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di Giuseppe Baiocchi del 18/12/2024

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Il libro del dott. Ronald Friedrich Schwarzer “Attraverso le lande asburgiche” (Durch Habsburgs Lande, Karolinger, 2023) è un viaggio meraviglioso nelle antiche terre della famiglia degli Asburgo-Lorena: qualche nome e appartenenza culturale esiste ancora, qualcun’altra si è solo assopita e aspetta un ritorno quanto mai profetico. Difatti come ci appare dalla copertina della prima edizione austriaca, la Corona austriaca – simbolo di tutti i popoli che componevano prima il Sacro Romano Impero (800 - 1806), poi l’Impero Austriaco (1806 – 67) ed infine quello d’Austria-Ungheria (1867 - 1918) –, rappresenta la vera garanzia del primo esperimento che non può non celare similitudini con quella Europa unita su basi culturali comuni come la grecità, la cristianità e successivamente la filosofia tedesca del 900. Venti lingue venivano parlate sotto questi Regni amministrati da una delle famiglie che hanno contribuito – insieme ai Borbone – a plasmare l’Europa che oggi ancora abbiamo la fortuna e il privilegio di ammirare: il tedesco, l’ungherese, lo slovacco, il ruteno, lo sloveno, il ceco, il russo, il rom, il rumeno, il polacco, lo yiddish, il lombardo, il veneto, il ladino dolomitico, il friulano, l’italiano, il dalmatico e il serbo.

Nel primo Natale del secolo nono Carlo Magno riceveva nelle mani di Papa Leone la corona dei Cesari romani: l’antico Imperium, la cui potenza aveva riposato per tanti secoli, era nuovamente risorta. Presenti nella simbologia vi era la Croce, nella quale si incrociavano l’orizzontalità terrena e parallelamente la verticalità ultraterrena. Il Globo imperiale posizionato sulla sinistra simboleggiava che quel Impero avrebbe portato la croce di Cristo. I due più potenti antagonisti Cesare e Cristo, venivano avvicinati nell’idea del nuovo “Sacro Romano Impero di Nazione Tedesca”. E poi scoccò la sua ora destinale, nella quale un popolo capisce di ricevere un grande onore e un grande onere: l’eredità spirituale del Caesar Carolus Magnus. Fu proprio la casa d’Asburgo che resse i paesi ereditari austriaci e da allora in poi, con poche interruzioni, conservò la dignità imperiale romana fino al termine di questa. Difatti quando all’inizio del Novecento cominciò a salire l’ondata del nazionalismo tedesco1, il sovrano asburgico allora regnante, Francesco I, sciolse il Sacro Romano Impero di Nazione Tedesca non chiamandosi più Imperatore romano, ma per l’appunto “Imperatore d’Austria”: il disperato tentativo di salvare la grande idea della unità dei popoli.

Non voglio enunciare qui una teoria, ma esprimere un dato esperienziale. Solo nel segno di un’idea superiore si fondarono e si fondano i regni. Le nazioni possono costituire soltanto degli Stati. Gli Stati nazionali sono nella loro intima essenza massonici, quindi di natura satanica per un uomo di fede cattolica; come tutto ciò che è demoniaco e idolatrato, sono suscettibilmente “dinamici”, minacciosi e minacciati. I veri regni invece nascono, quando alle unità demoniache naturali è aggiunto un elemento soprannaturale divino, che le trascina in alto al di sopra di loro stesse: una rivelazione o un’idea superiore: un Regno di Cristo in terra. Tale è almeno nell’ora della sua nascita. Ronald giudica che il suo mondo estinto, l’Impero d’Austria, fu precisamente uno di questi veri regni. Tuttavia egli soffre. Soffre, perché un ordine superiore è decaduto ad un ordine inferiore. Soffre della perdita di una fine della propria dignità personale, che, nonostante ogni comunanza nazionale, era scesa anche su di lui, minimo frammento, dall’idea sopra ordinata di quel Regno. L’Impero ancora in Austria è amato e come non potrebbe esserlo? Sotto gli Asburgo l’Austria ha prosperato, aveva uno sbocco marittimo e come ci ricorda Alexander Lernet-Holenia nel suo capolavoro letterario “Lo Stendardo” ‭«In un certo senso noi siamo, per così dire, un Impero coloniale su suolo europeo […] abbiamo riunito intorno a noi un gruppo di popoli che è incomparabilmente più numeroso di noi stessi. Abbiamo dato loro tutto ciò che potevamo dare. Questo era ed è il nostro dovere di tedeschi. Li abbiamo resi maggiorenni»2.

  [caption id="attachment_16407" align="aligncenter" width="1000"] Confine doganale presso la cittadina di Braunau am Inn, oggi comune austriaco di 16.887 abitanti in Alta Austria, del quale è capoluogo di distretto.[/caption]
Ma come si può comprendere questa consapevolezza? Ebbene l’idea dell’antica Austria pretendeva che l’uomo che l’abitava fosse in un certo senso “trasformato” e “riplasmato”. Con immensi sforzi – sia di carattere culturale, che sociale – lavorò non sul concetto di nazione e quindi di nazionalismo (che come sappiamo, ha portato solo distruzione laddove è stato abbracciato), ma su quello di essere parte di un Unicum nel quale un tedesco, un ruteno, un italiano, sentisse interiormente quella scintilla verso una appartenenza più alta, qualcosa di superiore ideologicamente parlando: un vero e proprio sacrificium nationis, in cui l’individualismo nazionale fosse messo da parte. Una rinuncia ad una comoda affermazione di se stessi, rinuncia all’eccitante abbandono degli istinti del proprio sangue, rinuncia all’indomito bisogno di trionfo della propria stirpe. Solo chi compiva questa rinuncia, chi era deciso a questo sacrificio, poteva ottenere la consacrazione superiore dell’idea, venendo così ricreato nell’uomo nuovo, nell’Austriaco: un simbolo ideale per insegnare molto alle altre civiltà. Come ci ricorda un altro grande scrittore come Franz Werfel «Egli doveva diffondere la luce della propria umanità provata dal sacrificio, affinché tutti quelli che erano ancora giovani, ancora barbari, ancora legati alla terra, fossero illuminati e convertiti da questa luce. Questa destinazione [...] si è conclusa col tramonto della vecchia Austria3». Inoltre la mitezza del cattolicesimo donava all’Impero la sua segreta sostanza di benessere sociale: un vento amabile guidato, nella sua fase finale, dal pio, Carlo Imperatore, beatificato nel 2004. I funerali “di Stato” di Ottone d’Asburgo-Lorena, figlio di Carlo a Vienna nel 2011 sono stati un simbolo di come l’Impero ritorna ancora oggi incessante, non sulle carte geografiche, non sulle mappe terrestri che gli furono proprie; ritorna in tanti cuori e in tante menti, come immagine, sogno e speranza; come una reliquia da adorare e conservare gelosamente, benché imperfetta, calma e magnifica: quell’Austria felix che faceva l’amore e non la guerra, dolce e malinconica, ritorna sommessa e luminosa, perché l’Impero asburgico è stato grande, è stato ordinato, è stato bello, è stato gentile ed è stato soprattutto molto rimpianto. Sebbene la mia descrizione, si immerga perfettamente nel celebre filone letterario a cui Claudio Magris riuscì a donare il fortunato nome di Finis Austriae, il libro “Attraverso le lande asburgiche” non può essere inquadrato propriamente in questo genere, poiché oltre al suo humour inglese che contraddistingue l’eccellente penna di Schwarzer, il ritmo della lettura e tutt’altro che melanconico e odorante di rimpianti. Si avverte, di contro, tutta l’energia dell’autore per ricordare come queste terre, non abbiano affatto smarrito quella trazione culturale – artistica, architettonica e letteraria, di usi e costumi – propria della Vecchia Austria. D’altronde se effettuiamo una analisi della forza vitale di molti paesi oggi indipendenti e nazionali, possiamo tranquillamente riscontrare di come la loro forza spirituale si sia essenzialmente dissolta. Kafka, scriveva in tedesco, non in ceco e quando l’antica Repubblica Cecoslovacca nacque non sfornò più nessun letterato degno di nota, ad eccezion fatta per Kundera (1929 - 2023). Di questi esempi ne possiamo fare altri, tutti legati a quei micro paesi attuali come ad esempio l’attuale Slovacchia o la stessa Ungheria, che dopo il grande Marai non ha più riproposto sulla scena internazionale autori di così grande elevatura letteraria. Ebbene quella forza spirituale e culturale a trazione austro-tedesca viene ripresa nel libro di Ronald Schwarzer.
[caption id="attachment_16419" align="aligncenter" width="1000"] Frammento di immagine del funerale pubblico di Otto von Habsburg nel 2011.[/caption]
Nulla è al caso. Ho avuto il privilegio di conoscere personalmente l’autore nel suo palazzo viennese, chiamato – in onore di Franz Ferdinand – Ferdinandihof, nel quale si svolgono regolarmente concerti di musica barocca, così come conferenze culturali. Si respira un’aria autentica dove il politicamente corretto, simbolo della nostra epoca, è bandito. Difatti la nostra Europa è di fronte ad un bivio. Da un lato una via che passa dalla accettazione delle “disuguaglianze” come produttrice di vita. Da un altro la tentazione della “eguaglianza” intesa come giustizia. La prima via è quella della nostra storia. La seconda è quella che ci viene prospettata, e che fu preconizzata da Oswald Spengler (1880 - 1936), come “Tramonto dell’Occidente”. Siamo stati per tanto tempo il maggior polo di sviluppo del mondo, proprio perché non siamo mai stati tentati dalla filosofia della “eguaglianza”. Dobbiamo decidere, se seguitare ad essere, ciò che siamo stati, punto avanzato dell’ingegno umano o passare ad altri il testimone. Forse è già troppo tardi. Ma forse c’è ancora tempo, per una “filosofia della salvezza” che voglia invertire il corso delle cose. Forse è possibile che ripercorrendo tutta la nostra storia, sia possibile sconfiggere i virus che ci minano e recuperare i nostri valori. L’Europa che sembrava un sogno, si sta trasformando in modo concreto. E concrete sono tutte le sue proiezioni. Popoli che si ritenevano diversi, attraverso la lettura, la radio, la televisione, il turismo, si sono conosciuti e riconosciuti. Questi nuovi mezzi di comunicazione, hanno fatto riconoscere, quanto profonde siano state le seminazioni di quel “Urvolk indo-europeo”. È questo retaggio comune, cui dobbiamo far appello per tornare ad essere quello che siamo sempre stati nella nostra storia, un polo fondamentale di sviluppo del divenire umano. Senza rabbia e senza peccati di orgoglio, ma con una precisa conoscenza del nostro passato e delle nostre potenzialità. I no global, gli ambientalisti, la galassia eterogenea degli Lgbtq, sono i residui nostalgici della “Internazionale marxista” ed insieme del capitalismo liquido più abietto. Non sanno niente di storia, né dei suoi meccanismi. Sono dei puri “contemporanei”. Il loro avvento fu profetizzato oltre 150 anni fa da Fyodor Mikhailovich Dostoevsky (1821 - 81), che scrive proprio per loro come «l’amore per l’umanità si unisce all’odio o all’indifferenza per il vicino». Amano tutti per poter odiare meglio il nemico di turno. Fanno molto chiasso perché ciascuno di loro è polivalente e onnipresente. Possono essere in momenti diversi un politico, o una cantante, un sindacalista, o un “intellettuale”, cineasta, o impiegato di una ditta che produce gomme per auto. Ma sono sempre gli stessi, in abiti diversi, in continui e frenetici travestimenti e trasferimenti.
Ma Ronald non è solo un mecenate, ma soprattutto un fervente cattolico e pellegrino dei luoghi sacri: percorre a piedi interi Stati e nel suo vagabondare non poteva non conoscere alla perfezione tutti quei territori della sua amata e verde Austria. Da qui si può concepire il libro “Attraverso le lande asburgiche” nel quale oltre a luoghi tradizionalmente austriaci, l’autore ci fa comprendere come sia in Francia, che in Spagna le influenze austriache degli Asburgo siano presenti nell’arte, nell’architettura e nei dialetti parlati. L’autore indirettamente si sforza per farci comprendere come questa nostra identità europea, sebbene martoriata dalle attuali scelleratezze politiche, sia ancora viva e pronta per essere riafferrata in qualsiasi momento da un popolo che torni finalmente ad essere consapevole di sé, poiché quando si perde coscienza di se stessi, non si conosce più chi siamo e da dove veniamo, perdendo noi stessi. Perché, per buona pace dei buonisti e dei ben pensanti, un “Turco” ci sarà sempre, anche adesso che l’Impero non esiste più. L’ottomano è necessario, come un contrappeso che tiene botta agli eccessi, o come un argine che protegge la campana dal fiume impazzito. Il contrario, e non soltanto il diverso, costituisce una necessità storica, contingente, per rendere interessante l’esistenza di ogni persona. Il giorno e la notte, il caldo e il freddo, il lupo e l’agnello, l’aquila e il passero: ecco altrettanti contrari, a seconda dei punti di vista. Il resto è utopia, una bella utopia, non c’è dubbio. Dunque non siate pigri, poiché per tutto ciò che sarà menzionato in questo libro, qualcos’altro, non meno importante, sarà nascosto e potrà essere oggetto di un vostro nuovo viaggio, di una vostra personalissima cartografia del cuore. Se il viaggio è ritornare sui passi di altri in altri tempi e in altre vite, rievocare, veder riemergere fantasmi, allora mettetevi in cammino, non siate pigri, perché dalla vostra meraviglia deriva la vita autentica, quella composta da storia, arte e architettura, da antiche parlate e virtù paesane, poiché queste “lande” facevano parte di un impero assai grande che aveva una capitale bellissima e che ancora oggi non smette di meravigliarci con il suo fascino. Concludo con un messaggio di speranza, riprendendo le splendide parole tratte da “Il messaggio dell’Imperatore” di Franz Kafka: «eppure tu siedi alla finestra e ai tuoi sogni dai vita, sul far della sera».
[caption id="attachment_16409" align="aligncenter" width="1000"] Nell'immagine, il fronte-retro della copertina del saggio di Ronald Friedrich Schwarzer "Durch Habsburgs Lande", che presto vedrà l'uscita in Italia, tradotto dall'Architetto Giuseppe Baiocchi "Attraverso le lande asburgiche". Nella foto l'autore del saggio con lo scrivente.[/caption]
Per approfondimenti:
1 Di ciò approfittò la famiglia reale prussiana degli Hohenzollern, i nemici mortali dell’Austria e della sacra idea imperiale. Essa sferzò e stimolò energicamente i demoni del nazionalismo pangermanico. Dopo le vittorie sopra l’Austria e la Francia nell’anno 1870-71 riuscì a ridurre sotto il proprio dominio i piccoli Stati tedeschi, e in tal modo ad unificarli. Ed allora avvenne uno dei più brutti scherzi di parole della storia mondiale. La grande Prussia si chiamò “Impero Tedesco”, non è curioso? Quando nel migliore dei casi non era che uno Stato nazionale, ovvero il contrario di un regno unificatore di popoli nata da un’idea sopraordinata. Ma non fu tutto: i re prussiani si conferirono il titolo di Imperatori. Kaiser è la forma greca di Caesar. Ogni Kaiser è successore di Cesare, che fondò l’impero mondiale sopranazionale della civiltà occidentale. Il Cesarismo è l’opposto assoluto della regalità nazionale. Gli Hohenzollern furono fortunati re nazionali, che per odio contro i Cesari legittimi della Casa d’Asburgo usurparono un vuoto titolo imperiale.
2 Lernet Holenia A., Lo Stendardo - capitolo quinto, Adelphi, 2010.
3 Werfel F., Nel crepuscolo di un mondo, L’Impero Austriaco, prologo, p.13
4 Schwarzer F. R., Durch Habsburgs Lande, Karolinger, 2023.
  ©L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata
 

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di Giuseppe Baiocchi del 13/06/2024

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Dall’Aquila Imperiale alla bandiera rossa può essere paragonato, a buon onore, come il “Guerra e Pace” della Rivoluzione e della Guerra Civile russa che intercorse un periodo storico molto lungo e travagliato (1894-1921). A scriverla è un personaggio controverso, l’Atamano (Capo camerata dei Cosacchi) Krasnov Petr Nikolaevich (1869 - 1947): eroe della prima guerra mondiale, premiato sia con la croce di San Giorgio che con l’arma d’oro, Maggiore Generale dell’esercito imperiale russo, leader della breve e combattiva Repubblica del Don (Grande armata del Don 1918-20), pubblicista per gli esiliati bianchi a Parigi e scrittore; nel 1926, il famoso filologo e slavo Vladimir Andreevich Frantsev (1867 - 1942) lo nominò addirittura per il Premio Nobel.

[caption id="attachment_16298" align="aligncenter" width="1000"] Pyotr Nikolaevich Krasnov ( 10 settembre 1869 , San Pietroburgo - 16 gennaio 1947 , prigione di Lefortovo , Mosca ) - Generale di cavalleria russo, nobile Atamano del Grande Esercito del Don, figura militare e politica, scrittore e pubblicista. Fu candidato al Premio Nobel per la letteratura (1926). Uno dei leader del movimento bianco nel Sud della Russia. Durante la seconda guerra mondiale prestò servizio come capo della direzione principale delle truppe cosacche del ministero imperiale per i territori orientali occupati della Germania.[/caption]

Perché allora tale particolare personaggio vive nell’oblio? A spiegarcelo in soldoni è un altro scrittore russo, naturalizzato francese, figlio di emigrati russi Vladimir Volkoff (1932 - 2005) che in un’altra perla letteraria “Il Montaggio” ci regala questa descrizione: «Gli emigrati russi detti “bianchi”, di cui gli uni avevano scelto di battersi per la Germania perché il diavolo era migliore dei comunisti, gli altri di servire l'Unione Sovietica, perché il diavolo era migliore del tedesco. [...] Innanzi tutto, la vittoria della Russia eterna sulla Germania appariva agli emigrati come una vittoria della Santa Russia sull'usurpazione bolscevica. Sì la bandiera che sventolava sul Reichstag era soltanto rossa e non bianco-azzurro-rossa, ma i soldati sovietici che incontravamo parlavano della Russia più che “dell'Unione” [...] in poche parole sembrava che il corpo della patria avesse spontaneamente eliminato gli antigeni che vi erano stati introdotti. [...] Infine, c'era un segno, visibile e tangibile, della rinascita della nostra Russia, della sua restaurazione interiore. [...] quel rettangolo di cartone rivestito di stoffa e fissato sulla spalla con un bottone di rame aveva acquistato tanto significato quanto avevano potuto averne, in altre epoche, le croci di questa o quella forma. [...] L'incubo, vagheggiavano, era finito». Difatti la vita dello scrittore, che aveva abbracciato – in piena coerenza con le sue idee monarchiche anti-sovietiche – a piene mani l’Operazione Barbarossa di Adolf Hitler per l’invasione dell’Unione Sovietica (diresse da dietro le linee per la sua età avanti nel tempo il XV SS-Kosaken Kavallerie Korps), mori di morte violenta: finì il 16 gennaio 1947 alle 20:45, quando fu impiccato nel cortile della prigione di Lefortovo1. Famosa rimase la sua frase: «Contro i bolscevichi, anche con il diavolo». Krasnov apparteneva ad una famosa famiglia cosacca del Don che aveva da sempre sfornato agli Zar, nelle epoche antecedenti, i migliori ufficiali di cavalleria2. Prima dell’incredibile carriera militare che lo attendeva, iniziò la sua seconda passione: quella di scrittore. Le sue attività sorgono già all’età di 12 anni nel 1891, per poi avviarsi verso una letteratura che glorificava l’esercito dove l’abile penna descrisse la vita di cadetti e alfieri (molte opere contenevano una storia d’amore), per sviluppare l’idea degli ufficiali come una speciale casta nobile e nella difesa dei privilegi delle guardie. Tuttavia, il tema determinante dei primi lavori dell’Atamano fu quello dell’eroismo. La stessa tematica infatti fu ripresa nel suo esilio in terra tedesca nel 19203. Un posto importante nel vasto processo creativo è l’eredità di un ciclo di romanzi dedicati alla “Grande tragedia russa” (rivoluzione del 1917): “Uno indivisibile” (1925), “Capire – perdonare” (1928), “Rotolo bianco” (1928). Questo ciclo preparato per 27 anni lo porta alla stesura del suo romanzo più celebre “Dall'aquila Imperiale alla bandiera rossa” (pubblicazione in quattro volumi 1921-224). Riflettendo gli eventi chiave del regno dell’imperatore Nicola II, il protagonista della tragica storia è l’ufficiale delle Guardie dello Zar, Alessandro Nicolaievitch Sablin chiamato affettuosamente dagli amici “Sasha”, che durante la Grande Guerra sarà infine nominato Generale. Il romanzo straordinario di carattere letterario realista è basato su eventi reali, su circostanze e fatti che non solo hanno fatto parte della vita dell’autore, ma che inevitabilmente ne hanno plasmato il destino.

Tutto inizia quando la Rivoluzione russa è nella sua fase finale: i Soviet sono già al potere e il regime di Aleksandr Fëdorovič Kerenskij (1881 - 1970) è caduto con il Governo provvisorio russo (1917) sfaldatosi in appena un anno di Governo, dopo l’ultima offensiva al fronte fallita, con i Soviet che contrariamente alle elezioni politiche perse, effettuano il colpo di Stato con Lenin leader. Nel Paese vige l’anarchia e l’assassinio anche solo per poco denaro, cibo o vestiario. Siamo in un vagone merci nella cittadina di Voronezh diretto a Rostoff nel Sud della Russia, ed è qui che avviene la prima descrizione di un bolscevico da parte di una giovane ragazza: «Ella esaminava ora i lineamenti del soldato dallo sguardo duro e del robusto giovanotto che si vantava di avere ucciso un agente di polizia. I loro visi erano belli, ma volgari e grossolani. Erano adatti ai ruvidi cappotti che portavano; cercò di figurarseli in un salotto, vestiti da ufficiali o in eleganti abiti borghesi, e sentì subito che sarebbe stata una cosa impossibile. Vi era come un richiamo all’età della pietra e di un umanità primitiva in quella potente muscolatura, in quelle mascelle formidabili, che testimoniavano una salute animale, in quei crani massicci, dalle folte arcate sopracciliari, ricadenti come una visiera, in quei capelli a spazzola, duri come crini» e subitanea un’altra riflessione della giovane ragazza, che rispecchiava invece “il mondo di ieri”, ovvero quello aristocratico: «E lei, Olia, saprebbe cavarsi d’impaccio, se si trovasse priva di qualunque aiuto? Certo, ella non ne sarebbe capace […] con quelle mani delicate che tradiscono la sua origine aristocratica. Olia si ricordò che Nika aveva un giorno ucciso una lepre a caccia e l’aveva consegnata alla cuoca, non sapendo né spellarla né vuotarla […] ella rise fra sé al pensiero che egli potesse fare una di queste cose. […] Erano dei parassiti in questo mondo. Erano dei burjuyes. […] degli sfruttatori e delle sanguisughe. Ella dovrebbe fare da se stessa il letto, lavare la biancheria, tenere in ordine il cortile, l’orto, il bestiame, preparare il desinare, cucire i vestiti per sé e per quelli che lavorano nei campi, faticare tutta la giornata senza riposo, come fanno le contadine. Mio Dio! Ma la giornata non basterebbe per tanto lavoro. Quando avrebbe il tempo di leggere, di studiare le lingue, di riflettere, di passeggiare, di ammirare le bellezze della Creazione? […] il mondo intero sarebbe dunque obbligato di abbassarsi al livello di quegli uomini e di dedicarsi esclusivamente ad un lavoro che abbruttisce per arrivare semplicemente a procurarsi il sostentamento: non vi sarebbe più né poesia, né religione, né bellezza sulla terra»5.

