Franz Ferdinand e lo Zlatorog: una leggenda alpina

di Giuseppe Baiocchi del 22/01/2025

Il 28 giugno 1914 sarebbe stato uno dei giorni più importanti della recente storia europea. In questo giorno venne assassinato a Sarajevo l’Arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono d’Austria dal 1896. Lui e sua moglie – Sophie Chotek, che perse la vita anche lei nell’attacco –, si recarono in quella che allora era la terra della corona della Bosnia ed Erzegovina per un’esercitazione militare e rassegna truppe. L’attentato, pianificato ed eseguito dal gruppo cospirazionista serbo chiamato la “Mano Nera” (serbo Crna Ruka), avvenne poiché la Russia zarista non gradiva un’espansione austriaca nel mondo serbo, soprattutto dopo la proposta e il programma di Ferdinand di creare una “terza testa d’aquila” all’Impero dell’Austria-Ungheria, con la fondazione di un terzo parlamento per le popolazioni di etnia slava. La Russia non potendo tollerare un rafforzamento di potere asburgico in quell’area per loro vitale e strategica, armarono i nazionalisti serbi per quell’attentato meschino che, sebbene oggi non è visto come la causa diretta della Prima Guerra Mondiale, fu certamente il segnale di inizio per la guerra di luglio.

Il solitario Hagengebirge è dal X secolo la zona di caccia preferita dei principi della chiesa di Salisburgo. A questo scopo l’Arcivescovo Wolf Dietrich von Raitenau (1559 – 1617) fece costruire nella valle del Blühnbachtal un magnifico casino di caccia (1603 – 07) al posto del precedente manufatto di caccia in legno. Quando nel 1816 l’Arcidiocesi secolarizzata entrò finalmente a far parte dell’Impero Asburgico, furono riorganizzati anche i diritti sulle zone di caccia dell’ex arcivescovo. A sud la valle è delimitata dal possente massiccio dell’Hochkönig, a nord si innalzano verso il cielo le ultime propaggini del Göllstock. La proprietà barocca e il relativo distretto (14.000 ettari) entrarono in possesso degli Asburgo nel 1908, fino al colpo di stato del novembre 1918.

Crisi già presenti e tensioni tra le maggiori potenze europee, che formavano tra loro coalizioni attraverso varie alleanze, erano arrivate al limite. La Prima Guerra Mondiale non poteva più essere evitata. Almeno questa è la valutazione comune degli eventi accaduti nel centro di Sarajevo in quel giorno d’estate del 1914.
Tuttavia, se si crede al vecchio folklore e alle tradizioni mitiche, almeno il destino di Francesco Ferdinando fu segnato nell’agosto del 1913 – e un camoscio bianco giocò un ruolo cruciale in esso. Nel recente passato il paesaggio ai piedi delle Alpi Giulie, dove si fa strada il blu turchese dell’Isonzo, si è trasformato in una piccola punta turistica privilegiata. Il nord della Slovenia, geograficamente separato dalla Carinzia dalle Caravanche, è oggi un paradiso per gli escursionisti. In particolare il Triglav, a 2.800 metri di altitudine, e il parco nazionale circostante attirano appassionati alpinisti da vicino e da lontano. La ricchezza di leggende di questa regione è strettamente legata anche alla natura montuosa, che può significare sia fortuna che sfortuna per i suoi abitanti. Il motivo di tale dipendenza reciproca è interessante per via nella leggenda slovena dello Zlatorog1 (in tedesco Goldenes Horn), il camoscio bianco dalle corna dorate, che da secoli viene raccontata in innumerevoli varianti in Slovenia e nei vicini paesi slavi.
Al centro della leggenda c’è un giovane cacciatore delle Alpi Giulie che, un giorno, mentre camminava in montagna, giunse in un prato verde e rigoglioso tra ghiaioni e rocce inospitali. Lì vide un branco di camosci al pascolo, guidato da un magnifico ariete di camoscio con le corna dorate: uno Zlatorog. Si diceva che questo fosse il custode di un tesoro che si trovava sul monte Bogatin. Se il camoscio strofina le sue corna sulla parete rocciosa della montagna, un cancello si aprirà e si avrà accesso a ricchezze incalcolabili. Il giovane cacciatore sapeva che uccidere il camoscio bianco candido e puro come la neve avrebbe comportato la sua stessa morte, ma la sua avidità ebbe la meglio e così sfidò la sorte. Il cacciatore rimase coraggiosamente in agguato e quando l’animale si avvicinò abbastanza, la sua mira precisa non lasciò scampo allo Zlatorog che cadde a terra con un tonfo secco. Dove il sangue del camoscio bagnava la terra, subito cominciarono a sbocciare fiori rossi: le rose del Triglav. Quando l’uomo attendeva già la ricompensa divina, lo Zlatorog – apparentemente morto – mangiò i fiori appena sbocciati e riacquistate le forze, uccise il cacciatore per poi sotterrare magicamente i rigogliosi pascoli in mezzo al vasto paesaggio carsico, così a fondo che fino ad oggi non vi cresce nemmeno un filo d’erba. Lo scrittore tedesco Rudolf Baumbach (1840 – 1905), che rimase così colpito dalla forza di questa leggenda da farne un adattamento nel 1876, concluse il suo poema epico “Zlatorog – Una leggenda alpina”, con i seguenti versi: “Dove c’erano prati grassi, seminati da capanne che producevano latte che si estendevano per ore di cammino, giaceva ora un mare di macerie di roccia”.

