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di Giuseppe Baiocchi del 06-01-2022

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«Ed ecco il perché dell’importanza di quel primo, piccolo regno di ogni uomo, quel lembo di terra, di valle, quell’orizzonte ridotto, ma così pieno di vita, ciò appunto che in tedesco si riesce ad esprimere meglio con il nome di Heimat, per noi piccola patria fra i nostri monti dove trovi racchiusa tutta la tua storia personale, dove hai visto la prima luce, i tuoi primi momenti di vita, dove hai visto le prime montagne, hai sentito la voce di tuo padre e di tua madre, il primo canto degli uccelli, il tuo essere insomma. Ed è questa piccola patria, che racchiude in sé tutto ciò che ti forma, ti appartiene, tutta la tua storia, luogo dove riposano tutti i tuoi morti, questa terra che è ciò che resta dei tuoi avi, del loro vissuto dove un giorno troverai anche tu compimento del tuo percorso. Questa piccola patria appunto la senti in te, come tu stesso sei parte di essa, in un abbraccio senza fine. E per grandi ed ampi possano essere gli orizzonti da te desiderati, ricordati sempre che il tutto parte da lì, da quel minuscolo puntino che sei Tu e la tua Heimat»1.
Tra i tanti smembramenti imperiali avvenuti dopo il 1918, quello del Tirolo, appare uno dei più significativi. Questo unico territorio oggi è stato letteralmente diviso in tre macro aree: Tirol (Tirolo), Südtirol (Alto Adige) e Welschtirol (Trentino); la prima porzione è appartenente alla Repubblica austriaca e le ultime due alla Repubblica italiana2.
Prima di avviarci lungo il viale della discussione, dobbiamo necessariamente operare un chiarimento: tutti gli Stati nazionali formatosi nel secolo dell’Ottocento, si sono plasmati attraverso aggressioni militari e l’unità d’Italia non fa eccezioni. Se da una parte la creazione del Regno d’Italia ha portato forza a tutti i popoli italici, diversamente la convivenza di culture, di lingua italiana, diverse crea ancora qualche scompenso. Sicuramente la Casa Reale dei Savoia ha avuto il merito di aver pensato, per la prima volta, ad un’unità non solo più culturale (Petrarca, Dante, Boccaccio), ma anche politica. Quando si crea uno Stato, la morale e l’etica non è mai presente, anche se in seguito la fazione che si afferma, cerca di legittimare il consenso attraverso un’ideologia quantomeno discutibile.
Questo è accaduto in Tirolo: un territorio parzialemente di lingua italiana, veniva inglobato – dopo una guerra mondiale in cui i tirolesi sono stati invasi –, al nuovo Stato sabaudo. Contrariamente alla retorica risorgimentale, le porzioni del Südtirol e Welschtirol non erano mai appartenute al Regno d’Italia, ma appartenevano ad un Impero inter-nazionale, plurilinguistico, smembrato unicamente per scopi politici, come già affermato.
Ovviamente in tali territori era presente una piccola fiamma di irredenti (ovvero i corrispettivi nazionalismi di altri territori imperiali), ma rappresentarono unicamente una piccola percentuale della popolazione, anche in Trentino. Il Regno d’Italia prima, il fascismo e successivamente la Repubblica italiana, ha operato in forma sistematica una pulizia etnica tedescofila, affinché il debole primato degli italiani si affermasse, ed in larga parte oggi in Südtirol e Trentino ci sono riusciti pienamente.
Uno Stato veramente autorevole dovrebbe – soprattutto nei tempi moderni, dove oramai gli Stati nazionali sembrano essersi consolidati –, riaprire oggi un dialogo con i veri abitanti del trentino sulla storia che è stata per tanti anni negata.
Difatti, soprattutto nel dopoguerra, grandi immigrazioni provenienti dal sud Italia – soprattutto nell’istruzione e pubblica amministrazione – sono giunte in Trentino e Südtirol per “italianizzare” queste popolazioni, con la conseguente chiusura ermetica e odio da parte di coloro, che la prima guerra mondiale l’avevano combattuta dalla parte imperiale ed erano felici di rimanerci .
Quando parlo di dialogo affermo certamente atti concreti: ovvero la rimozione di targhe storicamente non veritiere e filo-risorgimentali, installazioni scultoree di antichi patrioti della Grande Guerra austroungarici, magari accanto a quelli italiani, per cercare un piccolo, timido passo verso una maggiore accettazione tra gli antichi abitanti e i nuovi. Ma, temo, i tempi ancora non sono maturi, poiché la causa risorgimentale viene ancora mostrata con forza dalla Repubblica Italiana che non ascolta.
Molte strade italiane oggi, da Palermo fino a Milano, sono dedicate al personaggio storico Cesare Luigi Giuseppe Battisti (1875 - 1916), noto come Cesare Battisti. Abitante del Trentino, tutti gli italiani lo conoscono come un patriota ed eroe, poiché diede la sua vita per il “quarto Risorgimento” verso il nemico atavico austriaco.
[caption id="attachment_12635" align="aligncenter" width="1000"] Fatto prigioniero dagli Austriaci, insieme a Fabio Filzi, sul monte Corno il 10 luglio 1916 fu riconosciuto, processato e in quanto cittadino austriaco condannato all'impiccagione, per tradimento, come disertore. L' esecuzione ebbe luogo il 12 luglio 1916 nel castello del Buon Consiglio a Trento. [/caption]
In realtà, quello che ancora viene chiamato con boria il “quarto risorgimento” altro non è che una guerra coloniale – come il Regno d’Italia ne fece molte (insieme alla stragrande maggioranza dei Paesi Europei) – in nome del “sacro egoismo” del Primo Ministro Antonio Salandra (1853 - 1931). Una appropriazione di territori altrui che nell’epoca di fine Ottocento e inizio Novecento era all’ordine del giorno.
Cesare Battisti fu un socialista irredento, autore di quella propaganda a favore del conflitto mondiale, informatore del Regno d’Italia dal 1902, parlamentare a Vienna presso il Abgeordnetenhaus dal 1911, membro della Dieta di Innsbruck dal 1914 e infine combattente in divisa italiana dal 1915.
Ora se l’Italia dovesse operare un’analisi egoistica e nazionale dovrebbe sinceramente riconoscere a Battisti la grandezza che in Italia già possiede, ma se opera un’analisi – non tirolese – ma imparziale, ci si renderebbe conto che tale personaggio storico – appartenente ad un territorio mai stato del Regno d’Italia e soprattutto appartenente ad una minoranza –, era contemporaneamente spia italiana e parlamentare a Vienna, il che implicava un giuramento di fedeltà all’Imperatore Franz Joseph I.
Di un elemento possiamo star certi: Battisti fu un uomo coraggioso che perseguì il suo scopo senza indugi fino all’atto estremo, il che ovviamente non ne cancella le sue ambiguità politiche. Dal carattere melanconico e corrucciato per via di un terribile doppio lutto familiare4, si formerà presso l’Università di giurisprudenza a Graz e l’Università di lettere di Firenze; infine sarà influenzato dalle teorie socialiste di Edmondo De Amicis (1846 - 1908) a Torino. Ma com’era sotto il profilo giuridico il Trentino di allora? Lo stesso irredentista Ottone Brentari (1852 - 1921) racconta durante una sua conferenza nel 1920: «Negli anni prima della guerra in Trentino, si era raggiunto un alto grado di agiatezza, con un alto livello ambientale di boschi, pascoli, campi e vigneti, che davano un frutto annuo medio di circa 50.000.000 di corone, mandando i suoi prodotti nelle province interne dell’Austria. Fiorenti e ben organizzati, erano anche i commerci e le industrie, specialmente a Rovereto e le cooperative e le casse rurali largamente diffuse e abilmente amministrate, impedivano le chiusure, gli sfruttamenti e le irragionevoli rincari, ed il paese viveva agiato e quietamente. […] Si deve ricordare che l’Austria, se nel campo politico era tutto quello che di esecrabile si poteva configurare, nel campo amministrativo poteva in moltissimi casi, servire di modello e sotto tale aspetto sarebbe bene non annettere il Trentino all’Italia, ma annettere l’Italia al Trentino, perché se l’Italia politicamente era dentro il Trentino, il Trentino potrebbe sotto molti aspetti redimere l’Italia»5.
Nel Trentino ogni comune, sotto la parte amministrativa, era completamente autonomo, e sottoposto esclusivamente senza ingerenze del Governo, alla Giunta Provinciale – emanazione diretta della Dieta Elettiva. Trento e Rovereto erano città autonome, persino con diverso regolamento elettorale. La giustizia era a buon mercato e rapida, tanto che non si vede mai il caso di una causa con durata pluriannuale, pur passando per tre stanze6. C’è da meravigliarsi se pensiamo che a quel tempo, l’Austria in fatto di leggi – in particolar modo sulle leggi sociali – era certamente all’avanguardia.
L’impiego della manodopera infantile era stata largamente limitata con le leggi scolastiche del 1897, per tutti i bambini dai sei a quattordici anni. Nel 1874 era intervenuto il regolamento industriale sull’impiego della manodopera infantile. Nel 1870, risalivano le leggi sulla Coalizione, che permettevano anche agli operai di unirsi alle associazioni di categoria e ai tribunali arbitrari dell’industria. Nel 1888 fu introdotta la circolazione obbligatoria sulle malattie e nel 1889 quella sull’invalidità.
Cesare Battisti che di contro non aveva interesse in tale rispettabile percezione del mondo di equilibrio, nel 1898 inviava per la sua tesi di laurea, una “Guida del Trentino”, a Carlo Porro (1854 - 1939), allora comandante militare della piazza di Milano, che rispose incoraggiandolo a continuare l’operato; mentre nel 1902 passava informazioni ai servizi segreti italiani. Fu con queste manovre ideologiche, già ben delineate e affinate, che il 17 luglio del 1911, Battisti fu eletto al Parlamento di Vienna, con i voti dei socialisti e dei liberali (contrari all’entrata nel conflitto dell’Austria), compiendo quel giuramento di fedeltà a Sua Maestà l’Imperatore, che creerà il vero dibattito sulla sua figura: «Ella prometterà sotto fede di giuramento di essere fedele ed obbediente a Sua Maestà l’Imperatore, di osservare inviolabilmente le leggi fondamentali dello Stato e tutte le altre leggi, e di adempiere scrupolosamente i suoi doveri»7.
Battisti asserì: «lo prometto»! Come poteva l’irredento giurare fedeltà ad un governo di cui non ne riconosceva nessuna autorevolezza, poiché la sua patria era il Regno d’Italia? Inoltre l’opera svolta dal trentino in favore del Servizio Informazioni Militare italiano fu un atto a danno dell’Impero del quale era sempre stato cittadino non avendo mai disdetto la sua appartenenza. La sua azione, considerando il suo passaggio al Regno d’Italia durante il conflitto, diviene oggettivamente un tradimento verso la sua patria aggravata dalla sua collaborazione con i servizi italiani8. Ancora in una lettera scritta l’otto agosto del 1914 e diretta al Re Vittorio Emanuele III:  «Se al popolo nostro nel cui nome, sappiamo di poter con tranquilla coscienza parlare, sarà chiesto qualsiasi sacrificio, esso saprà mostrarsi degno della sua storia e nessuna cosa gli parrà grave, pur di poter salutare in Voi il Re liberatore, il Re d’Italia, unita entro i confini suoi naturali».
Da queste poche righe di chiusura dello scritto, risultano evidenti due gravi affermazioni di Battisti, che fanno capire la mancanza di verità e di coerenza, in quanto egli non poteva – nella maniera più assoluta – parlare a nome del popolo trentino, in quanto la percentuale sulla quale poteva contare appariva, in termini di consenso politico, estremamente minoritaria. Il voler poi salutare il “Re liberatore, il Re d’Italia, unita entro i confini suoi naturali”, stava a significare un fatto allarmante: l’abbandono della guerra chiamata di redenzione, per la liberazione del trentino, ponevano l’uomo politico pienamente compiacente verso un’annessione che ambiva a possedere caratteri coloniali e imperialistici.
[caption id="attachment_12633" align="aligncenter" width="1000"] A destra: una foto storica di uno Schutzen risalente ai primi del 900 del fotografo A. Stockhammer all'interno del suo atelier fotografico di Hall.[/caption]
La sua notoria voglia di guerra, contrariamente al suo partito militante, si evince da una lettera del 22 agosto del 1914, due settimane dopo la sua fuga in Italia, dove presentava domanda di arruolamento volontario nel Regio esercito italiano: «Per il caso di guerra con l’Austria mi metto a completa disposizione del Ministero della Guerra, chiedendo d’essere arruolato nell’esercito regolare o in quei corpi volontari che si organizzassero d’intesa col Governo. Ho 39 anni. Ma sono forte, abituato ai disagi della montagna. Da vent’anni mi dedico allo studio della geografia fisica del Trentino, sul quale ho pubblicato molte memorie scientifiche e molte guide turistiche. Nutro fiducia che la mia domanda sia bene accolta e sarò mandato fra le prime file alla frontiera»9.
Sarà così che un anno più tardi, il 10 luglio del 1916, il Battaglione Vicenza, formato dalle Compagnie 59ª, 60ª, 61ª e da una Compagnia di marcia comandata dal tenente Cesare Battisti, di cui è subalterno anche il sottotenente Fabio Filzi, riceve l’ordine di conquistare il Monte Corno di Vallarsa (1.765 m) sulla destra del Leno in Vallarsa, occupato dalle forze dell’Austria-Ungheria.
Nell’operazione, i Landesschützen austriaci catturarono e riconobbero Battisti e Filzi, che furono tradotti e incarcerati a Trento. L’ironia del destino, ha voluto che a riconoscere i due cittadini imperiali, sia stato proprio un italiano d’Austria, Bruno Franceschini (1894 - 1970) da Tres in Val di Non, formatosi nella scuola media a Rovereto, quindi studente di ingegneria al Politecnico di Vienna e ora alfiere del III battaglione, undicesima compagnia del primo reggimento Landesschützen. A differenza del coraggioso Battisti, Filzi diede generalità false, ma fu smascherato dallo stesso Franceschini.
Occorre spendere due parole per l’alfiere imperiale che nel 1933, dallo scrittore Andrea Busetto, nel saggio L’Italia e la sua guerra, bollava come traditore il serio soldato Imperiale e regio. Ancora Franceschini viene appellato come «rinnegato» nel novembre del 1965 dalla penna dello storico Piero Pieri (1893 - 1979) nel libro Cesare Battisti nella Storia d’Italia, consegnato al Quirinale al presidente della Repubblica Giuseppe Saragat (1898 - 1988). Tutto questo fango, solo per aver fatto il suo dovere di soldato10.
Come già affermato il Trentino era terra d’Austria da sempre. Bruno Franceschini era cittadino austriaco di lingua italiana, ufficiale al fronte dell’esercito Imperiale e regio. Non era un «soldataccio» come si legge in alcuni libri che parlano di Battisti, ma un militare austriaco, quindi non un traditore e men che meno un rinnegato. Si era trovato di fronte, dopo uno scontro violento, a due compatrioti che avevano vestito le insegne del nemico e impugnato le armi contro i conterranei.
Così il 12 luglio 1916, insieme a Fabio Filzi, fu condotto davanti al tribunale militare, che aveva sede al Castello del Buonconsiglio, adibito a caserma. Durante il processo non si abbassò mai alle scuse, né rinnegò il suo operato e ribadì invece la sua piena fede verso l’Italia. Respinse l’accusa di tradimento a lui rivolta, basata sul fatto d’essere suddito asburgico passato alle file nemiche e deputato del Reichsrat. Egli si considerò invece soltanto un soldato catturato in azione di guerra: «ammetto inoltre di aver svolto, sia anteriormente che posteriormente allo scoppio della guerra con l’Italia, in tutti i modi – a voce, in iscritto, con stampati – la più intensa propaganda per la causa d’Italia e per l’annessione a quest’ultima dei territori italiani dell’Austria; ammetto d’essermi arruolato come volontario nell’esercito italiano, di esservi stato nominato sottotenente e tenente, di aver combattuto contro l’Austria e d’essere stato fatto prigioniero con le armi alla mano. In particolare ammetto di avere scritto e dato alle stampe tutti gli articoli di giornale e gli opuscoli inseriti negli atti di questo tribunale al N. 13 ed esibitimi, come pure di aver tenuto i discorsi di propaganda ivi menzionati. Rilievo che ho agito perseguendo il mio ideale politico che consisteva nell’indipendenza delle province italiane dell’Austria e nella loro unione al Regno d'Italia»11.
L’esecuzione avvenuta presso Fossa Cervara fu penosa, ma quella era la sorte per chi veniva tacciato di tradimento: difatti Battisti non fu fucilato come un militare, ma dopo essersi vestito con abiti civili (l’Austria non lo riconosceva come un soldato, ma come un parlamentare disertore) la morte gli pervenne tramite capestro. Battisti, di animo sereno durante il processo, fin dall’inizio conosceva i rischi. Dunque nell’esprimere un difficile giudizio storico, Cesare Battisti è stato coraggioso durante la guerra, ma sul lato politico, morale e umano – per via della sua voluta nomina a Parlamentare imperiale, già collaboratore con il Regno d’Italia –, non possiamo affermare la stessa cosa: questa è la macchia dell’irredento.
Dopo il primo conflitto mondiale con l’annessione al Regno d’Italia, l’opera della quale Battisti si è reso partecipe, il Trentino non è migliorato socialmente o economicamente, ma ha vissuto anni terribili sotto la dominazione italiana, in particolar modo sotto il periodo fascista. Importanti furono le distruzioni materiali dei monumenti riguardanti il passato: targhe, sculture e lapidi furono divelte. Il monumento all vittoria di Bolzano sorge nel luogo dove si stava edificando un monumento ai Kaiserjäger12 caduti durante la guerra.
Nel regio decreto del 21 gennaio 1923 N. 93, la circolare per i prefetti “Nomi regionali e toponomastica” N. 12637, dell’otto agosto dello stesso anno, si evince come: «Oltre la denominazione ufficiale di «Provincia di Trento» e la denominazione regionale «Venezia Tridentina» nessun’altra denominazione è per questa provincia consentita. Come denominazioni sub-regionali sono ammesse soltanto quelle di Alto Adige per la parte settentrionale della provincia di Trento e di Trentino propriamente detto per la parte meridionale. In via provvisoria e di tolleranza è ammesso l’uso delle voci di Oberetsch e Etschländer come corrispondenti a quelle di Alto Adige e di Atesino. Ogni diversa denominazione è vietata e segnatamente quella di Süd-Tirol, Deutschsüdtirol, Tirol, Tiroler o altre equivalenti e simili».
[caption id="attachment_12631" align="aligncenter" width="1000"] I tiratori rappresentano l'autoaffermazione dei tirolesi. A giugno festeggiano i 500 anni di Landlibell. Il Landlibell, conosciuto anche come Libello dell'Undici, è un documento redatto dalla Dieta del Tirolo a Innsbruck il 23 giugno 1511. Foto: ©APA[/caption]
A Trento il 26 settembre del 1922, l’Ufficio Distrettuale Politico emanava l’ordinanza n.5227/1, circa le «Insigne e diciture dell’antica monarchia austriaca»: «Dovranno pertanto essere rimosse tutte le aquile austriache e tirolesi, i ritratti, i simboli, gli emblemi, le tabelle, con o senza motto, che ricordano la dinastia d’Asburgo, l’Austria, e il Tirolo come unità provinciale austriaca dell’anteguerra. Per le aquile austriache vale la distinzione fra l’aquila del Sacro Romano Impero che finiscono col 1814 e quella dell’Impero austriaco posteriore. Se si tratta di stemmi e emblemi anteriori al 1814 che abbiano valore artistico, si dovrà riferire subito al Commissario Generale Civile facendo proposte, che saranno sottoposte all’esame del locale Ufficio di Antichità e Belle Arti. La rimozione di questi residui è da eseguirsi con mezzi efficaci sì da farli definitivamente scomparire. Dovranno pure essere tolti dalla circolazione tutti gli stampati di qualsiasi ufficio pubblico che, per avventura, portassero ancora in capo o nel testo, o dove che sia, un accenno o un simbolo del tramontato regime. Non sono ammesse cancellature o sovrapposizioni delle nuove scritte sopra le antiche. Dovranno essere messi fuori uso i timbri, i sigilli e le buste che eventualmente portassero ancora le accennate diciture».
Negli stessi anni si plasma la Legione Trentina, già nata a Firenze nel 1917, che aveva per scopo la celebrazione dell’italianità del Trentino, riunire a sé tutti i volontari trentini arruolati nel Regio esercito durante la Grande Guerra, raccogliere notizie riguardanti i volontari, offrire appoggio morale con assistenza pratica agli aderenti e onorare i martiri e i caduti per la causa italiana. L’associazione nel dopoguerra potenziò l’attività, in direzione di una strenua difesa dell’idea nazionale, compresa anche la meta del confine di Stato da portare al Brennero, oltre che la realizzazione del Museo del Risorgimento per la celebrazione dell’italianità del Trentino14.
Nel Manifesto dell’organizzazione del 10 aprile 1919, si legge: «I volontari trentini, nell’imminenza della sospirata annessione ufficiale all’Italia […] ritengono di dover riaffermare completo il loro pensiero su una questione che tanto appassiona e preoccupa l’animo dei patrioti. […] Esistono delle persone che […] hanno offeso il sentimento del nostro popolo mostrando ostentatamente il loro attaccamento agli Asburgo. […] Questi individui non possono restare impuniti: ogni generosità, ogni clemenza suonerebbe ingiuria a quanti hanno sofferto per aver amato la patria, sarebbe considerata segno di debolezza della stessa gente indegna. Non rappresaglie chiedono i volontari trentini, sibbene quella giusta sanzione che i colpevoli stessi attendono: per gli austricanti, freddezza da parte del pubblico, esclusione dalle Associazioni, eliminazione dai pubblici uffici o trasferimento in altra regione; per i rinnegati, per i disonesti, per i fiduciari dell’Austria, per le spie, per i vermi della società, il disprezzo della pubblica opinione, il boicottaggio da parte dei cittadini, l’esclusione da qualsiasi impiego pubblico e privato. Compiuta questa giusta e doverosa opera di epurazione e raggiunte in tal modo la tranquillità del paese e la concordia degli animi, il Trentino nostro riprenderà fiducioso e con animo forte il lavoro intenso necessario per il suo risorgere dopo le perdite inestimabili di vite e di beni»15.
Il Tirolo subalpino a poco a poco fu “redento”. Oggi il trentino è a maggioranza italiana, con minoranze tedesche ben presenti, e in minor entità sono presenti le lingue del ladino, del cimbro e del mocheno. In tutti i territori dell’ex Tirolo unificato, esistono numerosissime associazioni degli Schützen che si ispirano agli Standschützen che sino ai primi decenni del XX secolo costituivano una milizia (Landsturm) presente nella Contea del Tirolo e nella quale prestavano volontariamente servizio i cittadini tirolesi.
[caption id="attachment_12634" align="aligncenter" width="1000"] La corona di spine (in foto la sfilata del festival nazionale nel 1959) è un simbolo della divisione del Tirolo.[/caption]
Gli Standschützen erano quindi dei civili che la domenica erano tenuti ad esercitarsi presso un poligono di tiro, che costituiva la sede della compagnia. Le antiche finalità erano quelle di disporre di una forza militare per la difesa del territorio, da mobilitare solo in caso di necessità. Questo avvenne per l’ultima volta durante la prima guerra mondiale. Quindi le associazioni degli Schützen intendono far rivivere questa tradizione anche dopo lo scioglimento del corpo, avvenuto con la caduta della Monarchia asburgica16.
Da un punto di vista giuridico gli Schützen sono associazioni di volontariato di carattere privato senza alcun compito di difesa territoriale: le compagnie, spesso provviste di armi modificate (fucili a salve e spade con punta smussata), partecipano a manifestazioni di carattere storico-rievocativo e a cerimonie religiose.
Durante le rinomate processioni, di rilievo è la corona di spine posta su di una portantina portata a mano da molteplici Schützen, a simboleggiare la divisione ingiusta della contea del Tirolo. Le associazioni promuovono attività di recupero di luoghi di importanza storico-culturale e religiosa, con il restauro di postazioni risalenti alla prima guerra mondiale e l’apertura al pubblico di eremi e santuari. Questo antico corpo porta avanti valori conservatori, identificabili con il motto «Dio, patria e famiglia». Si propongono quindi la tutela dei valori cattolici, delle tradizioni e dei costumi tipici del territorio un tempo tirolese.
Un dialogo costruttivo e soprattutto onesto, oggi in Trentino e Südtirol è quanto meno doveroso, per continuare a vivere nella concordia del sogno kantiano dei popoli fratelli.
 