[caption id="attachment_16299" align="aligncenter" width="1000"] Nella foto di destra un giovane cadetto dell'aristocrazia di campagna russa. Nella foto di destra 2° laurea accelerata presso l'Università di Tashkent del 1 maggio 1915. Le scuole per sottufficiali (circa 60) furono create nell'Impero russo con l'inizio della Prima Guerra Mondiale, a causa della carenza di sottoufficiali e ufficiali morti prematuramente durante l'inizio del conflitto: la Russia perdeva gli uomini più fedeli dell'Impero. La durata della formazione durava 3 mesi. Le scuole furono aperte sulla base delle scuole militari esistenti, e concluso il periodo, il corpo dei cadetti veniva indirizzato direttamente al fronte.[/caption]
Qui avviene, immediata e prima ancora della presentazione del nostro protagonista – la prima perla del romanzo: due mondi opposti e inavvicinabili, due classi sociali non dialoganti e lontani, i primi ignoranti, numerosi, opportunisti e forti, senza storia e con futuro incerto; i secondi colti, fragili, educati, chiusi nella loro società inaccessibile, deboli e con il futuro segnato da povertà o morte. Ora il momento storico è a favore dei primi, che scovano e uccidono i secondi, che per secoli hanno dominato la scena politica russa. Nello scompartimento ferroviario vi è anche il Generale Sablin che scoperto da una guardia rossa fugge dal treno: qui si interrompe il prologo e inizia il vero romanzo. Il salto temporale è al 1894 e subito si denota il cambiamento sociale con la sua gerarchia di classe: i dialoghi tra gli svariati personaggi mostrano subito al lettore le differenze tra il prologo “rivoluzionario” e il primo capitolo “zarista”: si avverte che si è in un’altra epoca, ma siamo solo 23 anni prima. La vita del nostro protagonista è colma di serenità e piena di quei valori ideologici dove il Dio, la Patria e la famiglia sono propriamente i cardini di un’esistenza sana e retta. In primis il Dio cristiano che si incarna nello Zar. Proprio sull’Imperatore russo vi è una delle più brillanti descrizioni dell’intero libro, che ci trasmettere il senso del Sacro, ovvero l’autore ci inoltra indirettamente un concetto che oggi più che mai si è perso: la fede, il credere in un principio di vita: «La Bruna non soltanto aveva invaso le colline, ma anche i piedi del monte […]. Nulla faceva prevedere il sole, che pure doveva brillare quando sarebbe apparso lo Zar, “l’Unto del Signore”. Questa convinzione era condivisa da tutti, dal Generale coi capelli bianchi fino alla più giovane delle reclute. In uno splendore da sogno lo Zar doveva apparire in faccia al suo esercito in una aureola di raggi solari, magnifico eppur lontano. Era sempre stato così, dicevano i vecchi: il sole accompagnava sempre l’Imperatore, ed in ciò si vedeva la grazia divina, un miracolo che provava che lo Zar non era stato posto là dagli uomini, ma da Dio. […] Sablin era profondamente persuaso che il sole sarebbe venuto, ma talvolta, alla vista di quel cielo grigio che provava da un momento all’altro un acquazzone, sentiva il dubbio penetrargli nell’anima. […] Il sole verrà […] perché ci sarà l’Imperatore, e perché è sempre stato così in tutti i tempi! […] Le trombe della scorta di Sua Maestà squillarono. In testa, su un piccolo cavallo grigio di razza araba, dalle froge nere e ricoperto di una gualdrappa azzurra ricamata d’oro, l’Imperatore si teneva graziosamente e leggermente in sella. Il suo berretto rosso da Ussaro era piegato un poco da un lato, e al disotto della visiera nera, i suoi occhi grigi guardavano con bontà. Il suo dolmann rosso era coperto di alamari d’oro. […] Nello stesso istante, un raggio luminoso di sole brillò sul berretto di porpora e avvolse il cavaliere imperiale. Si sarebbe detto che la natura avesse atteso lo slancio potente di quegli urrà e quell’inno che risonava come una preghiera di fede incrollabile. Il miracolo era avvenuto. Il semidio appariva al popolo e i pensieri terrestri se ne volavano ben lontani dagli uomini. I cuori entusiasmati si sentivano più vicini al cielo. […] Si sentiva la voce carezzevole dell’Imperatore che diceva: - grazie, miei prodi.. - e già non si vedeva più. Davanti a loro si stendeva la pianura vuota; le note della musica, rimasta indietro, non arrivavano più che per ondate, simili a lontani ricordi di una gioia passata»6.
Inizialmente l’aristocratico Sablin è un Alfiere di Pietroburgo che trascorre la sua giovinezza tra riviste militari e feste mondane nei palazzi dell’aristocrazia russa. Sarà proprio in una di queste feste che conoscerà la ballerina Caterina Philipovna che in breve tempo lo svezzerà sotto il profilo amoroso e indirettamente – ma solo momentaneamente – ne ammorbidisce il suo profilo militare, difatti proseguendo la lettura “Sasha” inizierà ad avere dubbi sull’esistenza di Dio e sull’importanza dello Zar: semplici domande introspettive, umane, che qualsiasi persona nella vita si pone di fronte un comportamento poco corretto che esegue: un lavaggio di coscienza insomma. In tale ambito avviene un aspetto molto interessante del romanzo, inerente l’esercito poiché Krasnov inizierà ad introdurre personaggi sinistri che saranno coloro che nel tempo logoreranno l’esercito russo, fino a portarlo alla dissoluzione e all’anarchia, con il conseguente sbandamento delle truppe dovuto anche ai comportamenti inaccettabili del Governo Provvisorio già menzionato. Tengo a riportare ancora un piccolo passo nel quale si capisce lo scontro sia generazionale tra i “padri e i figli” all’interno del complesso militare: «Se tu tenti di predicare la rivolta fra i miei uomini, o di fare una propaganda qualunque, ti farò ammazzare, non mi scapperai. So che sei protetto. Il generale Martoff ha interceduto per te. Non me ne importa. Io non ho che un’idea in testa: il dovere, il servizio e l’osservanza del giuramento. Se ne son viste di tutti i colori qui. Abbiamo avuto ladri, degli ubriaconi […] All’occasione io posso perdonar tutto e anche nasconder tutto; ma mai, m’intendi, Liubovin, mai il socialismo è entrato in queste mura. Di modo che, comprendimi bene, se una follia di questo genere germinasse in una testa qualunque, sei tu che me ne renderai ragione. Tu la pagherai con la tua testa, e nessuno ti potrà salvare! Ti strangolerò con le mie mani! - Terminò il sergente con un mormorio roco. - Puoi andare, ora, ho voluto avvertirti, così al volo. Ma non mi viene neppure in mente che nel nostro reggimento possa trovarsi un solo uomo che osi avere un pensiero contro la Fede, l’Imperatore e la Patria. Via! »7.
Tali profili, in tempi non sospetti verso la Rivoluzione, ci fanno comprendere come essa ebbe radici profonde, già alla fine dell’Ottocento. Nemici interni all’esercito iniziarono a plasmarsi, ma vi erano anche i nemici esterni; uno di questi è l’eterno studente Fedoro Feodorovitch Korgikoff, che poi divenne leader rivoluzionario il quale così esprimeva al militare Vittorio Mikhailovitch Liubovin come doveva comportarsi all’interno dell’esercito: «La sola cosa che vi rimane da fare è di agire con dolcezza, nelle conversazioni a quattr’occhi. C’è una parola che è eccellente. È la parola “compagno”. Servitevene quando parlate al soldato. Attaccatelo isolatamente, egli non ha mai udito quella parola; lo sorprenderà dapprima e gli parrà in seguito di una straordinaria dolcezza che gli penetrerà insensibilmente nell’anima. Datemi un solo uomo ben preparato da voi alla rivolta, e avrete fatto opera utile. Cercate di averne uno soltanto, che sia sempre malcontento, che critichi ogni cosa; dopo cercate di prepararne il secondo. Bisognerà anche guadagnarsi l’animo di un sottufficiale; senza di ciò è molto difficile agire»8.
Così scatta il piano di Korgikoff di avvicinare Sablin al processo rivoluzionario. Il meccanismo è semplice: usare la sorella di Liubovin, Marussa ad incontrare l’ufficiale per poi farlo diventare un agente della rivoluzione strisciante. Ma il nostro protagonista si rivela un vero figlio dello Zar, fedele e dall’anima immacolata. Il piano fallisce e addirittura Marussa si innamora perdutamente di Sablin. Marussa proviene dalla piccola borghesia, che all’epoca in Russia comprendeva una parte esigua della popolazione, poiché la borghesia europea – così come la conosciamo noi – in Russia fino all’Ottocento era praticamente quasi inesistente, vigendo un sistema feudale. In una conversazione tra i due, la giovane donna affermerà a Sasha come: «Voi avete una profonda fede, lo vedo, - disse Marussia - tutto è stabilito con tanta semplicità nel vostro spirito; si direbbero dei compartimenti classificati contenenti tutte le nozioni ammesse: Dio, la Chiesa, i ceri, le immagini, le genuflessioni, lo zar, la devozione, le riviste; poi il reggimento, l’uniforme, l’onore e finalmente la famiglia. Vi è una distinzione precisa tra quello che è permesso e quello che è proibito, tra quello che è possibile e quello che è impossibile. […] invece in me vi è un caos completo nelle mie idee, Alessandro Nicolaievitch […] Tutti e due cerchiamo la verità, e ciascuno di noi la comprende come può, per quanto essa non sia stata scoperta da nessuno. Io voglio la felicità per il mondo intero, voglio amare l’umanità intera, mentre voi non date il vostro amore che ad un piccolo cerchio di esseri e non riconoscete degna del vostro affetto che una piccola parte dell’universo. Ci siamo incontrati, abbiamo discusso e ci siamo interessati uno all’altro. Un idolo ci ha ravvicinati. Questo idolo è la bellezza. Voi l’adorate e ne siete fiero, mentre io la considero come una debolezza, quasi come un vizio.. Voi mi avete fatto vedere un quadro da racconti da fate: lo Zar e il suo Regno. Io nel cuore ho un altro racconto che vi dirò un giorno; per il momento non siete preparato a comprenderlo. Permettetemi di restare per Voi una sconosciuta, come Cenerentola al ballo del principe». Ebbene ancora una volta l’autore cerca di trasmettere, prima degli eventi decisivi del romanzo, quelle differenze ambientali e ideologiche tra le varie classi sociali. L’amore tuttavia è ricambiato, ma il principe Repnin lo richiama all’ordine, rispetto alla sua situazione nell’esercito, poiché un matrimonio “misto” tra classi sociali non paritarie impartirebbe uno scandalo pubblico all’onore del reggimento. Sablin pensa di suicidarsi, poi di lasciare il reggimento per amore, di cambiare radicalmente vita, poi torna il senso del dovere verso l’ideale, verso i principi del suo “bel mondo”: rispettare le convenzioni per essere preservati da esse stesse. Ancora l’autore ci instilla un altro concetto, oggi scomparso: di fronte ad un desiderio individualista, compiere un sacrificio grave ci rende uomini e ci fa sentire in armonia con il contesto sociale al quale apparteniamo. Sablin però aspetta un figlio da Marussa, ma non può tenerlo, così in un aspro scontro verbale con Korgikoff, quest’ultimo si impegnerà a crescere suo figlio con gli ideali della rivoluzione, mentre nel frattempo Marussa muore di malattia. Siamo di fronte alla prima piccola tragedia sulla pelle del protagonista.
Di tanto in tanto l’autore inserisce nel romanzo il classico personaggio opportunista, lo zio Oblenissimoff: sarà fervente zarista prima della guerra, per il Governo provvisorio rivoluzionario nel 1917 ed infine dopo essere stato spogliato dai suoi averi, come la sua casa, dai Soviet fuggirà con codardia in Svezia, dove nel frattempo – guadagnando soldi al mercato nero sulle persone più disagiate – aveva guadagnato una fortuna e aveva trasferito i soldi nel paese della corona scandinava. I dialoghi di scontro ideologici con il protagonista sono epocali: «Vi fu un tempo, in un lontano passato, in cui il monarca precedeva il popolo. Ora le parti sono invertite. Viene prima il popolo e poi il monarca. - Non so figurarmi un gregge che guidi i passi del pastore, - disse Sablin. - Ma, in ogni gregge vi sono dei montoni di guida che conducono il gregge e senza il loro aiuto le pecore rischierebbero di rovesciare il pastore»9.
Il seguito scorre veloce agli occhi attenti del lettore: se la guerra russo-giapponese (1904-05) si rivela essere un autentico disastro militare mal gestito dal comparto militare zarista, sarà la Prima Guerra Mondiale (1914-18) che assesterà il colpo decisivo all’Imperatore per il proliferare della Rivoluzione che in primis riuscirà a distruggere il morale dell’esercito al fronte. Una volta che l’esercito si sfalderà, l’anarchia rivoluzionaria iniziale e gli omicidi degli ufficiali sia al fronte che all’interno del Regno inizieranno. Il nostro protagonista, dopo la tragica esperienza amorosa si sposa con una sua pari-grado, la contessa Vera Constantinovna dalla quale avrà due figli, un maschio Kolia e una femmina Olga. Nel frattempo, a corte la zarina sempre più intrigata dalla fascinazione di Rasputin, vero e proprio demone ed incarnazione del male – così come confermato dalla bellissima autobiografia del principe Félix Yussupov, nel suo “Dalla corte all’esilio” – cade sotto la critica della stampa, mentre anche sua moglie Vera viene irretita e “assaggiata” sessualmente dal monaco depravato. Yussupov così descrive Rasputin: «Fu proprio alla fine di quell'anno, il 1909, che incontrai per la prima volta Rasputin. [...] Questa giovanetta era troppo pura per capire l'ignominia del “sant'uomo” e troppo ingenua per giudicare i suoi atti con conoscenza di causa. Era, così ella diceva, un essere dotato di una rara forza spirituale, inviato in questo mondo per purificare e guarire le anime e per guidare i nostri pensieri e i nostri atti. Questo ditirambo mi aveva lasciato scettico giacché, pur senza avere dati precisi su Rasputin, un oscuro presentimento me lo rendeva sospetto. [...] A sentirla, egli era un inviato del Cielo, un nuovo apostolo; le debolezze umane non avevano presa su di lui, i vizi gli erano ignoti, e tutta la sua vita altro non era che ascetismo e preghiera. Queste parole fecero nascere in me il desiderio di conoscere un uomo tanto straordinario; accettai dunque di recarmi [...] alcuni giorni dopo per incontrarvi il celebre starez. [...] Poco dopo la porta dell’anticamera si aprì e Rasputin entrò a piccoli passi. Si avvicinò a me e mi disse: “Buongiorno, mio caro”, con l’aria di volermi baciare. Arretrai istintivamente. [...] Di primo acchito, qualche cosa in lui mi spiacque, anzi mi ripugnò. Era di statura media, muscoloso, piuttosto magro. Aveva le braccia di una lunghezza esagerata. Dove cominciavano i capelli mal pettinati, si scorgeva una larga cicatrice (più tardi seppi che era la traccia di una ferita ricevuta durante uno dei suoi atti di brigantaggio in Siberia); gli si sarebbero dati quarant’anni. Indossava un caffetano, un paio di calzoni larghi e calzava grossi stivali. Nell’insieme aveva l’aria di un semplice contadino. Il suo volto, incorniciato da una barba irsuta, era volgare, i lineamenti grossolani, il naso lungo, e i piccoli occhi di un grigio trasparente e dallo sguardo evasivo stavano come imboscati sotto le folte sopracciglia. Benché affettasse una grande disinvoltura, si avvertiva in lui un certo imbarazzo, persino una vigile diffidenza; si sarebbe detto che spiasse continuamente il proprio  interlocutore»10. [caption id="attachment_16301" align="aligncenter" width="1000"] Principe Felix Felixovich Yusupov , conte Sumarokov-Elston ( 11 marzo 1887 , San Pietroburgo - 27 settembre 1967 , Parigi ) - Aristocratico e giornalista russo, l'ultimo dei principi Yusupov. Noto per aver partecipato all'assassinio di Grigory Rasputin. Marito della principessa Irina Alexandrovna , nipote dello Zar Nicola II.[/caption]
La moglie Vera non regge alla situazione e per senso di colpa, all’insaputa di Sablin, si suicida. Per il protagonista della nostra storia il colpo è tremendo: qui si comprende come la stessa nobiltà russa inizia a comprendere come la politica del Regno si sia arenata politicamente anche per via di personaggi profittatori, ambigui e dalla dubbia eticità o moralità ed il caso di Rasputin calza a pennello. Sablin è distrutto, ma ha ancora il figlio Kolia e per lui prevede una grande carriera militare. Inizialmente il figlio non può partecipare al conflitto per via dell’età, ma invogliato dallo zio Oblenissimoff, Kolia si presenta alla vigilia di una delle primissime cariche di cavalleria dell’iniziale offensiva russa. L’evento è epico e drammatico e qui l’autore mirabilmente ci descrive da soldato qual è, la crudeltà della guerra: «I serventi della batteria tedesca non videro subito che stava per arrivare la carica della cavalleria. Sablin ebbe il tempo di discendere in un’ampia vallata e di risalire su di una collina senza essere stato scorto dal nemico. […] La batteria tirava a sinistra in diagonale e Sablin poteva vedere i lampi dei colpi. Poi essa cominciò a voltarsi rapidamente dalla sua parte. […] Al galoppo allungato! - comandò […] Sablin vide scoppiare una gran fiamma dritto dinanzi a sé; apparve una nuvola bianca; il cavallo di Rotbeck cadde. […] Un colpo violento lo aveva colpito al petto. Gli sembrò che il suo cavallo s’impennasse e fu gettato di sella. La terra nera e odorosa rinfrescò il suo viso e gli entrò in bocca. Sablin sollevò la testa. […] «sono ferito», pensò; vide sulla testa il cielo azzurro e infinito, poi delle miriadi di piccole bolle trasparenti passarono davanti ai suoi occhi e lo accecarono. Chiuse le palpebre e perdette i sensi. Il conte Blanckenburg fu il primo a giungere alla battaglia e con un colpo di sciabola fece stramazzare un uomo che gli sparava contro. Il suo squadrone e quello di Rotbeck circondarono i pezzi e fecero strage di tutto ciò che li circondava. Alla loro destra un urrà sonoro si ripercosse nell’aria. La fanteria russa, uscendo dalle trincee, correva dietro ai tedeschi in ritirata. […] la vittoria era completa. E questa vittoria, l’esercito russo la doveva all’assalto temerario, insensato, del mezzo reggimento di Sablin. Sablin stesso, gravemente ferito al petto, era rimasto a terra senza conoscenza. Suo figlio Kolia, col torso crivellato e la testa asportata, giaceva in una pozza di sangue fumante. Il capitano in seconda Artemief, l’alfiere Pokrovsky, il tenente Agapoff, l’alfiere Barone Lieser eran morti; il tenente Kuscnaref, il barone Livdal ed il conte Toll erano feriti. Traversando la pianura silenziosa, un cavaliere si avvicinò al trotto: era il principe Repnin. Il suo volto era maestosamente calmo. - Grazie, ragazzi; è stata una mischia gloriosa, un episodio eroico, - disse Repnin. - Avete glorificato per sempre il nostro reggimento. […] Ma come è stata falciata la nostra gioventù russa! Bisogna che tutto l’universo sappia che il nostro popolo è unito, e che i nostri ufficiali sanno morire insieme ai nostri soldati, e in testa ai soldati […] la bellezza di quest’impresa è rimasta a Sablin! Che egli muoia o che viva, il giorno dell’assalto che egli ha condotto e che ci ha dato la vittoria brillerà d’uno splendore eterno!»11.Arriva infine la terza tragedia di Sablin. Proprio in questo scontro il figlio rimane ucciso, anche in maniera brutale da una palla di cannone che gli taglia la testa. Ora il Colonnello Sablin – che dopo questo scontro diventerà Generale acquisendo anche la croce di San Giorgio – ha solo come obiettivo di vita il servizio alla Patria e presto gli verrà tolta anche questa.La guerra che fece perdere allo Zar i suoi figli più fedeli nei primi due anni del conflitto provocò la Rivoluzione. Messi fuori gioco l’apparato dell’esercito fedele all’Imperatore e successivamente chiamate le seconde linee non esperte e soprattutto già indottrinate politicamente dalla rivoluzione, le gerarchie tra ufficiali e soldati cessarono, scatenando il caos. Eroi del romanzo, senza macchia, come il Sottotenente cosacco Alessio Karpoff furono mandati al macello per conquistare piccoli metri di terra, che poi il Governo dei Soviet avrebbe svenduto ai tedeschi per la pace, tradendo quegli stessi morti dello stesso popolo russo. Intanto il fronte interno si sfalda, il tradimento è ovunque, tutti si rivoltarono contro la polizia. I «cittadini soldati» dimenticarono che il nemico era il tedesco e stabilirono che il nemico fosse il russo. Inizia la caccia anche agli ufficiali, questi furono divisi in ufficiali rivoluzionari e ufficiali controrivoluzionari. Ai primi fu messa una coccarda rossa all’occhiello, poi furono disarmati e i soldati li trascinarono per mano cantando a squarciagola. Gli altri furono ricercati e inseguiti; tutti quelli che s’incontravano furono uccisi per la strada. Il Governatore di Pietrogrado, il Generale Khabaloff, tentò di protestare. Fu arrestato e condotto in fortezza. Mentre la Duma festeggiava la folla andò alla fortezza di Pietro e Paolo, massacrò gli ufficiali e i guardiani e mise in libertà tutti i prigionieri dello «zarismo», sia politici, sia di delitti comuni. La città fu riempita di delinquenti di tutti i generi. Furono incendiate le caserme dei pompieri, rotti i vetri e saccheggiati i magazzini. Tutte le città risuonavano della parola “compagno”. Ma non è la gente del popolo che ha tradito. A loro molto sarà perdonato perché non sanno quello che fanno; sono le alte sfere che hanno tradito l’Imperatore; non gli hanno permesso di arrivare fino a Tzarskoie Selo. Il suo treno è stato fermato per la strada e il comandante delle armate del Nord, il Generale Russky, è andato a trovarlo con i rappresentanti del popolo, che del resto non sono stati delegati da nessuno, Gutchkoff e Sciulghin. Tutti e due appartengono alle destra: uno è ottobrista, e l’altro, Sciulghin, redattore del giornale Kievlianin. Essi erano latori di un manifesto già redatto, nel quale l’imperatore dichiarava di abdicare in favore di suo figlio. Non c’era che da firmare il documento. Vicino all’imperatore nessuno per consigliarlo, per sostenerlo. Gli dissero che tutta la Russia si era dichiarata contro di lui. Russky affermava che se non firmava il manifesto, i soldati del fronte delle armate del Nord avrebbero marciato su Pietrogrado. Così l’Imperatore affermò «se sono la causa dell’infelicità della Patria, sono pronto a sacrificare tutto, anche la vita, purché la Russia sia felice». Ma il sentimento ebbe il sopravvento e per non consegnare suo figlio al popolo, fece quello che non aveva diritto di fare, abdicò anche a nome di suo figlio. L’Imperatore ha abdicato in favore di suo fratello Michele Alessandrovitch, ma quest’ultimo ha rifiutato di assumere il potere sovrano. Così il principe Lvoff è Capo del Governo, Gutchkoff Ministro della Guerra, Kerensky, socialista d’estrema sinistra, ministro della Giustizia, e così di seguito, quasi tutti personaggi insignificanti, com’è del resto la Duma dalla quale vengono. Si arriva così verso l’epilogo caotico e sanguinoso dell’intera epopea. L’autore ci descrive con mirabile ingegno come poco a poco la macchina bellica si sgretola: come l’ufficiale coscienzioso viene sostituito dall’amico militare del governo provvisorio, per inserire piccoli commissari politici sotto sembianze da ufficiali; ci descrive come il saluto militare diviene quasi facoltativo; fino all’ammutinamento, alla rivolta, ed infine agli omicidi dei generali e degli ufficiali. «La 204ª divisione stava preparandosi a prestare giuramento di fedeltà al Governo provvisorio […]. Sablin si preparava già ad andarsene, quando fu bruscamente fermato da un violento rumore di voci. Vide i soldati dirigersi verso di lui spingendo avanti brutalmente un ufficiale; Sablin riconobbe il tenente Ermoloff. Quegli stessi soldati che poco tempo prima avevano espresso la loro adorazione per questo comandante con il quale avevano condiviso la vita della trincea, adesso lo maltrattavano. - Che c’è? - gridò Sablin. - Come osate?.. - Il gruppo si avvicinò e subito fu contornato dalla folla dei soldati. - Generale, - disse un giovanotto con aria insolente continuando a tenere Ermoloff per la giubba - permettetetemi di spiegarvi. Tutti hanno prestato giuramento, e hanno firmato la formula, ma il tenente Ermoloff si è diretto improvvisamente verso la foresta. Dunque egli non vuole prestare giuramento. - Anzitutto come osate malmenare un ufficiale? Lasciatelo in pace e ritornate nelle vostre file! - gridò Sablin. Nessuno si mosse. […] - Ho prestato giuramento al mio Imperatore, - disse Ermoloff con voce rotta, ma ferma e distinta - e non presterò giuramento a nessun altro. Io non sono un traditore. - Un mormorio passò tra la folla. - L’imperatore ha abdicato; è il popolo che governa, ora, ed egli rinnega il popolo. - Rientrate nell vostre file! - gridò con collera Sablin. - Perché rientrare nelle file? Compagni, bisogna ancora sapere se anche il generale ha prestato giuramento. Essi son forse d’accordo; non vogliono servire sotto la bandiera rossa. - Vi è stato detto di rientrare nelle file; - ripetè Kozloff - volete dunque provocare un ammutinamento? - I rivoltosi sono quelli che non vogliono prestare giuramento; bisogna arrestarli. - Si arrestiamo il Generale! - Non più Zar, non più padroni; arrestiamo il Generale! Avanti compagni afferratelo! - La situazione divenne critica. Le prime file non si muovevano ancora, non osando levare le mani sul comandante del corpo d’armata; ma erano spinte dalla folla retrostante che rumoreggiava minacciosa. Sablin sentì che qualcosa di terribile stava per accadere»12. Il Generale Sablin viene arrestato, rilasciato ed infine, durante l’Affare Kornilov, di nuovo catturato – sul vagone appunto, dopo una breve fuga - per essere giustiziato in maniera tremenda da quel figlio perduto in gioventù, adottato e istruito all'odio dal suo antico nemico Korgikoff. Negli ultimi giorni di vita del protagonista, gli viene chiesto di servire l'Armata Rossa e di riacquisire il rango di Generale, con i conseguenti benefit provenienti dalla posizione, ma Sablin rifiuta categorico, ricordando sia al lettore, che a se stesso il suo antico giuramento di fede allo Zar. Dopo tremende sevizie da parte di suo figlio Korgikoff, appartenente alla Ceca, morirà senza un lamento. La sua uccisione è simile a quella del Cristo per l’autore. Dio è morto, è stato crocifisso dai bolscevichi, il male ha trionfato, la Russia così come la si era conosciuta – nella sua forma più europea – scompare per sempre. Sablin rappresenta la morte dell’ultimo figlio fedele di un mondo che stava entrando nell’oltretomba. Dunque perché leggere Dall’Aquila Imperiale alla bandiera rossa? Perché è un libro autentico, scritto da una penna straordinaria con una tale ampiezza e facilità che molti dei nostri veri scrittori di narrativa non si sarebbero mai sognati; un libro vero, sublime e crudo nello stesso tempo: un mix che solo i grandi della letteratura riescono a fondere. Voglio concludere, così come ho iniziato con Volkoff, sul concetto di Rivoluzione Russa: «La Confraternita della verità dei popoli si chiama così in onore della Confraternita della verità russa, i cui membri furono arrestati e giudicati durante il terrore post-leniniano. Invece di umiliarsi, di prosternarsi, di accusarsi di tutti i delitti, come hanno fatto le canaglie comuniste che sfilavano davanti allo stesso tribunale, i fratelli della verità russa rispondevano a tutte le domande che venivano loro poste cantando in coro: “Dio salvi lo Zar”. Si può non condividere le loro opinioni; non si può non ammirare il loro martirio. [...] Il popolo russo è effettivamente il popolo porta-verità, come ho scritto. Gli stessi cattolici sanno, dopo l’apparizione di Fatima, che noi abbiamo un destino a parte. La Rivoluzione cosiddetta russa è un tentativo non russo per pareggiare questo destino. La Russia ha un cuore mistico, il cui nome vero è Monastero della Trinità-San Sergio. Quel luogo è stato ribattezzato Zagorsk in onore di un oscuro rivoluzionario il cui pseudonimo era Zagorski e il nome vero Krachman. Non è simbolico? Conoscete i nomi degli assassini che hanno massacrato lo zar, la zarina, lo zarevič, le zarevne e quattro dei loro fedeli in quel sotterraneo di Ekaterinburg, il 17 luglio 1918 all'1 e 15? Tre sono russi, ma sentite i nomi degli altri: Iurovski, Horvat, Fischer, Edelstein, Fekete, Nagy, Grünfeld, Vergazy. Il vero nome di Trotski era Bronštein; di Zinov'ev, Apfelbaum; di Kamenev, Rosenfeld. Non ha importanza che alcuni di questi siano nomi ebraici: Dzeržinskij era polacco, Stalin georgiano, Berija mingreliano, Lenin un po' svedese e molto tartaro. Dunque non c'è ragione di gridare all'antisemitismo, come fanno gli Usurai, ogni volta che si constata che la Rivoluzione russa in realtà è una rivoluzione antirussa»13. [caption id="attachment_16302" align="aligncenter" width="1000"] Monumento all’Atamano Krasnov, che dal 2007 si trova nel villaggio di Elanskaya, distretto di Sholokhov, in un museo privato dei cosacchi. Alcuni chiedono la demolizione del monumento, altri sono contrari. Inoltre, la proprietà privata in Russia è rispettata dalla legge. E a volte sono rispettati molto più del ricordo di coloro che morirono nella Grande Guerra Patriottica. Tuttavia, sembra che sia stato trovato un compromesso: il cartello che diceva che si trattava di Ataman Krasnov è stato rimosso dal monumento. Adesso è solo un cosacco. Il 17 gennaio 2008, l’Atamano dei cosacchi del Don, deputato della Duma di Stato della Russia Unita Viktor Vodolatsky, ha firmato un decreto sulla creazione di un gruppo di lavoro per la riabilitazione di Pyotr Krasnov in connessione con una richiesta ricevuta dall’organizzazione cosacchi all’estero. Il 28 gennaio 2008, il consiglio degli atamani dell’organizzazione “Great Don Army” ha preso una decisione in cui ha osservato: “i fatti storici indicano che fu un combattente attivo contro i bolscevichi durante la guerra civile, e lo scrittore Krasnov durante la Grande Guerra Patriottica collaborò con la Germania nazista. Attribuendo un’importanza eccezionale a quanto sopra, il Consiglio degli Atamani ha deciso: di rifiutare la richiesta della fondazione senza scopo di lucro “Cossack Abroad” di risolvere la questione della riabilitazione politica di P. N. Krasnov”. Lo stesso Viktor Vodolatsky sottolinea: “il fatto della sua collaborazione con Hitler durante la guerra rende per noi del tutto inaccettabile l’idea della sua riabilitazione”. L’iniziativa di riabilitazione è stata condannata dai veterani della Grande Guerra Patriottica e dai rappresentanti della Chiesa ortodossa russa.[/caption]  
Per approfondimenti:
1 Nel maggio 1945, quando si arresero alla prigionia inglese, i cosacchi della Wehrmacht contavano 24mila militari e civili. Gli inglesi consegnarono al comando sovietico oltre duemila ufficiali cosacchi, incluso Krasnov; 
2 Pronipote del Maggiore Generale I. K. Krasnov, capo militare della scuola Suvorov, eroe della guerra del 1812; nipote del Tenente Generale I. I. Krasnov, storico e pubblicista del Don; figlio del Tenente Generale N. I. Krasnov, storico del Don, scrittore di prosa e pubblicista, scientifico, la cui opera “Cosacchi di Terek” è stata premiata con una medaglia d’oro dall’Accademia Imperiale delle Scienze; fratello minore del botanico e geografo prof. A. N. Krasnov e Platon N. Krasnov poeta e traduttore;
3 Nel maggio 1918, i cosacchi ribelli cacciarono i distaccamenti delle Guardie Rosse dal territorio della regione del Don. Il 16 maggio 1918, il “Circolo per il salvataggio del Don” elesse Krasnov Atamano dei cosacchi del Don. Avendo stabilito rapporti commerciali con la Germania e non obbedendo a A.I. Denikin, che era ancora concentrato sull’Intesa, guidò la lotta contro i bolscevichi a capo dell’esercito del Don. Krasnov annullò i decreti adottati dal governo sovietico e dal governo provvisorio e creò l'Esercito del Grande Don come stato indipendente. Tutto ciò portò al fatto che dopo la sconfitta della Germania nella prima guerra mondiale, l'esercito del Don nel novembre 1918 si trovò sull'orlo della distruzione e Krasnov fu costretto a decidere di unirsi all’esercito volontario sotto il comando di Denikin. Il 15 febbraio 1919 Krasnov, sotto la pressione di Denikin, fu costretto a dimettersi e partire per la Germania;
4 Esce in Italia nel 1929 con l’Editore Adriano Salani. Attualmente il libro non è andato più in ristampa ed è acquistabile sui vari mercatini dell’usato online;
5 Krassnoff P.N., Dall’Aquila Imperiale alla bandiera rossa, A. Salani, 1926, pp. 13-14;
6 Ibidem, pp.49-53;
7 Ibidem, p.39;
8 Ibidem, p.45;
9 Ibidem, pp. 457-58;
10 Yussupov F., Dalla Corte all’esilio - Memorie dell’uccisione di Rasputin - parte prima, capitolo decimo;
11 Krassnoff P.N., Dall’Aquila Imperiale alla bandiera rossa, A. Salani, 1926, pp. 307-10;
12 Ibidem, pp. 479-80;
13 Volkoff V., Il Montaggio, Guida Editori, pp.304-05.
 
