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Jean de la Varende e la letteratura di quel “piccolo mondo antico”

Jean de la Varende e la letteratura di quel “piccolo mondo antico”di Giuseppe Baiocchi del 16-06-2022

Jean Mallard de La Varende Agis de Saint-Denis (1887 – 1956) nacque nella Malouinières Bonneville presso il comune di Chamblac del dipartimento dell’Eure. Vi abitava costantemente e qui scriveva e coltivava le sue terre. I La Varende – gente leale, energica, di alta, antichissima nobiltà – furono, per secoli, marinai, soldati, prelati.
Regionalisti soprattutto – come tutti i loro pari normanni – ma sempre partecipi alla complessa storia di Francia: cattolici e monarchici se pur non sempre docili sudditi, anch’essi, forse, si mescolarono nelle fazioni variegate: ora condottieri, ora seguaci di bande armate. In ultimo, durante e dopo la rivoluzione, versarono il loro sangue scioano (degli Chouan in lingua bretone) per il folle sogno di rimettere in trono un re fantasma. Insomma gentiluomini campagnoli – hobereaux –, fieri dei loro avi, continuatori delle loro gesta, attaccati con fede incrollabile (fin sotto Luigi Filippo che disprezzarono) alla tradizione ed alla terra. Jean de La Verande, l’ultimo discendente di questa razza, è l’animatore prodigioso d’un mondo scomparso o che va scomparendo.

Jean Mallard de La Varende è figlio di Gaston Mallard de La Varende (1849 – 87), ufficiale di marina, e di sua moglie di origine bretone, Laure Fleuriot de Langle (1853 – 1940). Nacque il 24 maggio 1887 a Chamblac (Eure), presso il castello di Bonneville, proprietà di famiglia. Non conoscerà suo padre, che muore lo stesso anno, il 27 luglio.

La vita d’una volta e di ieri, rurale e guerriera – e ciò che resta, insopprimibile, dell’autentico temperamento normanno – riappaiono, potentemente evocati, nelle sue novelle e nei suoi romanzi. Jean de La Verande, dal cui fondo par che riemergano, sobbollendo, antichi fermenti atavici, è scrittore realistico e magico, rude e delicato, austero e passionale, acuto indagatore di stati d’animo, a volte mistico. Da tutto ciò una prosa saporosa, pittoresca, singolare, inimitabile. Quanto alla sua biografia disse allo scrittore cattolico Domenico Giuliotti (1877 – 1956): «Fin dall’infanzia scrivo, dipingo, costruisco modellini di navi. A 10 anni, nei giorni piovosi, mi è stata affidata la classe per raccontare storie: ho solo ampliato il mio pubblico. Per le navi sono figlio di un marinaio, nipote di un ammiraglio, e quando mio padre morì, mio nonno si è preso cura di me: è stato sotto la sua guida divertita che ho iniziato questa collezione che è uscita dalle mie mani e che oggi ingombra cinque stanze di casa mia, diorami e modellini navali in 160 vetrine, le cui varie mostre avevano cominciato a farmi conoscere. Scrivevo romanzi, racconti, per me stesso, per non far morire tutto ciò che sapevo e conoscevo. Presto arrivai a pubblicare i miei scritti e qualcuno si innamorò di queste storie modeste facendo arrivare gli editori. La mia prima collezione, Pays d’Ouche, ricevette l’elogio per l’opera “I Vichinghi” e, curiosamente, la leggenda narra che noi stessi siamo discendenti dei Vichinghi: ma, rimane forse una leggenda. Il mio secondo libro, Nez-De-Cuir, fu molto vicino a vincere premio Goncourt1; certo contava il valore di Plisnier, ma forse c’erano intorno a questo premio, quell’anno, influenze non del tutto letterarie. Il terzo, “Il Centauro di Dio” ha vinto il Grand Prix de l’Académie Francaise2. Da allora, sembra che il favore del pubblico sia arrivato a me. I miei libri sono ricevuti con molta indulgenza. Infastidisco alcuni critici; mi attaccano duramente, ma forse sono più alfabetizzati che umani, e anche politici. Il Centauro di Dio giunge alla 6a edizione, il mio ultimo libro, pubblicato 5 mesi fa, dove cerco di mettere in evidenza i manutentori della terra e della tradizione che tanto hanno fatto, in tutto il nostro paese, per la bellezza e la forza della nazione, e che il movimento democratico ha voluto far sparire mentre cercava di deriderli, riducendo la loro azione»3.
Il 12 dicembre 1919, sposò Jeanne Kullmann, e a coppia vive presso la magione di Bonneville. Da questa unione nacque un figlio, Éric de La Varende (1922 – 79). Dal 1920 al 1932 fu docente presso l’École des Roches, a Verneuil-sur-Avre, in Eure. In casa mantiene il suo dominio, i suoi giardini, scrive il suo primo libro, da lui pubblicato nel 1927, L’Initiation artistique, testo di una sua conferenza. Scrive anche alcuni racconti e realizza, nel tempo libero, un centinaio di modelli di navi di tutte le epoche.
Gli inizi di La Varende in letteratura furono difficili. Ha subito molti rifiuti da parte degli editori parigini, per i suoi contenuti “politicamente scorretti”, ma ha pubblicato alcuni racconti al Mercure de France, l’antico giornale che ebbe direttore un certo François-Auguste-René, visconte di Chateaubriand. È l’edititrice Henriette Maugard, di Rouen, che garantirà la sua notorietà pubblicando una serie di racconti, Pays d’Ouche (1934), preceduti dal duca di Broglie.
Lo stesso editore pubblicò nel 1936 il suo Nez-de-Cuir, gentilhomme d’amore. È il frutto di una lunga ricerca iniziata negli archivi di famiglia, quando scopre le lettere del prozio Achille Périer, conte di La Genevraye (1787 – 1853), gravemente ferito nel 1814 nella battaglia di Reims, il quale indossava una maschera che gli varrà il soprannome di “Naso di cuoio”. La Varende interrogò gli anziani e iniziò a scrivere il suo romanzo nel 1930 per farlo pubblicare nel 1936. Le edizioni Plon ripubblicarono questo primo romanzo l’anno successivo: fu un successo. Quell’anno ha ottenuto tre voti al Prix Goncourt. Le pubblicazioni si susseguiranno quindi, al Plon o al Grasset.
I suoi successi letterari hanno un unico scopo, ovvero quello di rinsaldare l’antica magione di famiglia, il castello di Bonneville, a Chamblac : l’edificio è costruito in mattoni rosso-arancio, su un vecchio basamento in pietra calcarea. La residenza si presenta come una facciata composta da un piano terra, un primo piano ed un sottotetto; accostata agli angoli nord e sud da torrette quadrate con copertura a sesto acuto, e aperta da grandi finestre settecentesche con piccoli vetri all’inglesine. Su questa facciata, un balcone unico decora il piano nobile. Sul retro, due ali senza carattere gli conferiscono una pianta a U, impreziosita, nel cortile, da una torretta con tetto a mansarda, e da una solida veranda in mattoni. Tutto è ricoperto di ardesie blu, che hanno portato lo scrittore a scrivere le seguenti righe: “Le Chamblac è rosa e blu, con ferri neri. Non si può fare altro per lui. Vedendolo, penso a una signora che esce dal salone di bellezza: «Niente più speranze, signora, abbiamo tutto, ed è tutto completo»5.

Il castello di Bonneville si trova nella città di Chamblac, nel dipartimento dell’Eure. Fu la residenza dello scrittore Jean de La Varende dal 1919 al 1959. È classificato come monumento storico dal 9 maggio 1978.

I suoi libri sono acclamati dalla critica, specialmente nei circoli di destra, come Samuel William Théodore Monod (Maximilien Vox 1894 – 1974), e dai circoli di estrema destra come Thierry Maulnier (1909 – 88) e Robert Brasillach (1909 – 45). Nel 1936 entra a far parte della Société des gens de lettres e vince il premio Vikings per la sua raccolta Pays d’Ouche pubblicata due anni prima.
In pochi anni i romanzi si susseguono, dove colloca, sotto falsi nomi, i suoi personaggi spesso tratti da storie di famiglia ma che si ritrovano in molti dei suoi scritti. La famiglia di La Bare e quella di Tainchebraye, la famiglia di Anville e quella di Galart; tanti nomi che il lettore conosce vivendo accanto a loro, in terra normanna, o in soggiorno, come li concepiva La Varende.
Lo scoppio della guerra vede la sua unica grande tragedia della sua vita: la morte della moglie, vittima di un bombardamento della Lutwaffe tedesca durante la guerra lampo.
Durante l’occupazione nazista si concentra sulla scrittura e pubblica i suoi racconti sulle riviste dell’epoca: sfortunatamente per il suo lavoro, la maggior parte di queste riviste è conquistata da tesi collaborazioniste. È quindi erroneamente associato a questa tendenza, perché fu sempre molto critico nei confronti della democrazia, essendo egli di fede istituzionale monarchica. I suoi scritti sono solo racconti letterari, con intrighi fuori dal suo tempo. Fedele alle sue convinzioni, ha rifiutato di mettere la sua penna al servizio del regime di Vichy o dell’ideologia dei giornali collaborazionisti.
Una delle sue opere maggiori possiamo inquadrarla nel Centauro di Dio. Questo romanzo appartiene al primo ciclo de La Varende, “Tainchebraye-La Bare”, che comprende i tre romanzi: Nez-de-Cuir, gentilhomme d’amore (1937), Man’ d’Arc (1939) e Le Centaure de Dieu (1938). Questo romanzo quando si legge, crea nel lettore un duplice ideale: quello del nobile campagnolo e quello del Santo Sacerdote, dell’apostolo. Il primo, preoccupato sopra ogni altra cosa di durare e di restar fedele a se stesso; il secondo, avido di darsi e di perdersi per salvare gli altri. L’uno, volto alla terra, uomo del tempo e della storia, forte della sicurezza delle tradizioni avite; l’altro, sdegnoso dei beni misurabili, non offuscato dagli innovamenti, sicuro com’è dell’eternità che nulla altera. Personaggi che seducono, affascinano – simbolo da parte dell’autore della più profonda ammirazione. Nel romanzo è instillato quel culto del passato, che traspare in tutti gli altri libri del Varande, il quale non scrive per rivendicare una certa forza e ragione nella nobiltà, occultata oggi dal silenzio più profondo e quindi assordante, ma per una sua personale inquietudine verso i suoi personaggi tristi e magnifici, come narrato nel suo Nez-de-Cuir (Naso di cuoio, celebrato nella cinematografia da Yves Allégret nel 1952).
Così il Centauro di Dio resterà ai posteri con la sua duplice testimonianza verso la gloria degli avi scomparsi e della parallela angoscia della coscienza dei figli. L’ideale dell’aristocrazia di campagna e quella dell’apostolo, inteso come sacrificio e liberazione: il sacrificio di Gastone, che la decaduta grandezza della famiglia protagonista dei La Bare fa finta di non avvertire, si accosta alla stima verso Manfredo, cadetto fuori dal comune in cui – per riprendere Gustav Mahler – la tradizione è trasmettere il fuoco e non adorare le ceneri. Una cosa è certa: il passato si dimostra sempre solidissimo poiché il presente non è adatto a sostituire i solidi valori d’un tempo. Aspirazioni divergenti che rendono questa fatica letteraria un riflesso storico con il presente di difficile comprensione. Del resto, il suo rispetto per l’arte gli interdiceva forse di assumere una posizione troppo netta fra gli opposti, col rischio di consegnarci un libro a mo di tesi.
Nei fatti che ci narra, come nelle umili realtà quotidiane in cui penetriamo, dissimulate, all’interno dell’azione e della lotta naturale e salvifica, troviamo la luce sufficiente per rischiarare e abbastanza ombra per accecare quelli che vorranno non vedere lo scoglio del problema non di una generazione, ma di un’intera società. La stessa che con l’idealismo cartesiano e successive rivoluzioni politiche – come quella francese – hanno rovesciato il thelos (il fine) di una esistenza valoriale basata sull’organicità del mondo e sull’esistenza del Dio cristiano, messo da parte o addirittura ucciso nell’epoca del relativismo e della velocità del capitale. Per questo l’abate di La Bare diventerà – come l’autore stesso àncora di salvezza per alcuni e pietra di scandalo per altri. E come avvenne nel paese normanno quando giunse la notizia della sua morte, egli non avrà l’unanimità dei suffragi nel mondo dei lettori: “un santo” penseranno gli uni; “un rinnegato”, diranno gli altri. Il lettore verrà giudicato dalla sua stessa “sentenza”. Il Centauro di Dio esige dal lettore questo esame di coscienza, li costringe a questa libera scelta. Ecco, senza dubbio alcuno, una ragione, fra molte altre, di stimarlo con un grande libro.
Questo tradizionalista cattolico dalla fede tormentata – accettò di assistere alle funzioni nella chiesa di Notre-Dame de Chamblac, dopo 29 anni di assenza (causatogli dal Novus Ordo Missae del Concilio Vaticano II), grazie alla nomina di un sacerdote tradizionalista, Quintin Montgomery Wright (1914 – 96) il quale celebrava solo secondo il Messale di San Pio V – era un devoto simpatizzante dell’Action française di Charles Maurras (1868 – 52) e negli anni Cinquanta è stato redattore della rivista monarchica Aspects de France, continuazione di Action française.
Questa posizione politica molto tradizionalista lo avvicina ad altri autori che furono rapidamente dimenticati dopo la loro morte, come Henry Bordeaux (1870 – 1963), Paul Charles Joseph Bourget (1852 – 1935) o Michel de Grosourdy de Saint-Pierre (1916 – 87), ma letti durante la loro vita. Tuttavia, le sue opere, ristampate in parte grazie all’associazione Présence de La Varende, hanno avuto una certa eco in un certo ambiente cattolico e monarchico.

