pensieri è ben peggiore della corruzione dei costumi… È per questo che il dovere più pressante dei vostri pastori, che devono insegnarvi la Verità, è quello di diagnosticarvi quelle malattie dello spirito che sono gli errori. E come non deplorare, come già faceva san Paolo, che alcuni di coloro che hanno ricevuto la missione di predicar la Verità non han più il coraggio di dirla, oppure la presentano in un modo tanto equivoco che non si sa più dove si trova il limite fra Verità e l’errore… Si può dire che ancor oggi esiste una certa letteratura religiosa, o che pretende d’occuparsi di religione, che il talento d’impiegare parole equivoche o di forgiare dei neologismi di tale natura… da sperare di poter così mantenere l’approvazione della Chiesa pur compiacendo coloro che sono fuori dalla Chiesa o che la perseguitano… Questa concezione del linguaggio (equivoco) è segno della corruzione dei pensieri». Tale affermazione ricorda le denunce anti-liberali del beato, prossimo alla canonizzazione, cardinale John Henry Newman (1801 - 1890), il quale giunse ad affermare: «in questi cinquant’anni ho pensato che si stiano avvicinando tempi di diffusa infedeltà, e durante questi anni le acque, infatti, sono salite come quelle di un diluvio. Prevedo un’epoca, dopo la mia morte, nella quale si potranno soltanto vedere le cime delle montagne, come isole in un vasto mare. Mi riferisco principalmente al mondo protestante; ma i leaders cattolici dovranno intraprendere grandi iniziative e raggiungere scopi importanti, e avranno bisogno di molta saggezza e di molto coraggio, se la Santa Chiesa deve liberarsi da questa terribile calamità, e, sebbene qualunque prova che cada su di lei sia solo temporanea, può essere straordinariamente dura nel suo decorso». Autorevole fu «il richiamo dell’allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede ed oggi Pontefice f.r., che denunciò in un famoso libro-inchiesta Rapporto sulla Fede – la deleteria presenza d’uno spirito anti: presenza dell’inimicus homo e della zizzania da lui seminata a piene mani nei solchi della Chiesa conciliare e postconciliare per renderne difficile il discernimento secondo la Fede e stemperarlo nel possibilismo, nel relativismo, nell’immanentismo del pensiero moderno. Poco prima d’ascender al soglio di Pietro, fu ancora il card. Ratzinger, nel memorabile e drammatico testo per la “Via Crucis” del venerdì santo 2005, a parlar di “sporcizia”... nella Chiesa, anche fra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a Dio, di “superbia... autosufficienza... e mancanza di Fede”, e concluse con una preghiera che fa rabbrividire: «Signore, spesso la tua Chiesa ci sembra una barca che sta per affondare, una barca che fa acqua da tutte le parti» (J. Ratzinger, Via Crucis, Tip. Vatic. 2005, pp. 63-65). Non era stato da meno il suo predecessore, il quale, nonostante tutto il suo ottimismo tipicamente “conciliare”, aveva dovuto costatare che il Cattolicesimo europeo è in uno «stato d’apostasia silenziosa».
Storico anche il suo discorso sul comunismo, poiché fu uno dei primi vescovi a toccarne l’argomento: «che dicono i comunisti? Dicono che la religione è un’alienazione. Si, è vero, la religione è un’alienazione, nel senso che noi doniamo i nostri corpi, le nostre anime, la nostra intelligenza, la nostra volontà nelle mani di Dio. Noi ci alieniamo per donarci interamente a Dio, interamente a Colui che ci ha creati. Voi vi alienerete per un partito, per degli uomini. Voi mettete tutta la vostra natura, tutta la vostra forza, tutto ciò che avete nelle mani degli uomini».
Prima della «ribellione» ad un sistema che sull’onda della modernità e del relativismo stava trascinando con sé l’ecclesiologia che aveva ceduto alle lusinghe del mondo con la giustificazione di essere al passo con i tempi, Lefebvre era all’unanimità considerato un prete e un Vescovo modello. In seguito, con le burrasche conciliari e postconciliari, dritto come un fuso fino alla fine, continuò a parlare chiaro, senza ambiguità o diplomazie, divenendo maestro, amabile padre e formatore di molti figli, pronti alla «buona battaglia»: «lasciate trasparire in voi il Cristo, affinché i fedeli, accanto a voi, siano un po’ più celesti, un po’ più vicini a Dio, un po’ più lontani dalle cose terrene, affinché possiate condurli veramente a Nostro Signore e al Cielo!». «Le Sacerdoce, c’est l’amour du coeur de Jésus» (Il Sacerdote, è l’amore del cuore di Gesù), diceva il santo Curato d’Ars. Il sacerdote è la massima espressione in terra di unione fra contingente ed eternità. Affermava ancora san Giovanni Maria Vianney: «Tolto il sacramento dell’Ordine, noi non avremmo il Signore. Chi lo ha riposto là in quel tabernacolo? Il sacerdote. Chi ha accolto la vostra anima al primo entrare nella vita? Il sacerdote. Chi la nutre per darle la forza di compiere il suo pellegrinaggio? Il sacerdote. Chi la prepara a comparire innanzi a Dio, lavandola per l’ultima volta nel sangue di Gesù Cristo? Il sacerdote, sempre il sacerdote. E se quest’anima viene a morire per il peccato, chi la resusciterà, chi le renderà la calma e la pace? Ancora il sacerdote... Dopo Dio, il sacerdote è tutto!... Lui stesso non si capirà bene che in cielo» . Tale missione e tale grazia di Dio per l’umanità furono sempre la stella polare di monsignor Lefebvre.
