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di Luca Steinmann del 04/10/2016

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Oggi volevo farvi partecipi di una riflessione destinata a tutti coloro che stanno per concludere gli studi o che abbiano da poco iniziato il precorso lavorativo.
Lo farò ponendomi due domande distinte:
_Come si può salvaguardare l’obiettivo che ci si è dati nella vita senza che questo venga inquinato da fattori esterni?
_Come si può difendere la propria persona e la purezza (perlomeno presunta) dei propri ideali senza che questi vengano contaminati?
Queste sono domande che ogni giovane professionista, ogni ragazzo che passa dal percorso di studio a quello lavorativo si pone (o dovrebbe farlo). Ognuno di noi in gioventù ha avuto dei sogni, degli ideali, delle passioni che avrebbe voluto diventassero il proprio lavoro, oppure che il proprio lavoro diventasse il mezzo per realizzarle.
In molto pochi ci riescono. O peggio. In molto pochi, arrivati in quella fase della vita in cui si può tentare di determinare il proprio destino, provano a farlo.
La maggior parte getta la spugna senza neanche rendersene conto. Michel Houllebecq spiega magistralmente questa resa nel primo capitolo di ‘Sottomissione’, libro che come pochi riesce a mettere a nudo le contraddizioni a cui il tipo umano contemporaneo va incontro.
[caption id="attachment_6235" align="aligncenter" width="1000"] L'attimo fuggente è un film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams[/caption]
La laurea, secondo Houllebecq, segna per questo tipo umano il momento in cui una parte della propria vita, generalmente quella migliore, si conclude, e con essa anche la lotta per raggiungere i propri sogni.
Questi lasciano spazio alla brama di denaro per alcuni, altri rimangono invece ipnotizzati dal desiderio di mettersi alla prova, di ritagliarsi una posizione invidiabile e sicura in un mondo che si augurano essere competitivo. Così, senza accorgersene, la laurea e l’affermazione professionale conducono alla perdita di qualcosa di inestimabile: la libertà.
Che cos’è la libertà? Secondo Nietsche essere liberi non significa fare tutto ciò che si vuole senza avere confini, ma amare ciò che si fa. Essere liberi è dunque un impegno costante, una lotta quotidiana per rendere ciò che si ama la propria vita, pr trasformare le proprie passioni nel proprio mestiere. Chi rinuncia a ciò rinuncia ad essere libero. Chi rinuncia a sogni, passioni e ideali per una professione fine a se stessa potrà anche diventare ricco, ma rimarrà schiavo. In tanti rinunciano. Quasi nessuno, però, riconosce il proprio stato di schiavitù. E’ difficile e doloroso ammettere di avere abbandonato ciò che più si è amato, mettendo dunque in dubbio le scelte fatte e in gioco l’intero senso della propria esistenza. Per questo molti iniziano a trovare giustificazioni, a cercare scuse per la propria percepita mancanza di libertà.
Scuse che queste persone spesso trovano nella moneta con cui è stata pagata la rinuncia ad essere liberi: nei soldi e negli agi ad essi connessi. Così chi solo poco tempo prima sognava di cambiare il mondo quasi improvvisamente si trova a passare le proprie (poche) giornate libere entrando in negozi e spendendo cifre sproporzionate per prodotti inutili e costosi che spera (invano) possano colmare il proprio vuoto; senza rendersene conto si inizia a frequentare locali, a consumare cene e a trascorrere serate di lusso insieme soltanto ai “propri pari”, cioè a persone che abbiano fatto gli stessi tipi di scelte e abbiano il portafogli altrettanto gonfio, persone a cui solo fino a poco tempo prima non si avrebbe avuto nulla da dire, con cui adesso ci si trova a condividere lo sperpero della propria incompletezza.
[caption id="attachment_15050" align="aligncenter" width="1000"] Jean Béraud - Au Bistro (1891)[/caption]
In poco tempo ci si trova ad essere persone che non si voleva essere e che prima si disprezzava. Se non si vive come si pensa si inizia a pensare come si vive. E si diventa quel tipo umano di cui scrive Hoillebecq che mai si sarebbe voluti diventare. La rinuncia alla propria libertà è una scelta di comodo e di agio. E’ una fuga. Che in quanto tale non potrà durare per sempre, andrà invece a scontrarsi contro ciò da cui si fugge: insoddisfazione, tristezza, solitudine, incompletezza, nichilismo e assenza di un dovere superiore sono i principali motivi per cui le persone tra i 30 e i 55 anni si rivolgono agli psicologi o per cui queste intraprendono viaggi verso Oriente alla ricerca di un’esperienza interiore che colmi la propria insoddisfazione. “In Europa sento la mancanza di qualcosa che sono venuto a cercare qui” dicevano a Tiziano Terzani i pellegrini sulla via per il Tibet. Questa ricerca dell’indefinito non è altro che il tentativo di rimediare alla libertà perduta. Il cui ricordo e desiderio rimangono però per sempre dentro ognuno di noi. Se è vero