Una delle prime pubblicazioni del romanzo sulle chouannerie: Man’d’Arc – Rombaldi Editore del 1944.

Dal 1961 si sono succedute due associazioni legate a La Varende: dal 1961 al 1989: “Amici di La Varende” e dal 1992: “Presence de La Varende” che, come il suo predecessore, pubblica ogni anno materiale inedito, oltre ad articoli dedicati all’uomo e al suo lavoro.
Tra i duecento racconti pubblicati, la regione normanna (in particolare il paese di Ouche ) e il mare, costituiscono le strutture principali dei suoi intrighi. A questi, naturalmente, si aggiungono racconti e romanzi, le cui edizioni numerate sono oggi ricercate. L’attrazione del mare, la sua passione per la navigazione, ma anche, per la Bretagna e per la Spagna, la messa in scena di preti di campagna, di contadini o anche aristocratici e la nostalgia per l’Ancien Régime, costituiscono l’essenziale filo conduttore del suo lavoro. La sua opera, sia sentimentale che romantica, è molto legata alla terra, nel senso di patria. Cerca di magnificare la purezza pur sapendo come descrivere l’uomo con le sue ansie, mancanze ed errori. Le storie sono spesso basate su una sorta di trasmissione ideale delle tradizioni rurali del passato, sia nei casolari vernacolari che nei castelli: per lui tutto è legato da un doppio filo. I signori e i loro discendenti sono “contadini del re”, mentre i contadini e gli uomini del villaggio sono parte della famiglia dei castellani. In tutto ciò il castello è una residenza utile, “un organismo necessario alla ruralità, anzi, alla società”.
Il suo lavoro è da mettere in linea con quelli dei suoi maestri letterari, in particolare jules-Amédée Barbey d’Aurevilly (1808 – 89) e Gustave Flaubert (1821 – 80), anch’essi Normanni. A loro dedicò saggi (uno per Barbey, due per Flaubert).
La ricerca della parola giusta, compresi i “normandismi”, la frase appropriata, giri di parole a volte piacevolmente arcaici, l’immagine utile: tutto, nel linguaggio di La Varende, è fatto, si direbbe, in modo che il lettore prenda piacere nella narrazione più che nello stile del testo. L’opera di questo autore appartiene a una corrente del XIX secolo, dove si incontravano gli amanti della Francia e delle sue ex province. Il periodo tra le due guerre, nelle sue crisi sociali e politiche, ha messo in luce le correnti regionaliste risvegliate da Frédéric Mistral (1830 – 1914) e dal già citato d’Aurevilly.
Scrittori come La Varende, Alphonse Van Bredenbeck de Châteaubriant (1877 – 1951), Joseph de Pesquidoux (1869 – 1946) hanno sentito arrivare la fine di un mondo rurale che si sono affrettati a descrivere. Questi scritti nascondono poi una parte di romanticismo misto a un naturalismo da scudiero. La Varende sottolinea il dramma vissuto dai suoi personaggi, afflitti dall’onore che hanno ereditato dai loro antenati, l’onore del castello che deve essere mantenuto, l’onore della terra, che deve essere amata.
Tra i demoni di La Varende c’è la Rivoluzione francese. Non a caso, non ne parla quasi mai, anche se è presente ovunque, nel senso che, con lui come nella storia di Francia, c’è un “prima” e un “dopo”. Lo scrittore salta questo periodo che detesta: «Il 13 luglio conta per me perché è l’atto di Charlotte [Corday], come il 15 luglio perché è la nascita di Rembrandt. Riesco a ingoiare il 14 tra questi due giorni»6. In alternativa racconta i grandi personaggi del 17°secolo: Anna d’Austria, Suffren, Saint Vincent de Paul, e molti altri, o trabocca nel secolo successivo, ma con parsimonia, o soprattutto fa rivivere un XIX secolo dove i suoi personaggi sono nobili al servizio del re, o alla sua causa. In Man’d’Arc la giovane Manon – una “Giovanna d’Arco” degli Chouan al servizio della causa della coraggiosa duchessa di Berry (1798 – 1870)7 –, accompagna i suoi due nobili padroni che sono “veri uomini” ma è lei, la contadina, che ha più affinità con la principessa. Questo romanzo già citato e precedente al Centauro di Dio rivela ancora una volta l’affinità tra il contadino e il nobile e la lontananza verso l’altro ceto sociale, quello di estrazione borghese, fautore – appunto – della rivoluzione. Sul tema vandeano, oltre questo romanzo sulle Chouannerie normanne, ha scritto due monografie, una sul generale bretone Georges Cadoudal (1952) e Mes contes de Chouannerie pubblicato postumo nel 2018.

Jean de La Varende con i suoi modellini navali.

Pertanto, la scrittura di La Varende serve ideali chiari che sono: il re, la vera nobiltà, il mondo contadino, la religione cattolica. Fa sì che i suoi personaggi cerchino onore, coraggio, avventura, rispetto. Il suo mondo è allo stesso tempo rinchiuso nelle sue tradizioni ancestrali, una certa etichetta “hobereaute”, eppure alcune figure sono ritratte con un personaggio che vuole rompere con le abitudini delle cronache delle castellane, sprofondando nel dramma oltre che nell’umorismo di leggera derivazione britannica.
La Varende è, per questo, uno di quegli autori francesi che l’epoca contemporanea ha volutamente lasciato da parte facendolo cadere nell’oblio. Sebbene regolarmente ripubblicato, in particolare dalle edizioni Grasset e Flammarion, il suo lavoro è assente dalle antologie letterarie. L’attaccamento di La Varende alla sua provincia ancestrale, la Normandia, lo colloca tra gli scrittori regionalisti. Certamente è vero che i normanni dell’Ottocento, dall’archeologo Arcisse de Caumont (1801 – 73) e dal suo amico studioso Auguste Le Prévost (1787 – 1859), hanno fatto della Normandia una terra regionalista, dal punto di vista letterario, e infatti nel regionalismo, che considera l’ex provincia un’entità sopravvissuta agli sconvolgimenti rivoluzionari, c’è un innegabile attaccamento alla storia regionale, ma l’oblio dell’autore ha carattere ideologico poiché va contro il nuovo sistema di vedere il mondo che “non è il migliore possibile, ma l’unico possibile.
Appassionato di mare, non avendo mai potuto imbarcarsi a causa delle fragili condizioni di salute, Jean de La Varende ha prodotto un’impressionante collezione di modellini di barche e navi, composta da oltre 2.000 modelli. Parte di questa collezione è tuttora conservata al castello di Chamblac. Era anche un membro corrispondente dell’Académie de Marine e nel dicembre 1933, Jean de La Varende fu nominato Cavaliere al Merito Marittimo come pittore e archeologo navale.
La Varende ci ricorda la bellezza e la nobiltà di quel piccolo mondo antico, ed oggi dovremo mostrarci un po’ più messianici e ricordare da dove veniamo e soprattutto chi siamo, poiché altrimenti un popolo che non conosce se stesso non sa più ri-conoscersi e tutto questo patrimonio patriarcale sarà presto dissolto, fuso in una sorta di massa “culturale” informe che ci servirà vagamente da “guida storica” in cui riposeranno le nostre coscienze infantilizzate, stupefatte e, ahimè, sempre più ignoranti.

1Il Prix Goncourt è un premio per la letteratura francese, assegnato dall’Académie Goncourt all’autore della “migliore e più fantasiosa opera in prosa dell’anno”. Il premio prevede una ricompensa simbolica di soli 10 euro, ma si traduce in un notevole riconoscimento e vendita di libri per l’autore vincitore;
2Il Grand Prix du Roman è un premio letterario francese, creato nel 1914, e assegnato ogni anno dall’Académie française. Insieme al Prix Goncourt, il premio è uno dei più antichi e prestigiosi premi letterari in Francia;
3Jean de La Varende, Il Centauro di Dio, Istituto di Propaganda Libraria, 1945, post-fazione di Domenico Giuliotti;
4Alla morte di La Varende nel 1959, il castello passò al figlio Éric Mallard de La Varende (1922 – 79), poi ad una delle sue figlie che sposò una Broglie. Il castello ora appartiene al principe Charles-Edouard de Broglie, sindaco di Chamblac, e a sua moglie, la principessa Laure (nata Laure Mallard de La Varende);
5 Jean de La Varende , Castelli della Normandia. Itinerario sentimentale, Plon, Paris, 1958, p. 53.
6Jean de la Varende, Maison Vierge, 1942, p.6;
7Maria Carolina Ferdinanda Luisa di Borbone fu principessa delle Due Sicilie per nascita e duchessa di Berry per matrimonio.

 

Per approfondimenti:
_Pierre Coulomb, La Varende, éditions Dominique Wapler, Paris, 1951.
_ Anne Brassié, La Varende. Pour Dieu et le roi, Paris, Librairie académique Perrin, 1993;
_Michel Herbert, Bibliographie de l’œuvre de La Varende, Paris, aux dépens d’un amateur, 1964-1971, 3 vol.

 

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Fantomas, l’anti-borghese

Fantomas, l’anti-borghesedi Giuseppe Baiocchi del 02/03/2018

Personaggio dimenticato nei giorni nostri, è stato l’unico erede dei grandi mostri dell’ Ottocento: dei Frankenstein, dei dottor Jeckyll, dei Dracula.
Di chi sto parlando? Di Fantomas, creatura fisicamente e intellettualmente “regolare”, la quale rappresentava l’irruzione del Male nella spensierata società borghese della Belle Epoque. Il demolitore di ogni regola, il Grande Sovvertitore. Occorre tornare indietro ai deliri erotico-libertari del marchese de Sade, per trovare una simile esaltazione del male, e una fantasia tanto ricca nel praticarlo.