Con desolazione e amarezza Paolo VI, ancora nell’angosciata omelia del 29 giugno 1972, dichiarava: «Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio, di ricerca, di incertezza». Oggi verrebbe da dire: ma Lefebvre, il vituperato Lefebvre, l’aveva detto... L’aveva detto, con ardore e passione, con dolore e forza, subendo conseguenze molto gravi e pagando di persona, con la sospensione a divinis (22 luglio 1976), prima, e con, addirittura, la scomunica (1° luglio 1988), poi.
[caption id="attachment_11186" align="aligncenter" width="1000"] Il 30 giugno 1988, Lefebvre, con il vescovo emerito Antônio de Castro Mayer di Campos (Brasile), come co-consacrante, consacrò quattro sacerdoti FSSPX come vescovi (da sinistra a destra): Bernard Tissier de Mallerais (1954), Richard Williamson (1940) , Alfonso de Galarreta (1957) e Bernard Fellay (1958). Quest'ultimo oggi è il Superiore Generale della FSSPX dal 12 luglio del 2006.[/caption]
Affermerà sulla situazione della Chiesa: «Ora, è evidente che questo nuovo rito, è sotteso – se così si può dire – verso un’altra concezione della religione cattolica, un’altra religione. Non è più il sacerdote che offre il santo sacrificio della messa, è l’assemblea. Questo è tutto un programma. Ormai, è l’assemblea che sostituisce anche l’autorità nella Chiesa: è l’assemblea episcopale che sostituisce il potere dei vescovi, è il consiglio presbiterale che sostituisce il potere del vescovo nella Diocesi, è il numero che comanda oramai nella Santa Chiesa e questo è espresso nella Messa proprio perché l’assemblea sostituisce il sacerdote al punto tale che ora molti sacerdoti non vogliono più celebrare la Santa Messa quando non c’è assemblea. Piano piano è la nozione protestante che s’introduce nella Santa Chiesa […] È vero è sempre penoso essere in difficoltà con le autorità e non desidero altro che di rientrare in buoni rapporti con loro, ma mi sento sostenuto, direi, da 2.000 anni di Cristianità. Di conseguenza, ho perfino l’impressione che la mia posizione sia più tranquilla della loro. Essi si basano su di una Chiesa che è cominciata dal Vaticano II, io ho 2.000 anni di Chiesa dietro di me».
Trascorse gli ultimi anni della sua vita tra i continui spostamenti dovuti al consolidamento e allo sviluppo provvidenziale dell’opera internazionale San Pio X e nella quiete di chi sa di aver seguito la volontà di Dio, si spense nell’ospedale svizzero di Martigny il 25 marzo 1991, giorno dell’Annunciazione di Maria Vergine. Sulla sua semplice tomba, nel caveau di Écône, venne scritto, secondo il suo desiderio: Tradidi quod et accepi («Vi ho trasmesso quello che anch’io ho ricevuto», 1Cor 15,3).
Non possedeva doti profetiche, ma era un profondo realista, guardava la realtà in faccia, senza nascondersi dietro le illusioni, le facili e comode utopie. Ed ecco che la Chiesa di Benedetto XVI con il Motu proprio del 7 luglio 2007, Summorum Pontificum, liberalizza la Santa Messa di sempre, il cui «Messale non fu mai giuridicamente abrogato e, di conseguenza, in linea di principio, restò sempre permesso», e il 24 gennaio 2009 revoca il decreto di scomunica latae sententiae ai vescovi della Fraternità Sacerdotale San Pio X, consacrati da monsignor Marcel Lefebvre nel 1988.
Per approfondimenti
_M. Marín, John Henry Newman. La vita (1801-1890), Jaca Book, Milano 1998;
_B. Gherardini, Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare, Casa Mariana Editrice, Frigento (Avellino) 2009;
_«Semaine religieuse», Tulle, 20 aprile 1962;
_Le Sacerdoce, c’est l’amour du coeur de Jésus, in Le curé d’Ars. Sa pensée - Son coeur. Présentés par l’Abbé Bernard Nodet, éd. Xavier Mappus, Foi Vivante, 1966;
_Cristina Siccardi, Mons. Marcel Lefebvre. Nel nome della verità, Sugarco Edizioni;
_Cristina Siccardi, Maestro in sacerdozio. La spiritualità di Monsignor Marcel Lefebvre, Sugarco Edizioni;
_Cristina Siccardi, Nello specchio del Cardinale John Henry Newman, Fede e Cultura, 2010.
