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di Riccardo Tarantelli del 01/07/2016

[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1470931456820{padding-top: 15px !important;}" el_class="titolos6"]Nel XXI secolo, siamo arrivati ad un punto che l’uomo ha sempre sognato: la (semi) coscienza di sé. Questo, purtroppo, si accavalla con un altro fenomeno: la modernità. Gustave le Bon, nel suo “psicologia delle folle” (un libro che lo avrebbe consegnato nel pantheon della sociologia, e uno dei primissimi studiosi dei fenomeni di massa), descriveva la tradizione come un collante fondamentale per l’unità nazionale.

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di Arturo Verna del 01/07/2016

[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1470867708842{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Bello è ciò che attrae, ciò verso cui ci si dirige per il suo solo essere: il bello quindi non coarta perché fa essere il movimento gravitazionale verso di sé (l’eros), quindi è buono, ma senza necessitarlo, lasciando libero di seguire la sua chiamata colui al quale si rivolge.
Ma, in quanto attrae, anche distrae: essendo il desiderabile (ciò che suscita il desiderio di sé), fa, per ciò stesso, fuggire l’opposto, che appunto è quel che non si desidera ossia quel che si desidera che non ci sia: il bello è indice di se stesso e del brutto.
Il desiderio del bello è desiderio di possederlo e, come tale, implica mancanza: si desidera possederlo perché non lo si ha e senza di esso non si è interamente (non si è quel che si deve).
Sicché lo si desidera per essere: solo possedendolo si riesce ad essere come si desidera. Per ciò stesso, ci si affanna per possederlo nulla tralasciando per raggiungere lo scopo: il bello inquieta.
Ma, eo ipso, desiderare di possedere il bello non significa pretendere di ridurlo a proprietà, a ciò di cui si può disporre a piacimento, perché appunto si è in virtù del bello sicché lo si possiede come si desidera se ci si immerge in esso perdendovisi. Pertanto, è giusto dire che “bello è ciò che piace” perché nel bello sta il piacere (il sentimento di soddisfazione di sé) cioè perché il bello produce godimento ed è per questo che ci attrae: noi, appunto, lo desideriamo per il piacere che procura.

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di Armando Marozzi del 01/07/2016

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Il libro di Federico Nicolaci si inserisce in una letteratura eurocritica che è lievitata negli ultimi tempi in maniera esponenziale. Mi limiterò ad individuare quello che, a mio modesto giudizio, è il nucleo del testo per poi cercare di inscrivere il lavoro nell’epoca delle passioni tristi (Miguel Benasayag – Gérard Schmit) di cui siamo coatti abitatori.
Il nucleo del testo è il seguente: le cause della crisi apparentemente tecnico-finanziarie non possono essere risolto tecnicamente. In altri termini, la crisi dell’euro non è tecnico-economica, perché non ha nulla di tecnico e non può essere aggiustata tecnicamente; al contrario essa investe l’idea stessa del progetto europeo come questo fu pensato, minando i suoi fondamentali. Le fondamenta del progetto sono inconsistenti e la crisi non ha tardato a manifestare la totale assenza di solidarietà tra popoli.
Mi trovo, personalmente assai d’accordo con ciò ed anche con un’altra traccia del lavoro di Nicolaci: non essendo l’Europa un progetto europeo, bensì originariamente americano creato ad hoc per contenere l’espansionismo sovietico, venendo meno l’Urss, essa ha liberato i sentimenti di inimicizia sospesi dalla Guerra Fredda. Perciò, giustamente, Nicolaci afferma che non è seguito un necessario ripensamento di questa identità politica etero-determinata e a ciò viene ascritta la crisi odierna. Il funzionalismo (cooperazione a livello materiale) alla base del progetto europeo, insomma, ha fallito. L’Europa è un “tempio vuoto”: “una facciata dietro cui si nasconde il nulla”. Manca un’unione politica al posto di quella monetaria e l’unico modo per produrla è creare una solidarietà in grado di generare solidità. In sintesi, Nicolaci invoca il ripensamento dell’idea del processo di integrazione e il dominio politico delle forze economiche; un’economia a servizio della politica.

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di Francesco Di Turi del 30/06/2016

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Europa, uno spazio culturale che per storia e convenzione attribuiamo all’«occidente»; anzi, che questo stesso occidente fonda.
L’Europa, uno pseudo-continente che agli occhi di un cinese deve sembrare soltanto e a ragione una modesta appendice dell’Asia, sembra ormai incapace di capire e vivere gli elementi accennati in conclusione dell’ultimo articolo, in positivo e in negativo.