Le avventure del primo personaggio noir della storia hanno trovato ad oggi svariate trasposizioni letterarie, cinematografiche, illustrative e fumettistiche allietando orde di appassionati, ma fu creato in Francia tra il 1911 e il 1913, quando due giornalisti francesi Pierre Souvestre e Marcelle Allain si presentarono negli uffici dell’ editore Arthème Fayard, in rue Saint-Gothard a Parigi.
L’idea era quella di creare un personaggio “surreale” avventuroso-poliziesco-straordinario così fecondo nella Francia della Belle Epoque.
Erano i tempi di Xaviere de Montépin, Emile Gaboriau, Pierre Decourcelle, stavano uscendo i romanzi di cappa e spada di Michel Zévaco e Il fantasma dell’ Opéra di Gaston Leroux.
Dunque, Fantomas, dal francese appunto “Le Fantome” il fantasma.

Pierre Souvestre – Marcel Allain

La saga ebbe in Francia un successo incredibile, che va reso ancor più importante poiché la professionalità non era dei massimi livelli: era scritta, difatti, a ritmi forzati con trecento pagine al mese dettate alle dattilografe, senza rileggere, l’uno all’insaputa dell’altro, dopo aver deciso la trama ed essersi divisi i capitoli. Leggere queste migliaia di pagine significa entrare in un mondo parallelo e vivace: seguire lo spietato criminale Fantomas e i due uomini che gli danno la caccia: il poliziotto Juve e il giornalista Fandor in un territorio immenso, tra i moltissimi personaggi e ambienti disegnati.
Nella ambientazione si avverte una sorta di clima decadente, di quella nobiltà francese che verrà fagocitata dalla Prima guerra mondiale, la presenza dei famosi “apaches parigini” che fanno parte dei bassifondi della città, donne perdute e corrotti magistrati, corse di cavalli clandestine, circhi e investigatori americani con qualche episodio ambientato nella Russia zarista e nel Sud Africa coloniale. Fino ad arrivare, con qualche amore romantico in tinta rosso sangue, alla epica conclusione che nell’ultimo romanzo chiude il filo-logico della saga.
Fantomas ha capovolto la tradizionale moralità del romanzo popolare e poliziesco, che vuole il malvagio punito e la giustizia ristabilita: i suoi travestimenti, che strappano l’ applauso per la loro varietà e molteplicità, i suoi atroci delitti in ogni parte del mondo, con qualsiasi mezzo, i suoi amori hanno fatto inorridire e segretamente deliziato la buona società, solleticata nelle corde più profonde. Questo Genio del Male, ultima incarnazione dell’ eroe romantico, è provvisto di tutti i connotati del superuomo, in lotta per un ideale negativo.
Fa ribrezzo, ma suscita ammirazione e, soprattutto, paura!
Utilizzando gli strumenti della narrativa popolare con ritmi industriali si raccontò attraverso questo personaggio la crisi Europea di quegli anni e lo scivolamento repentino verso dissoluzione dei grandi imperi centrali e la carneficina della prima guerra mondiale con un leggero riflesso al nazifascismo.
Proprio in questo senso va inteso: Fantomas anticipa gli orrori che avrebbero spazzato via i modi di vivere della quotidianità, il suo pugnale insanguinato ha voluto rappresentare anche gli eccidi che iniziavano ad esserci in un mondo in radicale trasformazione. L’opinione pubblica fu scossa da Fantomas poiché questi fu accostato ad un classico dell’immagine tradizionale: l’uomo mascherato in abito da sera.
Mentre si cercava un’ illustrazione per la copertina del primo volume, venne fuori da una cartella dimenticata da un disegnatore (rimasto sconosciuto) uno schizzo di manifesto che doveva propagandare le Pillole Pink: raffigurava un uomo mascherato in abito da sera che campeggiava a gambe larghe sui tetti di Parigi lasciando sfuggire dalla mano destra una scia di pillole. Alle pillole fu sostituito un pugnale, e la figura di Fantomas, diffusa anche in manifesti stradali, prese subito il suo posto nell’inconscio collettivo diventando anche fonte d’ ispirazione per vari artisti, fra cui René Magritte, che sostituì al pugnale una rosa (il ritorno di Fiamma 1943).
Magritte accanto alla sua opera di lui disse:
Fantomas non è più il pretesto di una storia; la storia è al suo servizio. Le opere di Fantomas non possono essere distrutte nè subire modifiche (…) Fantomas esige più dagli altri che da se stesso. Egli non è mai visibile per intero: si può vedere il suo ritratto attraverso il suo volto. Quando è perseguitato dai ricordi, segue il suo braccio che lo trascina. Si muove come un automa, sposta i mobili o i muri che si frappongono sul suo cammino (…) La scienza di Fantomas è più preziosa
della parola. Non la si indovina e non si può dubitare della sua potenza
Magritte incontra per la prima volta Fantomas in un manifesto cinematografico nel 1913, dipingendone il volto nel 1927.
Quel ritratto può essere considerato l’alter ego di Magritte: un “eroe” trasversale in romanzi, pellicole cinematografiche e fumetti, che incarna la trasgressione di ogni regola borghese, “l’eroe” della città, della notte, onnipresente. E’ crudele e accorto, delinquente sfrenato e allo stesso tempo meticoloso. In lui convive ogni possibile contraddizione senza schizofrenie di alcuna sorta. Sfida il mistero della realtà con i suoi agguati e sembra vivere in una dimensione esistenziale in cui non c’è nessuna regola, se non quella di portare a termine nel miglior modo possibile il proprio gioco.
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In Fantomas, Magritte vede la possibilità di sfuttare una mitologia costituita da fatti, cronaca quotidiana e clamorose imprese. E, attraverso lo scardinamento del velo della tranquilla e borghese quotidianità, la possibilità di raggiungere una dimensione del mistero che non è più quella desolata delle piazze di De Chirico, ma che vive in ogni cosa intorno a noi.
Fantomas è il mistero e i suoi agguati non possono che ripetersi all’infinito: il mistero può infatti assumere qualsiasi forma ed è capace (come l’arte contemporanea) di riprodursi e riproporsi. Fantomas, inoltre, torna sempre sul luogo del delitto. Allo stesso modo Magritte ritorna sui suoi quadri, sui temi a lui più cari, senza per questo risultare mai ripetitivo, a differenza di molti altri artisti accusati di esserlo e di essere troppo spesso rifacitori di se stessi.
Fantomas, viaggia oltre il romanzo popolare, approdando nel mondo letterario e cinematografico. Cominciò nel giugno 1914 il periodico “Soirées de Paris” diretto da Guillaume Apollinaire, pubblicando una poesia dedicata a Fantomas da Blaise Cendrars, il quale dava all’ epopea del crimine di Souvestre e Allain la definizione di “Eneide dei tempi moderni“.
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La saga di Fantomas produsse ben cinque film: nel 1932 Paul Féjos realizzò il primo Fantomas parlato, poi vennero i Fantomas di Jean Sacha nel 1947, di Robert Vernay, nel 1948, di André Hunebelle, in chiave comica con Jean Marais, nel 1965.
Nel 1944, Robert Desnos di cui Radio-Paris nel 1933 trasmise, con la musica di Kurt Weill, il Lamento di Fantomas in ventisei strofe, fra i cantori figurò persino Pablo Neruda. E il sofisticatissimo André Malraux, nella Condizione umana (1933), impersonò Fantomas nel barone de Clappique, vestito con un anacronistico smoking. Mentre Jean Cocteau, in uno scritto sul Figaro littéraire in occasione del cinquantenario del Re del Male, scriveva: “Fantomas ci affascina da cima a fondo per la sua disobbedienza alle regole e per l’ istintivo coraggio con cui fa a meno dell’ intelligenza”.
In Italia, la Salani di Firenze ne tradusse i 32 Fantomas subito negli anni Dieci, per poi ristamparli negli anni Trenta, in edizioni integrali.
L’edizione italiana massacrerà il testo originale, dove avverrà il trionfo di un ipocrita perbenismo, tutto borghese dove avviene (puntuale) il rischio di non capire la successiva evoluzione del personaggio di Souvestre-Allain.
Questo capolavoro meritava più rispetto.
Il diabolico personaggio antiborghese fu tradotto in quaranta lingue, con tirature di milioni di copie In Francia, dove il gusto del romanzo popolare è tuttora sviluppatissimo. Le ristampe si sono susseguite e nel 1970 dove è avvenuta una riedizione completa nel prestigioso “Cercle du livre précieux“.
 Nel 1987 la collezione “Bouquins” ha presentato in tre volumi di quasi quattromila pagine una scelta di dodici Fantomas, dottamente curata dal migliore specialista del genere, Francis Lacassin. Il successo è stato tale, che si è dovuta mettere in cantiere l’ intera serie.
 CAPITOLO I: IL GENIO DEL DELITTO – Fantomas!
– Come dite?
– Fantomas!
– Che significa?
– Niente…e tutto!
– Ma pure, chi è?
– Nessuno…e tuttavia qualcuno!
– Insomma, che fa questo qualcuno?
– Fa paura!!!
Fantomas, l’anti-borghese.
 
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L’irrealtà reale del Barone Bagge

L’irrealtà reale del Barone Bagge , di Alexander Lernet-Holeniadi Giuseppe Baiocchi del 22/02/2018