 
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di Federico Giacomini 20/12/2018

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Juan Louis Vives fu un umanista di origine spagnola (nacque a Valencia nel 1492), di origine ebraica (figlio di giudeo-conversi), ma di fede cristiana profonda, rimase fedele a Santa Romana Chiesa in cui trovò l’ispirazione per l’applicazione per nuovi concetti e progetti sociali riguardanti lo studio del fenomeno del pauperismo nonché l’importanza del fattore psicologico e umano nel trattamento dei casi di povertà e malattia mentale.
[caption id="attachment_10938" align="aligncenter" width="1000"] Juan Luis Vives (Valencia, 6 marzo 1492 – Bruges, 6 maggio 1540) è stato un filosofo e umanista spagnolo. Nella foto una sua statua a València (Spagna).[/caption]
Dopo l’adolescenza (1509) partì dalla Spagna per proseguire gli studi a Parigi (tappa decisiva della sua crescita culturale), non fece più ritorno a casa trovando ospitalità nei Paesi Bassi prima a Lovanio poi a Bruges. Lì si stabilì definitivamente tra i suoi numerosi viaggi in Inghilterra (per questo fu definito da Erasmo da Rotterdam, suo amico, “viaggiatore anfibio”), lì fu precettore di Maria Tudor e docente a Oxford finquando il drammatico evento del divorzio tra Enrico VIII e Caterina lo costrinsero a stabilirsi nelle Fiandre definitivamente.
Rifiutò di tornare in patria anche se spesso fu preso da sentimenti nostalgici, da alcuni suoi carteggi degli anni Venti evidenzia come la “sfortuna” si accanisca contro la sua famiglia, la madre prima assolta fu dichiarata eretica dopo la morte e il padre fu arso sul rogo.
Dalle lettere e da ciò si spiega il suo “amore per la pace, il rifiuto della discordia e della sovversione” e un atteggiamento di polemica di stampo erasmiano contro inquisitori e teologi i quali accusano solamente per dissensi culturali. Nella lettura della sua principale opera è possibile constatare più volte la sua devozione alla Chiesa unita ad una sobria critica, ad esempio verso la vendita delle indulgenze: “D’altra parte la disciplina ecclesiastica si è decomposta a tal punto che nessun servizio viene amministrato gratuitamente. Detestano la parola «comprare», ma costringono in ogni caso a contare”.
Opera in buona parte influenzata dai numerosi soggiorni in Inghilterra, “De subventione pauperum” (“L’aiuto ai poveri”, tradotto in inglese, francese, fiammingo e italiano) costituisce il primo testo dove si effettua una attenta ricerca sul fenomeno, ci si pone il problema del “come” aiutare, si tratta un fenomeno il quale esige un’organizzazione, si fornisce dello stesso una spiegazione teoretica e se ne formula una strategia specifica che sarà adottata in seguito da altri consigli municipali. Emblematico è caso della municipalità di Ypres (Francia) nel 1530: vietando le elemosine per i poveri la stessa fu accusata di eresia dagli ordini francescano e domenicano i quali vedevano in ciò uno sconvolgimento della visione evangelica degli stessi, ma questa addusse come prova a favore le tesi del suddetto testo e vi fu un’ innovativa assoluzione (Geremek, 1986).
Si può considerare il testo di grande spessore in quanto affronta di petto situazioni sociali quali cause di povertà, pauperismo (esternazione della stessa), mendicità, ed in quel preciso momento storico (primi del ‘500) nel quale antichi atteggiamenti benevoli nei confronti dei poveri stanno venendo meno come antiche, riduttive e imprecise visioni evangeliche sul “come realmente” aiutare (misericordia gr. elemosina) si stanno sgretolando.
Un contesto di cambiamento per quanto riguarda la storia dell’assistenza. Come si è precedentemente detto, antichi atteggiamenti benevoli nei confronti dei poveri stanno venendo meno ed il fenomeno del pauperismo iniziò a costituire un pericolo per i cittadini, ciò fu dovuto in parte anche ad un aumento demografico superiore all’aumento della produzione agricola. Ad aggravare ulteriormente la questione sociale, nella seconda metà del secolo XIV vi furono pestilenze e carestie le quali provocarono migliaia di mendicanti che furono spinti verso le città. Gli arcaici sistemi di carità si rivelarono insufficienti a risolvere il problema che iniziò a interessare municipalità e governi: “Queste masse di poveri suscitavano, nei gruppi borghesi e nobiliari, soprattutto timore, per il rischio di disordini che minacciavano di mettere in crisi l’ordine sociale. Tale situazione orientò sempre piu i ceti abbienti verso la ‘difesa’ delle proprie fortune e proprietà da questa crescente massa di esclusi […] queste idee portarono alla proliferazione di ordinanze e di provvedimenti legislativi, emessi dalle autorità centrali, che rispecchiavano il ruolo di controllo sociale attribuito all’assistenza”.