Oggi in tutta la Slovenia si trovano ancora riferimenti alla leggenda dello Zlatorog, ad esempio sotto forma di sculture di camoscio e, non ultimo, come mascotte del produttore di birra Laško, le cui etichette sono adornate da un camoscio bianco con corna dorate. Ma le leggende di animali mitici e di creature che dovrebbero proteggere oggetti di valore e tesori della natura sono conosciute anche altrove. Ma cosa può riguardare un giovane arciduca, erede al Trono del più importante Impero sul continente, con questa antica storia di vecchi detti e leggende popolari? Franz Ferdinand in realtà fu un cacciatore entusiasta e un eccellente tiratore per tutta la vita. Molte storie e leggende ruotano attorno a questo lato della sua personalità. Si dice, ad esempio, che abbia battuto il famoso Buffalo Bill in una gara di tiro quando si esibì nel suo spettacolo del selvaggio West a Vienna nel 1906. Si dice che una storia simile, ancora più spettacolare, sia accaduta durante una lunga battuta di caccia in India. Franz Ferdinand e il suo avversario indiano lanciarono ciascuno tre monete in aria e cercarono di colpirle. Mentre l’indiano prese solo una moneta, il proiettile dell’erede al trono ne trapassò tre contemporaneamente.
Dalle annotazioni dell’aiutante di caccia Hoschtalek, si può facilmente ricostruire gli abbattimenti venatori di Francesco Ferdinando nel corso della sua vita: 274.889 esemplari uccisi. Gran parte dei trofei può essere ammirata oggi nel castello di Konopiště, a quasi 40 chilometri a sud di Praga o a Schloss Eckartsau vicino Vienna.

Franz Ferdinand posa dopo la “Caccia grossa feudale” a Ceylon (Sri Lanka) nel 1893.

Come il “bel mondo” ci insegna, la caccia era parte integrante dell’universo aristocratico e veniva sempre celebrata. Cacciare, allora non era ancora percepito dalla società come un problema. Così ci ricorda l’atmosfera il grande scrittore Sándor Márai: «La nostra storia è disseminata fino ai nostri giorni di una lunga serie di stermini […]. Solo la caccia fa eccezione […] rappresenta ancora un sacrificio, un riflesso imperfetto di un antichissimo rito religioso che ha la stessa età dell’uomo. Perché non è vero che il cacciatore uccide per procurarsi la preda. Non ha mai ucciso unicamente per questo, neanche in epoca primordiale […]. La caccia è stata sempre accompagnata da riti di ordine tribale e religioso. Il buon cacciatore è sempre stato il primo della sua tribù, che gli si attribuiva poteri e dignità di sacerdote. Naturalmente tutto ciò si è perso con il passare del tempo. Ma sebbene i riferimenti siano sbiaditi, la caccia ha conservato la sua natura di rito. Forse non ho mai amato nulla in vita mia come quelle partenze per la caccia alle prime luci dell’alba. Ci si sveglia che ancora è buio […] amavo l’odore degli abiti da caccia; il panno era impregnato degli affluvi del bosco, delle fronde, dell’aria pura e degli schizzi di sangue, perché gli uccelli abbattuti si attaccano alla cintura e il loro sangue insudicia gli abiti. Ma il sangue è sudiciume? Non credo. È la materia più nobile che esista al mondo: ogni volta che l’uomo ha sentito il bisogno di comunicare al suo Dio qualcosa di grandioso, di ineffabile, lo ha sempre fatto offrendogli un sacrificio di sangue. E poi amavo l’odore di metallo oliato del fucile. E l’odore acre e ammuffito delle parti in cuoio grezzo dell’equipaggiamento da caccia. […] Il paesaggio comincia a destarsi, il bosco si stiracchia, sembra che si strofini gli occhi uscendo dal sonno. Tutto esala un profumo così puro che sembra di tornare in una patria diversa, quella in cui ebbero inizio la vita e le cose. […] Il fruscio del fogliame umido si percepisce appena sotto le suole dei tuoi scarponi. La pista è disseminata di tracce di animali. E adesso tutto comincia a vivere intorno a te: la luce, come se mettesse in moto un meccanismo nascosto che aziona il sipario del mondo, squarcia il velo che ricopre la foresta. Inizia il concerto degli uccelli, e in lontananza, a trecento passi di distanza, un cervo sta avanzando sul sentiero. […] La bestia si ferma, non vede niente, non fiuta la tua presenza perché il vento soffia in un’altra direzione, e tuttavia avverte il pericolo fatale […] come un individuo messo di fronte al suo destino si arresta impotente perché sa che il fato non è un evento fortuito né un incidente, ma la conseguenza naturale di circostanze imprevedibili e difficilmente comprensibili. […] Anche tu, immobile nel folto del bosco, sei a tua volta in balìa dell’attimo, tu il cacciatore. E nella mano avverti un fremito antico come l’uomo, l’impulso di uccidere, questa attrazione proibita, questa passione più forte di tutto il resto, uno degli stimoli segreti, né buoni né cattivi, che animano la vita in tutte le sue forme: essere più forti dell’altro, dimostrarsi più abile, non commettere errori, restare padroni della situazione. È la stessa sensazione che prova il leopardo mentre si prepara a balzare, il serpente mentre si rizza sulle rocce, l’avvoltoio mentre piomba sulla preda da mille metri di altezza. La stessa che prova l’uomo mentre scruta la sua vittima»1.