Pubblicato da Adelphi, “il barone Bagge” fa parte del lascito del poco noto scrittore austriaco vissuto nel 900, il crepuscolare Lernet-Holenia. Quale l’elemento che balza agli occhi? Giovanissimo, si arruola volontario nel IX reggimento dragoni nel primo conflitto mondiale, l’abisso che sconvolse l’Europa e dal quale non si riprese mai più del tutto.
Lo scrittore austro-ungarico attinge a piene mani da questo bacino d’esperienza per poi costruire le sue trame narrative, i suoi racconti.
Edito nel 1936, il romanzo, che si esaurisce in una ottantina di pagine, ha una intensità di lettura sicuramente fuori dal comune, cattura il lettore per trascinarlo in modo potente nella sua trama.
1915: il IX battaglione dei Dragoni austriaci si trova in Russia con il compito di depotenziare l’esercito dello Zar, una delle potenze storiche che, con la Grande Guerra, avrebbe concluso la sua parabola storica.
Il Barone Bagge, giovane tenente e rampollo della nobiltà austriaca, partecipa a questa particolare missione ed è agli ordini del carismatico e folle capitano Semler, fin da subito un individuo che trasmette instabilità e incapacità tattico-gestionale, pari alla sua sfrenata ambizione.
Sul confine russo, la compagnia punta a Nord, nella pianura pannonica. L’obiettivo è risalire il confine russo (oggi Ucraina) fra crateri ormai spenti e pantani gelati. Scopo dell’operazione è quello di rilevare le posizioni russe, senza ingaggiare nessun combattimento ed attestarsi nella cittadina di Nagy-Mihaly. Giunti in prossimità di un ponte sul fiume Ondava, il capitano, preso dalla boria e disobbedendo agli ordini ricevuti, lancia alla carica i suoi centoventi uomini contro le postazioni russe.
Dopo un breve tratto la strada svoltava di nuovo a destra; ora si andava in linea retta verso est. Poco più in là ci sorse davanti un lungo terrapieno, basso e uniforme. Era l’argine interamente innevato dell’Ondava, che scorreva a livello più alto della pianura; e improvvisamente, a pochi metri da noi, vedemmo il ponte, con le rade case del paesello di Hor sparse sulla sinistra. In quel momento Semler ordinò il galoppo; lo squadrone, sciolto ogni freno, sfrecciò innanzi di colpo, e quasi nel medesimo istante ci raggiunsero frontalmente, echeggiando smorzate nella bufera, delle salve di fucileria. Udii il trombettiere dare il segnale di carica, e con gli uomini piegati sui colli degli animali, le lame delle lunghe, moderne sciabole inglesi tese in avanti, l’intera massa a cavallo si precipitò di gran carriera e in pochi attimi superò la sommità del terrapieno che conduceva al ponte. Vidi tre o quattro dragoni sparire dalle selle, come soffiati via o cancellati, e anche stramazzare alcuni cavalli. Tutt’intorno neve, pezzi di ghiaccio e ciottoli si sollevavano mulinando; due ciottoli mi colpirono. Uno, risonando squillante, mi batté sull’elmetto, vicino alla tempia, l’altro mi colpi alla sinistra del petto, vicino alla spalla. Meno male, pensai, che non sono scoppiettate! Già il ponte rumoreggiava sotto di noi, e vidi che l’avamposto russo di guardia giaceva a terra. Di fronte, a poche centinaia di passi, si scorgeva il paese di Vaserely, che fin allora ci era stato nascosto dall’argine e da cui sciamavano stormi di russi in fuga, che in parte andavano a fermarsi all’estremità del paese, in parte, dopo aver corso ancora un tratto, si gettavano a terra nei campi e aprivano il fuoco su di noi. Ma per loro era già troppo tardi. Passato il ponte di slancio ci spiegammo subito, a gruppi e a frotte disordinate, su una specie di fronte, travolgemmo coi cavalli gli avversari, di cui alcuni ci correvano ancora incontro mentre altri balzavan su e scappavano, e dopo aver divorato in circa mezzo minuto la distanza che ci separava dal paese, piombammo sulle prime case facendo strage di russi e ricacciando i rimanenti dentro il villaggio, dove gettarono le armi e si arresero”.
Vi è qui una prima conclusione del racconto, essendo il romanzo suddivisibile in due parti antitetiche e speculari, come nella nostra esistenza lo sono la vita e la morte.
Questo squadrone lanciato all’attacco suicida attraversando il ponte sull’Ondava riceve il fuoco dell’artiglieria russa. Arrivati a questo punto il racconto conosce una pausa ritmica che non attiene solo alla narrazione, ma che coinvolge lo stesso spazio e tempo, elementi che troveranno uno scopo, sempre labile, solamente nel finale.
Imperante è la compenetrazione tra le due dimensioni, sì che non è possibile scinderle. Sogno e realtà acquisiscono la stessa consistenza, sono specchio di se stesse.
Questo evento si correla in maniera strettissima alla natura umana, espressa in termini di ambiguità, come il binomio vita-morte, che per l’autore sono concetti relativi. La stravaganza narrativa è paradossale e semplicissima poiché tocca la psiche umana in riferimento al concepire soggettivamente la propria e l’altrui vita: siamo abituati a chiamare morte ciò che per altri è vita, e siamo soliti chiamare sogno ciò che per altri è realtà.
Proseguendo con il racconto, Bagge si riprende dalla caduta da cavallo, data dall’uccisione del suo animale e scopre che in apparenza il reggimento russo è distrutto e disperso, e la carica ha avuto successo, ma l’impressione che “qualcosa non vada” si sente nell’aria. In primo luogo nei compagni che lo circondano, taciturni, glabri, spenti di quell’ardore cavalleresco che li contraddistingueva.
Altro elemento è la ricerca, quasi spasmodica, del capitano Semler, intenzionato ad andare oltre il ponte e continuare la ricerca, senza avere più veri ordini. Riprendo dal testo questa bellissima sfumatura:
Da quel momento continuammo a cavalcare per altri tre giorni e per alcune ore del quarto giorno. (…) Lo strato di nubi che teneva nascosto il cielo e occultava la vista delle montagne poco più in alto del fondovalle, s’incupiva sempre maggiormente, e si mutò alla fine in una specie di nebbia nerastra nella quale, più che marciare, andavamo tastoni”.
Dunque, con una buona dose surrealista, il viaggio prosegue spedito verso la cittadina russa di Nagy-Mihaly che viene raggiunta senza incontrare né il nemico né nessuna opposizione.
La piccola cittadina, oggi facente parte della attuale Slovacchia, si presenta stracolma di persone in festa dando un’accoglienza calorosa al battaglione che entra trionfante. L’unico ad avere perplessità è sempre il nostro protagonista che trova certamente impensabile un’accoglienza del genere da una popolazione nemica in territorio di guerra!
Suoni, contesto, paesaggio che circondano la città sono sempre esternamente ovattati, nebbiosi, poco distinti.
Invitato ad un ballo in maschera nella festa del paese, il tenente trova i paesani travestiti da soldati con uniformi ingiallite dal tempo, trattenendo il lettore sempre in una sorta di stupore. Anche una piccola storia d’amore con una donna, Charlotte, sembra inverosimile poiché la donna afferma di amarlo e aspettare il suo ritorno da sempre, ma Bagge si innamora di lei e le dichiara anche lui il suo amore.
Altro piccolo dettaglio: nella festa a Charlotte cade un ventaglio su cui è impressa una poesia emblematica di Stéphane Mallarmé: “mentre essa sta davanti allo specchio, ad ogni battito del ventaglio lo specchio s’illumina e ogni volta qualche granello d’invisibile cenere si riversa sul cristallo”.
Prima di fare chiarezza sul suo amore Bagge deve obbedire all’ennesimo eccesso del capitano Semler: si deve proseguire con l’esplorazione per trovare il nemico. Nonostante le controversie il battaglione si rimette in marcia.
Nel suo saluto a Charlotte, Bagge capisce chiaramente che questo per lui è un addio. Qui incontriamo un altro elemento importante in Lernet-Holenia: non ci può essere posto per l’amore quando si è svuotati completamente dalla mancanza di valori e ideali, quando non si ha più uno scopo nella vita.
In realtà, come poi scopriamo, tutto il villaggio non è altro che una sorta di “limbo” dove le anime, morte nella violenza del conflitto, aspettano l’ultimo passaggio verso l’aldilà.
L’anima di Charlotte scambia in realtà Bagge per il suo amato defunto in guerra, ma nello stesso tempo, l’anima di Bagge non può rimanere con lei, poiché egli è ancora vivo.
Il libro, intriso degli spiriti cavallereschi già scomparsi ai tempi della stesura del romanzo, restituisce quell’atmosfera decadente che caratterizza proprio il suo sguardo sul mondo: una realtà spazzata via, come la morte dei valori divini che l’uomo aveva tramandato da secoli: la lealtà, il valore, l’onore, il crollo di tutto ciò in cui quest’uomo aveva creduto, viene spazzato via nel 1918 appena due anni dopo “il barone Bagge” lasciando posto allo spirito della nuova epoca. In questa stretta relazione la morte di tutti i suoi compagni sta a significare, appunto, proprio la fine degli ideali, una conclusione che Lernet-Holenia come il tenente Bagge non accetta subito e che si trascina questo peso nell’anima ancora per un po’. Crede che gli altri siano ancora vivi, come quel mondo che non c’è più. Poiché la tragica scoperta che sta per fare il personaggio è proprio che cavalca, si muove, dialoga con elementi che oramai sono della terra d’ombra: sono morti. L’avvenimento viene descritto in maniera epocale e bellissima:
Ed ecco mostrarsi all’improvviso sulla strada davanti a noi un gran bagliore metallico, e avvicinandomi mi resi conto che veniva da un ponte che scavalcava il fiume in quel punto. Un fragore formidabile, come di cascate di vetro alte fino al cielo, e un vapore iridescente come d’acque bollenti veniva su dall’abisso. Ma il ponte stesso era rivestito di lamiere di metallo che rilucevano come oro. Sì, era proprio oro quello di cui il ponte era coperto. “Volete, volete passare il ponte?” urlai nel fragore delle cascate. “Si”, risposero tutti, e le loro voci rimbombarono come un coro di campane. Ma io no, io non vengo con voi, non voglio passare dall’altra parte, non voglio, dev’essere tutto un sogno, ma io voglio svegliarmi – e mi svegliai”.
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Bagge di colpo, allora, si risveglia gravemente ferito sul teatro della schermaglia campale ed è ferito da due colpi di arma da fuoco, creduti inizialmente pietre. Il battaglione è annientato e lui rimane l’unico sopravvissuto. Perderà ancora una volta la coscienza, ma vivrà e nell’ospedale ungherese dove verrà portato, avrà modo di riflette su questo stato di pre-morte che lo ha colto, è come risvegliarsi in una nuova epoca e di non sentirsi più a proprio agio, come del resto avvertirà già nel sogno dopo lo scontro a fuoco.
Concludendo con le pagine di questo bellissimo racconto, la parola torna al narratore che “svela” di facto quello che era accaduto: “Bagge aveva percorso il cammino di nove giorni della morte, così come è prefigurato nei miti, s’era spinto verso il paese del sogno, verso nord, fino al ponte di Hor, o di Har, là dov’è la via di Hel, degli Inferi, fino al ponte d’oro che porta nell’irrevocabile da cui nessuno torna. Lui solo era riuscito a volger le spalle, ed era tornato indietro. Poiché, se qualcuno – così è detto – volge le spalle sulla via della morte, egli farà ritorno”.




Guerra e pace, quando l’uomo diventa eterno nel tempo

Guerra e pace, quando l’uomo diventa eterno nel tempodi Giuseppe Baiocchi del 28/05/2017

Sei anni di fatiche, dubbi e emozioni sono il quantitativo temporale che Lev Tolstoj ha impiegato per scrivere il suo maggiore capolavoro: Guerra e pace – dal 1863 al 1869 con la pubblicazione solo nel 1878.  Si può già capire il romanzo di Guerra e pace da questa definizione dello stesso scrittore del 31 ottobre 1910.
Dio è quell’infinito Tutto, di cui l’uomo diviene consapevole d’essere una parte finita. Esiste veramente soltanto Dio. L’uomo è una Sua manifestazione nella materia, nel tempo e nello spazio. Quanto più il manifestarsi di Dio nell’uomo (la vita) si unisce alle manifestazioni (alle vite) di altri esseri, tanto più egli esiste. L’unione di questa sua vita con le vite di altri esseri si attua mediante l’amore. Dio non è amore, ma quanto più grande è l’amore, tanto più l’uomo manifesta Dio, e tanto più esiste veramente”.
Nella disastrosa campagna russa di Sebastopoli, attraverso cui l’autore assiste alla disfatta delle truppe russe, nel conte Lev Nikolaevič Tolstoj si attiva un desiderio di riscatto storico e patriottico: offrire alla madre patria attraverso Guerra e pace una vittoria che sostituisse l’umiliante sconfitta nella guerra di Crimea (conflitto combattuto dal 4 ottobre 1853 al 1º febbraio 1856 fra l’Impero russo da un lato e un’alleanza composta da Impero ottomano, Francia, Regno Unito e Regno di Sardegna dall’altro) sforzandosi di far emergere il carattere popolare della lotta contro Napoleone. Inizialmente fu aspramente criticato in patria, soprattutto dagli stessi veterani-sopravvissuti della Guerra d’Oriente, i quali condanneranno il romanzo