Un periodo di aspri cambiamenti all’interno delle città, e di nuove tensioni che Vives nei suoi numerosi viaggi in Inghilterra percepì prima che nelle altre capitali europee. Proprio in Inghilterra tale problematica era più sentita: vennero introdotte infatti lì (anni dopo, dal 1576) le prime leggi elisabettiane sui poveri, il Poor Relief Act (1576) e i Poor Law Acts del 1598 e del 1601, permanenti nel 1640 e in vigore fino al 1834. Queste leggi vanno ricordate in quanto posero le basi normative di un assistenzialismo centrato sull’istituzionalizzazione, sorsero le “case di lavoro” in Inghilterra come gli “alberghi dei poveri” in Italia. In tali strutture venivano rinchiusi i poveri abili al lavoro considerati fannulloni, chi si rifiutava di entrare i queste strutture non aveva diritto ad altri soccorsi né poteva mendicare. Gli anziani, i minori e i diversamente abili erano considerati inabili al lavoro (“poveri buoni”) e venivano soccorsi tramite il ricovero o l’autorizzazione a mendicare.
Vives, con ottimo spirito di osservazione analizza la realtà inglese ed europea e le problematiche del pauperismo; fa tutto questo e con spirito di analisi e di indagine implicitamente ponendo ai lettori quesiti che portano ad una sorta di introspezione, invita alla riflessione sul modo di aiutare, si occupa di una virtuosa ed attenta speculazione sulle cause dell’aiuto e sul perché a volte non dà i frutti sperati.
Ciò che emerge dalla lettura in cui trova luogo “sorprendentemente” il principio di sussidiarietà, è che con il “rivoluzionario” testo di J.L.Vives: il classico modo di “aiutare dall’alto” viene messo fortemente in discussione nonché definito nocivo; emerge e si rafforza il concetto di “persona” che in quanto essere formata da mente e corpo necessita di aiuti per entrambe le sue parti; dietro la condizione del povero c’è un uomo che domanda profondamente sulla sua dignità; non ci sarà mai un completo recupero del povero se non lo si aiuta a ri-elevarsi alla sua “dignità di uomo” facendolo “compartecipare (insieme) al subsidium” nella pratica della “virtù del lavoro” (solo facendo la propria parte conformemente al principio della libertà).
A ragione di ciò si è deciso di condurre l’argomentazione del testo non in maniera canonica, ma focalizzandosi sugli elementi componenti la sussidiarietà che l’autore vuole trasmetterci: L’aiuto in denaro dato dall’alto e senza una partecipazione attiva del povero (nella pratica della virtù e nel lavoro virtù stessa in quanto allontana da comportamenti insani) è inefficace.
Nel corso dei secoli si è offuscato il vero concetto di carità cristiana (il “come aiutare”) nel trattare il fenomeno “inestirpabile” della povertà . L’autore tratta un concetto dell’ aiutare non limitato alla sola e “nociva” elemosina , ma in maniera “integrata” in quanto la persona è composta di mente e di corpo che è visione Cristiana precisa e innovativa per l’epoca: “Orbene, quanto grande e nobile compito consiste nel mettere insieme e nel pacificare gli animi, il che avviene in parte insegnando la virtù, in parte con la conversazione, con le consolazioni, col conforto, con le visite, con la condiscendenza”.
Ne parla in maniera esplicita: “Certuni giudicano che il fare il bene non insista esclusivamente in altro che nel dare o nel ricevere denaro [elemosina]. In questo peccano molti perché, mentre danno un consiglio, hanno in mente esclusivamente il denaro, dimenticandosi della buona coscienza e della virtù. Noi però, dal momento che siamo composti di mente e di corpo, abbiamo beni o vantaggi […] in relazione ad entrambe queste dimensioni: nell’animo sta la virtù; infine tra le cose esteriori, il denaro […], gli alimenti”.
Lasciando al denaro l’ultimo posto: “Quasi l’ultimo posto è lasciato al denaro. E’ cosa generosa ed onesta dare aiuto anche con questo mezzo, scelta che implica una straordinaria dolcezza”.
L’autore prosegue con lo stesso concetto: “come non bisogna provvedere unicamente al vitto, dal momento che tutto quanto l’uomo necessita di aiuto sotto tutti gli aspetti, così i nostri benefici non debbono essere limitati al solo denaro. Bisogna fare del bene coi mezzi spirituali […] col consiglio, con la saggezza, con gli insegnamenti per la vita, con mezzi materiali”.