Fotografia di gruppo con abbattimenti, dopo battuta di caccia, degli urogalli. Foto del castello di Artstetten, luogo dove riposa Franz Ferdinand.

La grande caccia al Blühnbach, che si estendeva su circa 14.000 ettari, comprendendo le zone fino al versante meridionale dell’Hochkönig e a nord fino all’Hoher Göll, fu inizialmente assegnata per le battute di caccia a 14 aristocratici tra austriaci, boemi e bavaresi. Tra gli illustri ospiti di caccia figuravano anche l’Imperatore Francesco Giuseppe, il principe ereditario Rodolfo e lo stesso Arciduca Francesco Ferdinando. Quest’ultimo rimase molto colpito dall’eccellente caccia al camoscio e prese il controllo della zona nonostante la resistenza del precedente gruppo di cacciatori.
Affinché Francesco Ferdinando, affetto da una malattia polmonare, potesse salire più comodamente nel suo nuovo territorio di camosci, fu rapidamente costruita un’avventurosa e tortuosa strada militare lunga sette chilometri fino al Torrener Joch. Furono costruiti anche rifugi di caccia sul Joch e un grande casino di caccia all’ingresso della Bluntautal, mentre gli ultimi contadini alpini furono espropriati e l’accesso agli escursionisti di montagna fu sempre più negato.
I conflitti erano inevitabili, ma d’altro canto la famiglia imperiale dava anche molto lavoro a molte persone. Schloss Blühnbach, costruito in stile rinascimentale, fu ampiamente ristrutturato da maestranze locali e gli antiquari furono autorizzati ad arredare il castello con un design venatorio e fino a 100 aiutanti furono impiegati per le numerose cacce.
Francesco Ferdinando trascorse molto tempo nel casino di caccia di Blühnbach e il 27 agosto del 1913 l’arciduca andò a caccia con la moglie Sophie Chotek von Chotkowa e il suo cacciatore personale Mittendorfer. Franz Ferdinand era solito occuparsi, tra l’altro, della corrispondenza durante la caccia e solo quando i suoi servitori lo avvisavano dell’avvicinarsi della selvaggina, prendeva il fucile e alzava lo sguardo. Così è stato anche quando un camoscio bianco è apparso davanti all’alta tribuna della squadra di caccia imperiale. Probabilmente Francesco Ferdinando non esitò a lungo e uccise il fatidico animale . Essendo un cacciatore appassionato, probabilmente lui stesso conosceva le conseguenze che, secondo la leggenda, sarebbero avvenute al tiratore. Quando informò la moglie dell’abbattimento, si dice che l’arciduca abbia laconicamente osservato: “Beh, se devi morire, morirai comunque”. Nello stesso giorno furono abbattuti due camozze e altri 21 camosci.
Molti oggi si chiedono perché il grilletto di Francesco Ferdinando fu premuto, essendo a conoscenza della leggenda dietro l’animale. Egli difatti era un convinto cattolico e le leggende mistiche lo disgustavano relegando tutto a folklore superstizioso e forse cercò di sfatare da solo il mito.

Foto del camoscio bianco (a destra).

Oggi nessuno può affermare seriamente che Francesco Ferdinando abbia segnato il proprio destino o addirittura quello dell’intero continente europeo uccidendo il camoscio bianco. Ma ciò che resta è il rapporto tra uomo e natura, che rimane affascinante ancora oggi. Questa domanda fondamentale preoccupa gli uomini da migliaia di anni – si pensi alle prime rappresentazioni artistiche della fauna e della natura nella grotta di Lascaux – e ha dato origine a una profonda riflessione sulla propria esistenza e sul proprio destino. Solo negli ultimi 200 anni questo rapporto è stato razionalmente chiarito pezzo per pezzo dalle moderne scienze naturali – e quindi alla fine (forse?) disincantato. Sicuramente è una sottile ironia della storia che il camoscio bianco ucciso da Francesco Ferdinando nell’estate del 1913 possa ora essere ammirato nella “Haus der Natur” nell’ambito della mostra permanente “L’uomo e la natura nella favola e nel mito” presso Salisburgo. Lo Zlatorog e l’oro del monte Bogatin fanno parte di quella tradizione alpina, che continua ancora oggi – per buona pace della scienza – ad esistere e ad essere tramandata: a venatione felicitas2.

 

Per approfondimenti:

_1Márai S., Le braci, Adelphi, pp. 106-08.

_2Tradotto: Alla felicità della caccia.

 

 

 

 

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