La grandezza di Tolstoj è descrivere “l’uomo nel tempo” da qui la sua definizione “ogni uomo – di ieri, di oggi, di domani – valga un altro uomo”.
Siamo di fronte ad un romanzo che descrive una trama e dei personaggi, ma solitamente nei romanzi di Lev Tolstoj avviene un evento nuovo che ha del miracoloso: all’interno di queste storie che egli non inventa, poiché riscrive eventi della tradizione russa zarista, lo scrittore compie una operazione straordinaria sui personaggi, i quali vengono trasformati in archetipi e le storie in racconti universali. Dunque lo scrittore russo riesce ad organizzare tutta una serie di trame e personaggi all’interno del suo romanzo, che sono correlati con elementi fondamentali della psiche dell’animo umano.
Così quando narra dei tre protagonisti principali del romanzo, ovvero Pierre Bezuchov, Nataša Rostova e Andrej Bolkonskij noi non siamo solo di fronte a dei personaggi, ma a figure fondamentali che rappresentano l’uomo in quanto tale.
Il conte Pierre Bezuchov è un individuo che potremmo definire forse il più “umano” di tutti. Pierre incarna totalmente l’uomo con tutti i suoi pregi e i suoi difetti, il suo essere determinato per alcuni frangenti e il suo essere incerto per altri – spesso nel romanzo si coprirà, agli occhi del lettore, di ridicolo – ma rimane il vero vincitore morale del libro. Pierre, insegue “lo scopo della vita” o “la verità assoluta” perdendosi per quasi tutto il romanzo (sempre a fin di bene) in una vita sopra le righe con compagnie “poco raccomandabili” e successivamente, dopo un matrimonio forzato, cercherà questa certezza nella massoneria russa, senza però trovare mai il senso di appagamento spirituale. Dopo essere stato preso prigioniero dei francesi nella conquista di Mosca, patirà le pene della prigionia e in questo periodo durissimo in cui sfiorò la morte, avviene in lui quel cambiamento intimo che aveva sempre ricercato inutilmente per tutta la sua esistenza.
Questo scopo della vita tanto cercato non esisteva più per lui, (…) E questa assenza di scopo gli dava quella piena, lieta coscienza di libertà che in quel momento formava la sua felicità. Egli non poteva avere uno scopo perché ora aveva la fede, – non la fede in certe regole, parole o pensieri, ma la fede in un Dio vivo, di cui si ha la sensazione continua. Prima egli Lo cercava negli scopi che si proponeva. (…) In prigionia aveva appreso che Dio era più grande, infinito e incomprensibile in Karatàjev che nell’Architetto dell’Universo riconosciuto dai massoni. Provava il sentimento dell’uomo che ha trovato sotto i piedi ciò che cercava, mentre aguzzava la vista per scoprirlo lontano da sé”.
Dunque Pierre si lascia andare allo spirito destinale di un essere che ci permea, ci nutre, ci crea e ci consuma. Non si può comprendere o definire un elemento che ci include, sarebbe impossibile. Bezuchov avendo vissuto le asprezze del conflitto, afferra il concetto e inizia finalmente a vivere in armonia con l’essere. Riprendendo un pensiero heideggeriano sull’essere, possiamo porci la domanda: che cosa è l’essere? “si manifesta attraverso l’ente, ma non è l’ente perché l’essere è niente”. Dunque l’essere (per semplificare Dio) è l’Uni-cum attraverso il quale noi uomini siamo gettati nell’esistenza e attraverso cui tutto ci sfugge. Questo, Pierre lo avverte fin dal primo attimo e dunque è alla costante ricerca materiale di un elemento, invece, spirituale che si deve scoprire solo alla ricerca della chiarezza interiore e non della certezza esteriore. Proprio qui è situata la grande operazione di Lev Tolstoj. Portare il romanzo russo ad un livello di racconto magistrale per contenuti e espressività, tanto da coprire tutte le gamme della possibile espressività umana e nello stesso tempo, creare un romanzo universale che ci riguarda tutti come uomini.
Si prenda la paura della morte: anche questa mirabilmente descritta. Una situazione che non arreca invidia al miglior Franz Kafka.
In sogno si vide disteso nella medesima camera dove realmente giaceva, ma non ferito, bensí sano. Molte persone insignificanti, indifferenti apparivano davanti al principe Andréj. Egli parlava con loro, discuteva di cose inutili. Esse si preparavano ad andare in qualche posto. (…) Dopo poco, inavvertitamente, tutte queste persone cominciavano a sparire e tutto cedeva il posto a una sola quistione: come chiudere la porta. Si alzava e andava verso la porta per spingere il chiavistello e chiuderla. Dal riuscire o non riuscire a chiuder la porta dipendeva tutto. Egli andava, si affrettava, ma le sue gambe non si muovevano, ed egli sapeva che non sarebbe riuscito a chiudere la porta, ma pure tendeva disperatamente tutte le sue forze. E una tormentosa paura lo assaliva. E questa paura era la paura della morte: dietro alla porta stava quella cosa. Mentre egli si trascinava impotente, malsicuro verso la porta, questa cosa tremenda stava già dall’altra parte e premeva e spingeva. Qualcosa di non umano – la morte – spingeva la porta, e bisognava trattenerla. Egli si aggrappava alla porta, tendeva le ultime forze: chiuderla ormai era impossibile – almeno avesse potuto trattenerla! Ma le sue forze erano deboli, impacciate, e, spinta da quella cosa orribile, la porta si apriva e di nuovo si richiudeva. Ancora una volta quella cosa spingeva fuori. Gli ultimi sovrumani sforzi erano vani, e i due battenti si aprivano senza rumore. Quella cosa entra, ed è la morte. E il principe Andrèj morí“.

Girata in Russia, Lettonia e Lituania (anche nei luoghi originari del libro), la serie kolossal BBC si è composta di 8 episodi da 60′ ciascuno, diretti da Tom Harper e sceneggiati da Andrew Davies. Stellare il cast, composto da Paul Dano, Lily James e James Norton nei ruoli dei protagonisti (rispettivamente Pierre Bezuchov, Nataša Rostova e Andrej Bolkonskij).

Ma come accade tutto ciò? Solitamente nei racconti di Tolstoj noi abbiamo una vicenda esterna, difatti in Guerra e pace siamo al centro delle guerre napoleoniche. Allora lo scrittore con impareggiabile maestria pone l’obiettivo all’interno degli stati d’animo dei tre protagonisti principali che attraverso le loro storie mirabilmente intrecciate danno la vera chiave di lettura agli eventi. Il grande scrittore russo apre “queste polveriere” che tengono fermo l’animo umano e ci proietta dentro noi stessi, dove esistono delle forze inimmaginabili che se vengono scatenate, fuoriescono e possono far arrivare l’uomo al suo limite estremo. Così noi ci accorgiamo di essere nella stessa posizione di gioia o tristezza dei protagonisti. Siamo di fronte a quella che potrebbe essere denominata come una storia esteriore, una storia politica: Napoleone invade la Madre Russia zarista e punta dritto su Mosca. Per raccontare questa storia che avviene nel 1812, quasi cinquanta anni prima dello scritto, lo scrittore ha bisogno di elementi psichici affinché la storia sia fondamentalmente politica perché Tolstoj vuole narrarci come e perché Bonaparte e il suo esercito imbattibile si sia sciolto nella conquista dello spazio sterminato che è la Russia. Questa riflessione epocale è correlata alla apocalisse che consegue il sanguinoso pareggio della battaglia campale di Borodino che suona forte come una sconfitta, dalla quale la Grande Armée napoleonica non si riprenderà più: dopo le sue splendide vittorie ottenute sia contro gli austriaci, che contro i prussiani e inizialmente contro i russi, l’esercito francese si spezza nello spirito. Osservando il lato storico, della vicenda narrata, si evince il senso patriottico di Tolstoj. Solamente a tratti lo scrittore russo si sofferma, generalmente all’inizio di ogni libro, sulla situazione militare e politica vista dagli occhi di un freddo storico. Nel romanzo appare spesso la figura di Napoleone Bonaparte e quella di Michail Illarionovič Kutuzov. Siamo di fronte all’eroe europeo e all’anti-eroe: Tolstoj cercherà infine di rovesciare anche questo luogo comune. Il primo è descritto come un tiranno, un egocentrico e una persona egoista e fortunata; il secondo viene descritto per tutto il romanzo come una persona poco stimata dai russi, molto schiva, ma con un animo nobile che antepone sempre gli interessi della nazione ai suoi. Nel finale l’autore (dopo la disfatta napoleonica) si prende la sua rivincita su tutto e tutti esplicitando la descrizione di Kutuzov e smentendo la concezione di Eroe europeo:

Le sue azioni – tutte, senza la minima eccezione – sono dirette ad un medesimo triplice scopo:
1) tendere tutte le forza per combattere i francesi;
2) vincerli;
3) scacciarli dalla Russia, alleviando, per quanto era possibile, le sofferenze del popolo e dell’esercito.
Lui, quel lento Kutúzov, il cui motto è “pazienza e tempo”, il nemico delle azioni decisive, (…) Solo, durante tutto il tempo della ritirata si ostina a non dar battaglie ormai inutili, a non cominciare una nuova guerra, a non varcare le frontiere della Russia. (…) La fonte di questa straordinaria capacità di penetrare il significato degli avvenimenti consisteva in quello spirito nazionale che egli portava in sé in tutta la sua purezza e la sua forza. Soltanto perchè aveva riconosciuto in lui questo spirito, il popolo fu costretto, per vie cosí strane, contro la volontà dello Zar, a scegliere questo vecchio in disgrazia come rappresentante della guerra nazionale. E soltanto questo spirito lo pose a quella superiore altezza umana dalla quale egli, essendo comandante in capo, diresse tutta la sua forza non a uccidere e annientare degli uomini, ma a salvarli e a risparmiarli.
Questa figura semplice, modesta e perciò veramente grande non poteva esser plasmata nella forma menzognera dell’eroe europeo, preteso guidatore di uomini, che la storia ha inventato. Non può esistere grand’uomo per il suo cameriere, perché il cameriere ha un suo particolare concetto della grandezza”.

Aleksey Danilovich Kivshenko. Il consiglio militare in Fili nel 1812. Dipinto del 1882, Olio su tela, 64 x 117 cm

Sempre emozionante sono i brevi tratti del romanzo, dove si descrive il generale còrso, ma per Napoleone la situazione è capovolta: non assistiamo alla sua situazione politica, ma alla sua crisi interiore. E’ una crisi che più tardi la psicanalisi avrebbe chiamato narcisistica, vale a dire la perdita da parte del soggetto del controllo sulla realtà: dall’illusione che il mondo dipenda dal nostro principio di piacere alla consapevolezza terribile che il mondo risponde al principio di realtà. La realtà è sempre più dura, rispetto a quella che noi ci siamo costruiti e questa ha sempre a che fare con qualcosa di diverso, rispetto a quella che è il nostro semplice volere. Ed ecco, allora, la grandezza di questo romanzo che unisce la politica con la psicologia e il sentimentalismo, rendendolo eterno per la sua multidisciplinarietà.
Riporto uno stralcio del libro terzo, capitolo XXXVIII – volume secondo dell’Edizione Einaudi, la migliore delle traduzioni, di Leone Ginzburg che riguarda la figura di Bonaparte:
E non soltanto in quell’ora e in quel giorno furono ottenebrate la mente e la coscienza di quell’uomo, che più duramente di ogni altro, che avesse partecipato a quell’azione, portava il peso di quanto avveniva; ma mai, sino alla fine della sua vita, egli riuscì a intendere né il bene, né la bellezza, né la verità, né il significato dei propri atti, troppo contrari al bene e al vero, troppo lontani da ogni sentimento umano perché egli ne potesse intendere il significato. Egli non poteva sconfessare i suoi atti, esaltati da mezzo mondo, e perciò doveva rinunziare al vero, al bene e a tutto quello che è umano”.

History enthusiasts take part in a re-enactment of the Battle of Austerlitz to mark its 207th anniversary near the city of Brno, Czech Republic, Saturday, Dec. 1, 2012. The Battle of Austerlitz is widely considered to be Napoleon's greatest victory, as he destroyed the troops of the Third Coalition made up of Russian and Austrian forces, giving France a glorious victory and prompting other changes in the European diplomatic area. (AP Photo/Petr David Josek)

Paul Delaroche. Ritratto di Napoleone a Fontainebleau nel 1814 (particolare), olio su tela.