Dietro alla condizione di povertà si cela una domanda profonda di un uomo che vuole riconquistare una “virtuosa pienezza umana”. Emerge qui il concetto di povertà materiale come conseguenza di un disagio spirituale che trova tra le diverse cause, dei cattivi insegnamenti: “E nella formazione intellettuale ad alcuni non toccò un maestro, altri furono corrotti da un insegnante a sua volta corrotto, come il popolo, grande maestro di errori […] Così l’uomo è diventato, dentro e fuori, completamente misero”.
Si fa riferimento all’ambivalenza del concetto di povertà prima spirituale e poi materiale ma anche, richiamando un concetto che verrà ripreso nel ‘900 dalla dottrina sociale cattolica, di domanda profonda la quale si riferisce non solo alla richiesta di aiuto economico ma (secondo il linguaggio dell’epoca) anche psicologico: “dunque chiunque ha bisogno dell’aiuto altrui, è povero e necessita di quella misericordia, che in greco si chiama ‘elemosina’, la quale non consiste solo nella erogazione di denaro, come la gente comunemente ritiene, ma in ogni opera con la quale si solleva l’indigenza umana”. L’autore sente la necessità di effettuare studî, ricerche e indagini sulla povertà, sul pauperismo, sulla mendicità e sulle loro cause.
Con l’espandersi delle città il fenomeno ha raggiunto vaste dimensioni anche in merito a questioni di pericolosità sociale, si trattano questi temi in entrambi i libri descrivendo anche comportamenti, abitudini e costumi dei mendicanti di Bruges: “alcuni paiono dire, non scioccamente, che essi mendicano non per sé, ma per il taverniere, indubbiamente perché, avendo facilmente raccolto quella determinata somma di denaro in quel giorno, confidano che ne raccoglieranno altrettanta il giorno dopo. Non so per quale ragione la parsimonia è rara tra le persone che posseggono poco e molto più rara se il denaro è stato acquisito senza industria e lavoro”.
Riemerge nuovamente l’importanza del lavoro. L’autore suggerisce delle “innovazioni” per ciò che concerne l’“organizzazione” per una “gestione efficace” delle risorse.
Auspica alla municipalità di designare quattro persone per ogni parrocchia le quali si occupassero: della “classificazione e registrazione dei poveri” , della gestione di una cassa comune, della scelta di persone cui demandare la “assistenza” psicologica e spirituale sulla base della “necessità” nonché indagare e controllare che nessuno si rifiutasse di “lavorare” (fare la propria parte), restando ozioso: “Dunque due senatori con un segretario visitino ed ispezionino una per una queste istituzioni [ospedali], registrino le rendite […] ed anche per quale motivo ciascuno è arrivato lì. Trasmettano queste informazioni ai consoli e al senato nella casa comunale. Coloro che sopportano la povertà a casa, siano registrati insieme ai loro figli da due senatori parrocchia per parrocchia, dopo che è stata aggiunta la segnalazione dei loro bisogni, il modo in cui hanno vissuto precedentemente e le circostanze in cui siano caduti in povertà: sarà facilmente appurabile dai loro vicini che genere di uomini siano”. Si può affermare che ha inizio proprio con l’opera di Vives un assistenza ai poveri basata su “concetti moderni, razionali, di professionalizzazione […] su relazioni gerarchiche e amministrazione autonoma […] questo sistema centralizzato e burocratico presentava la possibilità di controllare e rieducare i poveri”. Proprio nel richiamo al fattore del “lavoro” riemerge un implicito concetto di sussidiarietà, gli assistiti riceveranno un aiuto che non deriverà dall’alto e non sarà soltanto economico, ma saranno chiamati a fare “la loro parte” con il proprio lavoro.
Da qui si evidenzia l’emergere di un concetto di carità nuovo (evangelicamente più preciso e originario) e di un modo più concreto di aiutare il povero il quale “lavorando” e “compartecipando” all’aiuto di una “organizzazione”, “si rieleva alla sua dignità di uomo”. “Coloro che hanno la forza di lavorare non se ne stiano oziosi […] Come adesso non vi è nulla per loro più dolce di un ozio inerte e istupidito, così, se fossero abituati a fare qualcosa, non vi sarebbe per loro nulla di più grave o di più detestato dell’ozio e niente di più gioioso del lavoro”.
Concetto che chiarisce anche nel II libro : “[…] che ciascuno mangi il proprio pane procurato con la fatica. Quando nomino il «mangiare» o «l’essere alimentato» o «l’essere sostentato», voglio che si intenda non soltanto il cibo, ma i vestiti, la casa, la legna, le candele, in definitiva tutto ciò che riguarda la sussistenza fisica.
Dunque nessuno tra i poveri, il quale ovviamente possa lavorare o per l’età o per la salute, se ne stia ozioso […] pertanto non bisogna tollerare che alcuno viva ozioso nella città”.