Per approfondimenti
1 Matuella G., Cesare Battisti: il Tirolo tradito – Un percorso nella nostra storia di questa nostra terra, Publistampa Edizioni, Trento, 2016, p.26; 2 Per una correttezza geografica, denomineremo da adesso in avanti l’Alto Adige in Südtirol e Welschtirol sarà denominato Trentino.

3 Oggi le ricorrenze storico-culturali degli Schützen sud-tirolesi, non sono affatto nulla di delittuoso, come tuonano ancora una volta i nazionalisti italiani, ma tali manifestazioni sono il ricordo di un intero popolo che ama ancora la propria identità e tradizione, come in una qualsiasi altra parte della Repubblica italiana. La doppia cultura del Tirolo, italiana e austriaca, ha posto tale terra sempre come un ponte tra due culture: latina e mitteleuropea.

4 Nel 1887 muore suo fratello maggiore e nel 1890 il padre. 5 Brentami O., Le rovine della guerra in Trentino, Antonio Cordani, 1919, p.17. 6 Se conosciamo la giustizia oggi, per fare tre stanze di giudizio, mediamente il tempo trascorso è pari a vent’anni, quando non si incorre nella prescrizione. 7 Piccoli P. e Vadagnini A., De Gasperi un trentino nella storia dell’Europa, Panorama, 1992, p.86.

8 Battisti nella sua veste di Deputato presso il Parlamento di Vienna, ebbe a sua disposizione documenti tecnici riservati, pubblicati dal Dipartimento Imperiale e regio edile della Luogotenenza di Innsbruck (con annesse carte topo-geografiche), i quali fornirono al politico trentino le informazioni dettagliate delle strade principale del territorio.

9 Sardi L., Cesare Battisti… l’altro volto, 21-10-2016 - http://valsuganaww1.altervista.org/28-novembre-borgo-cesare-battisti-laltro-volto/.
10 Nel dizionario della Lingua italiana Fernando Palazzi, anno di edizione 1939 si legge: «Rinnegare vuol dire dichiarare e dimostrare con parole e con atti di non voler più riconoscere ed onorare fede, idee, istituzioni, persone che prima erano, come dovevano essere, sacre, venerate e care; negazione e abbandono che, non poche volte, muovono da viltà o da basso calcolo personale di ambizione, di avidità – abiurare, apostatare (rinnegamento della propria religione) – ripudiare, sconfessare, prevaricare, pervertire».
11 Biguzzi S., Cesare Battisti, UTET, Torino, 2008, p.534-535.

12 La particolare denominazione, che li differenziava dai comuni reparti di Jäger (cacciatori), derivava dalla particolare fedeltà, sempre manifestata dalla popolazione tirolese alla figura dell’Imperatore, per cui erano considerati, in uno stato che non ha mai avuto una guardia del corpo combattente, il vero reparto a difesa della persona del sovrano. Contrariamente a quanto si crede, inizialmente i Kaiserjäger non erano un reparto specializzato nella guerra in montagna, ma erano solo un’unità d’élite della fanteria austro-ungarica, basato su truppe tirolesi. In seguito il Kaiserjäger divenne il simbolo delle truppe austriache sul fronte alpino.

13 Matuella G., Cesare Battisti: il Tirolo tradito – Un percorso nella nostra storia di questa nostra terra, Publistampa Edizioni, Trento, 2016, p.52. 14 Oggi il Museo del Risorgimento porta il nome di Fondazione Museo Storico del Trentino. 15 Archivio storico del Comune di Arco, Carteggio e Atti annuali 1919, busta 381-598.

16 In Südtirol questo sistema gerachico comprende il Landeskommandant, il Landeskommandant-Stellvertreter, il Landeskurat e il Bezirksmajor - ognuno di questi a capo di uno dei 7 Bezirke (circondari): Bolzano, Bressanone, Burgraviato e val Passiria, val Pusteria, Alta val d’Isarco, Bassa Atesina e val Venosta. In Trentino le ventisei compagnie trentine sono organizzate in modo analogo e dispongono anche di una banda musicale (Musikkapelle Kalisberg) inserita nella compagnia di Civezzano.

© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

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di Giuseppe Baiocchi del 31-10-2021