 
 
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di Giuseppe Baiocchi del 04/02/2024

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Uno dei massimi prodotti letterari forniti per il filone mitteleuropeo ce lo fornisce il grande scrittore Franz Werfel (1890 - 1945) il quale viene considerato l’emblema di questo conservatorismo spirituale. La sua dignità democratica unita al suo cosmopolitismo, traspare in quasi tutte le sue opere, consegnandoci degli scritti che ci trasmettono pienamente il disorientamento dell’autore, incapace di reagire alla fine di un’epoca e parallelamente non in grado di analizzarla criticamente. Fautore della rivista tedesca Der jüngste Tag (Il giorno del giudizio del 1913), insieme all’editore Kurt Wolff (1887 - 1963) e allo scrittore Max Brod (1884 - 1968), che si poneva come forum per nuove poesie, col tempo divenne uno dei più importanti luoghi di pubblicazione della letteratura espressionista.

[caption id="attachment_16119" align="aligncenter" width="1000"] Franz Werfel (1890-1945).[/caption]
Esordì come lirico nell’ambito dell’espressionismo, con i volumi Der Weltfreund (L’amico del mondo del 1911), Wir sind (Noi siamo del 1913) in cui effonde l’umanitarismo e l’appassionata religiosità della sua natura, divisa fra sangue ebraico e aspirazioni cristiane. Nonostante la sua indole votata al pacifismo, allo scoppio della Grande Guerra, si arruolò nell’Imperiale e regio esercito e fu inviato sul fronte orientale come scrittore dell’ufficio stampa austriaco. Alla costante ricerca di umanità e grazia, il suo percorso fu camaleontico e mutevole, poiché intraprese e con successo, diverse correnti: dal suo essere mistico e simbolista inquadrato in Bocksgesang (1922) e Schweiger (1923); passando successivamente all’ermetico Beschwörungen (Incantesimi del 1923); per leggerlo in chiave epica con Die vierzig Tage des Mussa Dagh (I quaranta giorni di Musa Dagh del 1933), dove viene narrata l’epopea armena nei confronti delle repressioni dei Giovani turchi; concludendo con il Werfel narratore fantascientifico Stern der Ungeborenen (La stella degli uomini futuri del 1946).

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di Giuseppe Baiocchi del 13/01/2024

[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1708007109264{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]Joseph Roth è uno dei grandi sopravvissuti della civiltà ebraica dell’Impero danubiano.

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Per chi si reca nel famoso Cafe Central di Vienna, vicino all'ingresso, scorgerà una tipica statua che i viennesi - i pochi che si recano ancora al caffè turistico per eccellenza - conosco oramai bene, anche se mal fatta. Ebbene l'opera  rappresenta un personaggio, che spesso sconfina nella leggenda: il poeta Peter Altenberg. Analizzando più approfonditamente Richard Engländer, siamo davanti ad uno scrittore molto particolare, che raramente si ha il piacere di leggere. Calvo, dai baffi spioventi alla slava, si presentava leggermente trasandato e possedeva molte amicizie discutibili: dai letterati ai camerieri, fino alle prostitute.
[caption id="attachment_12484" align="aligncenter" width="1000"] Peter Altenberg nella cittadina di Gmunden nell'Alta Austria. Dall'inizio degli anni 1880, la famiglia Engländer si reca per le vacanze estive nel Salzkammergut, principalmente a Ischl, che divenne Bad Ischl solo nel 1907. Il figlio maggiore Richard, che poi si fa chiamare Peter Altenberg come scrittore, rimane fedele al Salzkammergut per tutta la vita - il suo posto preferito è Gmunden. Molti dei suoi schizzi e scene poetiche trattano esplicitamente o implicitamente esperienze e osservazioni in questo paesaggio e contengono tutte le sfaccettature dell'opera di Altenberg: la densità poetica con cui sa dipingere le persone come paesaggi in piccole istantanee, la tendenza all'"idealizzazione kitsch" o il pathos vuoto con cui getta i suoi giudizi sul calpestio dei segni di punteggiatura selvaggi, e la sua dubbia tendenza alla pedofilia.[/caption]
Di contro, se il lettore dovesse pensare ad un individuo burbero e rissoso, rischierebbe di commettere un macroscopico errore: Richard era una di quelle persone dalla calma frizzante, parsimonioso, buongustaio e scrupoloso come ogni vero viennese.
Nell’ambiente austriaco, prese uno pseudonimo particolare: Peter Altenberg, nome che identificava la donna di un suo antico amore – non corrisposto – e il cognome da una cittadina viennese sul «bel danubio blu»; entrambi retaggi della sua memoria.
Altenberg elabora una nuova modalità di leggere la realtà. Innanzi tutto egli si considerava un’osservatore, più che uno scrittore: difatti la sua vita rispecchia quella che Musil definiva l’esistenza di un «uomo senza qualità», ovvero un individuo di talento, ma che mal riusciva ad esprimersi in un singolo settore, per ritrovarsi alla soglia dei quarant’anni senza lavoro, né obiettivi.
Proprio per tale esistenza di «genio senza capacità», egli plasmerà la forma letteraria dell’effimero, del frammento, di quello che Adolf Loos affermava essere unicamente «un nuovo modo di vedere».
In una Vienna che si dibatteva tra lo storicismo architettonico e lo Jugendstil, Peter Altenberg – insieme ad altri pochi amici coraggiosi, come lo stesso Loos e Kraus – tenta una sintesi letteraria composta di attimi, di immagini di vita, che può essere vista come una delle varie forme di nichilismo europeo, ma che non avviene nell’immediato, ma per fasi.
Fu proprio il congedo con tale realtà impregnata nell’ornamento – simbolo di un ideale defunto – a far sì che Altenberg si legasse alle teorie architettoniche rivoluzionarie di Adolf Loos, che «parlando nel vuoto» esprimeva concetti di essenzialità.
Nella prima fase di componimento, il viennese sembra avere più tatto e sensibilità anche nella forma e lo si denota dalle opere Wie ich es sehe (Come la vedo io) e Ashantee; di contro il suo ultimo periodo, dopo Pròdrŏmŏs, denota un aumento di esasperazione nelle immagini proiettate su carta, per arrivare fino all’amara rassegnazione.
Figlio di un commerciante ebreo della media borghesia, Engländer dopo aver fallito per diverse volte il suo percorso di studi, ebbe come unico credo l’autenticità del proprio Io e intraprese un’esistenza fatta di alcolismo e stravaganza geniale.
Fu solo grazie a Karl Kraus che l’editore berlinese Samuel Fischer (1859 - 1934), pubblicò nel 1896 Wie ich es sehe (Il mio modo di vedere) che gli conferì un suo primo iniziale successo. Lo stesso Peter Altenberg, nel 1901, dirà di se stesso: «Sono forse poesie le mie piccole poesie le mie piccole cose? Niente affatto. Sono estratti! Estratti di vita. La vita dell’anima, così come quella di ogni giorno concentrata in due o tre pagine, liberata dal superfluo […] Io amo il metodo abbreviato! Lo stile telegrafico dell’anima! Vorrei descrivere un uomo in una frase, un’esperienza dell’anima in una pagina, un paesaggio in una parola! Punta, artista, mira fa’ centro! Basta».
[caption id="attachment_12487" align="aligncenter" width="1000"] Peter Altenberg nel 1907 al Cafe Central viennese. Così Alfred Polgar citò lo storico caffè: "Un vero centralista, chiuso nel suo caffè, ha la sensazione di essere scacciato nel mondo duro, esposto a strane coincidenze, anomalie e crudeltà dell'ignoto". “Café Central si trova al di sotto della latitudine di Vienna, sul meridiano della solitudine. I suoi abitanti sono principalmente persone la cui misantropia è forte quanto il desiderio di persone che vogliono stare da sole, ma vogliono anche compagnia mentre lo fanno”.[/caption]
L’autore si rende perfettamente conto della fine imminente dell’Impero, di quella società e di quella civiltà. Così si congeda dal tradizionale aforisma poetico o letterario, per crearne un altro fatto delle decantate «piccole cose»: una letteratura del «non detto», dove l’ermetismo di senso, risiede propriamente nel silenzio, vero significato profondo della vita.
È lo stesso filosofo Massimo Cacciari (1944), nel suo Krisis. Saggio sulla crisi del pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein del 1976, che riflettendo su Altenberg lo apostrofa come: «Esasperata autoriflessione […] coscienza dei limiti invalicabili del linguaggio, ma è anche consapevolezza del proprio fallimento e della propria impotenza, convinzione di essere ormai approdato al limite del dicibile». Talento straordinario in perenne crisi con se stesso, il frammento (l’estratto di vita) rappresenta la verità della tradizione, uccisa dalla sovrastruttura del kitsch.
Sempre nel 1901 scrive Was der Tag mir zuträgt (Ciò che mi porta il giorno), dove si renderà conto perfettamente del suo fallimento nell’ideale di mutare la società che lo circonda. Quattordici anni dopo, lo stesso Altenberg asserì: «Nei miei libri, per quanto si sia in grado di leggere fra le righe, è descritta l’eterna, terribile lotta fra tutto ciò che è e come invece dovrebbe essere».
 Il viennese si pone così, nei primi del Novecento, in tono eroico: crede e spera che esista ancora la possibilità di poter istruire e risvegliare l’uomo dalla non-autenticità di fine Ottocento e la sua stoica opposizione si baserà principalmente sulla sua esistenza, composta dal valore della tradizione.
L’uomo può essere scosso, unicamente tramite un forte colpo dei sensi, che avviene tramite l’aforisma. Ma la fine degli anni dieci del Novecento, saranno per Peter Altenberg pesantissimi, per via del tracollo finanziario del fratello, il quale gli donava una cospicua somma – fondamentale – per lo scrittore.
[caption id="attachment_12488" align="aligncenter" width="1000"] Peter Altenberg si trova ancora oggi al Café Central, anche se solo come una figura di cartapesta. Si siede vicino all'ingresso, lanciando uno sguardo piuttosto cupo, ma curioso sugli ospiti mentre arrivano.[/caption]

Entrato in crisi depressiva, la quale aggravava la situazione precaria del suo alcolismo, l’autore si somministrerà ingenti quantitativi di barbiturici, che condurranno Richard Engländer al manicomio, dove sarà «salvato» solo dall’amico Loos.
Piegato su se stesso, muterà la sua letteratura, che sarà unicamente rivolta verso il suo passato.
Arriviamo così a Märchen des Leben (Favole della vita), ultimo manifesto della lotta contro «l’incanto» di una società in piena crisi spirituale, economica e sociale. Le sue ultime produzioni, dal 1909 al 1913 seguono tutte l’elemento unificatore del ricordo e della memoria e in conclusione la sua opera del 1915 Fechsung (Racconto) attuerà la definitiva rassegnazione della sconfitta di una guerra ormai perduta contro la società – la stessa che successivamente l’Impero dell’Austria-Ungheria perderà militarmente.
Lo scrittore del Cafe Central di Vienna , si renderà conto, così, dell’inutilità della lotta, che lo porterà ad un isolamento all’interno di quella che il britannico Isaiah Berlin definì, nel suo Quattro saggi sulla libertà, come la chiusura all’interno della propria «cittadella interiore». Così, per citare Giuseppe Farese (1933): «L’invalido della vita, costretto per sopravvivere a mostrare a se stesso e agli altri che in lui «arde la favilla», può appunto produrre soltanto «campioni senza valore»; e tuttavia proprio in quei campioni che noi leggiamo il «vuoto dei valori» del suo tempo; il grazioso specchietto di Altenberg riflette l’Austria che tramonta».

Per approfondimenti
_Giuseppe Baiocchi, Finis Austriae. Sul tramonto dell'Europa, Il Cerchio, 2017, Rimini;
_Peter Altenberg, Favole della vita, Adelphi, 1981.
_Cacciari M., Krisis, Saggio sulla crisi del pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein, Adelphi, 1976, Milano.

 

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Il Novecento ha rivelato una verità incontestabile, ovvero il desiderio dell’uomo moderno di valicare i confini del sacro, scostandosi dai paradigmi del fas e del nefas, al solo scopo di assecondare un insaziabile desiderio di conoscenza. Un desio fomentato dal dubbio – tante volte esteriorizzato finanche nello Zibaldone leopardiano – che, alimentato dalla crescente hỳbris, ha condotto alla teoria del relativismo, nella quale la Verità universale non esiste o, in talune declinazioni, non esiste soltanto una verità.

[caption id="attachment_12329" align="aligncenter" width="1000"] Particolare del bassorilievo del peccato originale presso il Duomo di Orvieto, Cattedrale dell'Assunta, Umbria.[/caption]
Ebbene, le prime tracce di avversione al volere divino mosse a causa della c.d. empia tracotanza forse sono presenti finanche nelle Sacre Scritture: nel libro della Genesi Adamo ed Eva potevano mangiare di qualunque frutto fuorché dell’albero dal quale Dio li aveva diffidati dall’attingere. Il Serpente, che lo stesso Eterno porrà come inimico alla Donna, convinse Eva a commettere l’empio atto di insolenza, portando seco nel peccato Adamo. Dal libro della Genesi leggiamo infatti che il colloquio con l’Ingannatore fu del seguente tenore: «Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell'albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete». Ma il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male».
Ecco il primo desiderio di conoscenza, la prima sfrenata pulsione di avversare la Verità ed il Sacro Ordine che Dio ha imposto all’Uomo: «Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture». La pulsione scaturente dal desiderio di cercare una sapienza loro preclusa, dubitando e ipotizzando callidamente che la medesima fosse stata loro sottratta per gelosia o invidia, è la prima forma di dubbio. Ma il risultato conseguito è l’inverso: i progenitori della specie umana si rendono conto di essere nudi (la pochezza della loro esistenza e l’ontologica fragilità delle loro vite) e, di converso, intrecciano foglie di fico per coprirsi, forse perché consci di non essere in grado di interagire e trattenere quel sapere così ardimentosamente anelato.
Qual è la natura del Diavolo, infatti, nella tradizione cristiana? La teologia insegna che questi altri non sia se non un puro spirito, presente sin dai primi momenti della creazione, quando l’Eterno Padre creò le creature celesti e le divise in nove cori. Egli, brillante e di magnificenza tale da non poter essere equiparato ad altre creature angeliche, si ribellò a Dio rifiutandosi di essere equiparato al resto del creato, desiderando egli stesso di ergersi al livello di Dio, per poi venir ricacciato, dopo la sua caduta, negli abissi della terra dal Principe delle Milizie Celesti, San Michele Arcangelo, al grido di Mîkhā'ēl, ovvero “Chi è come Dio?”.
Ne L’Esorcista, film del 1973 diretto da William Friedkin e tratto dall'omonimo romanzo di William Peter Blatty, Padre Merrin, il sacerdote che tenta di liberare la giovane protagonista posseduta da uno spirito demoniaco, si riferisce al Diavolo dicendo «Credo che voglia portarci alla disperazione... perché vedendoci ridotti a bestie mostruose... noi escludiamo la possibilità dell'amore di Dio».
[caption id="attachment_12330" align="aligncenter" width="1000"] L'esorcista (The Exorcist) è un film del 1973 diretto da William Friedkin e tratto dall'omonimo romanzo di William Peter Blatty, che scrisse anche la sceneggiatura del film. La pellicola ebbe molto successo malgrado i problemi di censura e, negli anni seguenti, generò due sequel: L'esorcista II - L'eretico (1977), L'esorcista III (1990), e una riedizione in versione integrale del 2000, con circa undici minuti di scene inedite. Nel 1974 ne fu anche realizzata una versione cinematografica turca intitolata Şeytan, mentre nel 2016 è servita da ispirazione per l'omonima serie televisiva The Exorcist, che si pone come sequel. Ben accolto dalla critica, il film divenne presto un punto di riferimento del cinema moderno, acquisendo una notevole popolarità e esercitando un forte impatto culturale[2][3][4]. Nel 2010 entrò a far parte del National Film Registry della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti.[/caption]
La malizia, l’inganno surrettizio della conoscenza suprema, la brama di valicare i confini del sacro per spingersi oltre sino a dubitare di tutto, arrivando ad ipotizzare il precetto, ontologicamente privo di logicità, in virtù del quale “l’unica verità è che non esistono verità”, è stato sovente attenzionato dalla letteratura. Il caso più emblematico è quello di Ulisse Re di Itaca, che Dante incontra nell’Inferno tra i consiglieri fraudolenti mentre sconta la sua dannazione per aver peccato di empia tracotanza. Leggiamo nel XXVI Canto dell’Inferno (vv. 45-48) «E ’l duca che mi vide tanto atteso, disse: «Dentro dai fuochi son li spirti; catun si fascia di quel ch’elli è inceso». Ma ogni ulteriore parola sottrarrebbe spazio alla delizia del verseggiar del Sommo, donde di lui si riportano le parole: «Lo maggior corno de la fiamma antica cominciò a crollarsi mormorando pur come quella cui vento affatica».
Ulisse racconta in questa sede a Dante e Virgilio come avvenne la sua dipartita. Vecchio e stanco, non più l’eroe che tanto atterriva i troiani sotto le mura di Ilo, non più il duri miles Ulixi dell’inganno del cavallo, ma un uomo le cui glorie non sono più cantate, dimenticato persino nella sua patria, ma con un forte desiderio di vedere il mare, di esplorare nuovi porti prima ancora che la sua vita giungesse all’ultimo lido.
Io e ’ compagni eravam vecchi e tardi/quando venimmo a quella foce stretta/dov’Ercule segnò li suoi riguardi,/acciò che l’uom più oltre non si metta:/da la man destra mi lasciai Sibilia,/da l’altra già m’avea lasciata Setta./“O frati”, dissi “che per cento milia/perigli siete giunti a l’occidente, /a questa tanto picciola vigilia /d’i nostri sensi ch’è del rimanente, /non vogliate negar l’esperienza,/di retro al sol, del mondo sanza gente. /Considerate la vostra semenza:/fatti non foste a viver come bruti, /ma per seguir virtute e canoscenza”.
Fermo immagine: cerchiamo di comprendere cosa sta accadendo ad Ulisse. Con un manipolo di compagni vecchi e stanchi si rimette in mare, sino a raggiungere il confine invalicabile per gli uomini, lo stretto delle Colonne d’Ercole (lo stretto di Gibilterra, nella letteratura occidentale e in primis nel mito greco, era un tempo chiamato col nome di Colonne d'Ercole). Un’esitazione coglie la compagnia, ma non pervade il Re itacese: varcare la soglia delle colonne d’Ercole sarebbe stato un atto empio, ben più ardimentoso di quello di Prometeo, la punizione divina li avrebbe afflitti senza pietà alcuna. Il cuore di Ulisse però non si dà pace, deve vedere, deve scoprire, deve andare oltre, dubita della reale volontà divina. Si erge così ad “uomo nuovo” e sprona i suoi compagni al folle volo, ricordando quale fosse l’indole dell’umana stirpe, ovvero “per seguir virtute e canoscenza”.
Così la nave prosegue, oltrepassa il limes invalicabile, s’addentra là dove non avrebbe dovuto, pronta per incontrare la sua rovinosa fine: quando n’apparve una montagna, bruna /per la distanza, e parvemi alta tanto /quanto veduta non avea alcuna. /Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto,/ché de la nova terra un turbo nacque,/e percosse del legno il primo canto. /Tre volte il fé girar con tutte l’acque;/a la quarta levar la poppa in suso/e la prora ire in giù, com’altrui piacque,/infin che ’l mar fu sovra noi richiuso».
Cosa è accaduto all’astuto Ulisse? La nave giunge alle pendici di una montagna altissima, di un’altitudine tale che nessun uomo ne aveva mai vista una altrettanto imponente (la montagna del Purgatorio della visione dantesca?) e la compagnia prontamente si rallegra. Senonché il loro giubilar diventa presto pianto, nel momento in cui apprendono che la nave si trovava al centro di un turbine che la costrinse ad un triplice giro vorticoso: la prua s’inabissa e la poppa si solleva ed il mare si chiuse sopra di loro, inghiottendoli per l’insolenza contro il volere divino.
Singolare è l’impiego dell’espressione “com’altrui piacque”. Queste parole precedono infatti l’annunciazione della morte di Ulisse e dei suoi compagni, che infatti chiudono il XXVI canto. Quasi che Dante volesse lasciarci intendere che, poco prima di morire, Ulisse si fosse reso conto del peccato di cui fu portatore, della hỳbris con cui sfidò gli dei: del dubbio, del fatto che una verità, o una sola verità…Non esistesse…”. Ed il mare si chiuse sopra di loro.
La narrazione di Dante lascia incredulo l’uomo moderno, non perfettamente consapevole di quale possa essere il peccato imputato ad Ulisse. La società contemporanea, afflitta da un materialismo convulso e da un consumismo irrefrenabile, che sembra sia ontologicamente sprovvisto di confini, non vuole per sua natura incontrare “riguardi”, trovando maggior conforto nella negazione di una Verità e nell’esaltazione del dubbio e del relativo, ovvero dell’assenza del vero assoluto e dell’unico vero. Da qui trovano scaturigine i limiti etici e deontici, che avviluppano il sapere e le scoperte.
E proprio di desiderio di sapere e di assenza di etica parleremo cennando al personaggio del Dottor Faust. Francesco De Sanctis, nella sua Storia della letteratura italiana, scrive «[La] lotta tra Dio e il demonio è la battaglia dei vizi e delle virtudi [...].
[caption id="attachment_12331" align="aligncenter" width="1000"] Faust, Il laboratorio, stampa del 1872.[/caption]
Questa [...] è la base della leggenda del Dottore Fausto che vendé l'anima al diavolo, leggenda così popolare al medio evo, e resa immortale da Goethe». Il dottor Faust era un eminente sapiente, il quale spese la sua vita studiando Filosofia, Giurisprudenza, Teologia e Medicina, ma non era mai soddisfatto di quel sapere che, a suo dire, non gli era sufficiente per ritenersi sapiente, potendo al limite soltanto fingersi tale, dacchè «nulla ci è dato sapere». Inizia così a studiare la magia sino al momento in cui, insoddisfatto, tenta il suicidio, ricredendosi solo all’ultimo minuto e quindi desistendo dal proposito. L’incontro con Mefistofele avviene in questo contesto: il diavolo promette a Faust di offrirgli ogni supremo godimento e piacere della vita in cambio della sua anima. Il contratto tra Faust e Mefistofele viene così firmato con il sangue del Dottore, non troppo angustiato da quanto possa accadergli nell’al di là.
La storia narrata da Goethe è costellata di amori (per Margherita), rimpianti, dolori e depressione, tant’è che lo stesso Mefistofele si fa persuaso di non essere in grado di vincere la scommessa: il contratto avrebbe avuto effetto solo se Faust godrà al punto tale da dire all'attimo: «sei così bello! fermati!».
La storia, dopo le innumeri peripezie, si conclude con la quasi sconfitta di Faust, divenuto ormai cieco, ma ancora non abbattuto, semmai convinto di voler vedere una civiltà felice, prospera e laboriosa e solo in quell’istante, pieno di godimento, avrebbe detto all’attimo «sei così bello! fermati!».

«All'attimo direi:/sei così bello, fermati!/Gli evi non potranno cancellare/l'orma dei miei giorni terreni./Presentendo una gioia tanto grande,/io godo ora l'attimo supremo».

Mefistofele crede di aver vinto la scommessa, poiché Faust ha pronunziato le parole oggetto di contratto e così lo fa morire. Il diavolo tenta di reclamarne l’anima ma, in quel momento, la stessa gli viene sottratta da Dio, che giustifica la redenzione del Dottore per il suo impegno per una civiltà felice e laboriosa e per la sua costante ricerca dell’Eterno e dell’Infinito. Numquam, cosa ha voluto raccontarci Goethe? Faust stringe un patto con Mefistofele perché mai sazio e vittima della sua stessa hỳbris, desideroso di sapere e di godimento. La redenzione giungerà solo quando egli incontrerà il desiderio dell’Infinito e dell’Eterno, la Verità, la sola. L’unica.
Vale la pena chiudere questo scritto con un’ulteriore citazione, che rimane però una domanda aperta per l’uomo moderno: «Quid est veritas?» (che cos’è la verità?). Questa frase la troviamo nel Vangelo secondo Giovanni, ed è attribuita a Ponzio Pilato mentre questi interroga Gesù. Pilato chiede dunque a Gesù spiegazioni circa la sua affermazione consistente nel «rendere testimonianza alla verità». Dopo di ciò, Pilato proclama alle masse di non riscontrare in Gesù nessuna colpa.
 