Sempre nel II libro propone che sia fatta una indagine tra i poveri, da parte dei “segretari” già citati: “Agli individui del posto bisogna domandare se conoscano qualche mestiere. Coloro che non ne conoscono alcuno, se sono idonei per l’età, devono essere istruiti nei confronti della professione verso la quale affermano di essere maggiormente inclinati, se è possibile. Altrimenti, verso qualcosa di simile”.
Secondo autore di grande rilievo è Thomas Chalmers (1780-1847), il quale portò avanti i principi di sussidiarietà come risorse naturali di aiuto.
Dopo aver citato elementi sussidiari nell’opera principale del “primo” che si occupò dell’assistenza in maniera scientifica e razionale, un tributo doveroso è dovuto a Thomas Chalmers.
Nacque in un piccolo villaggio scozzese di pescatori, fu una figura rivoluzionaria nel campo delle riforme sociali, il teologo, ministro presbiteriano nonché matematico e fondatore della Libera Chiesa di Scozia con le sue innovazioni trova luogo nella trattazione del principio di sussidiarietà.
[caption id="attachment_10940" align="aligncenter" width="1000"] Thomas Chalmers (17 marzo 1780 - 31 maggio 1847), era un ministro scozzese, professore di teologia, economista politico e dirigente della Chiesa scozzese e della Free Church of Scotland. È stato definito "il più grande uomo di chiesa ottocentesco della Scozia".[/caption]
Chalmers fu responsabile della più grande e povera parrocchia di Glasgow, dove sviluppò un metodo di assistenza elaborato secondo il parametro dell’efficacia il quale ottenne un incredibile contenimento della spesa pubblica, per questo fu incaricato dalle autorità cittadine di svolgere funzioni inerenti alla legge sui poveri senza sovrapposizione tra i due sistemi di erogazione e utilizzando solamente donazioni.
Nel 1823 ottenne la cattedra di filosofia morale a St.Andrews e nel 1828 quella di teologia all’Università di Edimburgo. Divenuto leader del partito che puntava all’indipendenza della Chiesa scozzese, ne divenne Moderatore e Rettore del Seminario di Edimburgo.
Come precedentemente accennato, Chalmers elaborò un nuovo metodo di assistenza non basato su fondi pubblici. Chalmers poneva l’attenzione sull’organizzazione “le città dovevano essere assimilate a parrocchie rurali” dal forte spirito comunitario e dalle copiose “risorse naturali”.
Il metodo di Chambers aveva un carattere empirico ed era frutto di una sperimentazione nella sua parrocchia la quale era sì grande ma molto povera: la suddivise in distretti affidati a diaconi, loro compito era di effettuare indagini sulla situazione degli assistiti, al decano spettava il compito di scoprire “risorse naturali” idonee al trattamento del caso. Il metodo si basava su quattro fonti da utilizzare in maniera sussidiaria: sobrietà, frugalità, economie dell’assistito ed etica del lavoro (l’assistito era chiamato a fare la “propria parte”); aiuti da parte dei familiari; aiuti da parte del vicinato; aiuti da parte dei benestanti.
Familiari, vicinato e benestanti erano chiamati ad agire in maniera sussidiaria. Con questo sistema, agendo sulla vita privata (mondo vitale) dell’assistito, la si andava ad arricchire dal punto di vista relazionale; da ciò scaturiva una maggiore efficacia dei controlli dell’ambiente naturale. L’assistito veniva così inserito in un sistema fatto di relazioni che maturavano nello stesso autonomia e senso di responsabilità ed inoltre, non creando un sistema “artificiale” di aiuti diminuivano fin quasi ad azzerarsi le spese pubbliche. Tale sistema era volto a rafforzare le relazioni sociali dell’assistito, il suo “mondo vitale” e la sua personalità.
Nelle teorie di Chalmers videro la base le sistematiche metodologie d’aiuto di Mary Richmond (fondatrice del social work professionale) e Charles Loch (fondatore della Charity Organisation Society di Londra).
Per approfondimenti:
_L.Vives, De subventione pauperum, Fabrizio Serra, Pisa-Roma (2008);
_M.Dal Pra Ponticelli, G. Pieroni, Introduzione al Servizio Sociale, Carocci Faber, Roma 2005;
_B.Bortoli, I giganti del lavoro sociale, Erickson, Trento (2006);
_Federico Giacomini, La Santa Romana Chiesa e il principio di sussidiarietà, L'altro - Das Andere, 2018;
_Federico Giacomini, L’azione caritativa di Santa Romana Chiesa, L'altro - Das Andere, 2018.
 
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di Liliane Jessica Tami del 17/11/2018

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La caccia è una delle più antiche esperienze umane. Dal primitivismo, la cultura occidentale è riuscita a rendere questa primordiale necessità naturale, una vera e propria arte. Dall'uomo di Cromagnon che afferrava le donne con la forza, l’amore si è sublimato sino a diventar poesia d’amor cortese, e in modo analogo anche l’atavico istinto del cavernicolo predatore si è evoluto nella raffinata ed elegante arte venatoria. La caccia, intesa come "arte nobile", si è elevata non più come mero soddisfacimento dell’istinto carnivoro dell’uomo, ma si è trasformata in una disciplina regolamentata da codici etici ed estetici ben precisi. Innanzitutto essere cacciatore significa amare la natura e rispettarla, e ciò comporta adoperarla anche nell’abbigliamento.