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Sono le 7,45 del 20 Marzo del 1868, quando le freddi carceri del Forte Malatesta di Ascoli Piceno, vedono uscire la salma di Giovanni Piccioni (1798 - 1868), un personaggio odiato dalla classe politica massonica ascolana, quindi italiana, poiché da lì a due anni la “Roma eterna” papalina sarà costretta a soccombere all’aggressione sabauda e l’Unità italiana sarà completata con più di un plebiscito accomodante.
Ma chi fu il Piccioni, etichettato dalla vulgata post-unitaria come “Brigante”? Fu sicuramente un patriota papalino, per la precisione comandante degli Ausiliari pontifici. Così lo descriveva il comandante della colonna mobile degli Abruzzi e dell’Ascolano Maggiore Generale Ferdinando Pinelli (1810 - 65) lo 03-02-1861: «progenie di ladrone – che – s’annida sui monti (…) vile e genuflesso (…) indifferente ad ogni principio politico, avido solo di preda e di rapina, egli è prezzolato scherano del Vicario, non di Cristo, ma di Satana; pronto a vendere ad altri il loro pugnale, quando l’oro carpito alla stupida credulità dei fedeli non basterà più a sbramar la sua voglia. (…) sacerdotal vampiro, che colle zozze labbra succhia da secoli il sangue della Madre nostra».
[caption id="attachment_12573" align="aligncenter" width="1000"] Bartolomeo Pinelli, Due 'Briganti' riposati nella 'Campagna', studio per la tavola IV della Nuova raccolta di cinquanta costumi de 'Contorni di Roma' (1823), firmato e datato 1818, acquerello e grafite su carta (Collezione privata ).[/caption]
Giovanni Piccioni nasce nella parrocchia di Farno, precisamente nella frazione di San Gregorio di Monte Calvo il 17 maggio del 1798, lo stesso anno in cui il capoluogo Ascoli Piceno vedeva abbattuta presso la Piazza del Popolo – agorà principale dell’urbe – della Statua di Gregorio XIII (innalzata nel 1577) ad opera dei giacobini francesi occupanti. I genitori, appartenenti alla società di campagna, Giovan Battista Piccioni e Antonia della villa S. Gregorio, lo portano a battesimo da don Filippo de Rubeis nella Chiesa di San Pietro in Fleno. L’educazione, durante l’infanzia, cattolica secondo i precetti di Santa Romana Chiesa, furono per lui la roccia su cui basare tutta la sua esistenza e la sua rettitudine, senza scadere nel bigottismo. Particolarmente un altro prete don Marco, fratello del padre, gli fece da precettore: fu chiaramente messo in guardia dalle idee liberali, massoniche (carbonare) e rivoluzionarie che correvano in quegli anni in tutta la penisola.
Questa sfumatura diviene fondamentale se si vuole comprendere l’evoluzione storica dell’Unità d’Italia e la caduta del Trono e dell’Altare, ovvero di quelle Monarchie Assolute che costituivano la conformazione politica dell’Italia pre-unitaria. Ebbene il nuovo potere borghese, nato dalle ceneri della rivoluzione francese (1789) si afferma in quasi tutta Europa. In Italia il tentativo di impadronirsi del potere è più rallentato, grazie anche alla presenza del Papa, nonostante le scorribande napoleoniche. La borghesia per auto-affermarsi crea – appunto – l’entità della Massoneria che a sua volta ha una sua spiritualità dettata da un altro “Creatore” il grande architetto dell’universo o la Dea Ragione (a seconda dei distretti): chiaramente si riprende a piene mani l’idealismo cartesiano, ovvero “l’uomo fondamento del reale”; l’uomo sarà al centro di questo progetto, non più il Dio cristiano. Un concetto filosofico che sarà ripreso dai più grandi filosofi tedeschi come Kant, Hegel ed infine Marx.
A queste dottrine seguiranno le più sanguinose guerre che la storia umana ricordi.  In tempi non sospetti Mons. Henri Delassus (1836 - 1921) nel suo capolavoro “Il problema dell’ora presente. Antagonismo tra due civiltà” esponeva con lucidità estrema quello che doveva divenire realtà qualche secolo dopo. Riferendosi alla Carboneria italiana, divisa in Vendite (a differenza della Massoneria, che si divideva in Loggie), in specificato modo alla Carboneria dell’Alta Vendita guidata dall’uomo senza volto “Nubius” (1824 - 48), Delassus ci riporta un documento risalente al 1817: «Il nostro scopo finale è quello di Voltaire e della rivoluzione francese: cioè l’annichilimento completo del cattolicesimo e perfino dell’idea cristiana, la quale, se rimanesse in piedi sopra le rovine di Roma, né sarebbe più tardi la perpetuazione. Ma per giungere più certamente al nostro scopo e non prepararci da noi stessi dei disinganni che prolunghino indefinitivamente o compromettano il buon successo della causa, non bisogna dar retta a questi vantatori francesi, a questi nebulosi tedeschi, a questi inglesi malinconici che credono di poter uccidere il cattolicesimo ora con una canzone oscena, ora con un sofisma, ora con un triviale sarcasmo arrivato di contrabbando come i cotoni inglesi. [...] Con questo passaporto (dell’ipocrisia), noi possiamo cospirare con tutto il nostro comodo e giungere, a poco a poco, al nostro scopo. [...] Il Papa, chiunque sia, non verrà mai alle Società segrete; tocca alle Società segrete di fare il primo passo verso la Chiesa e verso il Papa, collo scopo di vincerli tutti e due. Il lavoro al quale noi ci accingiamo non è l’opera d’un giorno, né di un mese, né di un anno. Può durare molti anni, forse un secolo: ma nelle nostre fila il soldato muore e la guerra continua. [...] Quello che noi dobbiamo cercare di aspettare, come gli ebrei aspettano il Messia, è un Papa secondo i nostri bisogni. [...] Con questo solo noi andremo più sicuramente all’assalto della Chiesa, che non cogli opuscoletti dei nostri fratelli di Francia e coll’oro stesso dell’Inghilterra. E volete sapere il perché? Perché con questo solo, per stritolare lo scoglio sopra cui Dio ha fabbricato la sua Chiesa, noi non abbiamo più bisogno dell’aceto di Annibale, né della polvere da cannone e nemmeno delle nostre braccia. Noi abbiamo il dito mignolo del successore di Pietro ingaggiato nel complotto, e questo dito mignolo val per questa crociata tutti gli Urbani II e tutti i S.Bernardi della Cristianità. Questa convinzione che la sovversione dell’ordine sarebbe avvenuto soltanto dall'infiltrazione nelle gerarchie ecclesiastiche era una pietra miliare nell’azione dettata dall’Alta Vendita ».
Fatta questa precisazione doverosa sui princìpi di una invasione militare storica, senza una dichiarazione di guerra formale, l’adolescenza di Giovanni Piccioni passò anche per la sua abitazione presso la Rocca di Monte Calvo, sopra il lago di Talvacchia, ed ancora oggi una targa sopra l’architrave del portale d’ingresso così recita: «Ad Dei gloriam; haec domus diruta et arsa ob insano furore MDCCCIV; inde Joacchinus ed Joanne Piccioni instauraverunt MDCCCXLVII» (In gloria di Dio; questa casa fu distrutta e bruciata dall’insano furore nel 1804; finché Gioacchino e Giovanni Piccioni non la restaurarono nel 1847). Qui conoscerà Angela Capponi, sua futura moglie alla fine degli anni Cinquata dell’800 da cui ebbe ben nove figli: Leopoldina Piccioni (1822-23), Leopoldo Piccioni (1823 - 98), Gioacchino Piccioni (1831 - 1907), Giorgio Piccioni (1836 - 63), Giovan Battista Piccioni (1842 - 1908), ed ancora le figlie Rosalia, Michelina, Giacinta.
Le prime gesta militari lo vedono impegnato nei moti rivoluzionari fallimentari del 1830-31, all’elezione di Papa Gregorio XVI (1765 - 1846), capitanato da Giuseppe Sercognani (1780 - 1844) del “Regime Unitario” ex colonnello della Repubblica cisalpina.
Il Piccioni a San Gregorio di Acquasanta e a Rocca di Monte Calvo respinse le truppe repubblicane e divenne a 33 anni una figura dominante della reazione al colpo di Stato avvenuto ad Ascoli il 22 febbraio del 1831 che vedeva nelle figure dei conti Giuseppe Rosati-Sacconi, Orazio Piccolomini-Centini, Serafino Panichi, dell’avvocato Francesco Talianini e dal dott.Francesco Merli, il Comitato Provinciale di Governo. Attaccatissimo alla Santa Sede, alle sue direttive, sanfedista dal 1817, dedicò la sua vita alla causa papalina.
Ancora le cronache storiche lo vedono impegnato, nel 1849, come capitano dei Volontari Pontifici, sotto l’energica guida del montegallese Don Domenico Taliani Comandante Superiore dello stesso corpo nominato dal Segretario di Stato dello Stato Pontificio Sua Eminenza Card. Giacomo Antonelli (1806 - 76) per conto del beato Pio IX (1792 - 1878).
La situazione dello Stato Pontificio alla metà dell’Ottocento - Regno che comprende le attuali regioni italiane del Lazio, Marche, Umbria e Romagna -, era delicatissima e piena di insidie. I moti unitari, spinti da quasi cinquant’anni di illuminismo, laicismo, relativismo avevano minato lo spirito dello Stato Pre-Unitario: lo stesso Pontefice Pio IX, Mastai-Ferretti da Senigallia, dopo un primo pontificato vicino al movimento unitario – che ricordo per il Papa significava unicamente una confederazione di Regni, sotto la religione cattolica, uniti da un’economia comune -, dopo la Repubblica Romana macchiatasi dei sanguinosi reati del triunvirato mazziniano, aveva finalmente compreso il piano di assogettazione massonica dell’Unità della penisola italiana, che iniziava ad intravedere nel Regno di Piemonte e Sardegna della dinastia Savoia, la testa di ponte per un cambio radicale nella cultura, nell’identità, nella lingua di tutte le popolazioni italiche. Gli “Stati Canaglia”, come venivano denominati i pacifici Regni Pre-Unitari, dovevano cadere.
[caption id="attachment_12575" align="aligncenter" width="1000"] Sul muro della casa di Rocca di Montecalvo, una lapide ricorda la lotta di Giovanni Piccioni. Rocca di Montecalvo è frazione del comune di Acquasanta Terme, la quale è composta da due nuclei di case: Rocca di Sotto (m. 658) e Rocca di Sopra (m. 700). Si trova lungo le pendici montuose che scendono nella valle del torrente Castellano, da cui dista qualche centinaia di metri, all'altezza dell'inizio del lago di Talvacchia. Il suo territorio confina anche con quello di Cervara che si trova a nord-ovest, a circa due chilometri in linea d'aria, ed è collegata da un sentiero, praticabile, che attraversa valli e boschi. Da Ascoli Piceno è raggiungibile con la machina tramite la strada che da Porta Cartara conduce a Valle Castellana. Il bivio per Rocca di Montecalvo si trova, a destra, un chilometro circa dopo lo sbarramento della diga di Talvacchia.[/caption]
Fu così che, quando il 24 novembre del 1848, dopo l’omicidio brutale del primo ministro papalino il conte Pellegrino Rossi (1787 - 1848), Pio IX fu costretto alla fuga da Roma, caduta in mano alla Repubblica Romana di Mazzini, Saffi e Armellini, la storia tocca il nostro Capitano Piccioni.
Di gran concerto, da Gaeta, il Pontefice pensò bene di attuare una controffensiva immediata partendo dalla provincia conservatrice dell’ascolano, già capace precedentemente di dare ripetute sconfitte alle truppe regolari napoleoniche che occupavano il territorio dello Stato Pontificio sotto Pio VII.
Il territorio della Marca Pontificia, possedeva uomini da sempre, storicamente, molto legati allo Stato Pontificio, forti nella tenacia dei propositi e nel ricordo delle gesta dei padri, formati da una natura aspra, un clima rigido, una povertà contadina e guidati dai curati del luogo che ricordavano come l’idea liberale sabauda provenisse dal tentativo demoniaco del secolo di distruggere l’uomo e la fede. Geograficamente l’ascolano, molto vicino al confine con il Regno delle Due Sicilie - nel 1848 ancora libero ed indipendente - era luogo perfetto per dare supporto alle truppe irregolari papaline, le quali per sfuggire ai soldati di linea repubblicani potevano sconfinare e ricevere supporto. L’habitat favoriva l’imboscata: ineguale, accidentato, montuoso, intersecato da fossi e burroni, privo di articolazioni stradali e cosparso a macchia di radure.