 

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Sándor Károly Henrik Groschenschmied de Mára, noto al pubblico italiano semplicemente come Sándor Márai, non viene considerato propriamente un autore della finis Austriae, ma se si vuole parlare di Mitteleuropa, non si può ignorare colui che fu uno dei più grandi autori magiari, anche lui – nonostante un nazionalismo mal celato – nostalgico dell’Impero dell'Austria-Ungheria. In questo scrittore vi è infatti tutta l’atmosfera mitteleuropea in un pulviscolo di attesa, dove tempo e psiche si intrecciano in un abbraccio meraviglioso.
[caption id="attachment_12245" align="aligncenter" width="1000"] La sua residenza in via Mikó a Buda era protetta da dodici castagni, di cui solo uno rimane oggi. Un'agenzia di viaggi ora opera nello stesso posto in cui nessuno dei venditori ha letto Márai, nonostante ci sia un busto solitario con il suo nome accanto. Nessuno dà informazioni su di lui negli uffici turistici, il suo nome non compare nelle guide di viaggio e i suoi libri scarseggiano negli antiquari. È come se Budapest insistesse per ignorarlo. Dai commenti sussurrati dei librai si scopre che Sándor Márai è ancora indesiderabile per i nostalgici del vecchio regime, anche se l'Ungheria si è sbarazzata del Cremlino più di due decenni fa. Tuttavia, in mezzo a tanta indifferenza, c'è un uomo che ha dedicato metà della sua vita a recuperare la memoria di Sándor Márai. Si chiama Tibor Mészaros, lavora al Museo di Letteratura Petöfi.[/caption]

Nato a Kassa nel 1900 – oggi Košice nell’attuale Slovacchia – Márai apparteneva ad un’antica famiglia sassone della piccola nobiltà ungherese (ricevente da Leopoldo II, il feudo di Mára nel 1790) anche se si considerò per tutta la vita e con orgoglio un borghese ungherese. Ma un piccolo-grande inganno che spesso si travisa del magiaro è la sua considerazione di borghesia, spesso confusa ad arte dallo stesso autore: Márai quando si riferisce alla sua "grande famiglia", intende propriamente la piccola nobiltà terriera dalla quale proveniva. Anche lui, come tutti gli autori dell'Europa danubiana, possiede una cultura a trazione austro-tedesca, indice di come l'Impero possedeva sì molte etnie e lingue al suo interno, ma la formazione della classe dominante era tedesca – non a caso prima lingua ufficiale dell'Impero –, nonostante l'Ungheria esercitò un importante ruolo di implosione politica con il processo della magiarizzazione: un fenomeno pari al sionismo di matrice ebraica, l'irredentismo italiano e altri piccoli focolai nazionalistici disgregatori.

Larga parte della sua produzione di successo arrivò alcuni decenni dopo la fine del secolare Impero della Monarchia Duale, dove i suoi scritti si presentano con atmosfere assorte e contenute. I protagonisti vengono coinvolti in un flusso emotivo che si dipana con gradualità. Nel famoso romanzo A gyertyák csonkig égnek (Le Braci del 1942) i due uomini che rimettono in gioco la propria personale esistenza e amicizia – dopo 41 anni –, verranno sapientemente divisi proprio dall’elemento temporale, il quale trascorre inesorabile e fa sì che entrambi abbiano amato in quel lontano passato la stessa donna, fra tradimenti, desiderio di vendetta e separazioni impossibili da rimarginare.Nel celebre romanzo Eszter hagyatéka (L’eredità di Eszter del 1939) stilato anch’esso alle porte della seconda guerra mondiale, continua la psicologia dell’attesa. Ogni parola viene «pesata» e il segreto della narrazione si espande, dilatandosi nell’attesa del ritorno dell’uomo follemente amato dalla donna che lo aspetta da vent’anni, ma dal quale non ha avuto che delusioni e opportunismi. È la psiche che accende il racconto, con accesi pensieri passionali da parte della protagonista – tutta femminile – e retropensieri, verso la vita passata. L’interlocutore, molto spesso, non è necessario; a Sándor Márai non interessa. In Az igazi (La donna giusta del 1941) i tre apparenti dialoghi sono in realtà riflessioni solitarie sull’amore inseguito e su quello vissuto, ma si percepisce l’instabilità dei rapporti che parallelamente viene unita alla fermezza della Vienna imperiale e regia in cui il romanzo è ambientato. Il magiaro penetra nei sentimenti di un’epoca ormai sull’orlo della conclusione, lo splendore della Mitteleuropa e la sua Austria felix. Particolari le descrizioni di austerità dell’alta borghesia austriaca, la quale parallelamente annuncia la sua imponenza nelle vibrazioni di una società che seguiva cadenze più private, più intimistiche rispetto agli stravolgimenti e alle nuove modalità di comunicazione che si sarebbero imposti di lì a poco. Leggere Márai, significa comprendere l’orgoglio ferito di tutta una classe sociale: quella della piccola nobiltà terriera mitteleuropea.

La dignità viene costantemente inserita in una situazione di pericolo e ancora una volta «il tempo» non funge da elemento positivo, ma da contraltare negativo delle vicende, poiché crea una presa di contatto con una sofferenza meditata a lungo, ma sopita spesso nel passato. Non assistiamo a romanzi d’azione, ma d’emozione e d’atmosfera. Il sentimento umano è al primo posto rendendo le opere letterarie «lontane» apparentemente, dalla sensibilità contemporanea di concepire l’esistenza e le relazioni, le quali mostrano nitidamente le trasformazioni che la soggettività dell’esperienza ha subito nell’ultimo secolo. Ne sono un esempio le opere che narrano la sua vita: Egy polgár vallomásai (Le confessioni di un borghese del 1934-35), Föld, föld...! (Terra, terra…! del 1972) e Csöndben akartam lenni (Volevo Tacere del 1943). Con tali autobiografie Sándor Márai si è rivelato poeta delle intermittenze del cuore e sismografo della catastrofe novecentesca, guadagnandosi un posto di prima fila nella psico-storiografia della Mitteleuropa, accanto ad altri grandi ungheresi, anch’essi esiliati, come Arthur Koestler (1905 - 83) e François Fejtö (1909 - 2008). Difatti per uno scherzo del destino, la sua vita sarà divisa in due «esistenze» di pari durata, ma vissute diversamente, quasi in opposizione. Abbiamo un «primo periodo» pieno di successo nazionale, viaggi alla scoperta del continente – di quell’Europa così diversa dalla sua Mitteleuropa –, di una vita spirituale piena e colma di socialità; di contro il «secondo periodo» – comprendente tutto il post 1939 – è caratterizzato dalla crisi del soggetto, dalla solitudine crescente, che porterà l’autore alla fuga in povertà, fino al suicidio americano di San Diego del 1989.

All’interno di questa cornice – come nei suoi racconti – vi è il sentimento umano che torna sempre verso l’ultimo bastione che non crolla: l’Impero Duale di Franz Joseph. Il grande letterato registra impassibile la fine della civiltà aristocratica – la quale segue quella borghese, entrambe anime della Mitteleuropa scomparsa, umiliata e ferita –, pur consapevole che quella tragica conclusione comporterà anche la sua dipartita. Un atteggiamento di sdegnosa fierezza, perfettamente ripreso nella statua che gli è dedicata nella sua città natale, ad opera dallo scultore (slovacco) Márian Gladis.

[caption id="attachment_12251" align="aligncenter" width="1000"] Statua dello scrittore magiaro Sandor Marai, presso Kosice in Slovacchia.[/caption]
Tale consapevolezza è presente nel già citato romanzo La Donna giusta, dove si descrive – con grande potenza – la fine del mondo mitteleuropeo: «Il vecchio sistema cominciava a barcollare... […] quella che mi raccontava era anche una favola, una storia dell’altro mondo. Di un mondo al quale sarebbe piaciuto anche a me dare una sbirciata, il paradiso dei ricchi... Ma io non ero mai riuscito ad andare oltre le camere da letto. Le gran dame non mi avevano mai invitato né in salotto né in sala da pranzo. […] oramai la lotta di classe è arrivata alla fine, e che stiamo vincendo noi proletari. I signori stanno solo cercando di prendere tempo, di tirare le cose per le lunghe. […] Davvero ho vinto io, il proletario? […] Ho una macchina, una bella vedova irlandese, la tivvù, il frigorifero... Ho perfino una carta di credito, insomma, sono un vero signore, un gentleman. Mi sono fatto appioppare tutta questa roba, a credito. E se un bel giorno mi venisse lo sghiribizzo della cultura, mi comprerei anche dei libri. Ma mi trattengo, perché nei tempi duri della mia vita ho imparato che è meglio non avere troppe pretese. Anche senza bisogno di libri ho l’impressione che ormai, al giorno d’oggi, la lotta di classe non infuria più per le strade. Il proletario è ancora proletario, e il signore continua ad essere signore. Ma adesso si affrontano in maniera diversa. Sa il diavolo com’è che siamo arrivati a questo punto, ma una volta succedeva che il proletario sgobbava fino a che riusciva a mettere insieme tutto quello che serviva al signore. Adesso è invece il signore che si scervella per trovare il modo di convincere me, il proletario, a consumare tutto quello che produce lui, il borghese. Mi vuole imbottire di ogni genere di roba, come l’oca per la festa di S.Martino, mi vuole fare ingrassare per bene, perché lui riesce a rimanere borghese solo se io il proletario, mi metto a comprare tutto quello che lui cerca di sbolognarmi. Che mondo pazzo chi ci si raccapezza più?... Perché qua mi si vuole appioppare ogni sorta di carabattole, a credito. To’, una macchina!... la tengo parcheggiata qui all'angolo, la mia macchina nuova. Quando ci salgo e la accendo, mi torna in mente che cosa voleva dire una macchina per me quando ero pischello!... Ero un ragazzetto scalzo e restavo come fulminato già soltanto se per la strada mi passava accanto un tiro a due, a cassetta ci stava il cocchiere, con il gilè con i bottoni dorati e una berretta con la frangia, che faceva schioccare la frusta come gli sbirri i ceffoni. La carrozza era tirata da due cavalli, era così che viaggiavano i signori! Ma adesso nel mio carro di cavalli ce ne stanno centocinquanta. […] Di sabato ogni tanto mi faccio un giro con la vedova, andiamo in riva al mare, lì ci mangiamo un hamburger, ma non scendiamo nemmeno, e per andare dove?... Poi di nuovo a casa. Però la macchina ci vuole, per lo status. […] Perché ormai è tutto mio, del proletariato […]. Quando sono arrivato in questo paese, in questa enorme America, non avevo il becco di un quattrino. E adesso invece? Guardami bene, dalla testa ai piedi, che tu ci creda o no, la sacrosanta verità è che oggi ho la bellezza di ottomila dollari di debiti! Provaci tu, bello mio! […] Perché io ho fatto carriera nel mio campo, sono un vincente, un vero signore!... E se aspetti ancora un po’ anche tu avrai un tosaerba, e pure uno di quei forni elettrici che cuociono il polpettone con una luce rossa, in maniera scientifica. E tutto quanto a credito, perché il borghese ha la lingua penzoloni dalla smania di farti diventare un vero signore, proprio te, il proletario. Te la beccherai pure tu la febbre del consumismo, come me la sono beccata io, come le pecore la rogna». Il lettore assaporerà così sprazzi di Impero, alcune frasi, un dialogo – senza un nitido contesto – a cui ci si possa aggrappare, per avere un rilievo narrativo: una scoperta individuale che non chiude mai a nuove interpretazioni.
[caption id="attachment_12252" align="aligncenter" width="1000"] Gli affetti personali di Sándor Márai in esilio: il cappello di feltro verde, la pipa inseparabile, il portafoglio di pelle, il coltellino svizzero e la penna che ha tradotto in parole il flusso immaginifico dei suoi romanzi.[/caption]

Sándor Márai fu anche un conservatore del "Bel Mondo", dal quale proveniva: una realtà a tinte nere-oro. Difatti l'aristocrazia e l'alta borghesia, prima dell’avvento dei totalitarismi, erano eredi dell’umanesimo occidentale, sospeso tra l’arroganza feudale, tipica della nobiltà, e le tendenze rivoluzionarie del proletariato. Si definirà «borghese» sempre con atteggiamento di sfida coraggiosa, verso una nuova terribile realtà, la quale fu portatrice di morte e disperazioni non solo al piccolo mondo agiato dello scrittore, ma – nel 1939 – si estese ben oltre ogni limite immaginabile. Pur rimpiangendo l’Impero, vissuto durante la placida infanzia, l’ungherese fu un patriota, dimostrando il suo attaccamento – nonostante le origini sassoni, con nome originario Grosschmid, mutato legalmente in Márai nel 1939 – nei duri anni quaranta. Fu con questo spirito che Márai, si impegnò nel rimanere fedele sempre alla sua lingua ungherese, la quale – durante le occupazioni tedesche e russe – lo condannò a quell’emarginazione che non conobbero i Nabokov e i Koestler, passati all’inglese, i Cioran, gli Ionesco, i Fejtö e i Kundera, divenuti scrittori francesi, il Canetti bulgaro-tedesco, l’italo-polacco Gustaw Herling e molti altri ancora. Lo scrittore iniziò a peregrinare attraverso l’Europa: prima in Germania, dove soggiornò a Lipsia, Francoforte, Weimar e Berlino, successivamente Parigi e Londra. Non si riscontrano lunghe permanenze a Vienna ed è forse per tale motivo che viene definito, da alcuni, uno «scrittore europeo». Di contro definirei tale interpretazione discutibile, proprio perché l’atmosfera della finis Austriae si ritrova in moltissimi dei suoi scritti, i quali hanno come ambientazione le due capitali imperiali, Vienna e Budapest. Lo stesso Márai, legato alla sua lingua e alla sua cultura propriamente mitteleuropea, si definirà sempre uno straniero in casa d’altri, anticipando lo stesso Albert Camus con il suo romanzo Lo straniero, dove appare il dramma del sentirsi sempre "fuori posto" e non far parte mai pienamente di una comunità e di un popolo. L’ambientazione dei Cafe, degli appartamenti, delle piazze, dei costumi non rivestono solo il ruolo di una mera comparsa sterile finalizzata ai personaggi, ma acquisiscono, all’interno dell’autore, una consapevolezza interiore del suo mondo scomparso per sempre: in tale veste Sándor Márai è da considerarsi, a livello letterario, pienamente mitteleuropeo.

Lo scrittore magiaro ci segnala anche la crisi della famiglia e dell'educazione che la nuova società impartiva. Nel suo piccolo capolavoro, Divorzio a Buda (1935), ci ricorda l'importanza dell'organicità che la Chiesa Cattolica riusciva a dare nei confronti dell'educazione dei ragazzi: «Padre Nobert gli aveva dato quello che il più delle volte nemmeno una madre è capace di dare, nemmeno la famiglia, nemmeno i fratelli: con tatto e oculatezza, il genio pedagogico di padre Norbert lo aveva posto sotto la protezione di una comunità umana. Lì ogni individuo sentiva di appartenere a qualcosa, a un luogo, ecco il semplice obiettivo da raggiungere. [...] A quei tempi era in voga l'educazione di matrice psicoanalitica, e i figli delle famiglie borghesi erano tenuti sotto costante controllo psicologico, protetti, avvezzati a nutrimenti spirituali - la pedagogia moderna proibiva ai genitori i castighi, i burberi divieti, la parola d'ordine era spiegare, permettere e informare. Kristóf Kőmíves era convinto di essere un padre buono e coscienzioso pur non tenendo conto di quei nuovi precetti educativi. Aveva compreso che era "tutto l'insieme" a risultare decisivo, il clima familiare, il fatto stesso di essere interiormente, profondamente, una vera famiglia nella quale il padre, madre e figlio si stringono l'uno all'altro. E se era questa concordia interna a tenere unita la famiglia, i genitori avrebbero anche potuto litigare, i bambini avrebbero anche potuto ricevere qualche castigo, la mamma distribuire qualche ceffone, il padre essere di cattivo umore, burbero o taccagno, la famiglia nel suo insieme sarebbe ugualmente rimasta unita, nessuno avrebbe tremato, e i bambini non avrebbero subito alcun trauma dagli scappellotti paterni».

[caption id="attachment_12259" align="aligncenter" width="1000"] Il passaporto dello scrittore.[/caption]

Ed ancora sul divorzio: «Dopo alcuni anni di pratica con le cause di divorzio sentiva che, fra tutti i compiti di un giudice, il suo era il più ingrato; con mani profane si doveva unire e sciogliere là dove in precedenza solo Dio univa e soltanto Egli poteva dividere. [...] anche lui chinava il capo quando pronunciava la sentenza, poiché sapeva che le sue parole rispecchiavano soltanto una legge umana, e quel che dichiarava era contrario allo spirito della legge divina. [...] E dopo, tanti anni, a volte gli pareva di aver già visto tutti i malanni di questa terra: dalle pratiche di divorzio, come da una goccia di sangue infetto, si rivelavano morbi segreti che affliggevano l'intero organismo, emergeva la sindrome della decomposizione della famiglia [...] dubitava che l'uomo potesse ancora essere capace di risanare: esistevano forse una speranza, una guarigione diverse da quelle che Dio manda agli uomini»?

Ma ben presto, come documentano con scansione degna di un thriller le pagine di Terra, terra…! fu chiaro che non restava altra via che l’esilio. Così ci descrive minuziosamente il regime comunista che si era installato con la forza in Ungheria: «Gli stalinisti volevano contrabbandare il comunismo nell’Occidente europeo per poi – quando e come fosse stato possibile – controllarne le risorse industriali e tecniche. [...] I russi, inoltre, erano spinti dall’ossessione messianica di portare il comunismo al di là dei confini dell’Unione Sovietica. [...] Stalin e gli stalinisti, che con l’imperialismo comunista avevano provocato dapprima la resistenza spirituale, morale e poi – in Polonia, nella Germania dell’Est, in Ungheria – quella fisica, si comportarono in modo incomprensibile per i contemporanei. Con una strategia non aggressiva, con la maschera del socialismo, avrebbero probabilmente ottenuto risultati migliori che col terrore attuato dalla costrizione comunista, sia nei paesi “satelliti” sia in Occidente e altrove. [...] In quel periodo in Occidente era già comparso qualche libro che faceva luce sulle purghe staliniane. I testimoni oculari sfuggiti ai finti processi, alle “autoaccuse” morbosamente pubblicate – tra cui c’erano anche molti comunisti che davano notizie di comportamenti disumani basandosi su esperienze personali dirette – scrivevano libri la cui pubblicazione aveva un’eco in Occidente. La propaganda ufficiale comunista, com’è ovvio, denigrava aspramente queste testimonianze, definendo gli autori dei fedifraghi patentati, rinnegati, prezzolati, scribacchini al soldo delle potenze imperialiste. Ma con il passare del tempo emerse il dubbio che gli stalinisti, si rallegrassero in segreto per quelle denunce, che non provocavano soltanto l’indignazione dei “compagni di strada” occidentali, ma anche la paura delle masse. E a parlare erano i testimoni oculari, con dimostrazioni convincenti, uomini turbati che una volta avevano creduto nel comunismo e poi si erano dovuti rendere conto di cosa fosse in realtà questo sistema. E sostenevano che il comunismo non tollera critiche, tentennamenti, revisionismi liberali. Non ha bisogno di adepti “idealisti ed entusiasti” che poi restano delusi perché la realtà li disinganna, ma colpisce spietatamente e sistematicamente tutti coloro che concepiscono il bolscevismo in maniera diversa da come esige l’ortodossia. Per i comunisti, che erano buoni strateghi e facevano progetti a lunga scadenza, simili libri erano utili, perché dimostravano all’uomo comune che opporsi era inutile, che non ci si poteva difendere dai metodi e dagli strumenti di sistema. I comunisti sapevano che tale sistema poteva funzionare solo in un clima di paura permanente e perciò disapprovavano a voce alta quei libri che segretamente approvavano, fregandosi le mani, poiché attestavano l’irresistibile forza del terrore. Non volevano e neanche potevano sperare nell’esistenza di un uomo pensante il quale, pur avendo conosciuto concretamente il comunismo, ne fosse ancora entusiasta: a loro bastava la paura che quelle testimonianze generavano nelle vittime.
Non temevano di non essere amati. Temevano solo di non essere temuti. L’ossessione messianica slava era solo in parte all’origine della strategia di aggregazione bolscevica, fulminea e senza riguardi, che aveva provocato la guerra fredda. In realtà i comunisti non temevano l’Occidente, che ritenevano corrotto, fiacco e maniacalmente bisognoso di sicurezza (e in questo spesso avevano ragione), né paventavano i fascisti con i quali, al cambiar del vento, ci si poteva sempre accordare, ma temevano il proprio sistema, il comunismo.
Sapevano che un sistema fondato sull’inganno e la prepotenza poteva essere mantenuto solo perpetuando inganno e prepotenza – e che il solo mezzo per ottenere ciò era la minaccia perenne del terrore. Temevano la situazione nazionale interna, che dopo la seconda guerra mondiale si era radicalmente modificata: dopo l’isolamento e l’ignoranza totali dei primi tre decenni era arrivata l’ora in cui frotte di soldati rientrati dall’Occidente riferivano che altri sistemi e altri metodi potevano produrre – velocemente e con risultati migliori – benessere per le masse e condizioni più degne per l’uomo. [...] Una simile spinta è irresistibile, al pari di una catastrofe naturale, un terremoto. E perciò si affrettarono dappertutto, anche in Ungheria, a realizzare il comunismo: sapevano che il tempo sarebbe rimasto loro alleato solo finché potevano incutere paura alle masse. Temevano che a un certo momento la gente potesse smettere di avere paura della paura (nella tabella oraria del terrore questo momento ha un tempo preciso) e cominciasse a protestare.
Erano spietati e avevano fretta anche perché nella storia, fra tante altre cose, era comparsa la radio a batteria. Non avevano ancora valutato il ruolo della radio a pile – che invia informazioni nelle regioni più lontane di un impero su quello che sta succedendo nel mondo in quell’istante – nei processi storici. La radio è in grado di svelare in pochi secondi menzogne ben radicate: ad esempio quella secondo cui un’utopia concepita cento anni prima e completamente ammuffita e sorpassata possa ancora essere realizzata concretamente nell’interesse delle masse lavoratrici.
I nazisti furono tradotti davanti ai tribunali speciali, detti popolari, e coloro che si difesero dichiarando di aver solo “eseguito degli ordini” vennero giustiziati. In casi particolari, quando c’era bisogno di uomini senza scrupoli, li si graziò e li si inquadrò nelle file del potere comunista. [...] Vissi un anno e mezzo in quest’atmosfera, che conobbi non per sentito dire o dai libri, ma attraverso l’esperienza quotidiana. [...] In quel periodo appariva ancora qualche giornale dell’opposizione. Le case editrici e i teatri non erano ancora stati nazionalizzati. I comunisti – muniti di cronometro – lavoravano con prudenza: facevano a pezzi il corpo della nazione articolazione dopo articolazione, come un sapiente professore quando seziona le membra del corpo umano nel corso di un esame di anatomia pubblico. Cercavano di risparmiare gli organi più nobili, i nervi più importanti, ma tagliuzzavano e sezionavano le viscere con pinze e forbici. Nessuno sapeva fino a quali profondità sarebbero arrivati, talvolta sembrava che nemmeno i comunisti sapessero fino a che punto avrebbero potuto affondare il bisturi nel corpo vivo. Avevano ricevuto l’ordine da Mosca; probabilmente avevano anche ricevuto le istruzioni per la messa in pratica, ma al tempo stesso avevano paura di indugiare in inutili scrupoli di coscienza, poiché la responsabilità finale era loro, dei tecnici mandati da Mosca. Se qualcosa fosse andato storto, se il malato fosse morto dissanguato o avesse cacciato un urlo, avrebbero dovuto risponderne loro. Per questo lavorarono un anno e mezzo con l’attenzione del ragno che tesse la tela. [...] Non lo si poteva percepire subito, ma tutti i giorni il Ragno produceva un filo. Ora i libri di testo, ora la scuola. Ora i lavori pubblici. [...] Oggi scompariva un uomo, domani una vecchia, solida istituzione. Oppure un’idea. [...] Quello che ancora ieri era la norma – partiti politici, libertà di stampa, vita senza paura, libertà di opinione – c’era anche il giorno dopo, era soltanto più esangue, come durante certe notti di angoscia, quando gli elementi della realtà quotidiana continuavano a vivere benché più pallidi. [...] Eppure vi era qualcosa di più importante del posto di lavoro e del pane. Una cosa che, pur nell’estremo bisogno, per la maggior parte degli uomini è più importante di tutte quelle che può perdere in una grave prova: la stima di sé.

[caption id="attachment_12269" align="aligncenter" width="1000"] La Rivoluzione ungherese del 1956 schiacciata dalle forze sovietiche.[/caption]

Dopo tante menzogne e logore parodie, le persone avevano riconosciuto la realtà: quanto pericolo ci fosse nell’essere costretti ad accettare quello in cui non credevano. Si voleva che accettassero sinceramente ciò che disprezzavano. E si voleva togliere loro l’unico bene rimasto, più importante del ruolo sociale, del benessere, della carriera: il diritto di essere uomini degni di questo nome, uomini che costruiscono e migliorano la società nella quale intendono vivere.
Ed era proprio questo quel che voleva il Ragno: succhiare dalla vittima tutto ciò che somigliava alla consapevolezza umana. Come avevano fatto i nazisti nei campi di concentramento, dove le vittime, ridotte a livelli subumani, non solo venivano uccise e soffocate dal lavoro ma, attraverso umiliazioni e torture, avrebbero dovuto perdere il senso della coscienza e della dignità umana. I nazisti in definitiva, si accontentarono, “modestamente”, di annientare fisicamente le proprie vittime. I comunisti volevano qualcosa di più e di diverso: esigevano che la vittima restasse in vita e che celebrasse il sistema che annientava in lei la coscienza umana e la stima di sé».

Dopo il suo quarantottesimo compleanno, l’undici aprile del 1948, lo scrittore ungherese scelse la fuga dal suo Paese, ma per il periodo storico – degli anni cinquanta – coloro che «sceglievano la libertà» erano spesso visti come rinnegati e reietti. Basti pensare che i tre principali attori della politica filo-tedesca dell’Ungheria erano già usciti di scena: Bethlen, deportato a Mosca, vi morì in circostanze mai chiarite nell’ottobre 1945; Szalasi fu processato e impiccato a Budapest nel marzo 1946; Horthy, che era stato arrestato e deportato dai tedeschi nel 1944, fu brevemente imprigionato poi rilasciato dagli americani alla fine della guerra e si spense in esilio in Portogallo nel 1957. Molti loro seguaci si distinguevano per lo zelo con cui militavano nei ranghi del nuovo regime. Un dissidente come Márai diventava un testimone scomodo. Fu così che il giovane scrittore di successo, divenne un esule del destino. La sua trasformazione fisica lo testimonia ampiamente,  e anticipando lo scacco amaro di un cancro, abbracciò il suo tragico destino, che portò l’autore ad un amaro suicidio oltreoceano il 21 febbraio del 1989.

 

Per approfondimenti:
_Márai S., (1935 – 1939), Divorzio a Buda, Adelphi, Milano, 2002;
_Márai S., (1934 – 1935), Confessioni di un borghese, Adelphi, Milano, 2003;
_Márai S., (1941), La Donna giusta, Adelphi, Milano, 2004;
_Márai S., (1934 – 1935), Terra, terra!, Adelphi, Milano, 2005;
_Márai S., (1942), Le braci, Adelphi, Milano, 2008;
_Márai S., (1949 – 1950) Volevo tacere, Biblioteca Adelphi 666, Milano, 2017;
_Zweig S., (1942), Il mondo di ieri, Mondadori Libri S.p.A., Milano, 2016.