[caption id="attachment_10809" align="aligncenter" width="1000"] Nella foto di sinistra un dignitario nel 1920 in Germania con una giacca Norfolk; a destra particolare di un gentiluomo nel suo abbigliamento venatorio.[/caption]
L’elemento base del cacciatore, a prescindere dalle coordinate geografiche in cui opera, è la giacca, rigorosamente portata con la camicia. Quest'ultima possibilmente in cotone, la cui origine è legata ai campi di fiore bianco, è coerente con l’amore del cacciatore per la natura. Le t-shirt in polimeri sintetici high-tech con stampe mimetiche lasciamole pure ai marines americani: l’idea di avvicinarsi al grembo di Madre Natura, in una foresta selvaggia, indossando derivati della plastica è fuori contesto, puerile e ridicola. Per amore della tradizione la giacca da caccia andrebbe abbinata ad una cravatta, con colori rigorosamente autunnali, o un fazzoletto. In Inghilterra, secoli addietro, questo pezzo di stoffa era nato, col nome di plastron, per fungere da laccio emostatico in caso il cacciatore si fosse ferito. La giacca e i pantaloni, così come gli accessori, dipendono dalla zona geografica e culturale in cui si pratica la caccia: l’esteta che andrà a stanar cinghiali in Tirolo, per rispetto degli usi e costumi sartoriali locali, indosserà un Loden in lana ed un copricapo da Jäger.
Il cacciatore che nei boschi dello Yorkshire andrà a cercar volpi, invece, per amore delle usanze locali, potrebbe indossare una giacca da equitazione rossa dal bavero nero sotto ad un bel cappotto bourbon cerato verde, abbinato al tipico cappello derstalker.
Tutte le giacche da caccia discendono, ovviamente, da abiti elaborati al fine di essere comodi durante le attività sportive: le giacche da equitazione, in inglese chiamate hacking jacket, sono state pensate in modo da essere eleganti soprattutto quando vengono indossate da un gentiluomo sudato seduto in sella il quale deve potersi muovere comodamente. L'indumento è leggermente stretto in vita, ha tre bottoni ed i baveri che si incontrano a metà petto. Se il risvolto fosse più lungo o avesse meno di tre bottoni, non avrebbe un bel appiombo se indossata stando seduti sul cavallo. Tradizionalmente la giacca da equitazione era fatta in tweed, al fine di essere robusta e resistere a strappi, rovi e lacerazioni varie. In passato le giacche da equitazione avevano un taglio più lungo, con uno spacco sul retro che si biforcava sulla schiena del destriero. Le tasche, inclinate, rivolte all’interno e grandi, sono pensate per permettere al cavaliere di afferrare facilmente gli oggetti in esse contenute.
[caption id="attachment_10810" align="aligncenter" width="1000"] Giacca femminile di equitazione in tessuto Tweed.[/caption]

Nei paesi mediterranei, invece, è uso indossare la giacca maremmana, tipica dell’omonima regione italiana e si riconosce per le forme più morbide rispetto ai tagli diritti delle giacche sportive inglesi. Il tratto distintivo di questo capo sono le due tasche davanti, applicate, arrotondate e così ampie da comprendere quasi tutta la parte davanti della giacca arrivando sino quasi al bavero piccolo e morbido. Il cacciatore spesso può trovarsi ad usare il fucile in posizioni che lo obbligano a tenere il gomito alzato, perciò la giacca deve assolutamente permettergli la massima libertà di movimento e non intralciarlo in alcun modo. Per permettere un’ampia gamma di movimenti a chi indossa questo capolavoro stilistico, la tradizione sartoriale vuole l’attaccatura del braccio, possieda una particolarità chiamata soffietto, ossia una piccola piega di stoffa che si apre a fisarmonica per agevolare i movimenti della spalla. Al fine di resistere al freddo, alle intemperie e alle insidie della foresta, la giacca maremmana deve essere prodotta in un materiale robusto e resistente, come il velluto o, in particolare, il fustagno. Il fustagno, oggi usato per confezionare abiti da caccia o da lavoro, è un tessuto estremamente resistente prodotto con armatura a saia a 3 o a 4. In passato, dopo esser stato sbiancato, veniva usato per la biancheria da letto e le federe, in modo che queste fossero non solo indistruttibili ma anche ben calde. Il fustagno, a dipendenza della lavorazione, presenta diverse varietà, come il il beaverteen, il moleskin e il doeskin che imita le pelle di daino. La parola Fustagno, nel Medioevo, designava un tessuto di cotone mischiato a lana oppure a lino.