[vc_row css_animation="" row_type="row" use_row_as_full_screen_section="no" type="full_width" angled_section="no" text_align="left" background_image_as_pattern="without_pattern"][vc_column css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_separator type="normal" color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]

di Francesco Di Turi del 30/06/2016

[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1701915410659{padding-top: 45px !important;}" el_class="titolos6"]
Quando si parla di “storicità” un termine che riprendiamo da Heidegger, intendiamo nient’altro che la concentrazione attiva e sempre operante di tutte le esperienze che forgiano un determinato popolo, uno specifico individuo nella sua irripetibile unicità, o una particolare comunità religiosa. Essa è cosa diversa dalla mera «storia» di ognuno di essi. É per questo che nei contributi pubblicati si usa questo termine in alcuni contesti. Lo «storia di un popolo», infatti, così come il suo studio, è solo un passato messo a disposizione di ognuno, o per intrattenere la curiosità di qualche studioso, o perché si accresca qualche nozione e conoscenza astratta sulle vicende di quel determinato popolo. La «storicità di un popolo», al contrario, non è mai declinabile come «studio», non è qualcosa che possiamo maneggiare con le nostre mani e le nostre menti; essa è carne viva, agisce al di là di ogni volontà di manipolazione e non ha nulla a che vedere con la conoscenza, la cultura o il sapere; è, semmai, un fenomeno che sempre accompagna le individualità e le comunità. Verso di essa ciò che conta non si valuta sul piano della conoscenza bensì su quello dell’adesione o meno al senso di questa «storicità».

[vc_row css_animation="" row_type="row" use_row_as_full_screen_section="no" type="full_width" angled_section="no" text_align="left" background_image_as_pattern="without_pattern" css=".vc_custom_1470767044080{padding-right: 8px !important;}"][vc_column css=".vc_custom_1470767053433{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_separator type="normal" css=".vc_custom_1470767563136{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]

di Francesco Di Turi del 30/06/2016

[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1471008976824{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]Quello di «Califfo» è un titolo di valenza politico-religiosa. La sua forma teologico-politica ha una lunga storia che affonda le proprie radici al sorgere stesso della religione islamica nell’anno 622 d.C., l’anno dell’hijra, cioè del trasferimento forzoso da Mecca a Medina da parte del Profeta Muhammad, il Messaggero e Capo dell’Islam, uno degli uomini più influenti della storia la cui esperienza di vita è stata intrinsecamente religiosa, mistica, politica, legislativa e militare.

[vc_row css_animation="" row_type="row" use_row_as_full_screen_section="no" type="full_width" angled_section="no" text_align="left" background_image_as_pattern="without_pattern" css=".vc_custom_1470767044080{padding-right: 8px !important;}"][vc_column css=".vc_custom_1470767053433{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_separator type="normal" css=".vc_custom_1470767563136{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]

di Francesco Di Turi del 30/06/2016

[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1701915795475{padding-top: 15px !important;}" el_class="titolos6"]Il non-luogo più adatto da cui prendere le mosse e concentrare tutta l’attenzione è il fuoco ad oggi più italocentrico della questione euromediterranea, la Libia. Dall’attualità libica delineiamo l’intera questione nel suo senso generale; dal senso generale si getterà luce sulla situazione libica andando ben oltre quell’attualità senza per questo perderla di vista.

[vc_row css_animation="" row_type="row" use_row_as_full_screen_section="no" type="full_width" angled_section="no" text_align="left" background_image_as_pattern="without_pattern"][vc_column css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_separator type="normal" color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]

di Davide Bartoccini del 27/06/2016

[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1471008043535{padding-top: 45px !important;}" el_class="titolos6"]
Ditemi che ho sbagliato una battuta, ma non una cravatta.”
Affermava sicuro e vanitoso l’attore David Niven . Lui, emblema di quell’eleganza puramente britannica che non c’è più, possedeva ben tre stanze di cravatte, che venivano ordinatamente suddivise per toni di colore e fantasie. Ma facciamo un passo indietro, e vediamo dove trova le proprie origini questo vezzo tutto maschile. Uno degli ultimi e pochi simboli d’eleganza tenuti in voga dalla barbara contemporaneità.

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di Davide Bartoccini del 25/06/2016

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“Non tutti gli uomini sognano allo stesso modo, coloro che sognano di notte nei ripostigli polverosi della loro mente, scoprono al risveglio la vanità di quelle immagini, ma quelli che sognano di giorno sono uomini pericolosi perché può darsi che recitano i loro sogni ad occhi aperti per attuarli…fu ciò che io feci … Io intendevo creare una Nazione nuova, ristabilire un’influenza decaduta, dare a venti milioni di Semiti la base sulla quale costruire un ispirato palazzo di sogni per il loro pensiero nazionale”.
Thomas Edward Lawrence, I sette pilastri della saggezza.

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di Francesco Giubilei del 20/06/2016

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Scrivere un libro su Leo Longanesi senza essere influenzati dalla biografia che Indro Montanelli e Marcello Staglieno gli dedicarono nel 1984, oltre che una carenza bibliografica, costituirebbe una grave mancanza nella comprensione del personaggio. Appurato il valore del libro di Montanelli e Staglieno e costatata la presenza di altri testi dedicati alla figura di Longanesi, è lecito domandarsi l’utilità di un'altra biografia sull’intellettuale romagnolo.