che la natura dell’essere umano è una ed eterna – e il fallimento degli esperimenti totalitari volti alla creazione di nuovi tipi di uomini sembra confermarlo – allora rimarrà per sempre dentro di noi il desiderio per ciò che un tempo abbiamo amato, che abbiamo sognato e in cui abbiamo creduto. Non riusciremo mai a dimenticare ciò che un tempo ci faceva sentire liberi, ciò a cui le convenzioni sociali, l’affermazione professionale e il desiderio di ricchezza e sicurezza economica ci hanno spinto ad abbandonare. La letteratura è ricca di narrazioni che raccontano questo Streben: Gabriel Garcia Màrquez in ‘Cent’anni di solitudine’ descrive l’immutabilità della natura umana (venendo poi ripreso da Fabrizio d Andrè che gli dedicò la canzone di ‘Sally’); James Joyce nell’ultima storia dei racconti di ‘Gente di Dublino’ mostra come ciò che si ha amato e che ci ha dato la libertà rimanga sempre nascosto dentro di noi, per poi emergere con forza quando meno ce lo si aspetta e mettendo in crisi tutte le piccole sicurezze costruite per non doversi guardare dentro; Ezra Pound riprende Joyce scrivendo: "Ciò che ami davvero non ti verrà strappato. Quel che ami davvero è la tua eredità”.
Tentare di fare di ciò che si ama il proprio mestiere è molto difficile, ma è anche ciò che può evitare la solitudine della schiavitù. La vita professionale, ciò che da piccoli veniva chiamato “il mondo dei grandi” è piena di ostacoli, di influenze esterne, di pressioni che rendono complicato difendere la fedeltà a ciò che si ama. A questo si aggiungono le nostre debolezze, i nostri limiti e i nostri errori. Eppure riconoscere e determinate il proprio destino è possibile. Come? Per esempio avendo un grande ideale o l’esempio di una persona, magari un nonno o un maestro, i cui comportamenti siano un modello che funga da stella polare nella velocità e nel disordine della vita contemporanea. Nonostante si viva in un mondo in cui l’individualismo è sfrenato, in cui viene insegnato che la competitività tra individui è il massimo valore, in cui i rapporti umani sono amichevoli finché non diventano concorrenziali, rimangono forti ed eterni quegli ideali di amore e di identificazione disinteressata nel bene comune, nella comunità, nella patria. Rimane l’esempio di quelle persone che hanno anteposto il proprio piccolo interesse personale a qualcosa di più grande. Non importa che fine abbiano fatto o di che morte siano caduti, non importa che epilogo abbiano avuto le società ispirate ai nostri ideali, ciò che importa non è per cosa si combatte ma come lo si fa. L’esempio di chi ha avuto il coraggio di rinunciare alle proprie piccole sicurezze per impegnarsi in qualcosa di più grande e di altruista rimane eterno. “Aiuta gli altri e aiuterai anche te stesso” diceva Confucio ai suoi discepoli. Certo non è facile. Per rinunciare a se stessi a favore degli altri ci vuole coraggio, lo stesso che manca a coloro che rinunciano a sogni passione e ideali una volta finiti gli studi. Per Ernst Jünger coraggio significa “professare fede in quel che si pensa”, quindi rimanere fedeli a passioni, sogni e a quanto si sente essere un dovere. Chi riesce a farlo abbraccia valori eterni e indistruttibili e diventa lui stesso un esempio da ricordare. Le sue scelte diventano eterne, non scompariranno con la sua morte fisica ma vivono in coloro che ne colgono l’esempio.
[caption id="attachment_6234" align="aligncenter" width="1000"] Scena tratta dal film "Il Club degli imperatori" diretto da Michael Hoffman del 2002.[/caption]
Essere coraggiosi significa rendere immortale il proprio esempio e scacciare le paure. Finché l’uomo è solo vive esclusivamente di paura. Proviamo paura perché sappiamo di andare incontro all’ignoto, alla certezza della morte. Ma quando troviamo il coraggio di sciogliere noi stessi nel nostro ideale, nelle nostre passioni e nei nostri sogni allora diventiamo un esempio di cui andar fieri. Un esempio che non invecchierà con il decadimento fisico, ma che colmerà il vuoto che sentiranno invece coloro che per paura hanno scelto di perdere ciò che amano. Nonostante sia difficile, nonostante possa portare alla povertà economica è sempre meglio scegliere di lottare per ciò che si ama. E anche se si verrà sconfitti, anche se si farà la fame, anche se verremo spogliati di tutte le ricchezze materiali avremo sempre con noi l’eredità di chi ci ha preceduto e dato l’esempio. Avremo sempre con noi ciò che amiamo e che abbiamo scelto di difendere. Chi avrà preso un’altra strada, quella della rinuncia, potrà invece solo nascondere la solitudine sotto costosi vestiti , grosse automobili ed eventi mondani. Terminati i quali tamponerà la propria solitudine tornando a spiare noi, che viviamo davvero. E comunque non è detto che verremo sconfitti. Lo scopriremo solo vivendo.
 
Per approfondimenti:
_http://www.laconfederazioneitaliana.it/?p=4448
 
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