Per riavvicinarmi alla frase iniziale dello stesso Tolstoj dobbiamo riprendere il vero conoscitore del romanzo, quel Leone Ginzburg che differenziava i personaggi storici dai personaggi umani, infatti quest’ultimi amano, soffrono, sbagliano, si ricredono – in una sola parola vivono. Nel momento che questi tentano di divenire “storici” e cercano di dominare non più la loro vita, ma quella della nazione o di altri uomini, magari legandosi a qualche massoneria o credendosi ormai all’apice della carriera militare, falliscono sempre. I personaggi storici come lo Zar Alessandro I o Napoleone Bonaparte, invece, sono condannati a recitare una parte che non è raccontata da loro stessi, anche se tutti tentano di viverla.
Dunque i racconti delle grandi battaglie come quella di Austerlitz o di Borodino appartengono al mondo che egli definisce “storico” mentre al mondo della “pace” con le sue frivolezze e i suoi stati di gioia e di ansia appartiene al mondo della vita, al mondo umano: poiché tutto il mondo degli uomini si riduce ad un unicum creato da Dio stesso e solo quando l’uomo si lascia andare e vive veramente, come l’esserci del possibile, allora nei romanzi di Tolstoj – proprio l’uomo acquisisce valore e senso in questo mondo troppo grande.
In conclusione il personaggio incontrato da Pierre, durante la sua prigionia, più di tutti incarna il pensiero collante di tutto il romanzo: la ricerca di Dio e dell’Uni-cum, poiché questo contadino strappato alla terra e dato alle armi non è altro che la rappresentazione di Dio. Dal capitolo XIII, libro quarto, volume secondo dell’Edizioni Einaudi:
Platòn Karatájev rimase per sempre nell’animo di Pierre come il ricordo più forte e più caro e come la personificazione di quanto c’è di russo, di buono e di rotondo. (…) Platòn Karatájev doveva avere oltre cinquant’anni, a giudicare dai suoi racconti delle campagne alle quali aveva partecipato da soldato, molto tempo prima. Egli stesso non sapeva e nessuno avrebbe potuto precisare quanti anni avesse. (…) Il suo viso, malgrado le piccole rughe rotonde, aveva un’espressione d’innocenza e di giovinezza; la voce era simpatica e melodiosa. Ma la principale particolarità dei suoi discorsi erano la franchezza e la praticità. Le sue forze fisiche e la sua prontezza erano tali che, nei primi tempi della sua prigionia, pareva che non capisse che cosa fosse stanchezza o malattia. (…) Egli sapeva far tutto, non molto bene, ma neppure male. Cucinava, faceva il pane, cuciva, faceva il falegname, faceva il calzolaio. Era sempre occupato e solo di notte si permetteva di chiacchierare, cosa che gli piaceva molto, e di cantare. (…) Fatto prigioniero ed essendogli cresciuta la barba, si vedeva che aveva rigettato a sé ogni elemento estraneo, soldatesco, acquisito, e involontariamente era tornato al suo antico carattere campagnuolo, popolare. (…) Gli piaceva ascoltare le fiabe che un soldato raccontava la sera (sempre le stesse), ma più di tutto gli piaceva ascoltare racconti della vita vera. (…) Karatájev non aveva nessun’ affezione, nessun’ amicizia, nessun amore, secondo il modo che aveva Pierre d’intendere questi sentimenti; ma amava tutti e viveva in rapporti affettuosi con tutto ciò a cui la vita lo avvicinava, e specialmente con l’uomo: non con un dato uomo, ma con tutti gli uomini che erano davanti ai suoi occhi. Amava il suo botolo, amava i compagni, amava i francesi, amava Pierre che era suo vicino; ma Pierre sentiva che Karatájev malgrado tutta la sua affettuosa tenerezza per lui (con la quale involontariamente rendeva omaggio alla vita spirituale di Pierre), non si sarebbe afflitto neppur un momento se avessero dovuto separarsi. E Pierre cominciava a provare lo stesso sentimento per Karatájev. (…) Ma la sua vita, com’egli stesso la riguardava, non aveva senso in quanto vita isolata. Aveva un senso soltanto come particella di un tutto, che egli sentiva di continuo. Le sue parole e i suoi atti sgorgavano da lui con la stessa regolarità, necessitá e immediatezza con cui il profumo emana dal fiore. Egli non poteva capire né il valore né il senso di un azione o di una parola prese isolatamente“.

 

Per approfondimenti:
_Guerra e Pace, Edizioni Einaudi 2014
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A proposito di Bandini

A proposito di Bandinidi Marzia Casilli del 31/08/2016

Chiedi alla polvere di John Fante è stato uno dei romanzi della mia tarda adolescenza che ha contribuito a farmi innamorare e temere gli scrittori, probabilmente anche a farmici diventare. Di quando in quando allungo la mano su uno dei miei comodini incasinati e me lo rileggo, come sta accadendo in questi giorni di brevi viaggi e spostamenti continui.

Chiedi alla polvere (Ask the Dust) è un film del 2006, diretto da Robert Towne, con protagonisti Colin Farrell e Salma Hayek, trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo di John Fante.

Arturo Bandini, in tutta la sua sprovveduta romanticheria da scrittore ossessionato dalla scrittura è stato uno dei miei primi amori, uno dei primi in cui mi sono timidamente specchiata. Ventitreenne squattrinato, di origini italiane abitante abusivo di Los Angeles, vive nella camera sudicia malamente ammobiliata di un motel, che non riesce mai a pagare. Ruba del latte, mangia solo arance perché non ha soldi per comprare altro, quindi stomaco sconquassato, succhi gastrici e tensioni di ogni genere lo attanagliano, ansia perenne, angoscia e inquietudine, ma a casa ( una casa in cui a nessuno frega niente di racconti, romanzi e scrittori, anzi: perché diavolo si sia intestardito a voler fare un mestiere così strano? Ma poi è un mestiere? Certo che no. Che tornasse a casa piuttosto!), lui scrive che tutto procede alla grande nella metropoli, è in contatto con famosi editori e il suo romanzo-capolavoro è quasi pronto. Ancora un po’ di pazienza e con il suo immenso talento farà una gran fortuna.

Ma il nostro Arturo Bandini, a parte un brevissimo racconto semisconosciuto non ha ancora pubblicato niente di niente, e nemmeno ha scritto una sola parola del romanzo che vorrebbe pubblicare. Un vero genio incompreso, con un talento così nascosto da non riuscire a farlo venire fuori.
Disperato, con le classiche caratteristiche da sognatore, Arturo Bandini si avventura per le strade polverose di Los Angeles, si affaccia dalla sua minuscola finestra e ingoia con gli occhi l’oceano, le palme, la spiaggia che da lontano brilla come un prato di spilli sotto al violento sole californiano.
All’inizio del romanzo, le ossessioni di Arturo Bandini sono due: la scrittura e Dio.
Eh si Dio. Perché lui è un religioso che disperatamente cerca di vivere nonostante il fatto di essere cattolico, perseguitato dal senso di colpa, dalla ricerca spasmodica del perdono dei peccati, anche se lui è uno che li ama i suoi peccati, e dalla salvezza da se stesso. Perché lui sa benissimo che razza d’individuo si trova davanti a quello specchio mezzo rotto: uno scrittore.
L’essere umano peggiore. La scrittura lo tormenta come la più irraggiungibile, bella e meravigliosa delle donne, lui non vive perché anche mentre vive sta scrivendo. I momenti gli sfuggono dalle mani perché è perennemente li a descriverli. Una dote infernale che lo porta a perdersi da se stesso per poi ritrovarsi purtroppo sempre lo stesso, alienato dalla vita, arriva in un posto chiedendosi che diavolo ci faccia li, ovunque vada, vorrebbe sempre essere da un’altra parte. Qualsiasi cosa lui stia facendo, non la sta facendo, la sta scrivendo. E chi non capisce una simile follia, non può considerarsi uno scrittore.
Perché chi ha questa maledetta vocazione, Arturo Bandini, lo capisce fin troppo bene. Vorresti sederti accanto a lui, mentre si dispera sulla macchina da scrivere, spettinargli i capelli unti, poggiarti sulla sua spalla sudata e dirgli che c’è una soluzione. Certo, se poi lui ti chiedesse qual è, non sapresti che dire e ti metteresti anche tu, come lui, a innamorarti dell’oceano e le palme altissime di Los Angeles, e vi disperereste insieme con una bottiglia di whisky scadente e una mezza dozzina di arance.
Ma come dicevo, le ossessioni di Bandini all’inizio del romanzo sono due, poi diventano tre. Ecco che Arturo Bandini nel quarto capitolo incontra l’amore. Tutti gli scrittori lo cercano e tutti gli scrittori non lo vogliono quando lo trovano. Anche qui, peripezie, giochi di prestigio letterari, acrobazie emozionali, per conquistare Camilla Lopez, la sua principessa maya, dal contorno del viso lieve, e le pelle olivastra e i denti bianchi e il naso piatto, e poi nel dodicesimo capitolo eccolo che finisce a letto con un’altra donna, Vera Rivken, fingendo che sia Camilla. Camilla, sarà il posto sbagliato in cui Arturo decide di restare.
Perché noi amiamo i posti sbagliati, i posti sbagliati hanno sempre un panorama mozzafiato che speriamo ci si riversi dentro. E succede, quasi sempre succede che si mischi al nostro paesaggio interno. Ma quella tra Arturo Bandini e Camilla Lopez non è una storia vissuta, non è nemmeno una storia. Lui non riesce a farla sua, non riesce ad afferrarla questa farfalla messicana, la odia, la ama, la rinnega, la cerca disperatamente. Vorrebbe passare una notte con lei, il suo desiderio di dormirle accanto anche una sola notte, una soltanto, lo fa tremare, annegare nell’ingorgo di parole che non riesce a dirle.
Uno scrittore senza parole, il paradosso di Bandini. Il paradosso degli scrittori.

John Fante (Denver, 8 aprile 1909 – Los Angeles, 8 maggio 1983) è stato uno scrittore e sceneggiatore statunitense.

Ma poi Bandini lo fa, fa quello che ogni scrittore sincero, onesto e disperato dovrebbe fare: riassume la sua inabilità di vivere nella sua incapacità di amarla, di confessarsi a lei, nel suo palpitante, disagiante, vivo, misero e immenso sentimento di uomo. Perché certi brividi, quelli come Bandini è difficile che li confessino persino a se stessi. Mani in tasca, sguardo in alto e si fa finta di niente “Sentii le sue mani che mi cercavano, e le mie che cercavano invece di scoraggiarle”. Oh ma se tu sapessi Camilla…se solo tu sapessi. Arturo Bandini è per me il giovane Holden Caufield ormai ventitreenne, vago e solitario per le strade color ruggine di Bunker Hill. Arturo Bandini è ogni sacrosanto scrittore degno di questo indegno nome. E’ il prototipo dell’illuso per eccellenza, del sognatore povero custode di un grande talento artistico che gli permette di vedere il mondo, i rapporti, i sentimenti da una prospettiva del tutto singolare. E John Fante, beh basterebbe dire che era uno dei pupilli del vecchio Bukowski,stilisticamente perfetto in una prosa leggera, asciutta e pulita, cosparsa da uno humor sottile, un registro linguistico che a leggerlo d’un fiato, come accade a me, fa pensare a una canzone, i racconti ispirati a Bandini sono i miei preferiti, Chiedi alla polvere, lo considero uno strambo manuale di sopravvivenza per gli scrittori e Aspetta primavera,Bandini in cui Arturo era ancora bambino, il bozzolo di uno scrittore, è il primo capolavoro Fantiano. Fante è emozionalmente imparagonabile, lo leggo e lo rileggo da anni, lo studio, lo imito, lo ammiro, lo odio per questo talento spropositato, lo amo per la capacità che ha di estraniare da se stesso chi lo sta leggendo, con lui si vive in parallelo. Ed ora: aspettiamo insieme primavera, Bandini!

Per approfondimenti:_John Fante, La strada per Los Angeles – Edizioni Einaudi
_John Fante, Aspetta la primavera, Bandini – Edizioni Einaudi
_John Fante, Chiedi alla polvere – Edizioni Einaudi

 

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L’ombra e l’altro: racconti ispanoamericani del terrore XIX secolo

L’ombra e l’altro: racconti ispanoamericani del terrore XIX secolodi Primo De Vecchis del 01/07/2016

In Italia presso le grandi case editrici (ora come non mai sempre più monopolistiche) vige il mantra recitato dai signori del marketing: «i racconti non si vendono». Ne consegue che di rado vengono pubblicate raccolte di racconti; chi ha racconti nel cassetto cerca di allungarli il più possibile per trasformarli in romanzi, con esiti grotteschi. Eppure la bravura di uno scrittore di razza si basa sulla forma-racconto, che all’estero per fortuna è molto più praticata dagli scrittori e pubblicata dagli editori. Il discorso non muta se parliamo del “racconto fantastico”. Molti lo confondono con altri generi, persino con il fantasy; pochi sono andati a scuola dai veri maestri: alcuni credono che tali racconti siano surreali o arbitrari.