 

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Il filone letterario della Finis Austriae, non può certamente  ignorare Robert Edler von Musil (1880 - 1942). Nato nell’austriaca Klagenfurt, lo scrittore si pone come uno degli autori più importanti del periodo. Durante gli studi, superò l’esame di ingegnere nel luglio del 1901 e si appassionò verso alcuni autori, tra cui ricordiamo Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844 - 1900) dal quale trasse il concetto dell’irrazionalismo, Ralph Waldo Emerson (1803 - 1882), Maurice Polydore Marie Bernard Maeterlinck (1862 - 1949) e Ernst Waldfried Josef Wenzel Mach con la psicologia della Gestalt.
[caption id="attachment_12076" align="aligncenter" width="1000"] Nel luglio 1888, la famiglia Musil fece un'escursione ad Achensee. Ce n'è una fotografia che sembra un sociogramma della famiglia: l'amico di casa, l'insegnante di affari Heinrich Reiter, è in trono al centro dell'immagine, nelle immediate vicinanze della sua destra Hermine Musil, Alfred Musil in piedi sullo sfondo, e il piccolo Robert Musil, appena otto anni, in costume tradizionale di Steyr, con un lungo bastone e un'espressione piuttosto seria visibilmente seccato vicino a quest'uomo, contro il quale si appoggia. A destra il letterato in età giovanile.[/caption]
Il giovane Musil, si porrà come anti-metafisico, criticando aspramente l’immutabilità di alcuni aspetti etico-morali, poiché questi possono essere svalutati dal continuo fluire delle energie interrelazionali fra individui, dovuti dall’attività analitico-sperimentale.
Tale pensiero fu rafforzato facendo sue le teorie empiristiche e sensitive di Mach, dove le sensazioni – non vincolate ad un individuo umano – sono plasmate meramente dai rapporti funzionali – i quali una volta stabilizzatosi divengono sostanze. Queste «finzioni» – legate ad un principio utilitaristico – permetteranno all’uomo, l’orientamento fra il suo Io e gli enti, al cui novero Musil inserisce anche il tempo e lo spazio. Più il fine è funzionale, più la realtà può essere plasmata: questa modalità sarà la sua chiave per uscire dalla crisi di senso della sua epoca.
Ciò che permetterà a Musil di superare il pensiero di Mach, sarà proprio l’applicazione alle forme del carattere reale e non fittizio: tale pensiero – di forte vincolo intellettuale – proviene nella speranza del continuo mutamento. Dunque la forma dell’Io deve essere definita dall’interno e non da forme imposte dalla società, poiché è plasmato in forma organica ed è soggetto al mutamento, che lo apre al possibile, rendendolo vivo con il reale. Essenziale nel suo pensiero sarà la logica motivazionale: tale concetto si riconosce partendo dai valori essenziali, i quali devono necessariamente emergere fra il soggetto, l’oggetto e l’anima del mondo.
Sarà proprio questa funzionalità, insieme alla variabilità dei valori, a slegare la logica motivazionale dall’arbitrio e dal soggettivismo.
[caption id="attachment_12080" align="aligncenter" width="1000"] Edizione tedesca de L'uomo senza qualità di Robert Musil.[/caption]
Sono tutti concetti che ritroviamo in alcune sue novelle, come Vereinigungen (Unioni) del 1910 e attraverso il suo saggio Der mathematische Mensch (L’uomo matematico del 1913), dove l’equazione differenziale consente di determinare il valore di una variabile ponendo questa in rapporto con le altre ed inserendo i presupposti per far sì, che tale valore non risulti definito come indipendente in sé, ma divenga determinabile unicamente con il sistema cui è avvalorato. Celebre la sua citazione: «L’intelletto però si spande all’intorno, e appena tocca il sentimento, diventa spirito». Spirito, dunque, come vero luogo costruttivo in cui la forma-uomo viene a crearsi, in quanto insieme organico, dove tutto è in costante ridefinizione. Sarà proprio questa proprietà umana intrinseca salvarlo dalla rigidità degli Asburgo.
Siamo all’origine della sua fenomenologia, la quale nel 1913 si affermerà in Confessione politica di un giovanotto dove l’unione tra scienza e arte – spregiudicatezza e libertà – porta l’uomo a riconoscere il buono nel malvagio e il brutto nel bello, stravolgendo il pregiudizio atavico tramandato dalla società.
Nasce, nell’autore austriaco, la struttura del saggismo: la forma soggettiva dell’esserci del possibile che aumentando di potenza e perfezione entra in relazione con la mutevolezza dell’unicum esistenziale. Come scrive la professoressa Bianca Cetti Marinoni: «Vivere "saggisticamente" significa dunque per Musil sottrarsi alla pretesa del reale di porsi come immutabile e di imporre i suoi valori come univocamente definiti. E d’altra parte il suo stesso abito mentale di uomo di scienza induceva l’ingegnere e psicologo sperimentale Musil, al massimo rispetto della realtà fattuale e dei suoi valori, la cui certezza e stabilità sono il presupposto non solo di ogni calcolo e di ogni ipotesi scientifica, ma più in generale di ogni forma di vita organizzata».
È la formalizzazione intellettuale il vero pericolo: il rischio che la forma – con la sua capacità di ridefinizione – si assolutizzi, creando i presupposti per la società borghese di fine Ottocento, dove l’identità dell’individuo si irrigidisca non consentendo così il suo umano sviluppo. Prima del suo capolavoro letterario Robert Musil ha combattuto la Grande Guerra come ufficiale dell’Imperiale e regio esercito.
Fu di stanza come ufficiale al fronte italiano in Südtirol oltre che al confine con l’altopiano di Asiago, dove partecipò alla Quinta battaglia dell’Isonzo. Durante la permanenza al fronte sud-tirolese – dove gli fu conferita la medaglia di bronzo – fu redattore a Bolzano dal 1916, del Tiroler Soldaten-Zeitung, una rivista di propaganda per la quale scrisse diversi articoli pubblicati anonimamente.
[caption id="attachment_12077" align="aligncenter" width="1000"] Da sinistra a destra: soldati austroungarici leggono il Tiroler Soldaten-Zeitung di Musil; Robert Musil nel 1917, infine gruppo di soldati davanti alla canonica di Palu del Fersina: il quinto da sinistra (1915). Museo-storico-della-guerra-di-Rovereto.[/caption]
Tali scritti, pur con i limiti imposti dal carattere militare della pubblicazione, presentano una critica esplicita alle svariate manchevolezze, errori, difetti, dell’Austria-Ungheria e alla sua assenza esistenziale: quella del senso dello Stato, di un’idea unificante della compagine imperiale. Nel 1917 il padre di Musil fu nobilitato dall’Imperatore Karl I e ricevette il titolo di Edler von, che Robert eredita. Nonostante il titolo e la promozione a capitano (novembre 1917), lo scrittore aveva scarsa attitudine alla presunzione.
Nel 1918 venne fondato un nuovo giornale propagandistico, Heimat, nella cui redazione Musil conobbe lo scrittore Franz Werfel. L’autore ha trattato anche l’argomento spinoso del pangermanismo. Nel 1923 scriverà, non concludendolo, il saggio Der deutsche Mensh als Symptom (L’uomo tedesco come sintomo), ponendo la cultura tedesca come problematica alla civiltà, in quanto aveva già intravisto uno allontanamento culturale da Goethe e Kant, dove la téchne dell’industria nazista aveva prevalso sullo spirito tedesco, portando alla distruzione tale civiltà.
In questo interessante scritto, rilevante è come Musil aveva perfettamente compreso le mire pangermaniste dei ministri militari dell’Imperatore, i quali osservavano un’Austria-tedesca e non dell’Austria-Ungheria. Una critica a tal pensiero può giungerci, diversamente, dal fattore – centrale – in cui il "meticciato razziale" che componeva l'Impero multietnico asburgico non fu un fattore di forza, ma di dissoluzione. Difatti le più grandi menti che l'Austria-Ungheria produsse, siano esse di carattere letterario, musicale, architettonico, filosofico e artistico avevano tutti il legante culturale tedesco. La forza trainante spirituale, culturale era germanica e non certamente slava, boema o ungherese. Bisogna abbandonare il falso mito dell'Austria-Felix, che strizza l'occhio a determinati ambienti progressisti, nei quali l'inter-nazionalità veniva vista come un vantaggio nei confronti dell'organizzazione politico-culturale: fu l'esatto contrario.
Di contro la grandezza, di questo primo esperimento politico europeo, rimaneva sì l'unione di più popoli uniti sotto un'unica grande bandiera, ma con dei cardini prettamente occidentali e tedeschi: crollati gli ultimi, per via dei focolari nazionalisti delle altre etnie - complice una errata politica di rappresentanza, ad ogni modo normale per quell'epoca - l'Impero è collassato su se stesso.
Non a caso Franz Werfel osservò come : «Anche l'idea dell'antica Austria volle che l'uomo che l'abitava fosse trasformato e rifuso. Pretese da esso che non fosse soltanto un Tedesco, un Ruteno, un Polacco, ma qualcosa di più, qualcosa al di sopra. Sarebbe un'esagerazione chiamare questo sacrificio richiesto dall'idea un vero e proprio sacrificium nationis. Ma certo fu qualcosa di simile. Rinuncia ad una comoda affermazione di se stessi, rinuncia all'eccitante abbandono degli istinti del proprio sangue, rinuncia all'indomito bisogno di trionfo della propria stirpe. Solo chi compiva questa rinuncia, chi era deciso a questo sacrificio, poteva ottenere la consacrazione superiore dell'idea, veniva ricreato, si trasformava, da Tedesco o Ceco che era, nell'uomo nuovo, nell'Austriaco (pur sempre a trazione culturale tedesca). La grande idea destinava quest'uomo ricreato, questo Austriaco, a divenire un maestro. Egli doveva diffondere la luce della propria umanità provata dal sacrificio, affinché tutti quelli che erano ancora giovani, ancora barbari, ancora legati alla terra, fossero illuminati e convertiti da questa luce. Questa destinazione [...] si è conclusa col tramonto della vecchia Austria».
Furono proprio le spinte centrifughe nazionali a distruggere l'apparato monarchico-istituzionale degli Asburgo. Quando si parla di perdita di sé, perdita delle radici, bisogna ricondurre tale pensiero proprio a questo fattore decisivo. Paradossalmente l’austriaco, antesignano del proprio tempo, capì l’impossibilità nazionalistica della volontà di potenza che - dopo il primo conflitto mondiale - portò alla distruzione di ogni fede, di ogni regola di vita. L’individuo mitteleuropeo rimasto privo di una cultura crolla sotto i colpi di un capitalismo che plasma e unisce egoisticamente la nuova società dominante. Lo storico Roberto Coaloa scrive: «Oggi, non c’è più la Kakania di Musil, ossessionata dal Reich guglielmino come modello. C’è il Quarto Reich di Angela Merkel, che esercita spavaldo il suo predominio. Non c’è più il partito tedesco dell’Austria-Ungheria, che prima della Grande Guerra aveva, di fatto, esautorato il potere degli Asburgo alleandosi pericolosamente con Guglielmo II. Oggi c’è il Quarto Reich di Frau Merkel, che con il suo eccesso di burocratismo minaccia gli equilibri economici e le conquiste sociali in Europa, sviluppatesi nel corso del Novecento. È il ritorno dell’uomo tedesco, compiaciuto, che osserva la sua pancia piena e non vede al di là del proprio ombelico, antesignano dell’uomo senza qualità».
Edler von Musil si sentiva essenzialmente austriaco con tutte le sue complessità e contraddizioni: con l’esautorazione imperiale, nel dopoguerra, divenne uno scrittore tedesco.
Dopo la presa del potere di Hitler (1933) avendo sposato Martha Heimann (1874 - 1949), di origini ebraiche, nel 1938 emigrò con la famiglia in Svizzera a Ginevra, dove lavorò a Der Mann ohne Eigenschaften (L’Uomo senza qualità) iniziato a Berlino nel 1930, senza tuttavia completarlo per il decesso avvenuto il 15 aprile del 1942.
Sarà proprio nel già citato capolavoro (1930 - 42), che avverrà il trionfo della razionalità strumentale, in cui «l’azione parallela» diviene contenitore astratto dove tutte le cose ritornano per meccanica determinazione esteriore.
[caption id="attachment_12079" align="aligncenter" width="1000"] Immagine di Robert Musil in età avanzata.[/caption]
Nella crisi del soggetto della Mitteleuropa, l’apatia del protagonista Ulrich, il cui personaggio è privato delle sue qualità – per via dell’irrigidimento metafisico –, fa divenire il soggetto propriamente «senza qualità».
Riprendendo ancora una volta il concetto greco gnōthi seautón (conosci te stesso), il protagonista potrà uscire dal dedalo ideologico, unicamente «saggiando» tutte le alternative e le possibilità che si presenteranno, per riuscire nel mirabile intento di ricondurle all’uomo, ovvero reindirizzarle al proprio Io, per operare nuovamente la propria crescita interiore. Paradossali sono i vari personaggi del romanzo, i quali osteggiano la ricchezza interiore, ma in realtà sono oggetto e specchio della società cristallizzata.
Lo scritto, facente uso di una perfetta ironia tutta musiliana, risparmierà – di contro – ad alcuni personaggi, che non osteggiano superiorità o cambiamento, la sua satira più aspra.
La pietà invece la riserverà per alcune figure che, contrariamente ai suoi princìpi, negano il dominio delle forme oggettive, assolutizzando l’elemento soggettivo: anche l’angoscia subentra a tratti, poiché la ragione viene pietrificata da un elemento motivazionale, che rifiuta l’oggettività in quanto tale. L’accento posto da Musil, in questo capolavoro della letteratura occidentale, è stato quello di porre il problema sul rapporto uomo-vita, lottando contro l’assolutizzazione dell’individuo.
Per approfondimenti:
_Baiocchi G., Finis Austriae. Sul tramonto dell'Europa, Il Cerchio, Rimini, 2019;
_Bartocci C., Racconti matematici, Einaudi, 2006;
_Musil R., Sulla stupidità e altri scritti, Mondadori, Milano, 1986;
_Cetti Marinoni B., L’uomo senza qualità, Enaudi, Torino, 2014;
_Werfel F., Nel crepuscolo di un mondo, Mondadori, Milano;
_Coaloa R., Robert Musil. «Gli uomini di qualità vengono da Berlino», 03-03-2015;

 

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La rivoluzione, così come il dispotismo napoleonico, ebbero degli intellettuali che combatterono, attraverso la letteratura, l’andamento socio-politico che ne fu progenie. Oltre al lavorio della sua penna, certamente François-René, visconte di Chateaubriand ci aggiunse a tratti anche la spada. Questo straordinario personaggio a cavallo tra due secoli è di difficile inquadratura: fedele alla causa dei Borboni per tutta la sua vita, militò nel partito legittimista, solo per essere la sua ala riformatrice; liberale, ha combattuto l’ateismo con il Génie du Christianisme e il dispotismo con un giornale controcorrente, il Mercure de France.

[caption id="attachment_11931" align="aligncenter" width="1000"] François-René de Chateaubriand (1768 - 1848) è uno degli sfortunati autori fagocitati nella nostra epoca da un piatto. Un aspetto questo, di cui la nostra epoca dovrà fare i conti prima o poi e che fa riflettere.[/caption]  

Nella sua discutibile coerenza di uomo, Chateaubriand divenne grande per una qualità rara, la quale gli permise di “tenerlo unito” nella sua vita sempre simile ad un’alternarsi tra ricchezza e povertà. Quella caratteristica è stata la coerenza dell’idea di libertà, mai abusata, mai plagiata per volontà di potenza, mai violentata dall’egoismo. Una libertà che vedeva nella gerarchia organica, dunque divina, l’equilibrio che solo un Istituto Monarchico sa concedere. Questo piccolo mondo antico, tanto amato dal bretone, giace da tre secoli sotto le macerie della rivoluzione e sotto i detriti delle guerre napoleoniche, ma le sue voci, sublimi espressioni di quello stesso Regno di Francia, continuano a parlarci nel grande eco eterno delle sue parole. A chi le sappia ascoltare, esse continuano ad offrire frammenti e indicazioni per comprendere la crisi spirituale in cui scivolò, dalla fine del XVIII secolo con sempre maggiore autocoscienza, la Francia, araldo della crisi europea che avrebbe trascinato il Vecchio continente nel relativismo e nella sua nichilistica crisi di coscienza.

Nel 1834, François-René terminò le sue Memorie d’Oltretomba con delle riflessioni che possono ancora oggi farci riflettere a 186 anni di distanza: "L’Europa corre verso la democrazia. Cos’altro è la Francia, se non una repubblica tenuta a freno da un Presidente? I popoli sono cresciuti e si sono affrancati: i prìncipi ne hanno avuto l’affidamento; al giorno d’oggi le nazioni, arrivate alla maggiore età, sostengono di non aver più bisogno di tutori. Da David ai nostri giorni, si sono chiamati i Re: adesso sembra che sia il turno delle nazioni. [...] La Francia e l’Inghilterra, come due enormi arieti, colpiscono ripetutamente e con violenza i bastioni cadenti della vecchia società. Le dottrine più ardite sulla proprietà, l’uguaglianza, la libertà vengono proclamate dalla mattina alla sera in faccia ai monarchi, che tremano dietro una triplice barriera di soldati infidi. Il diluvio della democrazia li incalza; salgono da un piano all’altro, dal pianterreno alla soffitta del palazzo, e da lì si butteranno a nuoto nei flutti che li inghiottiranno. L’invenzione della stampa ha mutato le condizioni sociali: il torchio, macchina che è ormai impossibile frantumare [...]. Tutto è stato calcolato a questo scopo [...] ogni assioma della vecchia politica diventa inapplicabile. [...] Come sarà la nuova società? Lo ignoro. Le sue leggi mi sono sconosciute; non la capisco più di quanto gli Antichi capissero la società senza schiavi prodotta dal Cristianesimo. [...] Finora, la società è andata avanti per aggregazioni e per famiglie; quale aspetto presenterà, quando sarà soltanto individuale, come tende a diventare, come già la vediamo formarsi negli Stati Uniti? Molto probabilmente la specie umana si ingrandirà, ma c’è da temere che l’uomo rimpicciolisca, che alcune facoltà eminenti del genio si perdano, che l’immaginazione, la poesia, le arti muoiano nelle celle di una società-alveare, in cui ogni individuo sarà come un’ape, una rotella in una macchina, un atomo nella materia organica. Se la religione cristiana morisse, si arriverebbe attraverso la libertà alla pietrificazione sociale alla quale la Cina è arrivata attraverso la schiavitù. La società moderna ha impiegato dieci secoli per comporsi, adesso si sta decomponendo[1]".

Correva l’anno del Signore 1768, quando il 4 settembre, nasceva François-René Chateaubriand in un nuovo appartamento occupato dalla sua famiglia in rue des Juifs presso Saint-Malo nella Bretagna.

Il suo ceppo familiare è di antico lignaggio, il nome della mia famiglia veniva scritta in origine Brien, poi Briant e Briand, per l’invasione dell’ortografia francese. Guglielmo il Bretone li chiamava Castrum-Briani, ma non c’è un solo nome in Francia che non presenti queste variazioni di lettere. I Brien verso l’inizio dell’XI secolo trasmisero il loro nome a un importante castello di Bretagna, e questo castello divenne il capoluogo della baronia degli Chateaubriand. Lo stemma araldico recava inizialmente delle pigne con il motto: «Io semino l’oro».

[caption id="attachment_11933" align="aligncenter" width="1000"] Stemma araldico nel frontespizio del luogo di nascita di François-René de Chateaubriand a Saint-Malo.[/caption]  

Geoffroy, barone di Chateaubriand, passò con San Luigi in Terrasanta: fatto prigioniero nella battaglia della Mansura, tornò in patria e il Sovrano per ricompensare i suoi servigi, concesse a lui e ai suoi discendenti, in cambio del vecchio stemma, uno scudo a fondo rosso cosparso di gigli d’oro a lui e ai suoi eredi. Come ogni famiglia nobile che si rispetti, il suo prestigio si instaurava nelle armi e San Luigi, allora Re dei francesi, conferì dei gigli d’oro, in cambio delle pigne d’oro, con il motto che esclamava: «Il mio sangue si è macchiato negli stendardi della Francia».

Ma la famiglia, già nel 1718[2], non navigava in buone acque e il padre rimise in sesto la fortuna del suo nome, adattandosi prima con il commercio della pesca e successivamente, durante la guerra di Successione austriaca, dandosi alla pirateria. Intorno al 1753 René-Auguste sposatosi con la nobile bretone Apolline de Badée, commercia in Africa Occidentale la tratta dei neri con le Antille: se solo avesse saputo che il figlio, che nascerà di lì a poco, avrebbe simpatizzato per l’abolizione della tratta insieme ad un’associazione di istanza liberale, il gruppo di Coppet, che oggi non avremo paura a definire radical-chic.

Ebbene il padre, grazie ai profitti ottenuti, già nel 1758 si era trasferito a Saint-Malo, occupando nel 1760 un appartamento più signorile del precedente. Sarà proprio l’anno successivo che René-Auguste acquista dal duca di Duras, lo château di Combourg e il titolo di conte ad esso legato: soddisfa così la propria ambizione di resuscitare l’onore e la passata fortuna degli Chateaubriand. Anche per questa famiglia la scalata era appena iniziata e doveva proseguire di generazione in generazione.

Dopo il fratello Jean-Baptiste (1759), nascono nell’ordine le quattro sorelle dell’autore: Marie-Anne (1760), Bénigne (1761), Julie (1763) e Lucile (1764). Altri figli muoiono in tenera età (ben quattro). L’ambizioso padre, cerca di assicurare il patrimonio restaurato, con un secondo figlio maschio: il bimbo di Saint-Malo, che viene al mondo nel 1768. Il ragazzo riceve fin dall’infanzia un’educazione cattolica, grazie a padre Chopin, presso il convento dei Benedettini insieme ai figli della nobiltà e dell’alta borghesia.

L’8 settembre del 1775 in occasione della festa della natività della Vergine, a Notre-Dame-de-Nazareth di Plancoët, François-René, votato dalla nutrice a quella Madonna, tornò al villaggio per sciogliere l'impegno religioso, che lo aveva preservato dalla morte quasi certa, data dalle sue cagionevoli condizioni di salute da infante.

Come è noto Chateaubriand, è uno dei fondatori del romanticismo francese, ma come poteva non creare un movimento letterario che nascesse dal puro sentimento intimo? Innanzi tutto la Bretagna, questa terra immersa nel mistero era degno teatro di un grande spettacolo. Le leggende narrano che qui la primavera venga annunciata tre settimane prima di Parigi da cinque uccelli: la rondine, il rigogolo, il cuculo, la quaglia e l’usignolo che arrivano con le brezze che albergano nelle insenature della penisola armoricana. La terra è coperta di margherite, di viole del pensiero, di giunchiglie, di narcisi, di giacinti, di ranuncoli, di anemoni, mentre le radure si adornano di alte felci eleganti. I campi di ginestre e ginestroni risplendono di fiori che sembrano farfalle d’oro e le siepi, lungo le quali abbondano fragole, lampioni e viole, sono decorate di biancospini, di caprifoglio, di rovi i cui virgulti bruni e arcuati si rivestono di foglie e fiori magnifici. Tutto brulica di api e di uccelli; gli sciami e i nidi fanno fermare i bambini a ogni passo. In certi angoli separati il mirto e l’oleandro crescono spontanei; il fico matura, come in Provenza; i meli, con i loro fiori color carminio, sembrano grossi bouquets per le fidanzate di campagna.

Poi arrivava il castello medievale, il quale magicamente si affaccia ancora oggi sul mare: Saint-Malo è uno scoglio collegato alla terra ferma solo da un istmo chiamato poeticamente le Sillon. Quest’ultimo elemento viene assalito da un lato dal mare aperto, dall’altro è lavato dalla marea che gira per entrare nel porto. Il giovane bretone, futuro poeta-guerriero, ricorda nelle sue memorie come: «durante le ore di bassa marea, il porto resta a secco, e al limite Est e Nord del mare si scopre una spiaggia di sabbia bellissima. Si può fare allora il giro del mio nido paterno. Vicino e lontano, sono sparsi scogli, fortini, isolotti disabitati»[3].

[caption id="attachment_11934" align="aligncenter" width="1000"] Il castello di Combourg , dove Chateaubriand trascorse la sua infanzia.[/caption]  

Lo château dal prospetto austero e smorto, presenta una cortina sormontata da una galleria coperta con caditoie dentellate. Tale elemento serviva per collegare le due torri diverse per età, materiali, altezza e diametro, che terminavano con merli guelfi sormontati da una copertura blu notte a punta d’ape. Qua e là sulla nudità dei muri apparivano finestre munite di inferriate; una larga rampa, ripida e dritta, di ventidue scalini, senza ringhiera né parapetto, stava al posto dell’antico ponte levatoio del fossato riempito: raggiungeva la porta della magione che si apriva sulla cortina. Sopra l’architrave della porta veniva riportato il glorioso cimelio araldico della casata dei Signori di Combourg. Una cuoca, una cameriera, due lacchè e un cocchiere formavano tutta la servitù: un cane da caccia e due vecchie giumente erano confinate in un angolo della scuderia.

Basterebbe questa descrizione per renderci conto della realtà visiva e ambientale che permeò François-René. La vita da castellano nei dintorni di Parigi discostava fortemente dalla vita in una roccaforte di una remota provincia dell’Ovest. Tutte le terre appartenenti a Combourg consistevano in alcune lande, qualche mulino e le due foreste di Bourgouèt e Tanouarn, in un paese in cui il bosco non vale quasi nulla. Ma Combourg era ricco di diritti feudali; tali orgogli erano di diversi tipi: gli uni stabilivano determinati canoni per determinate concessioni, o fissavano usi nati dal vecchio ordine politico; gli altri sembrava che in origine fossero stati semplicemente dei divertimenti. Il padre, ad esempio, aveva resuscitato alcuni di questi ultimi diritti, per prevenirne la prescrizione. Quando tutta la famiglia era riunita, si partecipava a tre principali divertimenti medievali: il salto dei pescivendoli, la quintana e una fiera chiamata l’Angevine. Contadini con zoccoli, corquen blu e bragou braz, costumi persi nell’oblio del tempo, assistevano a questi giochi di una Francia che non esisteva più[4]. C’era un premio per il vincitore e una ammenda per il vinto. Questa piccola società, la prima che il letterato osserva nella sua vita, è stata anche la prima a scomparire al suo sguardo. Per tutta la durata dell’anno nessun forestiero si presentava al castello. Uno isolamento che gli fece tentare addirittura il suicidio:

Possedevo un fucile da caccia con il grilletto consumato che partiva spesso da solo. Caricai quel fucile con tre pallottole e mi recai in un angolo appartato del grande Pallamaglio[5]. Misi il fucile in posizione di sparo, mi introdussi in bocca la punta della canna, battei il calcio per terra; reiterai più volte la prova: il colpo non partì; la comparsa di un guardiacaccia differì la mia decisione. Fatalista senza volerlo e senza saperlo, pensai che la mia ora non era ancora arrivata[6].

Questa solitudine fece soffrire molto il piccolo, che sopravvisse di fantasia, quella stessa immaginazione che poi gli tornò utile per divenire il grande scrittore che preparava la strada all’arte della diplomazia. Il 12 aprile del 1781 riceve, da buon cattolico, la prima comunione al collegio di Dol e nel luglio successivo viene unto dal sacramento della Cresima presso Combourg, dove, secondo costume, riceve un nuovo nome, quello di Auguste. L’adolescenza, passata con la sorella preferita Lucille, le altre tre sorelle e il fratello, si conclude la mattina del 9 agosto del 1786[7]: "il giorno dopo alle otto mi vengono a chiamare. Scendo: mio padre mi aspettava nel suo studio. «Signore cavaliere, – mi dice –, dovete rinunciare alle follie. Vostro fratello ha ottenuto per voi un brevetto di Sottotenente nel Reggimento di Navarra. Partirete per Rennes, e di là per Cambrai. Ecco cento luigi; non sprecateli. Sono vecchio e malato; non mi resta molto da vivere. Comportatevi da galantuomo e non disonorate mai il vostro nome». [...] Trattenendosi in tal modo il braccio e dopo avermi consegnato la sua vecchia spada, senza darmi il tempo di raccapezzarmi, mi condusse al calessino che aspettava nella Corte Verde[8]".