Don Taliani, aveva alle dipendenze il Maggiore Palomba (reclutatore della truppa e rifornitore di armi e munizioni), il Maggiore Francesco De Angelis e il Maresciallo dei Carabinieri papalini Scipione Alboni. Nei 1.500 uomini reclutati, divisi per bande che setacciavano il territorio alla ricerca delle truppe regolari, Giovanni e Leopoldo Piccioni controllavano insieme tutto il territorio che corre da Rosara a San Gregorio di Monte Calvo; altri territori controllati erano l’acquasantano, Mozzano e dintorni, Castel Trosino, Spelonga e Montegallo.
Una prima descrizione dell’uomo lo ritrae di altezza medio-bassa (1,69 m.), dagli occhi chiari, naso aquilino, mento oblungo, fronte spaziosa, barba misto-lunga, colorito diafano con una corporatura media. I volontari indossavano principalmente un cappellino pretino, degli scarponi da montagna, dei calzoni corti spesso neri, l’uniforme comunemente chiamata “federiga” sulla quale veniva appesa un’effige in rame raffigurante l’angelo costode o la madonna del Santissimo pianto come coccarda; mentre le armi comuni potevano essere due pistole o uno scavezzo a spadino. Le truppe irregolari, con il sacerdote in testa, spesso marciavano intonando inni Sacri.
Chiaramente questa sorta di guerra clandestina è atroce, da ambo le parti: le truppe del Taliani sono anch’esse spietate e non danno quartiere con coloro che avevano tradito il Regno. Spesso chi veniva catturato era decapitato e la sua testa appesa come “monito” dai suoi antichi commilitoni su una picca: questa era la punizione per chi tradiva Cristo e il Papa. La durezza degli scontri è talmente alta che lo stesso don Taliani verrà sospeso a divinis dal Vescovo Zelli nel 1849, ma il montegallese continuò incurante a celebrare la Santa Messa prima e dopo gli scontri, definiti “stimata e religiosissima opera”.
Gli scontri, “la reazione all’azione” repubblicana, iniziarono per paradosso un Giovedì Santo del 5 aprile del 1849, quando le truppe dell’ascolano Matteo Costantini (1786 - 1849), colui che veniva denominato “Sciabolone” – ex Brigante, ora passato alla paga della Giovine Italia –, che manteneva in mano alla Carboneria il borgo di Arquata, lasciò la città in direzione Acquasanta per un pattugliamento di routine, lasciando unicamente 25 uomini in difesa.
Fu così che scattò l’attacco dei Volontari Pontifici, tutti spelongani, che entrarono ad Arquata passando per la porta Sant’Agata, capitanati da Fabriziani. Armati con utensili di fortuna, ma anche con diversi fucili, conquistarono presto il centro del Paese al grido di «Viva il Papa Re!», costringendo il contingente – capitanati da un tenente svizzero – a retrocedere dentro la Rocca di Arquata. I papalini non ricevendo gli aiuti promessi da don Taliani (provenienti da Montegallo), si ritirarono in serata a Spelonga, mentre parallelamente Giovanni Piccioni si trovava con 700 uomini ad Acquasanta. Anche Balzo ed Uscerno – i paesini che oggi formano “Montegallo” (che non esiste realmente, ma contraddistingue solo un territorio) erano pronti a fornire uomini alla causa di Pio IX.
Il giorno dopo 200 uomini di don Domenico Taliani avevano già divelto le insegne repubblicane e posto nuovamente quelle dello Stato Pontificio, quando gli uomini di Fabriziani tornarono ad Arquata.
[caption id="attachment_12577" align="aligncenter" width="1000"] La Santa Messa in rito antico era la liturgia usata dai sacerdoti cattolici del tempo. Nella liturgia cattolica, la messa tridentina è quella forma della celebrazione eucaristica del rito romano che segue il Messale Romano promulgato da papa Pio V nel 1570 a richiesta del Concilio di Trento, che trasmette la liturgia in uso a Roma, il cui nucleo risale al III-IV secolo. Fu mantenuta, con modifiche minori, nelle edizioni successive del Messale Romano fino a quella promulgata da papa Giovanni XXIII nel 1962, precedente alla revisione ordinata dal Concilio Vaticano II. Per quattro secoli fu la forma della liturgia eucaristica della maggior parte della Chiesa latina fino alla pubblicazione dell'edizione del Messale promulgata da papa Paolo VI nel 1969 a seguito del Concilio Vaticano II, che rivoluzionò la liturgia in cui il sacerdote non aveva più le spalle all'assemblea, ma - de facto - a Cristo. Il pagliativo della riprogettazione dell'Altare Maggiore, provocò ulteriori aggravamenti di carattere architettonico-cultura con l'abbattimento di numerosissimi beni culturali negli anni Settanta del 900. Considerata forma extraordinaria del rito romano dal motu proprio Summorum Pontificum di papa Benedetto XVI del 2007, l'usus antiquior del rito romano ha avuto una nuova diffusione fino al 2021, quando il motu proprio Traditionis custodes di papa Francesco ha reso l'uso del Messale del 1962 soggetto alla supervisione del vescovo diocesano e ha sancito che il Messale riformato dopo il Concilio Vaticano II è «l'unica espressione della lex orandi del Rito romano». Il rito antico è oggi ancora celebrato quasi in tutte le diocesi del mondo.[/caption]
Ascoli Piceno rimane scossa per la presa pontificia della Rocca di Arquata e inviò un corpo di spedizione per sedare “la rivolta”. Ma altre negative notizie dovevano giungere per i repubblicani: l’11 aprile, infatti, alcune Guardie Nazionali e dei Carabinieri in una perlustrazione sul Monte Rosa, furono attaccati dalle bande del Piccioni e subirono perdite ingenti.
Il compito di stanare i volontari del prete, è affidato al Colonnello Rosselli il quale guida la IV Compagnia della Legione del Tronto e un distaccamento di Carabinieri. Arrivati nel paesino di Coperso mettono in fuga alcuni papalini che inseguiti dagli infaticabili uomini riescono a trovare scampo solo nelle selve del Monte Teglia e del Ceppo. Altri scontri proseguono fino a notte a San Gregorio, dove si rifugiava Piccioni con i suoi uomini: anche il capitano deve ritirarsi dai duri attacchi del Colonnello. Il giorno seguente comunque gli uomini di Rosselli sono costretti a loro volta al ripiegamento, non solo per essere stati tagliati alle spalle da altri ribelli che avevano assediato Acquasanta, ma per i ripetuti attacchi che i soldati ricevevano durante gli spostamenti.
Durante la ritirata si assiste ad un omicidio delle truppe repubblicane: il diciottenne Domenico Laudi, un pastorello, viene scambiato per un “brigante” e trucidato sul posto. Parallelamente ad Acquasanta, il capitano Matteo Costantini è assediato dai volontari pontifici, i quali si ritirano dopo aver catturato negli scontri eminenti personaggi dell’Ascoli Repubblicana, tra i quali si ricordano Tito Calandri (figlio del Preside di Ascoli) e Pietro Parracini (Ispettore della Pubblica Sicurezza).
Acquasanta rimane dunque in mano repubblicana ed è da lì, che il 14 aprile del 1849 partono le truppe del Colonnello Rosselli alla volta di Arquata in mano agli uomini di Fabriziani e don Taliani.
Gli uomini della Giovine Italia, occupano Capodirigo: l’azione perfettamente pensata dal colonnello repubblicano, induce i papalini a lasciare la città di Arquata per mettersi alla macchia.
La rocca di Arquata viene trattata come una città ribelle: arresti dei più importanti uomini del paese e soprattutto l’arresto del Priore del Convento dei Riformati, rei non solo di aver nascosto le armi ai “briganti”, ma di aver infiammato i loro spiriti semplici con le loro omelie. La casa di Fabriziani è incendiata a Spelonga dove si pensò bene di prendere in ostaggio il curato del paese e lo stesso padre del capitano Fabriziani.
Anche il paese di Colle doveva subire l’ira del Colonnello Rosselli, ma una burrasca estiva ne ferma gli intenti: nel paese si invoca il miracolo, poiché si pregava da due giorni la Madonna della Salute, molto venerata. Il 19 dello stesso mese è la volta del rogo della casa di don Taliani nel territorio montegallese e di altri importanti arresti.
Alla conclusione della retata, nonostante l’occupazione da parte repubblicana di Arquata, Acquasanta e Montegallo, le forze papaline, rintanate nelle selve circostanti rimasero praticamente intatte.
Nonostante una certa propaganda, per stroncare definitivamente i volontari pontifici, il Triunvirato romano, decise di inviare ad Ascoli altre truppe, capitanate dal Colonnello Marchetti e dal generale Garibaldi, il quale era già passato per Ascoli Piceno il 25 gennaio di quello stesso anno e si rivolse agli ascolani con queste parole: «ricordatevi di non essere più dei sacrestani del Papa [...] se fossero stati altri tempi vi direi: fate una rivoluzione; per oggi vi comando moderazione e calma», ebbene mai parole furono così poco ascoltate. Infatti – curiosità vuole – dirigendosi il giorno dopo per Rieti, “l’eroe per la libertà” si espresse sugli ascolani in questo modo: «Vidi le robuste popolazioni di montagna e fummo bene accolti e festeggiati ovunque e scortati da loro con entusiasmo. Quei dirupi risuonarono degli evviva alla libertà italiana, e da lì a pochi giorni, quel forte ed energico popolo, corrotto e messo su dai preti, sollevavasi contro la Repubblica Romana, ed armavasi con le armi somministrate dai neri traditori, per combatterla» .
Ma Garibaldi era destinato a non tornare più nella città ascolana. Difatti gravissime notizie giungevano da Roma: i francesi comandati dal generale Nicolas Charles Victor Oudinot (1791 - 1863) avevano occupato Civitavecchia, mentre gli austriaci liberavano la Romagna e scendevano per le Marche e l’Umbria; gli spagnoli erano sbarcati a Fiumicino, mentre i Borbonici avevano varcato i confini a Terracina in direzione Roma. Il Triunvirato romano, intento a difendere la città eterna, rimando ogni piano su scala nazionale di difesa dal cosidetto “bringantaggio” ed addirittura le truppe ad Ascoli furono richiamate a Roma per la sua difesa.
Così il 30 aprile le truppe di Giovanni Piccioni e quelle di don Silvestri avevano liberato Coperso e Acquasanta. Fu così che il 1 maggio tra urla festanti di gioia della popolazione locale – che tanto aveva sofferto per l’occupazione forzata dei repubblicani – anche ad Arquata sventolava nuovamente la bandiera pontificia sulla torre più alta della città. Tutti i paesi della Valle del Tronto erano nuovamente sotto il controllo dei papalini.
Ascoli è pronta a cadere, soprattutto dopo la fuga del carbonaro Calindri in direzione marittima a San Benedetto del Tronto. L’8 maggio cadono Maltignano e Mozzano per mano di truppe borboniche. Piccioni scrive al conte Marco Sgariglia Gonfaloniere della città: «risoluto di occupare la Vostra città.. senonché ripristinarvi il Governo Pontificio. Il mio ingresso sarà più che pacifico.. qualora che ci si faccia opposizione.. assaliremo la città da tutti i lati.. e metteremo a sacco e foco, nulla riguardando».
Il giorno seguente una banda di 300 pontifici attaccano Porta Cappuccina ad Ascoli Piceno, con l’ausilio di diverse famiglie fedeli alla Sacra Pantofola di Pio IX che avevano occupato alcune case attaccando le poche Guardie Civiche rimaste in città. Dopo due ore di scaramucce la difesa repubblicana sembra reggere e passò alla storia – dalla propaganda carbonara – come un’incredibile vittoria insperata. De facto non ci fu nessun ferito da nessuna delle due parti, salvo pochi giorni dopo l’ennesima sconfitta – presso la vicina Rosara – di alcuni Carabinieri e Guardie civiche inseguite fino a Porta Pia dai volontari di Giovanni Piccioni.
Dunque la situazione non poteva essere delle migliori per i liberali, quando Antonio Orsini (1788 - 1870) – appena nominato “Commissario straordinario” da parte del Triunvirato Romano – giunse ad Ascoli Piceno la sera del 16 maggio, con la città che stava cedendo alle pressioni degli insorti, con i borbonici che avevano sconfinato su Maltignano e le truppe francesi si erano oramai portate a poche centinaia di metri dalle mura.