Per fortuna la piccola casa editrice Arcoiris di Salerno, nella sua collana “Gli eccentrici”, diretta da Loris Tassi, continua a pubblicare vere e proprie rarità provenienti dal continente letterario ispanoamericano e stavolta ha il coraggio di proporre “Racconti ispanoamericani del terrore del XIX secolo” (euro 12,00). Il volume è tutto una scoperta, innanzitutto per la qualità di autori rari e desueti che propone al palato fine del lettore forte, alla ricerca di autentica letterarietà e non di artifizi commerciali furbescamente costruiti.
Dei nove scrittori tradotti da Alessio Mirarchi, Dajana Morelli e Marcella Solinas (con la curatela di Lola López Martín, autrice della dotta postfazione dal titolo “Parole dall’oltretomba; la bellezza del terrore”) ammetto di aver riconosciuto solo tre nomi: Leopoldo Lugones (che mi sta particolarmente a cuore), Rubén Darío (del quale lessi in gioventù una preziosa “Antología Poética” in un alberghetto postcoloniale di San Juan, in Argentina) e William Henry Hudson (il cui nome mi risultava familiare solo grazie alla multiforme erudizione di Jorge Luis Borges, che tutti – spero – avrete letto e meditato a fondo). Gli altri nomi risuonavano nelle mie orecchie come i toponimi di terre ignote: Casimiro del Collado, Carlos Octavio Bunge, Julio Calcaño, Alejandro Cuevas, Juan Montalvo e Juana Manuela Gorriti. Si tratta di autori del XIX secolo di varia provenienza (Argentina, Ecuador, Venezuela, Nicaragua, Messico, Spagna), che si cimentarono a un certo punto della loro carriera nel “racconto fantastico”, genere reso nobile e profondo da Edgar Allan Poe ed Ernst Theodor Amadeus Hoffmann, ma frequentato anche da Guy de Maupassant ed Henry James (tanto per fare dei nomi). Essendo pressoché impossibile fornire una sintesi dei racconti antologizzati, ho deciso di operare una selezione in base al gusto personale per scendere così in alcuni dettagli tecnici e formali, che amo sempre scovare. Leopoldo Lugones è uno dei padri del racconto fantastico argentino (“Cuentos fatales”, “La fuerzas extrañas”), inaugurato con forza da Jorge Luis Borges (“Tlön, Uqbar, Orbis Tertius” del 1940 fu lo spartiacque, secondo l’attendibile Ricardo Piglia), praticato con originalità da Adolfo Bioy Casares, perfezionato in chiave barocca da Julio Cortázar, e ripreso da decine di autori tradotti e ammirati.

Leopoldo Lugones

“Il rospo” di Lugones è un breve racconto “strano”, che potrebbe stimolare la fantasia ipertrofica di uno Stephen King, il quale ne trarrebbe un romanzo di trecento pagine: qui abbiamo solo sei dense paginette. Si narra di un animale maledetto, per non dire diabolico: la rana cornuta, la quale è in grado di resuscitare e vendicarsi del suo uccisore. L’unica maniera per non incorrere nella sua maledizione è il rogo del cadavere, pratica superstiziosa che avvicina l’anfibio ai vampiri. La scena finale colpisce la fantasia con la sua enfasi grottesca:
«Quella piccola figura lugubre, immobile sulla porta illuminata dalla luna, cresceva in modo straordinario, raggiungendo proporzioni mostruose» (p 11).
Insomma, il breve racconto di Lugones è una perla bizzarra della quale non sospettavo nemmeno l’esistenza.
Uno dei racconti più interessanti della raccolta, a mio modesto avviso, è “La confessione di Pelino Viera” di William Henry Hudson.

William Henry Hudson, dipinto di William Rothenstein

Le ragioni di questa mia predilezione credo che siano di ordine eminentemente tecnico: il racconto del soprannaturale è pressoché perfetto. Vi troviamo tutti gli ingredienti del genere, miscelati con sapienza. Naturalmente, un manoscritto. Non è stato trovato in una bottiglia, bensì in una prigione e si tratta della relazione di Pelino Viera, accusato dell’omicidio della moglie, il quale riporta la sua incredibile versione dei fatti, che molti potrebbero considerare il delirio di un pazzo. La confessione inizia con toni lirici e campestri e si tinge sempre più di orrore nell’arco della vicenda. Tutto ruota attorno alla figura misteriosa della moglie di Pelino, Rosaura, la quale presto dimostra di governare con astuzia le arti magiche e stregonesche apprese da una vecchia megera (ops… scusate, curandera), che compare in una scena iniziale del boschetto, mentre si accapiglia furiosamente con l’allieva. Un profumo narcotico aleggia nella stanza di Pelino; inoltre di notte la moglie strega si spalma un unguento e si trasforma in una creatura alata. Non voglio svelare altro: ho già detto troppo. Dirò solo che nel racconto assistiamo persino a una sorta di viaggio astrale, nel cosmo, che mi ha rammentato uno splendido racconto di William Hope Hodgson, “La casa sull’abisso”. Hudson è uno scrittore di razza, dallo stile lirico e preciso; inoltre si nota subito che è un naturalista, e d’altronde fondamentale nel genere fantastico è l’atmosfera (come insegna Howard Phillips Lovecraft). La magia di Edgar Allan Poe si fonda proprio sullo scenario, sull’atmosfera perturbante espressa con uno stile poetico e sublime. Molti di questi autori sono andati a scuola dallo stesso Poe ed Hoffman (come gli scapigliati italiani d’altronde: si pensi a Igino Ugo Tarchetti o ad Arrigo Boito).
L’altro racconto di punta dell’antologia è senz’altro “Il cane interiore (lettera confidenziale di un uomo di scienza)” di Carlos Octavio Bunge.

Carlos Octavio Bunge

Qui uno scienziato, un chimico, parla di un fatto straordinario, non spiegabile dalla logica, il cui strapotere viene peraltro sminuito:
 
«La logica è uno strumento volgare e schematico, e l’organismo umano è uno strumento complesso e impreciso. La logica fa riferimento specialmente all’intelligenza, e l’uomo di talento pensa con tutto il corpo, perfino con le mani e con i piedi. La logica è la forza del volgo; la mancanza di logica, quella dell’uomo geniale» (p. 75).
 
Il narratore parla del suo assistente, Guillermo Grunbein, che cela una metà oscura (per citare Stephen King), ovvero un cane interiore. Non si tratta solo di una metafora dell’inconscio. Tutti siamo a conoscenza dell’esistenza dei lupi mannari: questa è una variazione sul tema. Il cane rappresenta Mister Hyde, il represso, l’impulso, l’istinto bestiale e feroce, che alberga in ognuno di noi e che a tratti può riemergere dall’ombra con esiti rovinosi per la psiche. Ancora una volta il tema fantastico per eccellenza è la metamorfosi. Ma qui siamo in un clima positivistico, razionalista, che vede nascere per contrasto discipline occulte come lo spiritismo (si parla infatti di “materializzazioni”). Senza svelare la trama vedremo apparire verso la fine anche la presenza di un cane fantasma, che corona quindi l’ossessione presente nel racconto.
Per finire, alcune note generali. Il racconto fantastico, contrariamente a quanto si pensi, è strettamente legato al realismo letterario. Solo uno scrittore minuzioso e realista può introdurre a un certo punto con efficacia lo squarcio del “velo di Maya” per mostrarci quali oscure entità si muovono oltre lo spazio-tempo. Occorrono metodo e precisione: non a caso Poe e Lovecraft sottolinearono questi aspetti con esiti quasi maniacali. L’irruzione consapevole e inattesa dell’ombra e delle forze oscure dell’inconscio può avvenire solo in una mente cristallina e razionale che aveva perduto il contatto con le proprie pulsioni radicali, mascherandole. Questa scoperta della belva sottile e segreta, del serpente che alberga dormiente in ognuno di noi, è una delle più profonde rivelazioni extraletterarie che il genere del racconto fantastico ci abbia mai donato. Sigmund Freud ne trasse il saggio sul perturbante (Das Un heimliche). Ma non basta. Occorre scendere più a fondo, dove giacciono gli archetipi (Carl Gustav Jung docet). Occorre stilare una demonologia oculata, una teologia narrativa alla quale forse ancora nessuno ha messo mano.
 
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L’appressamento della morte nel romanzo di Iginio Ugo Tarchetti

L’appressamento della morte nel romanzo di Iginio Ugo Tarchettidi Primo De Vecchis del 01/07/2016

Esistenza tormentosa e agitata fu quella di Iginio Ugo Tarchetti, scrittore nato a San Salvatore Monferrato nel 1839 e morto prematuramente di tifo a Milano nel 1869. Una vita segnata dalla malattia, la tisi o tubercolosi polmonare, ma anche dalla passione romantica: decise infatti di aggiungere al suo nome quello di Ugo in onore del Foscolo. Nella sua breve vita ci ha lasciato una manciata di racconti, per lo più postumi, e una serie di romanzi, dei quali il più famoso rimane Fosca, pubblicato nel 1869 dall’amico Salvatore Farina, che scrisse anche il capitolo XLVIII, seguendo le indicazioni fornite a voce dallo scrittore ormai morente.

Tarchetti è considerato dalle storie letterarie uno degli esponenti più decisivi della “scapigliatura” milanese, movimento letterario alquanto disomogeneo, che si sviluppò a Milano negli anni successivi all’Unità d’Italia e che annoverò tra le sue fila Cletto Arrighi, Emilio Praga, Arrigo e Camillo Boito, Carlo Dossi, solo per citarne alcuni. Tarchetti entrò in contatto con il movimento letterario verso il 1865, quando si trasferì a Milano, dopo essere stato per un periodo impiegato al commissariato militare dell’esercito sabaudo e aver partecipato alle campagne militari del neonato Regno d’Italia contro il brigantaggio nel meridione. L’esperienza non fu di certo positiva, dato che Iginio abbandonò l’uniforme; in seguito scriverà anche il primo testo antimilitarista della storia letteraria italiana: Una nobile follia (1867). Ma il contatto con gli scapigliati, che recepivano gli insegnamenti degli autori d’Oltralpe, principalmente di Baudelaire (che a sua volta filtrava Edgar Allan Poe), ma anche di Hoffmann e Heine, favorì l’emersione dei capolavori dell’autore, che presentava già una inclinazione per il macabro e il grottesco. Fosca è un romanzo giustamente noto per la sua protagonista femminile, una donna coltissima, bruttissima e malata di epilessia, che emerge da queste pagine desuete con una forza prorompente e ossessionante.
Mi basterà citare un frammento decisivo delle sue lettere rivolte a Giorgio, un giovane militare, l’uomo che ama alla follia:
 