Giunto al reggimento in borghese, ventiquattro ore dopo, rivestiva già l’habit militare; «mi sembrava di averlo sempre portato» amava affermare. Il reggimento di Navarra, uno dei più prestigiosi dell’epoca con i colori blu e bianco, risparmiò il bretone delle prove che i sottotenenti sono soliti infliggere a un nuovo venuto; forse per il nome non osarono abbandonarsi a quelle puerilità militari. Dopo nemmeno quindici giorni che era nel battaglione lo trattarono già come un anziano. Apprese facilmente l’uso delle armi e la teoria; ottenne i gradi di caporale e di sergente col plauso degli istruttori. La sua camera era spesso luogo di ritrovo sia dei vecchi capitani che dei giovani sottotenenti. In quel periodo si ostentava nella tenuta un rigore alla prussiana: cappello piccolo, ricciolini aderenti alla testa, coda legata stretta, uniforme completamente abbottonata.

[caption id="attachment_11936" align="aligncenter" width="1000"] Nell'incisione l'appartamento occupato dalla sua famiglia in rue des Juifs presso Saint-Malo nella Bretagna. A sinistra uniforme del Reggimento di Navarra, dopo la riforma militare del 1778.[/caption]  

Una volta a Cambrai dove è stanziato il Reggimento, il giovane riceve il primo vero dolore della sua vita, dato dalla morte del padre il 6 settembre dello stesso anno.

L’esistenza di Chateaubriand verrà però scandita da tre passaggi decisivi che in ordine possiamo raggruppare come la Rivoluzione francese, Napoleone e l’attività letteraria e politica. Prima degli sconvolgimenti che macchiarono di rosso la Francia, il bretone ci fornisce un ultimo resoconto dell’Ancien Régime. Il fratello maggiore, rivenduta la sua carica di magistrato, entra nel Reggimento di Cavalleria reale e sposa Aline de Rosambo di sedici anni, un matrimonio particolarmente brillante poiché la famiglia acquisita era parte integrante del governo dell’epoca. Sarà per tali conoscenze che François-René verrà presentato a corte, prendendo parte alla battuta di caccia del Re di Francia e Navarra, Luigi XVI. Questo episodio, che potrebbe sembrare marginale nella sua vita di letterato, diventa fondamentale per iniziare a delineare quello che fu il suo carattere. Da troppo tempo, una certa retorica modesta, legata al mondo della tradizione, inquadra Chateaubriand come il paladino del Trono e dell’Altare, solo perché più tardi decise di dar fastidio – iscrivendosi – al partito legittimista. In realtà, senza falsa retorica, egli è stato sì fedele ai Borboni, ma nel contempo – aprendo un interessante parallelismo con quasi tutti i generali vandeani -, fu un interessato riformatore della Monarchia assoluta: egli ambiva, difatti, ad un’istituzione monarchica di carattere costituzionale, dove vigeva la libertà di stampa e all’interno della quale la religione cattolico-romana fosse riaffermata. Come vedremo riuscì in questi intenti presto o tardi nella sua vita longeva: "Giunse il giorno fatale; dovetti partire per Versailles più morto che vivo. [...] La mattina del giorno seguente mi recai da solo al castello. Non si è visto nulla quando non si è ammirato lo sfarzo di Versailles, anche dopo la soppressione del vecchio apparato di servizio: Luigi XIV c’era ancora. [...] quando entrai nell’Occhio di bue e mi trovai in mezzo ai cortigiani, allora cominciò la mia angoscia. Mi guardavano; sentivo chiedere chi fossi. Bisogna ricordare il vecchio prestigio della monarchia per comprendere l’importanza che aveva allora una presentazione. Il destino dell’esordiente era misterioso; gli veniva risparmiata l’aria sprezzante di protezione che contraddistingueva, insieme all’estrema cortesia, le maniere inimitabili del gran signore. [...] Quando fu annunciato che il re si alzava, le persone non presentate si ritirarono; sentii un moto di vanità: non ero fiero di restare, ma sarei stato umiliato di dover uscire. La camera del Re si aprì: vidi il re che, secondo l’uso, finiva di vestirsi, cioè mentre prendeva il cappello dalla mano del primo gentiluomo di servizio. Il re si fece avanti per andare a messa; m’inchinai; il maresciallo di Duras mi presentò «Sire, il cavaliere di Chateaubriand». Il re mi guardò, ricambiò il saluto, esitò, ebbe l’aria di volersi fermare per rivolgermi la parola. [...] Il re più imbarazzato di me, non trovando niente da dirmi, passò oltre. [...] Il duca di Coigny mi fece sapere che avrei cacciato con il re nella foresta di Saint-Germain. M’incamminai di buon mattino verso il mio supplizio, in uniforme da esordiente, giacca grigia, corpetto e pantaloni rossi, ginocchiere, stivali da cavallerizzo, coltello da caccia al fianco, cappello francese piccolo gallonato d’oro. [...] L’usanza voleva che i cavalli della prima caccia a cui assistevano coloro che erano stati presentati fossero forniti dalle scuderie del re. [...] Arrivammo al punto di ritrovo, in cui numerosi cavalli da sella tenuti per le briglie sotto gli alberi, davano segni di impazienza. Le carrozze ferme nella foresta con le guardie; i gruppi di uomini e di donne; le mute trattenute a stento dai bracchieri; i latrati dei cani, i nitriti dei cavalli, i richiami dei corni, formavano un quadro molto animato. [...] Non ero giunto al termine delle mie prove. Circa una mezz’ora dopo quella mia magra figura, cavalcavo in un luogo varco attraverso zone di bosco deserte: in fondo si ergeva un padiglione [...] parte un colpo di fucile; l’Heureuse fa uno scarto, s’infila a testa bassa nel folto, e mi porta proprio nel punto in cui il capriolo era stato appena abbattuto: compare il re. [...] Il re guarda e vede solo un esordiente arrivato prima di lui alla morte dell’animale; aveva bisogno di parlare; invece di andare in collera mi disse bonariamente e con una gran risata: «Non ha resistito molto». Sono le sole parole che mi siano state rivolte da Luigi XVI. Arrivava gente da ogni parte; destò stupore il fatto di trovarmi a conversare con il re. Le due avventure dell’esordiente Chateaubriand suscitarono scalpore; ma, come da allora in poi gli è sempre successo, non seppe approfittare né della buona né della cattiva sorte. Il re stanò e sfiancò altri tre caprioli. Siccome gli esordienti potevano inseguire soltanto la prima bestia, andai al Val con i miei compagni ad aspettare il ritorno dei cacciatori. [...] Questo fu il mio primo contatto con la città e con la corte. La compagnia degli uomini mi sembrò ancora più odiosa di quanto avessi immaginato; ma, se mi spaventai, non mi persi d’animo; sentivo confusamente che ero superiore a quanto avevo visto. La corte m’ispirò un’avversione invincibile[9]".

I più acuti avranno già compreso che il giovane non aveva simpatia, verso un mondo che non apparteneva a quella sua libertà genuina per quel suo essere uomo di ideali che mai piegò la schiena di fronte al potere, anzi tendeva ad evitarlo. Allora perché Chateaubriand fu fiero oppositore della Rivoluzione? Perché ripristinò la religione in Francia con il Genio del Cristianesimo? Ebbene perché odiava il dispotismo, la cattiveria e soprattutto la falsa morale: elementi imprescindibili di qualsiasi rivoluzione. Le sue descrizioni degli uomini, così come degli eventi, sono ancora memorabili e meritano spazio e visibilità.

Prima di addentrarci in coccarde tricolori e alberi della libertà, egli ci concede un ultimo sguardo all’antica monarchia, con il suo ingresso nel Sovrano militare ordine di Malta: "Fu in quell’epoca che mio fratello, sempre preso dai suoi piani, decise di farmi ammettere nell’ordine di Malta. A tal fine bisognava che fossi fatto chierico [...] dal vescovo di Saint-Malo, che però aveva degli scrupoli: dare le insegne ecclesiastiche a un laico e a un militare gli pareva una profanazione che sapeva di simonia. Courtois de Pressigny, oggi arcivescovo di Besançon e Pari di Francia, è un uomo probo e meritevole. Era giovane allora, sotto la protezione della regina, e in cammino verso la fortuna, cui arrivò più tardi seguendo una via migliore: la persecuzione. Mi misi in ginocchio, in uniforme, con la spada al fianco, ai piedi del prelato, il quale mi tagliò due o tre capelli sulla sommità della testa; questa sarebbe stata la tonsura, che fu poi certificata da lettere in piena regola. Con tali lettere, quando i miei titoli di nobiltà fossero stati riconosciuti a Malta, avrei avuto in sorte duecentomila lire di rendita: un abuso, indubbiamente, nell’ordine ecclesiastico, ma cosa utile nell’ordine politico sancito dalla vecchia costituzione. [...] La chiericatura, conferitami per le ragioni suddette, ha fatto affermare a qualche mio biografo male informato che in un primo tempo ero entrato nella Chiesa[10]".

[caption id="attachment_11943" align="aligncenter" width="1000"] Incisione di François-René de Chateaubriand in uniforme da sottoufficiale del reggimento di Navarra, che riceve la tonsura per il suo ingresso nel Sovrano Militare Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Gerusalemme di Rodi e di Malta - Parigi, Ed. E. e V. Penaud frères, 1849-1850.[/caption]  

Già nel gennaio del 1789 aveva assistito presso Rennes ai disordini sanguinosi che precedettero lo scioglimento degli Stati di Bretagna e a fine giugno, recatosi a Parigi con la sorella Lucile vide dalla sua finestra le teste di Foulon e Berthier issate sulle picche dei rivoltosi. Il giovane Chateaubriand furioso urla ai plebei: «Briganti! È questa la vostra libertà?». La scena rivoluzionaria lo disgusta, ma da buon liberale assiste al pranzo offerto dallamarchese de Villette nipote di Voltaire, per il ritorno di Necker.

La rivoluzione fece saltare anche l’idea da esploratore di Chateaubriand, che rinunciò al passaggio a Nord-Ovest per un’ipotetica nuova influenza francese, nelle ex colonie, di carattere culturale[11]. Non solo: la sua carriera militare è interrotta, poiché nel settembre viene anche abolito il grado di «gentiluomo cadetto». Sebbene nelle primissime fasi, il suo ascendente liberale gli aveva fatto osservare i cambiamenti politici con un moto di speranza per uno svecchiamento istituzionale di un apparato che continuava ad amare, certamente si oppose appena osservò il primo sangue. Inizia così una descrizione dettagliata degli uomini, dei profittatori, della modestia di coloro che fecero avanzare la rivoluzione: "In quel tempo tutto era confuso nelle menti e nei costumi, sintomo di una rivoluzione prossima. I magistrati arrossivano a portare la toga e volgevano in derisione la gravita dei loro padri. [...] Le mogli dei magistrati, abbandonando la veste di venerabili madri di famiglia, uscivano dai loro cupi palazzi pronti a trasformarsi in donne dalle avventure brillanti. Il prete, sul pulpito, evitava il nome di Gesù Cristo e parlava soltanto del legislatore dei cristiani; i ministri cadevano l’uno dopo l’altro; il potere sfuggiva di mano a tutti. Il massimo della raffinatezza era essere americano in città, inglese a corte, prussiano nell’esercito; essere tutto eccetto che francese. Ciò che si faceva, ciò che si diceva, non era che un susseguirsi d’incongruenze. Si pretendeva di mantenere preti commendatari, e non si voleva saperne di religione; nessuno poteva essere ufficiale se non era gentiluomo, e s’inveiva contro la nobiltà; si introducevano contemporaneamente l’uguaglianza nei salotti e le bastonate negli accampamenti militari. [...] La Rivoluzione mi avrebbe coinvolto se non avesse esordito con dei crimini: vidi la prima testa portata in cima a una picca e arretrai. L’omicidio non sarà mai ai miei occhi un oggetto di ammirazione e una prova di libertà; non conosco niente di più servile, di più spregevole, di più vigliacco, di più limitato di un terrorista. [...] Gli egualitaristi, i rigeneratori, gli sgozzatori, si erano trasformati in domestici, spie, sicofanti, e, cosa ancor meno naturale, in duchi, conti e baroni: che medioevo[12]"!

Il bretone, testimone oculare non risparmia nessuno, soprattutto i tre avvocati di provincia, che successivamente divennero famosi per aver creato quel direttorio, che ancora oggi si ricorda con tristezza. Eccovene uno: "Secondo l’ordine di questa gerarchia di bruttezza, apparivano, insieme ai fantasmi dei Sedici, una serie di teste di gorgoni. L’ex medico delle guardie del corpo del conte di Artois, l’aborto svizzero Marat, con i piedi nudi negli zoccoli o nelle scarpe ferrate, era il primo a perorare in virtù dei suoi incontestabili diritti. [...] nella cerchia delle bestie feroci attente ai piedi del pulpito, aveva l’aria di una iena vestita. Fiutava i futuri affluvi del sangue; aspirava già l’incenso delle processioni di asini e di boia, nell’attesa del giorno in cui, cacciato dal club dei Giacobini come ladro, ateo, assassino, sarebbe stato scelto come ministro. Quando Marat era sceso dalla sua tribuna di tavole [...] non gli impedì di diventare il capo della moltitudine, di salire fino all’orologio dell’Hôtel de Ville, di suonare da là il segnale di un massacro generale, e di trionfare al tribunale rivoluzionario. Marat, come il peccatore di Milton, fu violato dalla morte: Chénier ne fece l’apoteosi, David lo dipinse nel bagno rosso di sangue [...]. In un cenotafio coperto di erba in place du Carrousel si poteva visitare il busto, la vasca da bagno, la lampada e lo scrittoio della divinità. Poi cambiò il vento: l’immondizia, versata dall’urna di agata in ben altro vaso, fu vuotata nella fogna".

L’aria divenuta certamente pesante lo indusse a partire per il Nuovo Mondo: l’America. Qui Chateaubriand ci fornisce un altro lato del suo carattere liberale: la stima massima nei confronti di George Washington, culminata con una colazione fatta insieme all’americano, grazie ad una lettera di raccomandazione di un altro bretone, Charles Armand Tuffin, marchese de la Rouërie. Ma il viaggio negli Stati Uniti, iniziato il 10 luglio del 1791, non solo evocherà più tardi Les Amours de deux sauvages dans le désert (la novella “Atala” del 1801) – che ebbe un impatto enorme nel primo romanticismo francese, inaugurato dalla baronessa Madame de Staël –, ma al suo ritorno egli pone ai posteri un altro ritratto socio-politico e geografico che possiamo definire illuminante su questo Nuovo Continente, all’epoca ancora inesplorato, che destava tante meraviglie.

Come poteva dunque Chateaubriand essere un araldo della Monarchia, se era tanto attratto da un Paese – costruito da coscritti, schiavi e reietti –, che di un Re non ne aveva avuto neanche l’ombra? Era una persona moderata, colta ed intelligente. Aveva capito perfettamente che non esiste “il migliore dei mondi possibili”, che la grandezza dell’uomo, come per disegno divino, consiste nella diversità: così come un cavallo è diverso da una tigre, gli Stati Uniti d’America dovevano essere amministrati diversamente dalla Francia. Per questo non vide mai bene un’istituzione repubblicana nel suo Paese d’origine, proprio perché ogni Stato, con la sua storia, usi e costumi, possiede la diversità.

Il bretone, tuttavia, nota dei “pericoli” che minacciano questa giovane terra. Teme una divisione degli Stati, poiché aveva compreso grandi differenze tra un Nord più denso e con meno territorio e un Sud più vasto con meno abitanti. Un Nord che commercialmente poteva fare a meno della schiavitù – non perché la ritenesse deprecabile, ma perché aveva altre fonti di guadagno –, e un Sud che ne faceva un punto di forza ineluttabile. Si chiede «gli Stati del Nord e del Sud non sono forse opposti per spirito e interessi? Gli stati dell’Ovest, troppo lontani dall’Atlantico, non vorranno un regime loro proprio?». Domande legittime. Si interroga aprendo un parallelo con la Svizzera, che viene però subito risolto: «La Svizzera federale continua a esistere in mezzo a noi: perché? Perché è piccola, povera, isolata e al sicuro nel grembo delle montagne; vivaio di soldati per i re, meta di escursioni per i viaggiatori». Teme che gli Stati Uniti, che hanno conosciuto dopo l’indipendenza solo la pace, non riescano a mantenete la loro indipendenza, con un Europa sempre agguerrita e ricca di nuove conquiste. Osserva con attenzione l’origine del capitalismo di matrice protestante e lo condanna, asserendo come la disparità sociale e di patrimoni rischiava di compromettere lo spirito di uguaglianza dei Lumi a stelle e strisce.

Infine, da segnalare, condanna l’ipocrisia del parvenu, dei nuovi ricchi ignoranti e sgraziati, che cercano di imitare un’Europa antica e bella, alla quale non possono tuttavia rubargli il sangue: "Mentre dilaga la disparità dei beni e nasce un’aristocrazia, il grande impulso dell’uguaglianza obbliga gli imprenditori o i proprietari terrieri a nascondere all’esterno il loro lusso, a dissimulare la ricchezza, per paura di essere ammazzati dai vicini. Il potere esecutivo non viene riconosciuto; le autorità locali, appena scelte, possono esser cacciate a piacimento e sostituite con altre. Ciò non turba affatto l’ordine pubblico. [...] Lo spirito di famiglia è scarso non appena il bambino di una famiglia è in grado di lavorare bisogna, come l’uccello che ha messo le penne, che voli con le sue ali. [...] Nelle città regna un freddo e duro egoismo [...] sembra di essere in borsa o al banco di un grande negozio[13]".

Come antesignano del proprio tempo, nota anche l’estrema voglia di movimento, unita alla noia che coglie negli individui, quasi meccanizzati dal lavoro frenetico: «produci e avrai l’anima salva», ama asserire l’eresia. Il suo ritorno in Europa è curioso: in Carolina, bollendo patate dolci, si accorge di un giornale inglese, lo raccoglie da terra e leggendo, apprende che il Re Luigi XVI è stato arrestato dopo la sventurata fuga da Varennes. Il giornale raccontava inoltre, dell’estendersi dell’emigrazione, e di come gli ufficiali dell’esercito si riunissero sotto la bandiera dei prìncipi francesi. Un cambiamento improvviso operò nel suo animo e decise d’un tratto di interrompere la sua esperienza americana. Un semplice confronto fra Chateaubriand e la sua coscienza lo gettò sul teatro del mondo, ma un genio maligno gli avrebbe troppo presto strappato la spada per mettergli in mano una penna.

Tornato il 16 gennaio del 1792, non farà in tempo a salutare la madre che già i ranghi degli emigrati in Belgio lo accoglieranno. Prima di partire si sposa: era necessario avere una moglie che proteggesse i suoi beni in patria. Lucile aveva trovato l’ereditiera adatta allo scopo nell’amica Céleste Buisson de la Vigne, orfana di ambedue i genitori e allevata dal nonno, ex governatore di Lorient. La ragazza ha diciotto anni e il matrimonio viene celebrato da un prete refrattario. Fu così che l’unione fu dichiarata nulla dalla legge e la giovane donna reclusa in un convento.

Solo più tardi, si avrà la serenità di un secondo matrimonio, il 19 marzo, da un prete costituzionale. Tuttavia la “fortuna” di de La Vigne, con gli sconvolgimenti rivoluzionari, si rivela molto più effimera di quella che invece ci si aspettava: i beni furono svalutati, poiché erano stati investiti alla Chiesa e allo Stato con interessi assegnati.

Chateaubriand, a livello politico, è vicino al club Les Enragés, passato alla storia come gruppo anarchico responsabile dell’espulsione dei Girondini dalla Convenzione nazionale, che consentì ai Montagnardi di assumere il pieno controllo; in realtà nell’anarchia generale del movimento, militavano anche monarchici radicali e il bretone era uno di loro.

Arrivato a Treviri, dopo non pochi problemi per espatriare, Chateaubriand si arruola nell’armata del conte d’Artois, composta da 100.000 uomini, di cui 12.000 emigrati. Poco dopo il suo arrivo, gli emigrati sono distaccati dal corpo dell’armata e ricevono la missione di assediare, insieme a 20.000 austriaci, la fortezza di Thionville, sulla riva sinistra della Mosella. François-René ritrova nella sua compagnia il cugino Armand de Chateaubriand. Dopo un assedio inconcludente, durante il quale il bretone viene ferito ad una gamba, gli emigrati hanno l’ordine di marciare su Étain, poi su Verdun. I ricordi della guerra sono sempre crudi, nonostante la sua carriera militare doveva essere prossima alla fine: "Eravamo troppo male armati per rispondere al fuoco; avanzammo con la baionetta in canna. Gli attaccanti si ritirarono, non so perché; se avessero resistito, ci avrebbero annientati. Nelle nostre file ci furono parecchi feriti e qualche morto, fra gli altri il cavaliere de La Baronnais, capitano di una delle compagnie bretoni. Gli portai sfortuna: la pallottola che gli tolse la vita rimbalzò sulla canna del mio fucile e lo colpì con una forza tale, che gli attraversò entrambe le tempie; il suo cervello mi schizzò in faccia. Inutile e nobile vita di una causa persa[14]"!

[caption id="attachment_11961" align="aligncenter" width="1000"] Incisione di François-René de Chateaubriand (1768 – 1848) scrive le sue memorie sul campo militare dell’armata dei Prìncipi nel 1792. Sarà congedato con onore per alcune ferite riportate dopo l’assedio di Thionville.[/caption]  

Il 20 settembre 1792 il generale Brunswick, a capo dell’armata è sconfitto a Valmy. Il 30 i reduci dell’assedio di Thionville, ricevono l’ordine di unirsi alla ritirata verso la frontiera. Non risparmiò giuste critiche all’armata dei Principi, parente lontano dell’esercito di Condé, che seguirà la storia degli emigrati francesi con più onore e gloria: "Deploravo la cecità dei Prìncipi, che credevano di poter tornare in patria con un pugno di servitori, e di poter rinsaldare la corona sulla testa del loro fratello grazie al braccio dello straniero. [...] ma il re sarebbe perito sul patibolo, e che, verosimilmente, la nostra spedizione contro Thionville sarebbe stata uno dei principali capi d’accusa contro Luigi XVI. Ferron fu colpito dalla mia predicazione: era la prima della mia vita. Da allora, ne ho fatte molte altre, altrettanto veritiere, altrettanto inascoltate [...]. Comunque, gli emigrati suscitavano allora la simpatia generale; la nostra sembrava la causa dell’ordine europeo: una sventura, se onorata, è pur sempre qualcosa, e la nostra lo era[15]".

Tornato in patria, dopo aver rischiato la morte per dissenteria e varicella, la storia corre veloce: Luigi XVI è giustiziato il 21 gennaio del 1793 e suo zio Malesherbes, difensore del Borbone durante il processo, fu perseguitato. Gli Chateaubriand non sono da meno e dal momento che La Rouërie è morto e l’insurrezione normanna è soffocata, François-René decide di emigrare in Inghilterra per salvarsi la vita. Sarà proprio nell’isola di Albione che inizierà la sua attività di scrittore in assoluta povertà.

Sono anni difficili dove inizia la stesura, il 21 maggio dello stesso anno, dell’Essai historique, politique et moral sur les révolutions anciennes et modernes, considérées dans leurs rapports avec la Révolution française (Saggio sulla rivoluzione), un’opera letteraria di denuncia sui crimini della rivoluzione che concluderà solo nel 1797. L’Essai fu una sorta di enciclopedia storica, la quale suscitò grande scalpore da parte degli emigrati: fu in contrasto con i sentimenti dei francesi in esilio, ma nel contempo gli aprì le porte londinesi dei personaggi emigrati di alto rango.

A Londra conosce un polemista conservatore Jean-Gabriel Peltier, il quale trova un lavoro al bretone come precettore nella cittadina di provincia di Beccles: in realtà insegnerà francese alle fanciulle di buona famiglia.

In patria le cose non procedono bene: la madre viene imprigionata alla casa circondariale chiamata Égalité, un annesso della Conciergerie[16]; il castello di Combourg è confiscato e il mobilio venduto all’asta. La rivoluzione gli porta via anche suo fratello: fu ghigliottinato il 22 aprile del 1794, insieme a sua moglie Aline.

Nel frattempo al pastore anglicano della cittadina di Beccles John Ives, il giovane francese piace e lo accoglie con simpatia. Una caduta da cavallo immobilizza per alcune settimane Chateaubriand, che viene curato a casa del pastore. Ne nasce un idillio tra l’ospite e la figlia quindicenne Charlotte. Dimentico del legame matrimoniale con Céleste, ex castellano di Combourg è costretto a rivelare il proprio stato civile quando la signora Ives gli propone la mano della ragazza.

Alla fine dell’anno scolastico, probabilmente nel mese di giugno 1796 lascia Suffolk e torna a Londra: "Di quegli avvenimenti, mi è rimasto un ricordo di grande dolcezza, tenerezza e riconoscenza. Prima della mia celebrità, la famiglia Ives è l’unica che mi abbia voluto bene, e che mi abbia accolto con vero affetto. [...] se avessi sposato Charlotte Ives, il mio ruolo sulla terra sarebbe stato diverso: sepolto in una contea della Gran Bretagna, sarei diventato un gentleman cacciatore: dalla mia penna non sarebbe caduta nemmeno una riga, avrei persino dimenticato la mia lingua [...] avrei trascorso molti giorni di calma, invece dei giorni tempestosi che mi sono toccati alla sorte. [...] Non avrei dovuto ogni mattina rimediare a sbagli, combattere errori[17]".

[caption id="attachment_11967" align="aligncenter" width="1000"] Chateaubriand e Charlotte in un incisione del XIX secolo.[/caption]  

Questo prima episodio, creerà in Chateaubriand le prime crepe di un temperamento che con la morte successiva dei familiari, lo avvicinarono alla religione cattolico-romana grazie alla quale riabilitò in Francia il cattolicesimo.

Tragedia nella tragedia. Il 31 maggio 1798 il bretone riceve dallo zio Bedée la notizia che la madre era morta. Più di un anno dopo, nell’agosto del 1799, gli giunse con ritardo di 13 mesi una lettera della sorella Julie che gli dava la stessa notizia, lo accusava di aver contribuito con le idee dell’Essai alla morte della madre, e gli augurava di non scrivere più. La lettera non poté avere risposta; quando arrivò, Julie era morta da pochi giorni.

In questo tremendo periodo, inizia il suo progressivo avvicinamento non solo al cattolicesimo, ma a quello che verrà definito come il proto-romanticismo francese. Parlo dell’Atala, demolitore del buon selvaggio di Rousseau, ma da quest’ultimo prende spunto per la trama, grazie al romanzo epistolare del 1761 La Nouvelle Heloïse[18]. In quello che sarà uno dei suoi successi letterari, esprime le sue profonde convinzioni cristiane, spirituali e morali. Sostiene Madame de Staël nella sua lotta tra i Moderni (i futuri romantici) di cui è portavoce contro gli Anziani (i classicisti).