Come ci ricorda lo storico Giorgio Enrico Cavallo «Libri, opuscoli e giornali anticattolici venivano pubblicati senza problemi. Pio IX, nel breve Gravissimus supremi, parlava di “odio acerrimo e del tutto diabolico contro la nostra religione”. [...] Gli indizi di una presenza luciferina nella Rivoluzione europea c’erano tutti, come ormai sappiamo: basti tornare a quel Voltaire che chiamava Frères en Belzebuth i propri migliori amici. [...] Nel 1863, Giosuè Carducci (1835 - 1907) dava alle stampe la prima edizione del celebre inno A Satana: “Salute, o Satana/O ribellione/O forza vindice/De La ragione!/Sacri a te salgono/Gl’incensi e i vòti!/Hai vinto il Geova/Dei sacerdoti”!
L’inno che risente profondamente della cultura massonica (Carducci era appassionato libero muratore), ottenne un vasto eco. [...] L’inno, va detto, non era tutto “farina del sacco” di Carducci. Lo spunto veniva da un noto passo di Proudhon (1809 - 65) che val bene citare per comprendere il quadro europeo [...].
[caption id="attachment_12587" align="aligncenter" width="1000"] A sinistra Giovanni Piccioni, a destra il farmacista Luigi Piccioni, pronipote di Giovanbattista.[/caption]
Nel 1877, Mario Rapisardi (1844 - 1912) pubblicò a Milano il suo poema Lucifero, che accolse l'applauso anche di Giuseppe Garibaldi, il quale scrisse una lettera di elogi al poeta catanese, firmandosi “vostro correligionario” in Lucifero. [...] Nell'Ottocento il culto di Satana si è esteso a macchia d'olio tra Europa ed Americhe. [...] Come la rivoluzione francese, anche quella italiana ebbe una componente demoniaca, nel senso di elogio del diavolo quale naturale oppositore alla Chiesa. [...] il regno della rivoluzione è il regno del diavolo [...] Perché il diavolo [...] è il primo rivoluzionario».
Ad attendere Orsini accorrono i Malaspina, gli Sgariglia, gli Arpini ed altri cognomi filo repubblicani. Dalle sue parole emerse come: «Io vado per le brevi: uso formale e leggi militari; chi manca viene severissivamente punito; so discernere il reo dall’innocente, l’istigatore dall’ingannato; ma piombo con mano ferrea su tutti coloro che hanno osato prendere le armi a sostegno del delitto, del furto, dell’assassinio [...]. Tutti quelli che, per i loro antecedenti si conoscono indebitamente avversi all’attuale ordine politico ed aderenti al brigantaggio, non possono portare armi di sorta: se rinvenuti con le armi alla mano, o se nelle loro abitazioni trovansi armi e munizioni da guerra, quale che sia la quantità, saranno arrestati e tradotti innanzi alla Giunta Militare: provato il fatto, entro il termine di 24 ore, saranno fucilati. Tutti quelli che presteranno aiuto ai briganti o li ricovereranno saranno punti con la fucilazione. Quei villaggi che, per caso, opponessero resistenza o si opponessero al ristabilimento dell’ordine, saranno trattati secondo il diritto di guerra [...] dovendosi sempre rispettare l’Augusta Religione».
Non solo: il Commissario straordinario ordinava tramite circolare come gli stemmi pontifici abbattuti nei luoghi sacri dovevano essere ripristinati ed ancora ordinava ai parroci ascolani l’imposizione – durante l’omelia dal pulpito – di leggere le disposizioni prese dal nuovo governo per estirpare quello che veniva definito come “brigantaggio”. I sacerdoti refrattari sarebbe stati fucilati senza processo secondo le disposizioni militari.
Al 15 maggio del 1849 le cittadine di Offida, Montalto, Montelparo, Ortezzano, Patrignone, Comunanza, Monterinaldo, Montemonaco, Montefortino erano in mano papalina.
Agatone De Luca Tronchet e Vincenzo Vallorani vengono nominati per la riconquista dei paesi menzionati; guidano rispettivamente le truppe dei volontari fermani e un drappello di finanzieri. I Paesi abbandonati dalle truppe in eterno movimento dei coscritti Trono e Altare, tornano nelle mani dei mazziniani che il 23 maggio bruciano tutte le insegne e i simboli dello Stato Pontificio in un enorme falò a Montalto.
Ripresa gran parte della provincia Orsini puntò ora ad abbattere Giovanni Piccioni in una battaglia risolutiva. Comanda a due colonne di soldati capitanati dal Tenente Gaggiano di stanarlo sulle montagne di Rosara. L’incontro tra le due fazioni è duro, violento e gli uomini di Piccioni hanno infine la meglio con le truppe repubblicane in fuga. Successivamente le truppe dei mazziniani subirono degli arresti anche in diverse località montane come Balzo e Propezzano. Le sconfitte acuiscono gli aguzzini in città: Orsini giudica sommariamente 156 detenuti politici con un processo da farsa hitleriana. Solo alcune operazioni diplomatiche ascolane riuscirono a scongiurare le esecuzioni, commutando, il 27 maggio dello stesso mese, la pena capitale in quella dei lavori forzati a vita. L’azione torna di nuovo in mano agli ex soldati dello Stato Pontificio che il 29 maggio conquistate le colline intorno all’ascolano e comandate da don Taliani e Giovanni Piccioni alle 14:00 iniziarono dai declivi a moschettare i difensori repubblicani, i quali riuscirono solo con un assalto alla baionetta – uscendo da Porta Solestà – a metter in fuga i reazionari. Ma il giorno dopo, il 30 maggio del 1849 – le stesse unità combattenti di don Taliani, Piccioni e Cecchini attaccarono nuovamente le mura cittadine. Obiettivo era per i papalini non la presa della città, ma l’instabilità istituzionale dei repubblicani nei riguardi della popolazione, in attesa dell’arrivo delle truppe alleate austriache. Anche nel teramano Mons. Domenico Savelli organizzava una nuova spedizione per l’ascolano in vista dell’imminente ristabilizzazione dell’Ordine costituito. L’Orsini circondato in città anche da uomini poco fedeli alla causa repubblica, perché costretti (si veda il Segretario Generale al Governo di Ascoli Raffaele Trevisani e il capo delle truppe cittadine Colonnello Cavanna, fervente sostenitore del precedente Papa Gregorio XVI) o da spie al servizio del Papa (come il Colonnello Freddi, il quale fu uno dei primi a disertare dopo la restaurazione successiva), i primi giorni di giugno lascia la città. La motivazione pubblica è una spedizione contro i briganti, ma in realtà si tratta di una vera e propria fuga, nella quale fa in tempo a prendere in ostaggio tre preti sanfedisti don Ferdinando Piccinini, l’ex frate Organtini e Padre Maestro Giuseppe Luciani; in ostaggio anche il marchese papalino Carlo Malaspina. Lasciano Ascoli Piceno 530 fanti e 50 carabinieri a cavallo; al suo seguito si riconosce “Sciabolone”, quel Matteo Costantini a capo dei suoi 56 volontari del “Battaglione ascolano monilizzato”. Arrivato in segretezza ad Offida, saccheggia il denaro papalino di 500 scudi, per pagare i soldati oramai senza paga da mesi: il denaro restante lo trattiene per mantenersi la sua schiera armata per almeno altri tre mesi. Il giorno dopo sarà a Montalto, rendendo chiaro alle truppe papaline l’intento di ritirata verso Roma. Lasciò Montalto per Force con meno di 350 uomini: la metà aveva già disertato abbandonandolo.
[caption id="attachment_12579" align="aligncenter" width="1000"] Antonio Orsini (Ascoli Piceno, 9 febbraio 1788 – Ascoli Piceno, 18 giugno 1870) è stato un mazziniano e naturalista. Farmacista e scienziato viene ricordato per il suo impegno militare e politico nella Repubblica Romana. Senatore del Regno d'Italia, ricevette il titolo di nomina regia che ricevette nell'anno 1861 insieme all'onorificenza dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro. Fu anche eletto consigliere provinciale del mandamento di Arquata. Morì ad Ascoli il 18 giugno 1870.[/caption]
Siamo arrivati al 7 giugno del 1849 ed Ascoli torna libera città sotto lo Stato Pontificio: Giovanni Piccioni iniziò l’attacco con i suoi uomini da porta Tornasacco; mentre don Taliani sferravano l’offensiva a Porta Solestà. Dopo numerose perdite la Guardia Civica riesce ancora a respingere l’attacco, ma nei giorni successivi tutta la provincia torna nelle mani del Papa Re Pio IX.
Orsini nell’arrivare a Force dovette anche difendersi dagli attacchi dei volontari pontifici nei pressi di Montedinove, sul torrente Pallone vicino il bosco di Rovetino. Arrivato in città si incontra con un altro repubblicano doc Capitano Serafino Wiser che lo aggiorna sulla caduta di gran parte della Marca fermana, Fermo compresa. Orsini è circondato a Force. Il 15 giugno tenta una sortita a Monte della Torre per forzare il blocco senza riuscirci. Infuriano i combattimenti fin sotto Porta S.Pietro di Force tra i due schieramenti, che vedono ben 2.000 papalini assediare la cittadina. Infine per togliere valore alla conquista della città per mano papalina, Antonio Orsini si dimette dalla carica che il Triunvirato gli ha concesso. Il 18 giugno con l’arrivo delle truppe austriache comandate dal Tenente Tommaso Withedenscky Force capitola. L’Ufficiale austriaco contravvenendo ad ordini superiori che impartivano “il disarmo incondizionato di tutti i repubblicani” concede a tutti gli ufficiali mazziniani dei salvacondotti. Così Orsini, tagliata la barba e qualificandosi come il Sottotenente Francesco Pinelli, riuscì a sgattaiolare fino a Foligno.
Ad Ascoli nel frattempo, caduta San Benedetto del Tronto in mano austriaca, il 21 giugno vengono abbattuti l’Albero della libertà in piazza del popolo e riposizionati gli antichi stemmi del Papa. Il giorno dopo le truppe austriache acquisiscono la città marchigiana. Sono comandate da un viennese Maggiore Karl Streel il quale con un proclama ordinava come venisse ristabilito il Governo Pontificio e decaduto quello repubblicano: la città dopo il Te Deum in Cattedrale, aveva per le strade urla festanti inneggianti Pio IX. Gli austriaci lasciarono l’ascoli papalina il 5 luglio, con il comandante Streel, vero gentiluomo e militare, esprimersi nei confronti degli ascolani con queste parole: “ottimi cittadini per la esemplare condotta tenuta nel ripristino del Governo Pontificio”.
Il ristabilimento dello Stato Pontificio nella città di Ascoli Piceno, sembra anche segnare la fine della carriera avventurosa di Matteo Costantini detto “Sciabolone”, che viene arrestato dai reazionari – suoi antichi compagni d’arme – il 28 luglio con l’accusa di furto, concussione, rapina; trasferito nel carcere di Fermo, dopo processo, fu condannato al carcere a vita. Morirà da cattolico, il 13 novembre nel carcere di Ripatransone alle 12:00 del anno del Signore 1849.
Giovanni Piccioni da alcune lettere ritrovare tra scambi epistolari di alte gerarchie pontificie, emerge in senso positivo: si legge che il Piccioni sia stato «vero eroe che si è rovinato per l’attaccamento al Governo». La Santa Sede rimborsò tutti i montanari sanfedisti che avevano contribuito al ristabilimento del Governo pontificio, pagando un caro prezzo in beni materiali. Così furono concesse alle popolazioni dell’arquatano e del montegallese la somma di 2.000,00 scudi. Contrariamente Giovanni Piccioni non chiese nulla né per sé, né per la sua famiglia: i veri eroi, rovinati dalle orde repubblicane, nonostante fossero stati i leader più rappresentativi e artefici delle vittorie più clamorose degli scontri, evidentemente già aspettavano le prossime battaglie. Purtroppo la loro unica richiesta, non fu esaudita, poiché nella visita di Pio IX ad Ascoli il 17 e 18 maggio del 1857, il Pontefice si rifiutò di incontrare in udienza la sua famiglia, trincerandosi dietro una “ragione di Stato” (nel Palazzo Vescovile di Ascoli Piceno in Piazza Arringo, ancora oggi – al piano nobile – vi è la targa recanti lo stemma del Beato Pio IX per il suo soggiorno nell’ascolano). Al suo processo (nel 1864) che lo vedrà condannato a 16 anni di carcere, egli parlerà della sua esperienza: «nel 1848 erasi stabilita in Roma una cosidetta “Direzione Organica” ad oggetto di sostenere in questa Provincia il Governo Pontificio. La Direzione mi incaricò di organizzare un Battaglione Pontificio di Volontari, di cui fui fatto Maggiore. Restaurato il Governo ne ebbi una medaglia ed una pensione di 3 Scudi Romani al Mese».
 