[caption id="attachment_10811" align="aligncenter" width="1000"] Giacca maremmana vecchio stile confezionata in resistente e comodo pilor, tessuto caldo e impermeabile prodotto esclusivamente in italia da tessiture di assoluta qualità, all’interno del lato sinistro è stato realizzato il taschino porta documenti, il carniere è chiuso con un bottone per parte. Giacca calda e comoda utilizzata da sempre in Toscana da cacciatori e butteri.[/caption]
Il gentiluomo che vuole rifuggire la città andando a caccia sulle selvagge Alpi del Südtirol, potrà ispirarsi agli abiti Trachten ( dal tedesco tragen, indossare), tipici delle Alpi tedesche. La tradizionale giacca, chiamata Joppe, abbinata al cappotto in Loden è perfetta e da sempre onorata dalla nobile tradizione venatoria: celebre è infatti il duca di Stiria Giovanni d'Asburgo-Lorena a cui piaceva andare a caccia indossando il Tracht. Le giacche tirolesi si riconoscono dalla loro forma particolare dei baveri arrotondati e fissati con dei bottoni al petto in modo da seguire bene i movimenti del corpo dell’uomo predatore mentre s’acquatta vicino alla preda. Le giacche tirolesi hanno una duplice eredità: cavallerizza e militare, cosa che si evince dalle spalle squadrate che ricordano l’austerità delle divise, e la martingala. Quest'ultima è quel pezzetto di stoffa, simile ad una mezza cintura, presente sul retro di giacche e cappotti che ne restringe il punto vita e si trova soprattutto nelle divise militari. La tradizione tirolese è grande amante dei colori sgargianti e degli ornamenti: le giacche, infatti, presentano spesso abbinamenti con colori sgargianti che si trovano anche nel piumaggio di fagiani e galli cedroni, come il verde, il rosso o il grigio luccio. L’uomo germanico, un po’ orso e un po’ esteta, ama adornarsi i baveri con decorazioni di corno, spillette, ricami a forma di foglie di quercia e bottoni d’osso finemente intagliati, pur sapendo che andando a caccia ha bisogno di una giacca resistente che lo protegga dalle intemperie e, se possibile, anche dalle zanne di del cinghiale. Sui copricapi il cappello da Jäger può avere una Feldzeichen (ramoscello con tre foglie di quercia) o un Federschmuck (piumetto). La lana cotta delle Joppe e il Loden resistono agli urti, alle lacerazioni e ai tagli. Alla giacca tirolese si può abbinare un cappotto in Loden, ampio, avvolgente, caldo e comodo. Il loden è un panno in lana tipico del Tirolo. La parola Loden deriva da Lodo, che in tedesco arcaico significa balla di lana. Questo panno grezzo è resistente e duraturo, perché viene fatto follare (infeltrire) e garzare, in modo da renderne un lato impermeabile e l’altro peloso.
[caption id="attachment_10812" align="aligncenter" width="1000"] Leopold Kupelwieser, Ritratto di Giovanni Battista Giuseppe Fabiano Sebastiano d'Asburgo-Lorena, arciduca d'Austria (particolare) - 1828.[/caption]
L'uomo europeo, ha perpetrato la caccia anche in ambito coloniale: la giacca sahariana, usata nei primi del ‘900 per la caccia grossa in savana, è nata in ambito bellico e esplorativo. La sua praticità, consiste nelle tasche dalla comoda cintura, che la tengono ben aderente al corpo anche durante le folate di vento desertiche, rendendola molto versatile. Si dice che sia stata portata di moda dall’aviatore canadese Arthur Roy Brown (1893 - 1944), che secondo alcuni potrebbe aver abbattuto, il tragico 21 aprile 1918, l’aviatore ed ufficiale tedesco Manfred Albrecht von Richthofen (1892 - 1918), conosciuto col nome di  Barone Rosso. La sahariana in genere è realizzata in cotone, lino, tessuto impermeabile o anche velluto a coste.
[caption id="attachment_10815" align="aligncenter" width="1000"] A sinistra fotogramma del paziente inglese (The English Patient), film del 1996 diretto da Anthony Minghella, tratto dall'omonimo romanzo dello scrittore canadese Michael Ondaatje: nella foto l'attore e protagonista Ralph Fiennes in Sahariana. Nella foto di destra Sahariana militare di un reale coloniale britannico ai primi del secolo del 900.[/caption]
Le quattro tasche a soffietto e una cintura in vita,  di color  kaki, consentono di riporre comodamente gli oggetti e di proteggersi dalle bufere di sabbia. Il clima africano, ovviamente, è stato determinante per forgiarne la forma. In passato veniva realizzata in drill di cotone, un tessuto molto resistente e di lunga durata, abitualmente destinato alle divise coloniali inglesi. Un celebre amante di questa giacca è stato Ernest Hemingway, che se le faceva appositamente confezionare dal negozio di New York Abercrombie & Fitch, specializzato in abbigliamento sportivo.
 
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