Atala è una novella concepita per integrarsi in un’epopea in prosa, I Natchez sono una tribù ispirata dal già discusso viaggio negli Stati Uniti, in particolare nella Lousiana e in Florida lungo le rive del Mississipi, chiamato dagli indiani Meschacebé: l’episodio di “Atala o gli Amori di due selvaggi nel deserto” è pubblicato al ritorno di Chateaubriand in Francia, prima di essere inserito nel successivo capolavoro, Genio del Cristianesimo.

Il racconto inizia con il vecchio Chactas, ormai settantreenne, indiano della tribù dei Natchez, figlio di Outalissi, raccontare al giovane francese Renè, giunto in Lousiana dopo aver abbandonato la patria, gli episodi più importanti della sua vita e in particolare della sua gioventù.

Appena ragazzo, egli è costretto a separarsi dalla sua terra madre a causa della sconfitta della sua tribù da parte dei Muscogulgi, che hanno sterminato quasi interamente il suo popolo.

Quindi Chactas viene accolto e cresciuto dallo spagnolo Lopez e dalla sorella di quest’ultimo, i quali cercano di convertirlo al cristianesimo, che il protagonista però rifiuta come religione. Dopo poco tempo, il protagonista inizia a sentire una forte nostalgia per la sua vita precedente e decide di lasciare la famiglia adottiva per tornare a vivere come un selvaggio.

A causa della sua inesperienza della vita rude e turpe degli indigeni, il ragazzo viene fatto quasi subito prigioniero dai Muscogulgi, che hanno intenzione di bruciarlo sul rogo e mangiare il suo cuore. Chactas, tuttavia, verrà salvato durante la notte, dalla bella Atala, figlia del capo dei Muscogulgi, ma educata dalla madre alla religione cristiana.

Durante la fuga, i due giovani si innamorano l’uno dell’altra, ma purtroppo vengono subito ripresi e riportati all’accampamento. Fortunatamente, la sera prima dell’esecuzione di Chactas, Atala riesce a liberarlo nuovamente e così i due iniziano una vita insieme nella foresta ai confini del deserto. La vita insieme avvicina i due protagonisti sempre di più in un amore bello e pieno di rispetto, anche se Atala non si concede e sembra tormentata dal ricordo della madre. Però la ragazza ha fiducia nel giovane indiano e infatti gli confida che, in realtà, il suo vero padre è uno spagnolo e, ironia della sorte, è lo stesso Lopez che si era preso cura del giovane.

Una notte, durante una tempesta, i due giovani si rifugiano nella foresta e Atala è sul punto di cedere al suo amore per Chactas, quando compare un cane seguito da un missionario francese, padre Aubry, giunto per soccorrerli, che li ospita nella caverna dove vive.

Il mattino seguente, mentre Atala dorme, il prete conduce il ragazzo al villaggio dove si sono stabiliti gli indiani che è riuscito a convertire e ai quali fa ancora da guida spirituale, per cercare di convertirlo e rendere possibile il matrimonio con la ragazza amata. È qui che Chactas si rende conto della pace e della felicità della vita civilizzata sotto la religione cristiana.

Ritornati alla grotta, i due uomini trovano la ragazza morente nel proprio letto e si chiedono cosa sia successo. È la stessa Atala, che con le ultime forze, spiega di essersi avvelenata perché temeva di non poter mantenere il voto di castità fatto alla madre in punto di morte. Allora padre Aubry le spiega che il voto poteva essere sciolto e che la madre, indotta dal fanatismo, le aveva fatto fare un giuramento che poteva essere invalidato. Purtroppo, a causa della propria ignoranza, Atala aveva deciso di uccidersi con un veleno senza rimedio e prima di morire conforta il suo amato e gli fa promettere di convertirsi al cristianesimo per poi ritrovarsi dopo la morte.  L’indomani Chactas e padre Aubry seppelliscono la giovane e poi il prete esorta il ragazzo a ricongiungersi al resto della sua tribù.

Nell’epilogo, un viaggiatore europeo narra di aver incontrato dei superstiti della tribù dei Natchez, vicino alle cascate del Niagara, che si portano dietro le ceneri dei loro antenati. Una donna, figlia di René, svela al viaggiatore la fine violenta del suo avo, di padre Aubry e di Chactas, che prima di morire era riuscito a convertirsi alla religione cristiana.

Questa storia d’amore è caratterizzata da uno stile fortemente lirico dove lo scrittore fa emergere sia la poesia descrittiva, sia quella drammatica.

Infatti si intravedono tutti gli elementi della letteratura romantica, come l’attenzione dedicata agli stati d’animo, il gusto per la natura, il ritorno alle radici cristiane come fondamento dell’identità dei popoli europei. Proprio quest’ultima voce diviene araldo del racconto, poiché si evince il contrasto tra la crudeltà dei selvaggi indiani, con la santità del missionario cattolico. Da qui avviene la condanna dei philosophes per l’elogio al buon selvaggio: questo essere astratto, senza macchia, che vive a contatto con la natura, perché puro.

Tutta l’opera di Chateaubriand è percorsa dallo sgomento davanti alla fatale corruzione dell’essere. Questa ossessione si concretizza, nella figura della maternità che genera morte: legata dalla madre al voto di castità, la giovane Atala si uccide per non infrangere il voto.

In quella estate, mentre lutti e missive si ripresentano con la velocità della ghigliottina, lo scrittore era impegnato in un’opera di circostanza di sicuro successo, una brochure, un pamphlet molto cattolico di 48 pagine, l’embrione, l’incunabolo del futuro Génie du Christianisme.

[caption id="attachment_11968" align="aligncenter" width="1000"] A sinistra il busto in bronzo di François René de Chateaubriand nel Dol de Bretagne. La statua di Chateaubriand è stata apposta nel 1998 per celebrare il 150° anniversario della sua morte. A destra la testata del Genio del Cristianesimo del 1802.[/caption]  

Ancora oggi vi sono dubbi sulla sincerità di Chateaubriand verso la fede cristiano-cattolica. Ebbene i dubbi possono essere fugati conoscendo la sua vita retta, senza compromessi, con tanti sacrifici verso il prossimo, dove quest’ultimo aveva sempre le sembianze o della Francia o dello stesso popolo. Un lavoro politico e letterario oscuro, irradiato solo dalle critiche e dalle minacce dei despoti di turno. Certamente non fu uomo coerente: ebbe delle amanti, uccise in guerra, ma l’abbraccio vero della religione romana lo ebbe grazie al perdono: qui la grandezza del Cristianesimo; non più homo-homini-lupus, ma homo-homini-Deus, poiché Cristo si è fatto uomo, è Dio per l’uomo, la rettitudine di una vita, sta nell’essere perdonati dai propri sbagli. Ad una Rivoluzione che rimettendo al centro l’uomo, voleva renderlo perfettibile e auto-cosciente di sé usando qualsiasi mezzo necessario, il Cristianesimo cattolico ci insegna che l’uomo è imperfetto e proprio questa caratteristica è la sua forza, poiché fa tendere l’uomo – tramite un percorso “di santità” fatto di autoconsapevolezza e pentimento –, verso il paradiso. Chi è il santo? È colui che si dona al prossimo e grazie a questa bontà di spirito, sempre difficilissima per la natura umana, compie del bene agli altri, migliorando se stesso. Io credo che Chateaubriand avesse perfettamente capito quest’essenza straordinaria della Verità.

Pubblicato in Francia nel 1802, il Génie du Christianisme (Genio del Cristianesimo) è un’opera apologetica scritta tra il 1795 e il 1799 durante il suo esilio britannico. Lo scritto contribuirà molto anche alla riscoperta dell’arte gotica (precursore anche qui del britannico Augustus Pugin), della cavalleria e degli scrittori cristiani. Rappresentante di una generazione assetata di sentimenti religiosi che la Rivoluzione aveva adombrato, Chateaubriand vuole riabilitare il cristianesimo, la religione che lui considera la “più poetica, più umana, più favorevole alle lettere”. Il successo di quest’apologia ha portato l’autore a essere una vera guida spirituale. Opera fortemente didattica, il Genio del Cristianesimo o la bellezza della religione cristiana è arricchito di passaggi fondamentali che focalizzano lo sviluppo del Romanticismo in Francia, grazie alle meraviglie della natura o all’episodio di René. Fu un autentico successo in tutta Europa, soprattutto in Francia. Il libro è diviso in quattro distinte suddivisioni: Dogmi e dottrine, che evocano la bellezza e la nobiltà morale del cristianesimo; Poetica del cristianesimo, che mira ad evidenziare la superiorità delle opere d’ispirazione cristiana in confronto alle opere di origine pagana; Belle Arti e letteratura, attraverso la quale l’autore prova che i principali capolavori artistici e letterari si basano sul cristianesimo; Culto, dove sottolinea l’importanza e la grandezza della liturgia cristiana. Lo stesso bretone è felice dal suo successo che lo consacrò ai posteri: "Frattanto terminavo il Génie du Christianisme [...]. L’impero dei seguaci di Voltaire cacciò un grido e corse alle armi. [...] che speranze potevo avere io, privo di fama e di sostenitori, di distruggere l’influenza di Voltaire che aveva innalzato l’enorme edificio terminato dagli enciclopedisti e consolidato da tutte le celebrità d’Europa? Come! I Diderot, i D’Alembert, i Duclos, i Dupuis, gli Helvétius, i Condorcet erano spiriti senza autorità? Come! Il mondo doveva tornare alla leggenda aurea, rinunciare all’ammirazione dovuta ai capolavori di scienza e di ragione? Potevo mai vincere una causa che Roma armata dei suoi fulmini, il clero della sua potenza non avevano potuto difendere; una causa sostenuta invano all’arcivescovo di Parigi, Christophe de Beaumont, con l’appoggio dei decreti del Parlamento, della forza armata e del nome del Re? Non era ridicolo quanto temerario, per un uomo oscuro, opporsi ad un movimento filosofico così irresistibile da aver prodotto la Rivoluzione? Era curioso vedere un pigmeo tendere le braccia gracili per soffocare il progresso del secolo, fermare la civiltà e far retrocedere il genere umano! Grazie a Dio, sarebbe bastata una parola per polverizzare quell’insensato: così Ginguené, maltrattando il Génie du Christianisme sulla “Décade”, dichiarava che la critica giungeva troppo tardi, perché le mie farneticazioni erano già dimenticate. Lo diceva cinque o sei mesi dopo la pubblicazione di un’opera che neppure l’attacco dell’intera Académie Française, in occasione dei premi decennali, ha potuto distruggere. Pubblicai il Génie du Christianisme tra le rovine dei nostri templi. I fedeli si credettero salvi: si sentiva all’epoca un bisogno di fede, un’avidità di consolazioni religiose che derivavano dalla lunga privazione di tali consolazioni. Quante forze soprannaturali da invocare per tante avversità subite! Quante famiglie mutilate dovevano cercare presso il Padre degli uomini i figli perduti! Quanti cuori spezzati, quante anime rimaste sole imploravano una mano divina per guarirli! [...] cercavano rifugio nell’Altare[19]".

I passi in cui lo scrittore bretone dimostra che scacciando le divinità pagane dai boschi il culto cristiano, allargandosi, ha riportato la natura alla sua solitudine; i paragrafi in cui tratta l’influenza della religione cattolica sullo stile della visione pittorica, o il cambiamento religioso operato nella poesia e nell’eloquenza; i capitoli dedicati alle ricerche sui nuovi sentimenti introdotti nei modelli drammatici dell’Antichità, racchiudono il germe della nuova critica.

L’azione del Génie du Christianisme sulle opinioni, non si limita a una momentanea resurrezione di una religione data per morta: ebbe luogo una metamorfosi più duratura. L’ateismo e il materialismo non furono più la base del credo o della miscredenza dei giovani ingegni; l’idea di Dio e dell’immortalità dell’anima riacquistò il suo potere. Il pregiudizio antireligioso fu annientato, si dileguò con la stessa velocità con cui era comparso; il cattolico non fu più una mummia del nulla, avvolto in bende filosofiche.

In Francia il 9 novembre del 1799 (18 brumaio) arriva il colpo di Stato che innalza Bonaparte al potere. Il cambiamento politico induce gli emigrati a tornare in patria. Mentre i francesi si occupavamo del vivere e del morire comuni, la storia compiva la marcia gigantesca del mondo; l’Uomo del tempo prendeva la guida della specie umana.

Quando nel 1801 il suo amico Joubert lo introduce nella cerchia di intellettuali che si riuniva regolarmente in rue Neuve-du-Luxembourg, da Pauline de Beaumont, passando per Fontanes, Bonald, Molé, Pasquier, Chênedollé e la stessa madame de Staël-Holstein. Molti di questi personaggi manterranno anche in seguito strette relazioni di amicizia con Chateaubriand. Pauline de Montmorin Saint-Hérem, contessa di Beaumont (1768 - 1803) era figlia del Ministro degli Esteri di Luigi XVI, perito nei massacri del 2 settembre del 1792 con tutta la sua famiglia, ad eccezione della giovane donna. Joubert e la moglie aveva conosciuto Paoline nel 1794, quando la ragazza si era rifugiata in Borgogna, dai cugini Sérilly. In seguito l’accolsero nella loro residenza di Villeneuve-sur-Yonne. Così tra Joubert e Pauline nascerà un grande legame affettivo. Nel 1798 de Beaumont era tornata a Parigi: tra Chateaubriand e la donna scatta la scintilla, che si trasformerà in amore e affetto duraturo. Per permettere a Chateaumbriand, divenuto suo amante, di lavorare in maniera confortevole al Génie du Christianisme, Pauline affitta in aprile una casa a Savigny-sur-Orge, dove i due abitano insieme a partire dal 20 maggio fino alla fine di novembre.

Grazie alla relazione con Fontanes, che è amico di Luciano Bonaparte e di Elisa Baciocchi, sorella di Napoleone, Chateaumbriand ottiene la radiazione dalla lista degli emigrati.

[caption id="attachment_11969" align="aligncenter" width="1000"] Parigi, Panthéon: scultura di dedicata agli oratori e ai pubblicisti della Restaurazione (1903) di Laurent Honoré Marqueste (1848 - 1920), monumento in pietra. Il gruppo di oratori e pubblicisti della Restaurazione è composto da Benjamin Constant, Pierre de Serre, Casimir Perier, Armand Carrel, dal generale Maximilien Foy, Jacques-Antoine Manuel e François-René de Chateaubriand.[/caption]  

Il 14 aprile la pubblicazione del Génie du Christianisme con Migneret è un successo strepitoso: l’opera appare in concomitanza con il Te Deum che, il 18 aprile, giorno di Pasqua, celebra solennemente, a Notre-Dame, il ripristino del culto (in seguito Concordato). L’eco arriva fino allo stesso Napoleone, che lo invita ad un ricevimento per conoscerlo: "Fui invitato perché avevo radunato le forze cristiane e le avevo fatte tornare alla carica. Ero nella galleria quando entrò Napoleone: mi colpì favorevolmente; [...] Il suo sorriso era carezzevole e bello; [...] non aveva ancora nessuna ciarlataneria nello sguardo, niente di teatrale e di affettato. Il Génie du Christianisme, che all’epoca destava molto scalpore, aveva agito su Napoleone. Una prodigiosa immaginazione animava quel politico tanto freddo [...] Bonaparte mi scorse e mi riconobbe, non so da che cosa. Quando si diresse verso la mia persona, non si sapeva chi cercasse; le file si aprivano l’una dopo l’altra; ognuno sperava che il console si sarebbe fermato davanti a lui; egli pareva provare una certa impazienza di fronte a tali equivoci. Io sprofondavo dietro ai miei vicini; a un tratto Bonaparte alzò la voce e mi disse: «Monsieur de Chateaubriand»! Allora rimasi da solo alla vista, perché la folla si ritirò e in breve si riformò in cerchio intorno ai due interlocutori. Bonaparte mi rivolse la parola con semplicità: senza farmi complimenti, senza domande oziose, senza preamboli, mi parlò immediatamente dell’Egitto e degli Arabi, come se fossi stato in confidenza con lui ed egli si limitasse a continuare una conversazione già avviata tra noi. «Rimanevo sempre colpito, - mi disse -, quando vedevo gli sceicchi cadere in ginocchio in mezzo al deserto, volgersi a Oriente e toccare la sabbia con la fronte. Qual era la cosa ignota che adoravano in direzione dell'Oriente»? Bonaparte s’interruppe, e passando senza transizione a un'altra idea: «Il Cristianesimo? Gli ideologi non hanno forse voluto ridurlo a un sistema di astronomia? Se anche così fosse, credono di convincermi che il cristianesimo sia poca cosa? Se il cristianesimo è l’allegoria del movimento delle sfere, la geometria degli astri, gli atei hanno un bel dire, hanno pur sempre lasciato, loro malgrado, sufficiente grandezza all’infame». Bonaparte si allontanò seduta stante. Come a Giobbe, nella mia notte, uno spirito mi è passato davanti; i peli della mia carne si sono drizzati; è rimasto lì: non conosco il suo volto e ho udito la sua voce come un lieve soffio[20]".

Inizialmente anche Chateaumbriand è attratto da Napoleone, come tutti. Come si spiega allora la grande battaglia che intraprese dopo contro di lui? È presto detto. Il còrso ristabilì la civiltà in Francia, eseguì riforme, attuò il nuovo concordato con il clero, rese grande militarmente la Francia. Quest’ultimo punto attrae il bretone: allo scrittore, Napoleone piaceva per il coraggio delle scelte, giuste o sbagliate che fossero; la capacità di Napoleone di prendersi le responsabilità di fronte al popolo e alla Nazione. Certamente intravedeva già il dispotismo, ma di fronte ai crimini rivoluzionari, il generale appariva un moderato, poiché abolì il terrore, riconsegnò parzialmente il potere alla nobiltà. Quello che Chateaumbriand scoprirà successivamente, in formato simile alla Rivoluzione, segnò il suo allontanamento e la sua personalissima guerra al despota. Se vi era qualcosa che François-René non sopportava era la prepotenza, la corruzione: Napoleone si contornò di profittatori, di ipocriti, di regicidi e da tutti coloro che lo adulavano solo per trarci profitto. In verità anche Napoleone nutriva stima di Chateaumbriand: dopo aver letto le sue opere, aveva capito che possedeva talento, ingegno e un elemento per lui molto importante, la riservatezza e la poca ambizione di potere – i due potevano davvero andar d’accordo.

Quale dunque l’elemento che mise fine alla loro conoscenza, nonostante il futuro Imperatore dei Francesi gli avesse assegnato la segreteria dell’ambasciata dello Stato Pontificio nel 1803 al seguito del Cardinale Joseph Fesch (1763 - 1839)? Fu un omicidio. Fu l’assassinio del duca d’Enghien, l’ultimo della grande famiglia dei Condé, a Vincennes. Perché dunque Napoleone avrebbe mai commesso omicidio così efferato? Ebbene, grazie anche agli intrighi di Talleyrand, il còrso voleva pubblicamente far comprende come egli non poteva mai essere il restauratore tanto desiderato del Trono e dell’Altare in Francia. L’abolizione del terrore, il riavvicinamento della nobiltà, il Concordato con la Chiesa, avevano fatto sperare l’esiliato Luigi XIII e molti dei realisti, compreso Chateaumbriand, in una nuova svolta per la Francia. Come sappiamo non sarà Regno, ma Impero. Il letterato non perdona il gesto materiale, non comprende l’atto politico: il 21 marzo del 1804 scrive una lettera di dimissioni a Talleyrand, non assumendo neanche l’incarico di Sion che Napoleone gli aveva appena conferito. Da quel momento è un oppositore di Napoleone, l’unico che elevò un grido in Europa, tramite il giornale del Mercure. Paradossalmente Napoleone nelle sue Memorie di Sant’Elena elogia Chateaumbriand per la sua franchezza e la sua opposizione fiera e leale. Dopo tanti colpi bassi, dati e ricevuti, l’ex Imperatore dei Francesi in esilio gli diede merito.

Così riporta il racconto dell’omicidio di colui che aveva militato, insieme al bretone, nell’armata degli emigrati francesi, poi esercito di Condé: "Un ordine di Bonaparte, del 29 ventoso anno XII, aveva stabilito che una commissione militare, composta da sette membri nominati dal generale governatore di Parigi (Murat), si sarebbe riunita a Vincennes, per giudicare il «ci-devant» duca d’Enghien, accusato di essersi armato contro la Repubblica. [...] La morte dello sventurato duca d’Enghien è uno degli avvenimenti che hanno più afflitto la nazione francese: esso ha disonorato il governo consolare. Un giovane principe, nel fiore degli anni, sorpreso a tradimento su suolo straniero, dove dormiva in pace protetto dal diritto dei popoli; trascinato con violenza verso la Francia; tradotto di fronte a sedicenti giudici che non potevano in nessun caso essere i suoi; accusato di reati immaginari; privo del soccorso di un difensore; interrogato e condannato a porte chiuse; giustiziato di notte nei fossati della roccaforte che fungeva da prigione di Stato; tante virtù misconosciute, speranze tanto care distrutte, faranno per sempre di questa catastrofe uno degli atti più rivoltanti cui si sia mai abbandonato un governo assoluto! [...] Il duca d’Enghien non è stato arrestato in Francia; non era prigioniero di guerra, perché non era stato catturato con le armi in pugno; non era prigioniero a titolo civile, perché non era stata chiesta l’estradizione; si trattava di un sequestro violento di persona, paragonabile alle catture dei pirati di Tunisi e di Algeri, di una scorreria di ladri, incursio latronum. [...] Riassumendo questi fatti, ecco che cosa mi hanno dimostrato: Bonaparte ha voluto la morte del duca d’Enghien; [...] la separazione definitiva del Primo console dai Borboni. [...] Quanto a Talleyrand, prete e gentiluomo, ispirò e preparò l’assassinio assillando Bonaparte con le sue ansie: temeva il ritorno della monarchia legittima. [...] fu lui a convincere il console a ordinare l’arresto fatale[21]". Questa morte, sul momento, gelò di spavento tutti i cuori; si temette un ritorno del regno di Robespierre. Parigi credette di rivedere uno di quei giorni che si vedono solo una volta, il giorno dell’esecuzione di Luigi XVI. I servitori, gli amici, i parenti di Bonaparte erano costernati.

[caption id="attachment_11971" align="aligncenter" width="1000"] Luigi Antonio di Borbone, Duca di Enghien (Chantilly, 2 agosto 1772 – Vincennes, 21 marzo 1804), era un parente dei sovrani borbonici di Francia. Fu giustiziato per accuse inventate durante il consolato francese. Fu educato privatamente dall'Abbé Millot e, nelle questioni militari, dal Commodoro de Vinieux. Mostrò precocemente lo spirito bellicoso del Casato di Condé, e cominciò la sua carriera militare nel 1788. Allo scoppio della rivoluzione francese, emigrò con il padre e il nonno pochi giorni dopo la caduta della Bastiglia e rimase in esilio, cercando di aumentare le forze per l'invasione della Francia e la restaurazione della monarchia. Nel 1792, allo scoppio delle guerre rivoluzionarie francesi, ricoprì un comando nel corpo degli émigré organizzato e comandato da suo nonno, il Principe di Condé. Questo esercito di Condé condivise la fallimentare invasione della Francia del Duca di Brunswick.[/caption]  

All’estero, il linguaggio diplomatico soffocò subito la reazione popolare, ma essa scosse ugualmente le viscere della folla. Nella famiglia esiliata dei Borboni, il colpo penetrò a fondo: Luigi XVIII restituì al re di Spagna l’Ordine del Toson d’Oro, di cui era stato da poco insignito Bonaparte; la decorazione era accompagnata dalla lettera seguente, che fa onore all’anima regale: «Caro signor cugino, non può esservi niente in comune tra me e il grande criminale che l’audacia e la fortuna hanno posto su un Trono che egli ha avuto la barbarie di macchiare con il sangue puro di un Borbone, il duca d’Enghien. La religione può impormi di perdonare un assassino; ma il tiranno del mio popolo dev’essere sempre mio nemico. La Provvidenza per motivi inspiegabili, può condannarmi a finire i miei giorni in esilio; ma né i miei contemporanei né i posteri potranno mai dire che nel momento avverso io mi sia mostrato indegno di occupare fino all’ultimo respiro il trono dei miei antenati».

Non bisogna dimenticare un altro nome, associato a quello del duca d’Enghien: Adolph Gustav IV (1778 - 1837), poi detronizzato e messo al bando, fu l’unico tra i Re allora regnanti che osò alzare la voce per salvare il giovane principe francese. Fece partire da Karlsruhe un aiutante di campo latore di una lettera a Bonaparte; la lettera arrivò troppo tardi: l’ultimo dei Condé non era più. Gustavo Adolfo restituì al re di Prussia il cordone dell’Aquila Nera, come Luigi XVIII aveva reso il Toson d’Oro al re di Spagna. Gustavo dichiarava all’erede del grande Federico che «secondo le leggi della cavalleria non poteva acconsentire ad essere fratello d’armi dell’assassinio del duca d’Enghien» (Bonaparte aveva l’Aquila Nera).