Per approfondimenti
_Galanti Timoteo, Dagli Sciaboloni ai Piccioni - Il "brigantaggio" politico nella Marca pontificia ascolana dal 1798 al 1865 - Edigrafital, Roma, 1990; _Giorgio Enrico Cavallo, Risorgimento: guerra alla Chiesa, Edizioni Radio Spada, Carmenate, 2020; _Don Luigi Pastori, Ascoli sotto l'albero della libertà. Manoscritto n°40, Biblioteca AP, Montalto, 1940; _Giovanni Spadoni, L'insorgenza marchigiana durante il Regno italico; _Archivio di Stato di Ascoli Piceno Governo Pontificio - Delegazione Apostilica, Fasc- 1-7 e 1-12, 1831; _Archivio Segreto Vaticano, Segreteria, Nunziature, 1833, busta 99-100; _Archivi parrocchiali esistenti nelle Chiese di: Arquata, Acquasanta Terme, Castel Trosino, Chiesa del Carmine (AP), Ceraso, Farno, Fleno, Lisciano (AP), Montegallo, Mozzano, Piedicava di Acquasanta, Pascellata, Rocca Monte Calvo, San Gregorio, Santa Maria a Corte, Valle Castellana, Venarotta, 1750 - 1870; _Enrico Liburdi, La rivoluzione del 1831 nelle Provincie di Fermo e Ascoli, Macerata, 1935; _Domenico Spadoni, Il Governo pontificio ed i primi processi carbonici marchigiani. Atti e Memorie della Regia Deputazione di Storia patria per le Marche, 1916.  
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di Giuseppe Baiocchi del 20-06-2021

