04 Mag L’immigrazione palestinese. Una sfida per l’identità europea
[vc_row css_animation="" row_type="row" use_row_as_full_screen_section="no" type="full_width" angled_section="no" text_align="left" background_image_as_pattern="without_pattern" css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_separator type="normal" color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Luca Steinmann del 05/05/2017
[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1494066286622{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]E’ il caso della famiglia di Leena, ragazza di 20 anni palestinese nata e crescita nel campo profughi di Yarmouk, a Damasco, in Siria. Dopo che parte di Yarmouk è caduta sotto il controllo dell’Isis diventando conseguentemente obiettivo dei bombardamenti del regime siriano, la sua famiglia è fuggita in Libano. Suo fratello, poi, ha deciso di non fermarsi e di continuare il proprio viaggio fino in Germania, dove oggi vive in un campo profughi di Berlino insieme a tanti suoi connazionali. La storia della famiglia di Leena è la stessa di quella di milioni di altri siriani-palestinesi. Oggi il Libano ospita circa un milione di profughi provenienti dalla Siria, oltre al milione di palestinesi già precedentemente presenti sul territorio e a un terzo milione di esuli provenienti prevalentemente da Iraq (400mila), Eritrea e Somalia (200mila), Bangladesh, Afghanistan e Filippine.
Molti dei palestinesi in fuga dalla Siria non si fermano in Libano, ma continuano il viaggio verso l’Europa. Il motivo? Innanzitutto le conflittualità in corso all’interno di alcuni loro campi profughi. Ma anche le difficili condizioni di segregazione e abbandono che questo popolo vive nel Paese dei Cedri ormai da decenni. A raccontalo è Samaa Abu Sharar, giornalista e ricercatrice palestinese-libanese di base a Beirut e animatrice della fondazione Majed Abu Sharar.
“I palestinesi del Libano sono apolidi” spiega “non hanno nazionalità ma solo un documento che attesta che sono dei rifugiati”. Lo Stato del Libano, però, non ha mai voluto concedere la nazionalità a queste persone a causa soprattutto della conflittualità interna al mondo musulmano. La concessione della cittadinanza ai palestinesi, popolazione prevalentemente sunnita, genererebbe infatti uno squilibrio demografico all’interno di un Paese fragilmente diviso tra sciiti e sunniti e in cui gli equilibri tra le parti sono molto precari. Non essendo titolari della nazionalità libanese ai palestinesi è preclusa ogni forma di partecipazione politica, di impiego, di istruzione e di sanità pubblica. Le scuole, gli ospedali e ogni forma di welfare all’interno dei campi sono garantiti dalle Nazioni Unite, che non sono però mai riuscite a promuovere una vera forma di integrazione della comunità palestinese nella società libanese.
Ai giovani sono vietate le professioni specializzate e intellettuali, per esempio quella giornalistica. E’ per questo che spinge la gran parte di loro a vivere nell’eterna opzione migratoria. “I giovani palestinesi non hanno generalmente un’idea precisa dell’Europa” continua Samaa Abu Sharar “l’emigrazione rappresenta per loro soprattutto un mezzo per ottenere condizioni migliori di quelle che hanno in Libano, dove altrimenti resterebbero”.
E’ proprio per garantire loro condizioni migliori che Samaa organizza corsi di giornalismo all’interno dei campi profughi palestinesi. “Il nostro obiettivo è quello di dare ai giovani una formazione nel campo mediatico che altrimenti non avrebbero perché possano informarsi e scrivere autonomamente e diventare padroni del proprio destino”. L’obiettivo della sua fondazione, infatti, non è quello di incentivare i palestinesi alla fuga verso l’Europa, ma di fornire loro gli strumenti perché possano avere successo anche sul territorio in cui sono nati. Un messaggio, questo, di grande attualità per tutta l’Europa. I massicci flussi migratori, infatti, stanno incidendo profondamente sulle società in cui sono diretti e causando forti squilibri politici. Che, col tempo, potrebbero aumentare. E’ cosa poco nota, per esempio, che tra le centinaia di migliaia di siriani entrai in Germania negli ultimi anni ci sono anche tantissimi palestinesi, registrati dalle autorità tedesche come siriani proprio perché molti di loro sono effettivamente nati e cresciuti in Siria. Una presenza palestinese così massiccia in Germania potrebbe influenzare profondamente tutta l’Europa. La Germania è infatti il Paese leader nel processo di formazione di un’identità europea condivisa. Tale Paese è, per ovvi motivi storici, molto vicino alla sensibilità ebraica e fonda la propria identità nazionale anche e soprattutto sui rapporti con lo Stato d’Israele.
La presa di coscienza dell’ingresso in terra tedesca di così tanti palestinesi, persone visceralmente avverse a Israele, potrebbe portare a un profondo dibattito e a forti accuse di chi ha permesso l’affermazione di questa presenza, cioè Angela Merkel e il suo governo. E con loro anche tutto il processo di integrazione europea. La mancata risoluzione del conflitto arabo-israeliano e la destabilizzazione del Medio Oriente sono dunque questioni che riguardano direttamente tutta l’Europa, perché sono uno dei più forti motori dei flussi migratori.