«Io nacqui malata; uno dei sintomi più gravi e più profondi della mia infermità era il bisogno che sentiva di affezionarmi a tutto ciò che mi circondava, ma in modo violento, subito, estremo. Non mi ricordo di un’epoca della mia vita in cui non abbia amato qualche cosa. Mi asterrei dal raccontarti ora alcune particolarità di questa mia disposizione morbosa, se non fosse che ciò deve spiegare le molte anomalie che dovrai riconoscere più tardi nel mio carattere. La mia potenza di affettività non aveva né modi, né limiti; era una febbre, una espansione, un’irradiazione continua; avrei potuto amare tutto l’universo senza esaurirmi» (Cap. XXIX).
Il romanzo è quindi una radiografia originale e intensa di una psicopatologia tutta al femminile, che incarna però in parte il temperamento perturbato dello scrittore. «Fosca c’est moi», potrebbe infatti mormorare Tarchetti, parafrasando la frase di Flaubert. Egli infatti, perseguitato dalla Morte tramite il morbo che lo corrodeva, anelò ardentemente alla vita; amò molte donne e da queste fu riamato; questo suo attaccamento morboso nei confronti delle donne doveva risarcirlo del male che gli alitava nel petto. Ciò è in parte alluso nella prima parte del romanzo, quando il protagonista maschile, Giorgio, bello e sofferente, fa innamorare per pietà la bionda Clara, donna sposata e con un figlio, innescando un processo psicologico del tutto affine al “vampirismo” spirituale:
«Non so come avvenisse, ma è ben certo che ella mi aveva data la sua forza e la sua salute assieme al suo affetto» (Cap. V).
Ma per una legge del contrappasso, Giorgio dovrà imbattersi in Fosca, più “vampiresca” di lui, nonché laida, scheletrica, epilettica, venefica, eppure ammaliante, colta, fascinosa, soavissima. Ecco quindi che Tarchetti si sdoppia: se dapprima il suo animo s’incarna in Giorgio, militare come lui, bello e misterioso, ecco che via via nell’arco del romanzo l’autore penetra sempre più nelle latebre psichiche di Fosca, dotta come Leopardi, vittima di una malattia eccezionale e incurabile, i cui accessi talora la fanno rassomigliare a una indemoniata, del tutto simile a quella donna magra e inteschiata e dall’alito graveolente che tutti chiamiamo Morte. Tarchetti è attratto dalla “sorella nostra morte corporale” e desidererebbe forse abbracciarla e baciarla; ciò avviene di fatto in un suo racconto orrorifico, vergato alla maniera di Poe, Le leggende del castello nero:
«Alzai gli occhi rabbrividendo e vidi il suo volto impallidire, affilarsi, scarnarsi, curvarsi sopra la mia bocca; e colla bocca priva di labbra imprimervi un bacio disperato, secco, lungo, terribile…».
Una scena che sembra anticipare The Shining di Stanley Kubrick: alludo alla donna nuda che esce dalla vasca da bagno e abbracciando Jack Torrance si tramuta in una vecchia laida, piagata e sghignazzante.
Che Fosca incarni l’attrazione macabra nei confronti della cessazione del vivere è mostrato chiaramente da questo passo:
«Il vederla già consunta, già incadaverita, abbracciarmi, avvinghiarmi, tenermi stretto sul suo seno durante quei suoi spasimi, era cosa che dava ogni giorno maggior forza a questa fissazione spaventevole» (Cap. XXXIII).
Sempre tornando a Fosca, l’altro tema che s’intreccia misteriosamente con quelli della malattia, della follia e della morte è senz’altro l’affinità con la Natura intesa come Madre. Tarchetti, dal temperamento romantico, ha una straordinaria sensibilità nei confronti delle manifestazioni naturali. Che la terra sia serenamente legata alla “morte corporale” (come una madre che alla fine accoglierà di nuovo nel suo grembo fecondo i propri figli) è evidenziato da una confessione di Giorgio:
«Sì, io amo la terra, questa bella terra; io son certo che essa sarà lieve sulla mia fossa, quando stringerà dolcemente il mio petto colle sue braccia di selci e radici» (Cap. III).
Non solo, attraverso il prisma della Natura contemplata, il processo di deperimento ed entropia della materia assume una più alta significazione, che ha il sapore di una serena accettazione e quindi di una sotterranea saggezza spirituale (la quale si avverte qua e là in mezzo ai picchi convulsi assunti dalla posa romantica, scomposta e quindi in genere lontana dalla saggia quiete):
«Tutto ciò che vive presenta, nel deperire e nel distruggersi, gli stessi fenomeni che ha presentato nel nascere e nello svilupparsi; si muore come si ha incominciato a vivere, quasi che ciò che noi chiamiamo morte non sia che il formarsi del germe di un’altra vita» (Cap. XXXVI).
Forse da qui dovremmo ripartire per ricollocare Fosca nella giusta luce che merita: si tratta infatti di un romanzo precursore delle inquietudini novecentesche, già percorso nelle sue pieghe dal perturbante freudiano (identificato appunto nel romanticismo tedesco, ben noto agli scapigliati).
Il tema dell’ombra e persino del doppio (oggetto di molte indagini psicanalitiche) fa capolino in una breve scena geniale del romanzo tarchettiano, con la quale vorremmo concludere il nostro articolo, per rendere merito a questo romanzo di certo studiato, ma non troppo:
«Senza accorgermene aveva preso in mano la candela; la mia ombra che si allungava sul pavimento e si piegava alla base della parete risalendola come vi aderisse, mi seguiva su e giù per la stanza. […] vidi vicino a me un ragno nero che si arrampicava su pel muro, lo abbruciai colle fiamme della candela, e lo sentii friggere e scoppiettare con una specie di voluttà quasi crudele. Passando vicino a uno specchio, vi scorsi riflessa la mia persona, e mi arrestai a contemplarmi. Aveva quasi paura di me, mi pareva che il mio volto non fosse quello, che avrei dovuto averne uno diverso» (Cap. XLVI).
 
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Poeti: tra gloria e condanna

Poeti: tra gloria e condannadi Marzia Casilli del 05/06/2016

Ho passato un intero pomeriggio a parlare di Petrarca a un gruppo di sedicenni rimandati in italiano.
 
E mentre parlavo loro, del suo animo spigoloso e inquieto, dell’incapacità non solo di trovare, ma persino di cercare pace, me li sono ritrovati con gli occhi spalancati, fissi, attenti.
L’idea era quella di analizzare lo stile del Canzoniere, ma ci si è soffermati sul poeta. Sulla figura di quest’uomo che si contrappone a Dante, il poeta per eccellenza, da ogni punto di vista.
Ho sempre amato Petrarca, il suo essere uomo e in quanto tale debole senza vergognarsene, dotato di una grande e inefficace volontà di cambiare la propria natura controversa, portatore sano di un travagliato percorso interiore. Nessuno scrittore dell’epoca, prima di lui, aveva avuto una coscienza così acuta della propria individualità, un’attenzione, a tratti ossessiva,per la propria interiorità.
Le questioni amletiche che si poneva, non sono mai state dotate di risposte. Ci ha lasciato solo domande. Un labirinto di se e di forse. Milioni di perchè. L’uomo è un punto di domanda, non una risposta.
Studiando la vita di Petrarca si capisce che il poeta, è colui che non è capace di trasformare i pensieri in azioni.

I dubbi in convinzioni. Il desiderio del poeta è quello di desiderare. Una costante incostanza sentimentale. Consacrato e dannato dal suo talento.
Ha bisogno di essere perennemente in tensione, allungato verso l’ irraggiungibile, con la misera consapevolezza della sua vana posizione e l’impossibilità di mutarla. L’obiettivo a cui tendere, non deve essere raggiunto. E se lo sarà, in fretta, bisognerà trovarne un altro. I poeti si innamorano per se stessi. Avvicinano e respingono l’amore, una dura battaglia fino alla fine, senza alcun vincitore. Emotivamente frastagliati e insoddisfatti della loro insoddisfazione. I poeti son rime sparse, traghettatori senza porti, di se stessi. Amare la vita, e non essere capaci di viverla. Questo è il vero dramma del poeta. Assistere alla propria vita, leggerla, come il più accanito dei lettori.
Esistere ed esitare. Nel 1300 come oggi, bisogna sperare di non essere mai amati da uno di loro, non ameranno mai chi avranno davanti, ma soltanto l’idea.
Si lanceranno in follie ed eclatanti conquiste per poi perdere tutto a un passo dall’afferrare la mano alla quale tendevano.
La Laura del Petrarca, simbolo dell’attrazione viscerale e potente e allo stesso tempo ripudio violento per il sentimento stesso, non sarà mai raggiunta dal poeta.
Solo bramata, da lontano quando sarà in vita, con inutile e ridicola nostalgia per un tempo mai condiviso, una volta morta.
Ma più di tutto bisogna sperare di non essere mai uno di loro.
L’ inquietudine, la smania, la frenesia di vivere, è quella cosa che ti fa stare in un posto che hai sognato mentre stai già pensando a un altro da raggiungere.
La voglia di vivere, è quella cosa che non ti fa vivere.
E il caro Petrarca, lo sapeva bene.
 
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Jonathan Coe, un inglese a casa nostra

Jonathan Coe, un inglese a casa nostradi Marco Squarcia del 14/03/2016

Potrebbe sembrare assurdo, ma Coe è uno scrittore inglese che ha superato negli anni, molti suoi colleghi proprio qui, nel Bel paese. L’affermazione è vera quanto scontata, se si leggono alcuni dei suoi libri. Coe è un uomo inglese di cinquataquattro anni, vive nel sud dell’Inghilterra e nei suoi scritti, ci fa capire com’era la sua terra prima e com’è oggi. E’ uno scrittore di quelli di un tempo, vecchio stampo, timido, riservato, che non alza la voce o che mentre firma autografi non ti dice nulla, ma sa leggerti negli occhi.
Ogni suo libro, dieci finora scritti, non ha una consecutio narrativa ma vedi subito la penna che li hanno scritto cosa vuole dire. Con satira, anche ironia, Coe parla della sua Inghilterra ma lo fa’ con un amore letterario evolutivo, ride di sé stesso e del suo paese.
Nella Banda dei Brocchi del Duemiladue, ho intravisto visioni adolescenziali, che varrebbero oro anche in Italia, con questo titolo ripreso dall’album di una band Rock semisconosciuta britannica, cosi potente, che devi almeno osservarne la copertina passandoci davanti in una libreria o una biblioteca.

Le storie di Coe sono spesso dedicate a protagonisti con grossi problemi relazionali o affettivi: delinea in modo peculiare la mente di questi ultimi e ne carpisce le criticità. Benjamin Trotter ad esempio, il ragazzo protagonista della Banda dei brocchi, parla pochissimo, passa le ore a registrare nella sua stanza un disco di progressive rock da solo, ed è innamorato della ragazza più bella e risaputamente frivola del liceo. Un genio incompreso agli occhi di molti, ma che poi tanto Brocco forse non è.
 
 
Coe è molto bravo a descrivere i soggetti femminili come Maria in “Una donna per caso”, perché è con la sensibilità del sesso femminile che si possono, ancor di più oggi, risolvere i tanti problemi che affliggono questo amato pianeta. Ci vuole la risolutezza e l’eleganza di Maria per riuscirvi. L’ultimo suo lavoro è una novità, una raccolta di racconti dal titolo “Disaccordi Imperfetti” e lo si potrà leggere probabilmente in una veste diversa.
La domanda che Das Andere vuole allora porre con questo articolo, che io mi voglio porre, è perché uno scrittore inglese vende maggiormente i suoi libri in Italia? Nella visione dell’Altro che accompagna l’associazione, Coe riesce a mettere a nudo i problemi della società da punti di vista diversi, toccando il sociale, la politica, la famiglia e lo fa’ in punta di piedi. Sembra chiedere scusa, narrando con simpatia e un po’ di freddezza alcune vicende, ma è tutto vero quello che scrive. Gli adolescenti inglesi di allora, si rispecchiano nei nostri tempi, forse per il complesso che ogni tanto ci attanaglia, che noi italici siamo arretrati rispetto ai colleghi del nord Europa o forse perché, non siamo in grado di osservare bene da vicino le cose che accadono e che si intrecciano velocemente sotto i nostri occhi. Guardiamoci dentro e scopriremo che un po’ brocchi lo siamo tutti, ma è proprio questo il bello. In fondo lui stesso ha dichiarato più volte che le sue vendite cosi clamorose in Italia, sono dovute al fatto che qui da noi il tempo spesso sembra fermarsi ed avere un potere immenso sulla mente.
Lasciatemi dire allora, che non mi vergogno a volergli un po’ bene, all’inglese d’Italia, Jonathan Coe.
 
P.s: chi volesse iniziarne la lettura, consiglio di partire da: La famiglia Winshaw
 
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