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Rivale di La Fayette e di Lauzun, precursore di La Rochejaquelein, il marchese de La Rouërie aveva più ingegno di loro: si era battuto più spesso del primo; aveva rapito delle attrici all’Opéra come il secondo; sarebbe diventato compagno d’armi del terzo. In Bretagna, frugava i boschi in compagnia di un maggiore americano e di una scimmia seduta sulla groppa del cavallo. Agli studenti di diritto di Rennes piaceva, perché era ardito nell’agire e libero nel pensare: era stato uno dei dodici gentiluomini bretoni rinchiusi nella Bastiglia. Aveva corporatura e modi eleganti, un’aria audace, un volto affascinante, e somigliava ai ritratti dei giovani signori della Lega. Queste poche righe, del letterato francese R. A. de Chateaubriand (1778 - 1848), possono inquadrare bene lo spirito di quest'uomo, dalla vita incredibile.
[caption id="attachment_12425" align="aligncenter" width="1000"] Jean Fréour, Statua della Rouërie (1993) - Fougères, Ille-et-Vilaine, Bretagna, Place Aristide Briand (Square des Fusillés),[/caption]
Per capire quanto perse la Francia durante le guerre di Vandea (1793-95-99-1815), è bene conoscere gli uomini singolarmente, tentare di tracciare – per quanto difficile – un percorso di completezza ad un periodo storico complicato. Tra i diversi generali, sicuramente un posto speciale merita il marchese de la Rouërie (1751 - 93). In un secolo generoso di grandi destini, pochi uomini avevano conosciuto tanta gloria e tanta disperazione, tanta elevazione e tanta umiliazione che questo signore bretone. Il bicentenario dell’indipendenza americana ha portato gli storici a riscoprire l’eroe dei due mondi, ingiustamente immerso nell’oblio nonostante il lavoro di Gosselin Lenotre (1855 - 1935).
Quando venne a stabilirsi definitivamente nella sua terra a Rouërie, vicino a Fougères, il colonnello Armand – come amava farsi chiamare – fu preceduto lì dalla fama delle sue brillanti imprese belliche, come anche dai frammenti di una giovinezza turbolenta. Nato il 13 aprile 1751, presso l’Hôtel de la Belinaye, Charles-Armand Tuffin de la Rouërie era figlio di Anne-Joseph-Jacques Tuffin, cavaliere e conte di La Rouërie e Dame Thérèse de la Belinaye.
A diciassette anni, partito per Parigi e messosi sotto l’egida di suo zio Charles de la Belinaye, mentore poco serio, entrerà nel corpo della Guardia francese della Maison du Roi. Difatti poco dopo, il giovane si era già invaghito di una attrice da operetta, Marie-Anne-Florence Bernardy-Nones (Miss Beaumesnil, 1766 - 1818), che da donna di mondo, gli dimostrò la follia di un simile progetto.
Il giovane, disperato, corse a chiudersi in un piccolo villaggio fuori Parigi, La Trappe, con la ferma intenzione di finire lì i suoi giorni. Non resistette una settimana, che riprese immediatamente la sua vita dissoluta a Parigi. Le sue goliardate furono memorabili: ha ballato una danza classica sul palcoscenico dell’Opera, ha avuto litigi, duelli, ha contratto debiti, e fortificato da questi talenti e dai suoi straordinari precedenti, non esitò a chiedere al conte de Ranconnet de Noyan, il suo vicino, la mano di una delle sue figlie. Nessuno del “bel mondo” fu sorpreso nell’apprendere il diniego del vecchio Tenente-generale.
Qualche tempo dopo, a seguito di una lite con il conte di Bourbon-Busset, cugino del re, riguardo la giusta gradazione per la cottura di un pollo, lo sfidò a duello; La Rouërie ferì il suo avversario, che morì dopo dieci giorni; il Re, informato del fatto, si arrabbiò e minacciò di impiccare La Rouërie che decise di porre fine alla sua vita. Per sfuggire alla corda, si somministrò l’oppio, ma la dose non fu sufficiente e ripresosi, fuggì a Ginevra, nella placida Svizzera.
Da lì fece spedire le sue dimissioni dalla compagnia di Radepont da Tenente della Guardia; dopodiché, dopo aver salutato sua madre, partì improvvisamente per il Nuovo Mondo, l’America, cedendo alla febbre contagiosa della libertà che ammaliò poi molti nobili. Prese tre domestici e lasciò in Francia un figlio a cui aveva dato il suo nome.
La traversata durò due mesi. Appena raggiunte le coste, la nave che trasportava Armand de la Rouërie fu attaccata da una fregata inglese. Lo scontro portò la distruzione dell’imbarcazione e il marchese, completamente nudo, si vide costretto – con i suoi tre domestici – ad arrivare a riva a nuoto. Era la fine dell’aprile del 1777, poco prima che arrivasse il talentuoso La Fayette a dare manforte a quegli inglesi ribelli che si erano auto-proclamati americani. Si era in piena guerra d’indipendenza americana (1775 - 83).
Il suo battesimo di fuoco avverrà nella battaglia di Short Hills il 26 giugno del 1777, nel quale con il grado di Colonnello, comanda una libera compagnia straniera dell’esercito Continentale.
La battaglia si concluse, tuttavia, con una sconfitta per gli americani contro gli inglesi, che erano meglio addestrati e due volte più numerosi. Il corpo di Armand viene decimato: 30 uomini su 80 vengono uccisi. Nonostante tutto, riesce a salvare un cannone, un’arma rara e preziosa per gli americani. La guerra prosegue e la sua leggenda cresce: nell’agosto del 1779 riesce a catturare John Graves Simcoe (1752 - 1806), comandante dei famigerati Queen’s Rangers, una truppa resosi celebre per le sue devastazioni. Ma l’azione più notevole di La Rouërie durante la campagna militare fu quella che fu chiamata il “Raid di Westchester”. La Rouërie comanda sia una truppa di fanteria che una di dragoni e con solo venti cavalieri, riesce nell’impresa di catturare un altro importante comandante inglese, il Maggiore Baremore capo di un corpo di partigiani lealisti, particolarmente temuti dalla popolazione1
Traslato nell’armata continentale meridionale nel 1780, la sua legione viene decimata nella Battaglia di Camden del 16 agosto, ma il suo essere bonario, allegro, coraggioso ai limiti dello spericolato, lo fecero rimanere simpatico agli americani e il nome di “colonnello Armand” divenne in breve tempo popolare come quello di La Fayette; così che François Jean de Beauvoir, marchese de Chastellux (1734 - 88) notò, nel 1780 come: «il Colonnello Armand è famoso in America per il suo coraggio e le sue capacità».
Dovendo ricostituire e riarmare la sua legione, torna in Francia per sei mesi, cercando di convincere la royal army a formare sotto il suo comando una forza armata all’interno dell’esercito continentale statunitense, ma la proposta viene rifiutata. Desideroso di riorganizzare la sua truppa, impegna le sue ricchezze e le sue terre avendo in prestito 50.000 sterline al 5% di interesse. La Rouërie acquistò così 100 selle di cuoio, 150 sciabole da ussaro, 160 paia di pistole, 975 camicie, 160 coperte, 150 paia di stivali con speroni, 320 elmetti di rame, metà dei quali con pennacchi, 4 trombe e 4 shako. Grazie ad una lettera di servizio di Washington, ottenne anche la croce di Saint-Louis il 15 maggio 1781 e la sua riabilitazione.
Di ritorno in America, prese parte all’assedio di York: in testa alle sue truppe, in mezzo a palle di cannone e fuoco d’artiglieria nemico, fu visto avanzare all’arma bianca in mezzo alla polvere da sparo che ben presto lo travolse occultandolo alla vista. Dato per morto, il marchese era vivo e vegeto: così George Washington (1732 - 99), per riconoscere il suo valore, lo autorizzò a raccogliere 50 uomini, tra i migliori dell’esercito, per rafforzare la sua compagnia completamente decimata.
Ha mostrato lo stesso coraggio ovunque: forse era, a suo piacimento, un modo per riscattare le sue follie passate. Due lettere conservate negli archivi del Ministero della Guerra, una da La Fayette, del 26 novembre 1778, l’altra dal Generale Washington, del 16 febbraio 1780, concordano di lodare «il suo illustre merito, il suo grande zelo, il suo attivismo, la sua intelligenza, prontezza e coraggio».
Terminata la campagna, lascio il nuovo mondo per ultimo, per rendere i servizi dei suoi compagni d’armi al Congresso e tornò in Francia nel 1783, da eroe, con 50.000 franchi di debito, la Croce di Cincinnatus, una scimmia e un amico, il Maggiore Chafner, un ufficiale americano che non avrebbe mai più lasciato.
Fu il ricordo del suo passato rumoroso o il tono leggermente sprezzante ed eccessivo che mise nella sua richiesta di servizio, ad impedirgli di ottenere il comando che cercava al suo ritorno? Resta il fatto che la sua richiesta fu respinta: nel vecchio mondo gli errori non si riparano.
All’inizio del 1786, La Rouërie cerca di riprendere la carriera delle armi, grazie ai suoi servizi in America, dove fu nominato colonnello, spera di ottenere una posizione equivalente all’interno dell’esercito francese. Il generale Washington raccomandò il marchese al conte Jean-Baptiste Donatien de Vimeur de Rochambeau (1725 - 1807) in una lettera del 16 maggio 1784.
Ma La Rouërie è tornato troppo tardi in Francia per beneficiare delle promozioni che sono già state concesse agli altri ufficiali. Anche Anne-César de La Luzerne (1741 - 91), ambasciatore francese negli Stati Uniti, cerca tuttavia di intervenire per suo conto.
[caption id="attachment_12429" align="aligncenter" width="1000"] Charles Willson Peale (1741 – 1827), Armand Tuffin de La Rouërie, olio su tela 1783.[/caption]
Così Luigi XVI pensò che lo avrebbe soddisfatto nominandolo colonnello di un reggimento di cacciatori di piedi. Ma non conosceva l’orgoglio bretone: La Rouërie rifiutò, egli voleva mantenere il prestigio di un reggimento di cavalleria e non concepì di servire nella fanteria. Sperando di migliorare la sua posizione agli occhi del Sovrano, discusse invano con il Ministro della Guerra Louis-Marie-Athanase de Loménie, conte di Brienne (1730 - 94), che aveva notoriamente ottenuto la stima di Washington, ed era stato nominato colonnello anche prima di La Fayette. Ottenne tuttavia unicamente l’assicurazione dall’ex Ministro della Guerra, il Maresciallo Philippe Henri, marchese di Ségur, che i suoi servizi in America sarebbero stati considerati come se fossero stati al servizio della Francia. Con un nulla di fatto, ritornò in Bretagna, costretto, a trentatré anni, a vivere pigramente nel suo Hôtel a Fougères o nel suo castello a Rouërie. La sua fortuna era, inoltre, compromessa: possedeva una passività di 65.000 franchi.
Armand fu costretto a ripensare ad un matrimonio che risanasse le sue finanze. La figlia maggiore del conte de Noyan, di cui una volta aveva chiesto la mano, aveva sposato il conte di Kersalaün. Era verso la signorina Louise Charlotte Guérin marchese di Saint-Brice2 che pose gli occhi e dalla quale fu ricambiato: una delle più belle donne e soprattutto una delle ricche ereditiere della Bretagna.
La madre del Marchese de la Rouërie, l’amico Chafner, sua cugina Thérèse de Moëlien de Trojoliff, firmarono il contratto stipulando, in regime comunitario secondo l’usanza bretone – con l’esclusione, tuttavia, dei debiti contratti prima ed eventualmente dopo il matrimonio – una successione paterna di 24.000 libbre di mobili dalla futura moglie. Il matrimonio ebbe luogo nella cappella del castello di La Motte à Saint-Brice-en-Coglès, il 27 dicembre del 17853.
Dopo tre mesi di unione, la giovane marchesa de la Rouërie si ammalò di tubercolosi polmonare. Suo marito chiamò un giovane medico di ventisette anni, il dottor Valentin-Marie-Magloire Chevetel (1758 - 1834), eminenza grigia che avrebbe avuto un ruolo di primo piano nella vita del marchese. Chévetel, figlio di un onorevole dottore di Bazouges, che da bambino prestava le sue cure a Chateaubriand, aveva un aspetto gradevole, modi eleganti, spirito distinto e fece subito colpo a la Rouërie, che lo trattò da amico al pari del maggiore Chafner. Il medico, ordinò alla moglie le acque termali di Cauterets, ma la permanenza nei Pirenei non alleviò Louise Charlotte: morì dopo alcune settimane, il 18 luglio 1786, appena sei mesi dopo il matrimonio.
La morte improvvisa della giovane moglie, pose fine anche all’idea di un viaggio in Prussia con il maggiore Schaffner, per studiare la strategia militare dell’esercito alemanno-tedesco, che era particolarmente famoso.