Il giudizio su Napoleone, più tardi, sarà tremendo, crudo, veritiero: "Napoleone poteva ripercorrere il corso della sua vita: poteva chiedersi se con un po' più di moderazione non avrebbe conservato la sua prosperità. Adesso non erano degli stranieri, dei nemici, a metterlo al bando; non se ne andava quasi da vincitore, lasciando la nazione piena di ammirazione per il suo passaggio, dopo la prodigiosa campagna del 1814; si ritirava sconfitto. Erano dei francesi, degli amici, a esigere la sua immediata abdicazione, a sollecitare la sua partenza; non lo volevano più nemmeno come generale [...] gridavano che Bonaparte era stato davvero troppo criminale a violare i trattati del 1814. Ma i veri colpevoli non erano forse coloro che avevano favorito i suoi piani? [...] si prestarono alle passioni del loro capo, tornato indietro; contribuirono ad accecarlo, sicuri com’erano di trarre profitto sia dalla sua vittoria che dalla sua sconfitta. Solo il soldato morì per Napoleone con una lealtà ammirevole; tutti gli altri non furono che gregge al pascolo, intento a ingrassarsi a destra e a manca. [...] Non si vide mai un tale abbandono; Bonaparte stesso l'aveva reso possibile: insensibile com'era alle pene altrui, il mondo gli rese indifferenza per indifferenza. Come la maggior parte dei despoti, si trovava bene con i suoi domestici; in fondo non gli importava di nessuno: uomo solitario, bastava a se stesso; la sventura si limitò a renderlo al deserto della sua vita[22]". Nel marasma, tre eventi distinti lo abbattono e lo ravvivano. Inizia una seconda relazione con Delphine de Sabran, una nobildonna vedova, che si era stabilita nel castello di Fervacques: luogo di incontri proibiti con il letterato. Durante l’ambasciata di Roma muore nel 1803 la sua amante Paoline. François-René sarà al suo capezzale, proprio nella città eterna, provvederà ai suoi funerali e alla sua sepoltura nella splendida Chiesa romana di San Luigi dei Francesi. L’addio all’Italia gli vale la pubblicazione di un opuscolo, tramite il Mercure, Lettere sulla campagna romana del 3 marzo 1804. La data coincide con lo stesso giorno in cui la sua vita coniugale riprende con la moglie Céleste: una relazione che per gli eventi storici si era gioco-forza interrotta nel 1792. I due erano quasi degli sconosciuti, si erano visti solo quattro volte. Nonostante questo nasce un amore sincero, leale, che metterà fine alle “scappatelle” di Chateaumbriand. Nel 1804 spira anche la sorella Lucile, morta per cause misteriose, si pensò ad un suicidio. La pena e lo sconforto sono duraturi nel letterato, che vede nuova linfa con la pubblicazione di René nel 1805. Uscito nel 1802 nel capitolo del Genie dedicato al “vago delle passioni”, René ne è stato distaccato tre anni dopo e unito al seguito di Atala. Questo racconto conoscerà un successo prodigioso in tutta l’Europa. Nelle intenzioni dell’autore l’episodio doveva servire a dare l’esempio della “potenza di una religione”. Chateaubriand ammetterà più tardi, nelle Memorie d’oltretomba (1848 - 50), l’importanza di quest’opera a riguardo del romanticismo nascente: «Se René non esistesse, non lo scriverei più; se mi fosse possibile distruggerlo, lo distruggerei. Una generazione di René poeti e René narratori è cresciuta a dismisura […] Non c’è stato un solo ragazzo che, dopo il collège, non abbia sognato di essere il più dannato degli uomini». René è un giovane europeo che sfugge dalla civiltà, alla ricerca di se stesso. Si rifugia nelle foreste americane, presso i Natchez. Qui lo accolgono due anziani, Chactas e Padre Souël che si possono considerare le autorità politiche e religiose. Il romanzo inizia con la sollecitazione degli anziani, ad abbandonare la reticenza del protagonista e indurlo a raccontare la sua storia della vita. L’arrivo di una lettera, che annuncia la morte della sorella, convince finalmente lo sconvolto René a narrare la sua storia. Come suggerisce il titolo, ci sono numerosi elementi autobiografici nel libro, che attinge ampiamente ai ricordi di Chateaubriand della sua infanzia in Bretagna e ai suoi viaggi in Nord America nel 1791. Chateaubriand è stato criticato per il suo uso del tema dell’incesto e non c'è prova che sua sorella Lucile aveva una tale passione per lui nella vita reale. Noia, disincanto, rifiuto del mondo che non si comprende più, ricerca della solitudine, ma allo stesso tempo disgusto, passioni vaghe e senza esito, incertezze e indecisione: sono questi i sentimenti del giovane René, primo eroe romantico vittima del “male del secolo”. René si è rivelato un’ispirazione immensa per i giovani romantici che hanno ritenuto che fosse l’espressione perfetta del mal du siècle vissuto dalla loro generazione. Tra gli ammiratori ricordiamo il compositore Louis-Hector Berlioz (1803 - 69) e il drammaturgo Alfred Louis Charles de Musset-Pathay (1810 - 57). La sua fama raggiunse l’estero; i viaggi di René attraverso l’Europa furono imitati da Lord Byron nel Pellegrinaggio di Childe Harold. Sia René che Harold, sono irrequieti ed estraniati con un disprezzo aristocratico per la banalità del mondo. Come Goethe con Werther, negli anni successivi Chateaubriand arrivò a risentirsi della popolarità dei suoi primi lavori. Date le dimissioni e braccato dal regime napoleonico, partì per un lungo viaggio in Oriente che evocherà in L’itinerario da Parigi a Gerusalemme (1811). Quando tornò in Francia, si stanziò alla Vallée-aux-loups e si oppose al regime imperiale. Pubblicò un’epopea della religione cristiana, I Martiri (1809), e iniziò le sue Memorie d’Oltretomba. Eletto all’accademia francese, non poté pronunciare il suo audace discorso, censurato dal governo, dovette aspettare la caduta dell’Impero. Chateaubriand sempre dalla parte della causa borbonica, entrò in politica dove si succederanno momenti di favore e di disgrazia. Diventò ambasciatore a Berlino e a Londra, ministro degli Affari Esteri, ambasciatore a Roma. Durante questo periodo Chateaubriand scrisse opere politiche Dei Buonaparte e dei Borbone (1814), vero pamphlet contro Napoleone, elogio alla monarchia legittimista.

[caption id="attachment_11972" align="aligncenter" width="1000"] Louis-François Lejeune, Ingresso di Carlo X a Parigi, vicino alla barriera della Villette, dopo la sua incoronazione. 6 giugno 1825. Testatina dei Bonaparte e dei Borboni, edito in italia dalla Adelphi, piccola Biblioteca.[/caption]  

Tuttavia il rapporto con Luigi XVIII non è buono: c’è il rispetto per l’entità divina che rappresenta, non vi è stima umana, la stessa che invece permeò il rapporto con il successivo Carlo X:

"Luigi XVIII non perse mai la consapevolezza della supremazia dei suoi natali; era re dappertutto, così come Dio è Dio dappertutto, in una mangiatoia o in un tempio, su un altare d’oro o d’argilla. La sua sventura non gli strappò mai la minima concessione; più cadeva in basso, più s’innalzava; la sua corona era il nome; sembrava che dicesse: «Uccidetemi, non ucciderete i secoli scritti sulla mia fronte». Se al Louvre avevano raschiato via il suo blasone, poco gli importava: non era inciso sul globo? [...] L’idea fissa della grandezza, dell’antichità, della dignità, della maestà della propria stirpe, dava a Luigi XVIII una vera autorità. Se ne avvertiva l’imperio; gli stessi generali di Bonaparte lo ammettevano: erano più intimiditi al cospetto di quel vecchio impotente che davanti al terribile padrone che li aveva comandati in cento battaglie. A Parigi, quando Luigi XVIII accordava ai monarchi trionfanti l’onore di pranzare alla sua tavola, passava per primo senza complimenti davanti a quei prìncipi i cui soldati erano accampati nel cortile del Louvre; li trattava come vassalli che, portando uomini d’arme al loro Signore e Sovrano, avevano fatto soltanto il loro dovere. In Europa esiste soltanto una monarchia, quella di Francia; il destino delle altre è legato alla sorte di quella. Tutte le stirpi regali sono vecchie di un giorno in confronto alla stirpe di Ugo Capeto, e quasi tutte ne sono figlie. Il nostro antico potere regale era l’antica monarchia del mondo: la messa al bando dei Capeto ha datato l’era della cacciata dei re. [...] L’incrollabile fede di Luigi XVIII nel suo rango è il potere reale che gli ha restituito lo scettro; è questa fede che, per due volte, gli fece cadere in testa una corona per la quale l’Europa non immaginava, né aveva intenzione, di consumare popoli e tesori. L’esiliato senza soldati si trovava al termine di tutte le battaglie che non aveva ingaggiato. Luigi XVIII era la legittimità incarnata, quando è scomparso l’uno, è scomparsa anche l’altra[23]".

Quasi da storico nelle sue memoria riporta la crisi morale e politica, che farà poi crollare il successore del conte di Provenza, Carlo X. Principalmente non perdonava a Luigi XVIII di essersi contornato, anch’esso dai profittatori e da antichi regicidi. A differenza di Bonaparte era un tiepido, sposando ora una causa, per interesse, ora un’altra. Un Re che non vuole problematiche, fatica a tenersi issato sul Trono. Le prime opere della Restaurazione furono affidate all’infecondità del vescovo di Autun, quel Talleyrand che dopo esser sopravvissuto a tutte le stagioni politiche inflisse alla Restaurazione la sterilità, trasmettendole un germe di infamia e di morte. Luigi XVIII era insensibile, questa l’accusa principale. Gli eccessi del Terrore, il dispotismo di Bonaparte avevano fatto tornare indietro le idee, ma appena gli ostacoli opposti furono annientati, esse affluirono nel letto che dovevano al tempo stesso seguire e scavare – «le cose furono riprese al punto in cui si erano fermate; ciò che era accaduto fu come annullato: la specie umana, riportata all’inizio della rivoluzione, aveva solo perduto quarant’anni di vita».

[caption id="attachment_11970" align="aligncenter" width="1000"] Tomba di Chateaubriand sull'isola di Grand Bé nei pressi di Saint-Malo.[/caption]  

Si ritirò della politica nel 1830, rifiutando di riconoscere la Monarchia di Luglio, di Luigi Filippo di Borbone-Orléans (Luigi Filippo I, 1773 - 1850), quell’Égalité fil che con tanta malizia e abilità, riuscì a sottrarre a Carlo X il Trono, tramite intrighi di Palazzo. Indubbiamente la sua scrittura lirica e il suo stile complesso e musicale, lo classificheranno tra gli autori che hanno rappresentato al meglio il malessere di tutta una generazione di scrittori. Ammirato da poeti come Lamartine e Charles Baudelaire e dal romanziere Marcel Proust, Chateaubriand è stato un autore influente tra l’Ottocento e il Novecento, per il ruolo ricoperto di avanguardista letterario del movimento romantico. «L’uomo e lo scrittore sono inseparabili», Chateaubriand spiega questo concetto nel suo prefazio testamentario mandato al direttore della Rivista dei due mondi per descrivere il suo progetto autobiografico. Le Memorie d’Oltretomba sono la testimonianza della coscienza dell’autore di fronte a un mondo che sta cambiando. Un giudizio personale sui fatti e sui personaggi si sovrappone a una descrizione obiettiva e a un autoritratto fedele. Muore il 4 luglio del 1848, quando altri vagiti rivoluzionari erano alle porte. Oggi riposa sull’isola di Grand Bé nei pressi di Saint-Malo, la sua città natale. La sua tomba in realtà non contiene alcuna iscrizione, una targa non nominativa è stata comunque posizionata sul muro dietro il manufatto, con l’iscrizione: «Un grande scrittore francese ha voluto riposare qui per ascoltare solo il vento e il mare. Passando rispetta il suo ultimo desiderio».

 

[1] Ivi, pp. 834-835.836.837-838.

[2] Nascita del padre, René-Auguste de Chateaubriand.

[3] R.A.de Chateaubriand, Memorie D’oltretomba (I), Einaudi, Torino, 2015, p.27.

[4] In realtà, la guerriglia futura della Chouannerie, rese famosi questi contadini bretoni come i temuti Chouans.

[5] La pallamaglio è un antico gioco all’aperto, originario di Napoli, che ha dato origine a numerosi sport moderni, come il golf, il croquet, l’hockey nelle sue varianti e il polo.

[6] R.A.de Chateaubriand, Memorie D’oltretomba (I), Einaudi, Torino, 2015, p.95.

[7] Nel 1780 vengono maritate contemporaneamente due delle sue sorelle. Marie-Anne, a diciannove anni, sposa il conte di Marigny; Bénigne, a diciotto, il conte di Québriac. Ambedue gli sposi sono capitani del corpo di cavalleria dei dragoni, di buona nobiltà bretone. Le nuove famiglie vanno ad abitare a Fougéres, a circa cinquanta chilometri da Combourg, in belle dimore gentilizie. Frattanto Jean-Baptiste ha finito gli studi a Rennes, e il padre gli ha comprato una carica di consigliere al Parlamento (1779). Nell’aprile del 1782 si sposa anche la sorella Julie all’età di diciotto anni con il cavaliere Annibal de Farcy, altro nobile bretone, capitano del reggimento di fanteria di Condé.

[8] Ivi, p.98.

[9] R.A.de Chateaubriand, Memorie D’oltretomba (I), Einaudi, Torino, 2015, pp.119-120-121-122-123

[10] Ivi, pp. 143-144. È affiliato all’Ordine di Malta l’11 settembre del 1789.

[11] Si scoprirà poco dopo, grazie agli esploratori Mackenzie, Gray e Vancouver, che tale passaggio era inesistente, poiché bloccato dalle invalicabili Montagne Rocciose. Ciò fu possibile grazie all’esplorazione della costa nord dell’America.

[12] Ivi, pp. 131-132-133.

[13] Ivi, p.242.

[14] Ivi, p.280.

[15] Ivi, p.286-231.

[16] Sarà liberata solo il 18 ottobre del 1794.

[17] R.A.de Chateaubriand, Memorie D’oltretomba (I), Einaudi, Torino, 2015, p. 320.

[18] Peraltro Rousseau confonde clamorosamente il concetto di “stato di natura” con quello di “natura” o “legge naturale”. Per tutti gli illuministi la natura di un essere nella sua auto-sussistenza coincide con la perfezione, poiché per se stessa la natura contiene “in nuce” il dispiegamento di una serie di virtualità positive: quegli istinti genuini che rischiano di corrompersi nelle convenzioni artificiose che la società impone.

[19] R.A.de Chateaubriand, Memorie D’oltretomba (I), Einaudi, Torino, 2015, pp.

[20] Ivi, pp.419-420

[21] Ivi, pp. 462-465-466-469-470-478.

[22] Ivi, 827-828-829.

[23] Ivi, pp.776-786-787.

 
Per approfondimenti:
_R.A.de Chateaubriand, Memorie D’oltretomba (I), Einaudi, Torino, 2015;
_R.A.de Chateaubriand, Genio del Cristianesimo, Einaudi, Torino, 2014;
_R.A.de Chateaubriand, Atala - ­René, Garzanti, Milano, 2006;
_R.A.de Chateaubriand, Saggio sulle rivoluzioni, Medusa, Milano, 2006.
 
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Divin Marchese, così la storia lo avrebbe ribattezzato. Eppure, il personaggio più sfrontato, eccessivo e smodatamente perverso del XVIII secolo, di divino aveva davvero molto poco. Taluni autori si riferiscono ai suoi personaggi letterari (sovente la critica usa il più spregiativo appellativo creature) come autentici mostri; non da ultimo Pierre Klossowski, il quale in una sua opera – Sade prossimo mio, edito nel 1947 – riuscì ad offrire una lettura del suo pensiero tutt’altro che didascalica, proponendosi - tra i primi se non per primo - di denotare alcuni elementi di carattere antropologico, psichiatrico e, perché no, anche letterario, del noto nobile, scrittore, filosofo, poeta, rivoluzionario.. e  criminale francese: fu ristretto a lungo alla Bastiglia, come si riferirà in appresso.
Neppure Pier Paolo Pasolini rimase immune dalla fascinazione sadiana: Salò o le 120 giornate di Sodoma è la trasposizione cinematografica dell’omonima opera di De Sade –sebbene il corsaro friuliano scelga come ambientazione Salò durante l’occupazione. De Sade ha rappresentato oggetto di studio anche per psicoterapeuti, psicanalisti e psichiatri, tant’è che il termine “sadico” trova derivazione proprio dal nome di Sade ed è impiegato per ricalcare tutte quelle condotte violente, smodate, di una incresciosità tanto perniciosa quanto basta ad appagare il desiderio (anche sessuale) dell’aguzzino. Il vocabolo è entrato appieno nel nostro gergo, donde di sicura utilità potrebbe rivelarsi una disamina, senza pretesa di esaustività, della persona del letterato francese, che tanto portò scandalo ai suoi tempi.
Donatien-Alphonse-François de Sade, signore di Saumane, di La Coste e di Mazan, marchese e conte de Sade, nacque a Parigi il 2 giugno 1740, in una famiglia di antica nobiltà (alla quale rinunciò agli inizi del XIX secolo, tant’è che finì col firmarsi come D.A.F. De Sade), una delle più antiche della Provenza; l’infante vide la luce nel Palazzo dei Condè a Parigi, residenza dei principi Borbone-Condè. Figlio di Jean-Baptiste François Joseph de Sade e di Marie Elénore de Maillé de Carman, questa nipote del cardinale Richelieu, trascorse l’infanzia nel Palazzo Condè sino all’età di quattro anni, momento in cui deve spostarsi nel palazzo avignonese di famiglia, poiché sua madre fu costretta ad accompagnare il marito (noto diplomatico) impegnato al servizio del principe elettore di Colonia. Di lì si trasferì poi presso l’abitazione dello zio, Jacques-François-Paul-Alphonse de Sade, dove ricevette i primi rudimenti anche di letteratura. Si formò presso i gesuiti e, in ragione dei titoli di nobiltà posseduti a quattordici anni, frequentò una scuola preparatoria di cavalleria annessa al reggimento di Versailles - concorrente e speculare a quella dei moschettieri -, affrontando quindi un primo periodo di rigore e rigida disciplina militare, ma entrando anche in contatto con la classe nobiliare parigina. Nonostante fosse un militare non mancò di condurre una vita dissoluta, sino al momento del congedo avvenuto il 16 marzo 1763, al termine della guerra.
Il padre del giovane marchese riuscì a combinare il matrimonio del rampollo con la figlia di un ricco magistrato, dacché era sensibilmente preoccupato per le risorse economiche della famiglia. La moglie di de Sade fu quindi Renée-Pelagie Cordier de Launay de Montreuil. Tuttavia de Sade inizia a costruirsi una pessima fama per via della sua dissolutezza, essendo propenso al gioco d’azzardo ed a sperperare denaro frequentando camerini delle attrici e delle prostitute. Non manca comunque di vezzeggiare e rendere prosaico corteggiamento a mademoiselle Laure-Victoire-Adeline de Lauris, discendente da un casato provenzale, alla quale invia poesie in stile trobadorico da egli composte. Tuttavia il rapporto si interruppe, presumibilmente, per episodi di violenta gelosia esternati da D.A.F., quindi la storia si concluse. Non passa molto tempo da quando si sposò che il Marchese venne recluso nelle carceri di Vincennes in ragione di un comportamento ritenuto “oltraggioso” che questi avrebbe tenuto in un bordello. Ed è solo l’inizio della serie di guai con la giustizia nei quali incorse.
La seconda incarcerazione la subisce nel 1768, quando viene arrestato e fatto recludere per sei mesi poiché accusato di aver rapito e torturato una donna. Il Marchese venne liberato per ordine del re e riprese immediatamente la sua vita dissoluta. Organizza feste e balli nella sua tenuta di La Coste e, nel frattempo, dà inizio anche ad una serie di viaggi ed intrattenimenti con la sorella della moglie, Anne, con la quale (così risulta agli storici) ha anche un’intesa sessuale.
Altri problemi giudiziari sopravvengono per il nostro nel 1772, nel corso della rappresentazione di una sua opera teatrale. In quell’occasione sarebbe stato accusato di avvelenamento. Risulta difatti che nel corso di un’orgia cui partecipò in compagnia del suo domestico e quattro prostitute, distribuì a costoro dolci adulterati con delle droghe, con la speranza producessero un effetto afrodisiaco. I dolci avvelenati, invece, provocarono alle donne forti malori.
Il Marchese scappò in Italia, venne arrestato a Milano dalle milizie del Re di Sardegna e rinchiuso nel locale carcere con condanna a morte. Dopo soli cinque mesi evade di prigione e trascorre i successivi cinque anni trastullandosi in orge e viaggi, dando vita a numerosi scandali. Fu arrestato nuovamente nel 1777 a Parigi e condotto nella prigione di Vincennes, dove cominciò a comporre opere teatrali e romanzi. Di lì venne trasferito alla Bastiglia, ove compose Le 120 giornate di Sodoma oltre ad un’altra opera altrettanto celeberrima, ovvero Justine, le disgrazie della virtù. Dalla Bastiglia è poi trasferito in un manicomio, a luglio del 1789, pochi giorni prima della presa del forte carcerario. Con il trasferimento abbandonò la sua voluminosa biblioteca e tantissimi manoscritti andati perduti. Ottenne nuovamente la libertà nel 1790, tentò di riconciliarsi con la moglie che, però, lo abbandonò a causa delle sue violenze (i figli invece emigrarono).
Rotto il rapporto con sua moglie intrattenne quindi una relazione amorosa con un’attrice, con la quale visse sino al resto dei suoi giorni, Marie Constance Quesnet.
La sua vita si trovò posta di nuovo a rischio poiché visse in un quartiere rivoluzionario e cercò quindi di dissimulare le sue nobili origini. Venne però riconosciuto, arrestato e condannato a morte. Ma la fortuna non abbandonò mai il divin marchese che, per puro caso fortuito, venne dimenticato nella sua cella. Fu liberato nel 1793.
Seguirono le sue pubblicazioni (alcune già concepite ai tempi della detenzione nella Bastiglia). Infatti nel 1795 vide la luce La filosofia nel boudoir, La nuova Justine e Juliette. Il romanzo Justine fu però considerato una pubblicazione oscena ed infame, donde l’autore, senza alcun processo, venne internato presso il manicomio di Charenton. Malgrado le sue rimostranze e doglianze venne ritenuto pazzo e trascorse nel manicomio gli ultimi anni della sua vita. Donatien-Alphonse-François de Sade morì il 2 dicembre 1814, all’età di 74 anni. Un dato desta particolare impressione: dei suoi settantaquattro anni di vita de Sade ne trascorse ben trenta in carcere. Per lungo tempo il suo nome fu oggetto di biasimo e con esso tutte le sue opere, bandite e ritenute oggetto di scandalo. La produzione di De Sade ottenne la riabilitazione solo nel Novecento, nel secolo dove tutto è relativo, anche il male.
[caption id="attachment_11883" align="aligncenter" width="1000"] Quills è un film del 2000 diretto da Philip Kaufman e adattato dalla commedia vincitrice del premio Obie di Doug Wright, che ha anche scritto la sceneggiatura originale. Ispirato alla vita e all'opera del Marchese de Sade, Quills reinventa gli ultimi anni di incarcerazione del Marchese nel folle manicomio di Charenton.[/caption]
Sade fu sicuramente – rectius: dichiaratamente – ateo. La religione rappresenta un vincolo che imbriglia la pulsione libertina, la costringe in un paradigma di contegno e decenza che mal si conciliavano con la sua indole perversa e proclive allo scandalo. Dio è amore: questo credono i fedeli delle religioni monoteiste. Per de Sade Dio, ammesso che egli potesse anche solo concepirne l’esistenza, è un carceriere, colui che traccia i termini, il marcatore del limes tra lecito ed illecito, tra morale e immorale. In sintesi la demarcazione tra fas e nefas. Non a caso le punizioni inflitte alle vittime del libro Le 120 giornate di Sodoma, sono particolarmente crudeli laddove uno dei fanciulli o delle fanciulle rapite dovesse nominare il nome di Dio o alludere a temi di natura religiosa, ascetica, teologica. Per Sade non esiste limite al piacere ed al godimento, un godimento che supera anche i margini della Legge, sia divina che umana. Lacan, tra i progenitori della psicanalisi, riteneva che la vita umana oscillasse tra legge e desiderio. L’adeguato equilibrio dovrebbe risiedere nella ricerca del senso dell’esistenza, nel riconoscere la propria identità calibrandola ad un sistema composto dai simili, dall’altro. Per de Sade il desiderio è piacere, godimento, una continua copula dimentica dei vincoli normativi del sistema sociale. Lo stesso marchese si pone sovente al di là della legge stessa, violandola reiteratamente, manifestando sprezzante insubordinazione, capovolgendo la moralità invertendone le fondamenta. Nelle sue opere sono presenti numerose postille (glosse?), con le quali addirittura si rivolge a sé stesso - con reverenza ed in seconda persona, (es. Abbiate cura di evidenziare…et similia) - e in cui si propone di rimarcare concetti scabrosi, osceni, difficilmente tollerabili. Non di rado è capitato che i lettori dovessero distogliere gli occhi dalle pagine o che riferissero di provare sensazioni strane nel sorreggere quei volumi tra le mani, come se stessero toccando qualcosa di…empio.
Nella produzione letteraria sadiana un tema ricorrente è quello della scatologia. “La scatologia è politica?” chiese un giornalista a Pasolini, nel corso della sua ultima intervista. E lui “assolutamente!”. Eppure in quasi tutti gli scritti di de Sade la componente escrementizia è citata con una ricorrenza quasi ossessiva, maniacale, forse anche per l’inclinazione indiscutibilmente perversa dell’autoproclamato filosofo. La ragione per cui in de Sade la scatologia è indispensabile è strettamente interconnessa con la pratica della sessualità, vissuta ovviamente nelle declinazioni più estreme: per il marchese la base diventa il vertice e viceversa. Il libertino è prodigo nei banchetti, non limita l’assunzione di cibarie e bevande raffinate ed in proporzioni sconsiderate (Dante, solo per questo, lo taccerebbe per mancanza di continenza). Di conseguenza l’espulsione – esteriorizzazione di quanto ab origine assunto –, ha condotto alla traslazione dell’apologia genitale, che il marchese ritiene forse troppo conformista o di scarsa attitudine ad accelerare la voluttà, verso quella del culto di altri organi del corpo umano, proprio perché in ciò che viene espulso si sostanzia l’ebbrezza che conduce quindi a riassumere (interiorizzazione di quanto esteriorizzato) lo scarto. Questa è, in effetti, la logica del consumismo: la società dei consumi impone quotidie di pretendere quanto non è necessario. Quindi, così come i mostri di Sade consumano i propri escrementi, al pari nella lettura pasoliniana su Sade, il consumatore cerca il superfluo, l’eccedenza necessaria, quasi come se la lotta per la sopravvivenza si fosse posta in antitesi ex se: per sopravvivere l’uomo ha bisogno del superfluo.
[caption id="attachment_11884" align="aligncenter" width="1000"] Marquis de Sade – 100 Erotic Illustrations è uscito per Goliath Books.[/caption]

Per de Sade, come riferito supra, non esiste limite alcuno al piacere. Piacere corporeo, fisico, materiale, epicureo (forse anche oltre la prospettiva di Epicuro). Il poeta massimizza il suo godimento nella condotta sfrenata e libertina che assunse nel corso della sua intera esistenza. Perché quindi, il piacere sadiano è così osceno? Alcuni autori ne hanno rinvenuto la motivazione nella dialettica condotta dal poeta/filosofo sull’orgasmo. I protagonisti delle sue opere difficilmente culminano, questo perché l’autore vuole enfatizzare taluni aspetti del suo desiderio: il perdurare del coito sadiano, se da un lato ha una lunga durata che acuisce il vizio ed il godimento, dall’altro specularmente provoca nella vittima (la sessualità sadiana non è quella ordinaria, ma è spietata, violenta, perversa ai limiti del patologico, valicando quasi sempre la linea di demarcazione con la legalità) dolore inimmaginabile, sofferenza fisica e psicologica, potendo facilmente essere qualificata come una forma di tortura. Ecco perché, nel vocabolario moderno, si impiega il termine sadico: in riferimento proprio a Sade, alla sua vita ed ai suoi comportamenti, oltre al modo pernicioso di leggere la vita. Parlare di filosofia, in de Sade, a giudizio dello scrivente, è impresa ardua se non inverosimile. Il marchese non trasmette alcuna logica teoretica nella sua vita, se non il macabro desiderio di godimento assoluto che lo condusse alla reclusione nei vari penitenziari che lo ospitarono per gran parte della sua vita. Tantissimi studiosi hanno riservato attenzione a de Sade: perché nell’oscuro, nei mostri sadiani, noi comprendiamo a cosa debba ispirare, al contrario di quanto sostenuto dal nobile parigino, l’essere umano. L’individuo nasce in un sistema al quale deferisce parte della propria libertà riconoscendo l’altro come suo prossimo, l’altro come oggetto del desiderio, ma desiderio inteso come ricerca della propria individualità e identità. L’utilità di Sade è quella che Pierre Klossowski individua in Sade prossimo mio: i mostri delle sue opere rappresentano la negazione della moralità, della pietà, del razionalismo etico e della cura del prossimo. Invero il prossimo, per parafrasare la letteratura evangelica cristiana, e tale a se stessi.

 
Per approfondimenti:
_Donatien-Alphonse-François de Sade, Les 120 journées de Sodome, ou l'École du libertinage, manoscritto datato 1785;
_Donatien-Alphonse-François de Sade, Justine o le disavventure della virtù (Justine ou les Malheurs de la vertu), manoscritto datato 1788;
_1795: La filosofia nel boudoir (La Philosophie dans le boudoir);
_1799: La nuova Justine, ovvero Le sciagure della virtù (La Nouvelle Justine, ou les Malheurs de la vertu), continuazione di Justine ou les Malheurs de la vertu;
_Pierre Klossowski, Sade prossimo mio preceduto da Il filosofo scellerato, trad. di Aurelio Valesi, SugarCo, Milano, 1970, Garzanti, Milano, 1975.
 
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