Inattivo e rattristato, il marchese si dedica alla caccia nelle sue selvagge tenute della Bretagna. Vi erano allora in Bretagna sei foreste nere: l’ausilio dell’elemento silvano fu fondamentale per la rivolta in Vandea. La foresta di Fougères, sbarrava il passaggio fra Dol e Avranches; quella di Princé, di otto leghe di circuito; quella di Paimpont, piena di torrenti e di ruscelli, quasi inacessibile dalla parte di Baignon con una ritirata facile su Concornet; la foresta di Machecoul che avrebbe avuto Charette per bestia feroce; la foresta di la Garnache che era in mano dei La Trémoille, dei Gauvain e dei Rohan; la foresta di Broceliande, che apparteneva alle fate.

Durante questo periodo, frequentò principalmente il maggiore Schaffner e sua cugina Thérèse de Moëlien de Trojolif (1759 - 93). Queste tre persone quasi mai si lasciano, Schaffner e Moëlien si stabiliscono addirittura nel castello di La Rouërie. Talvolta è stato affermato che il marchese e Thérèse erano amanti, ma sono voci che rimasero sempre nei corridoi. Essendo diventato amico del dottor Valentin Chevetel, La Rouërie ottenne per lui un posto come medico a Parigi nella casa del conte di Provenza, fratello del Re.
La Rouërie, sempre più annoiato fu “salvato” dagli eventi che stavano per succedere in Bretagna. Il suo pensionamento sembra concludersi quando iniziò una lite governativa tra la corte di Versailles e la nobiltà bretone, sostenuta dal parlamento della Bretagna. Personaggio noto in tutta la Provincia, il “Colonnello Armand” non si lasciò scappare questa nuova interessante difesa politica per il suo popolo.
L’8 maggio del 1788, il Luigi XVI approvò gli editti di Brienne e Lamoignon, attraverso i quali annullò i poteri politici e diminuì la competenza giudiziaria dei parlamenti. Ma il parlamento della Bretagna, provincia di Stato, rifiuta la nuova applicazione regia, poiché considera tali editti contrari al trattato dell’Unione di Bretagna alla Francia del 1532. Antoine-François Bertrand conte di Molleville (1744 - 1818) intendente della Bretagna, recatosi a Rennes, per registrare gli editti in Parlamento, trova le barricate e insulti con tanto di lancio di pietre e persino alcuni colpi di pistola. La truppa furono inviate per ripristinare l’ordine, ma alcuni ufficiali, anch’essi bretoni, sono riluttanti verso la repressione. Scontri si svolgono a Rennes, ma alla fine i soldati governativi sono costretti a battere in ritirata. La nobiltà degli Stati di Bretagna firmò una petizione di massa al Re, decidendo di inviare una delegazione di dodici nobili bretoni per portare una rimostranza a Versailles. Gli chevalier scelti sono tutti celebri: i marchesi, Maurice Gervais Joachim Geslin de Trémargat (1740 - 1819), Charles Sévère Louis de la Bourdonnaye de Montluc (1737 - 98), César de Carné-Trécesson (1742 - 1825), Claude Henri du Bois de La Féronnière (1740 - 1800) e La Rouërie; i conti di Nétumières, Becdelièvre, La Fruglaye, Bedée, Cicé e Godet de Chatillon, e infine lo chevalier di Guer.
La delegazione inizia portando una dichiarazione a Henri Charles Gabriel de Thiard de Bissy, conte di Thiard (1723 - 94), comandante delle truppe reali a Rennes: «Dichiariamo infami coloro che potranno accettare alcuni posti, sia nella nuova amministrazione della giustizia, sia nell’amministrazione degli Stati, poiché non sono riconosciuti dalle leggi della Bretagna»4.
Il 5 luglio all’arrivò a Versailles, l’atmosfera era tesa: i deputati bretoni erano sgraditi. Il re rifiuta di riceverli in pubblico. Dopo aver informato il Parlamento, la delegazione rimane a Parigi, in attesa del “buon piacere di Sua Maestà”. Incredibilmente la sera del 14 luglio 1788, i deputati bretoni vengono arrestati da agenti reali provvisti di lettere con tanto di timbro reale: li aspetta la Bastiglia. Informato il parlamento della Bretagna, questo si sforza di provvedere ai loro bisogni e persino nell’assicurare loro un certo conforto. Ai prigionieri furono quindi consegnate 240 bottiglie di Bordeaux e il 21 agosto, fu affittato un tavolo da biliardo per i detenuti.
Il maggiore Schaffner scrisse una lettera al marchese de La Fayette per lamentarsi della prigione dei deputati bretoni. Gilbert du Motier rispose: «Non hai nulla da temere per il nostro amico comune, se non la noia della prigione e ho motivo di credere che la situazione non durerà molto. Le sofferenze di Armand, per il suo paese, aumenteranno la sua fama e gli manterranno un rispetto pieno di onore nell’assemblea generale»5.
[caption id="attachment_12432" align="aligncenter" width="1000"] Château de la Rouërie à Saint-Ouen-la-Rouërie ©-Sten-Duparc - Originariamente basato sulle fondamenta di un'antica rocca dell'XI secolo, il castello fu costruito in diverse campagne, principalmente nel 1624, 1730, 1824. Proprietà del marchese Armand Tuffin de la Rouërie. La madre del marchese, nata Thérèse de la Belinaye, decise prima della sua morte nel 1808, di vendere l'intera tenuta , che fu rilevata nel 1813 da Georges-Bourges du Pré de Saint-Maur. La famiglia Barbier du Mans de Chalais è proprietaria del castello dal 1822, per acquisizione della famiglia du Pré de Saint-Maur.[/caption]
Il 25 agosto 1788, il ministero guidato da Étienne-Charles de Loménie de Brienne cadde, causando il rilascio dei dodici deputati lo stesso giorno. Il ritorno in Bretagna, e in particolare a Fougères per il marchese La Rouërie, è un trionfo. Le parole di La Fayette si avverano: Armand è uno degli uomini più popolari di Bretagna, la sua fama lo precede. Ma la discordia, che avrebbe portato il Paese alla rovina, non era ancora finita. Apparve un altro spettro, questa volta interno, che si opponeva ai deputati della nobiltà a quelli del Terzo Stato. Così come ampiamente descritto da Chateaumbriand in Memorie d'Oltretomba, gli Stati della Bretagna, convocati nel dicembre del 1788, si conclusero in un conflitto armato che portò ad un nulla di fatto.
Il 26 gennaio, un giovane leader studentesco Jean Victor Marie Moreau (1763 - 1813), rimasto celebre in seguito per un tradimento militare contro Napoleone, già capo degli studenti della facoltà di giurisprudenza dell’Università di Rennes – dove insegnava il liberale Jean Denis, conte di Lanjuinais (1753 - 1827), Isaac René Guy Le Chapelier (1754 - 94) e Louis-Jérôme Gohier (1746 - 1830) –, ebbe l’idea di costituire un Club bretone, e con un una rivolta armata studentesca, assalire gli Stati Generali per costringere i nobili ad accettare le clausole del Terzo Stato.
Ma quello che Moreau non si aspettò fu certamente la reazione dei nobili, che armi alla mano uscirono dall’assemblea il 27 gennaio. La Rouërie, ovviamente, è il primo ad uscire spada al vento fuori dal convento. Quel gruppo folto di nobili vedeva anche un giovane Chateaumbriand bagnarsi del suo primo sangue e diventare poi il poeta guerriero emigrato nelle armate dei Prìncipi.
Certamente la vista del mito La Rouërie, che avanzava alla loro testa, non sconcertò solo gli stessi giovani rampolli bretoni, ma anche e soprattutto gli studenti con i quali era diventato personaggio noto e popolare. Ci furono morti e feriti e i nobili forzarono il blocco. La data di apertura degli Stati Generali a Parigi si stava avvicinando e La Rouërie ambiva ad essere eletto deputato. Ma quando presentò la sua candidatura a Rennes, incontrò l’opposizione del resto della Nobiltà. In effetti, la noblesse e l’alto clero della Bretagna si decisero di disertare, per protesta, gli Stati Generali che di lì a poco si sarebbero tenuti. Secondo loro, l’ordinanza di Necker, che come spiegato, aveva abilmente regolato la modalità delle elezioni per gli Stati Generali, non tiene conto delle leggi e dei costumi della Bretagna. Inoltre, la nobiltà intende protestare contro l’aumento dei deputati che il Parlamento ha concesso al Terzo Stato. La Rouërie è uno dei rari nobili bretoni ad opporsi a questa misura. Tentò di convincere, quasi uno per uno, tutti i nobili membri del Parlamento, ma senza successo.
Un uomo, “il Colonnello Armand” davvero singolare, che ispira simpatia: liberale, combattente per gli Stati Uniti, ammiratore della Rivoluzione Americana, legato al governo repubblicano statunitense, in Francia rimane ferocemente un realista. Perché? Il motivo è semplice: è un uomo mosso dagli ideali politici, che sono sempre legati alla storia e alla tradizione di un Paese. Come è vero che un asino non è un cavallo, così il giovane Stato americano, non assomigliava al Regno di Francia, che con tutti i suoi errori, doveva conservare la figura del Sovrano. Se si può esprimere un paragone, questo può essere fatto con le idee vicine a quelle dello statista e filosofo inglese Edmund Burke (1729 - 97), controrivoluzionario di tendenza liberale, che in seguito avrebbe scritto le sue “Riflessioni sulla Rivoluzione in Francia”.
Infastidito di non poter partecipare alle Tenute Generali, il marchese tornò a Saint-Ouen-la-Rouërie, ma continuò comunque a seguire gli eventi a Parigi e Versailles. Si ripete anche per lui, il profilo ideologico di tutti gli uomini che presero parte alla controrivoluzione vandeana: anche La Rouërie ambiva ad una Monarchica Costituzionale. Sebbene favorevole alle riforme, la piega che gli eventi prendono lo rattrista molto. Molto legato ai diritti della provincia della Bretagna, disapprova totalmente l’istituzione dell’Assemblea Costituente che soppianta i parlamenti locali. Credeva che i poteri del Re dovessero essere limitati dai parlamenti provinciali e non da un’unica assemblea seduta nella capitale. Abbastanza indifferente alla presa della Bastiglia, si oppose in particolare agli eventi della notte del 4 agosto, dove, con l’accordo dei deputati bretoni del Terzo Stato, tutte le leggi, gli statuti e le usanze speciali della Bretagna, erano considerate unicamente dei privilegi e vengono rimosse.
Irritato e profondamente deluso dalla Rivoluzione francese, incapace di opporsi agli eventi della storia che lo sommergono, La Rouërie pensa anche di emigrare negli Stati Uniti, ma scappare non sarebbe stato da lui. Cominciò a frequentare uno dei suoi vicini, il conte Louis-René conte di Ranconnet-Noyan (1730 - 1810), un antico Signore che viveva a La Mancelière, nel Baguer-Pican, il quale condivideva le idee del marchese. Dalle loro discussioni, nascerà l’idea di dare vita ad una associazione per la difesa delle leggi specifiche della Bretagna.
A metà dell'anno 1789, La Rouërie scrive al suo amico George Washington, dove gli espone i suoi propositi: «Gli eventi in questa parte del mondo non stanno andando come le persone oneste e imparziali vorrebbero. Eccellenza dovete aspettarvi notizie molto angoscianti sotto questo punto. Temo due grandi mali per questo paese: l’anarchia e il dispotismo. […] Ogni spirito qui si afferma genio e crede di essere un legislatore. Uomini di spirito, li abbiamo. Uomini di conoscenza, virtuosi delle arti e delle scienze, li abbiamo. Ma uomini straordinari per la profondità delle loro opinioni e la loro devozione al bene pubblico, questi non li abbiamo. La nobiltà si aggrappa ai loro diritti di nascita. Per quanto riguarda il clero, avrebbe combattuto se avesse avuto più coraggio e meno figli naturali. […] Mio caro generale, non è così che voi e il vostro Paese avete ottenuto la libertà»6.
In un’altra lettera a Washington, che nel frattempo divenne presidente degli Stati Uniti, risalente all’agosto del 1790, scrive: «Ho mantenuto tutti i miei amici del passato, tranne quelli che hanno un posto nella nostra Assemblea Nazionale, che disprezzo profondamente, qualunque parte scelgano, perché hanno tutti tradito la loro carica»7.
Il 22 marzo 1791 a Fougères, il marchese de La Rouërie ricevette la visita di François-René de Chateaubriand che doveva partire per l’America. La Rouërie gli scrisse una lettera di raccomandazione per Washington: sarebbe stata l’ultima corrispondenza effettuata dal marchese al Presidente degli Stati Uniti.
La soppressione delle particolari leggi della Bretagna indigna soprattutto la nobiltà, che rimpiange fortemente la sua assenza agli Stati Generali di Parigi. All’inizio del 1791, René-Jean de Botherel du Plessis (1745 - 1805), procuratore generale sindacale degli Stati della Bretagna, denunciò le misure dell’Assemblea costituente.
«Dichiariamo solennemente, in nome e per la felicità del popolo bretone, che la cosiddetta Assemblea Nazionale è illegalmente costituita, ed è contraria alla costituzione e ai diritti e delle franchigie della Bretagna, poiché tende a sovraccaricare questa di tasse come già avvenuto nelle altre parti del Regno […] e adottiamo tutte le precauzioni prese e da prendere per annullare, e ripristinare la maestosità del Trono e mantenere i diritti della provincia che nessuna autorità può distruggere e dalla quale potrebbe essere spogliata solo dall’ingiustizia e dalla malafede»8.
[caption id="attachment_12433" align="aligncenter" width="1000"] Un agente dei principi durante la Rivoluzione: il marchese de la Rouërie e la congiura bretone 1790-93, secondo documenti inediti di Lenotre, G., (1855-1935) del 1901.[/caption]
Per tutto l’anno 1790, La Rouërie lavorò per convincere i suoi conoscenti ad unirsi all’Association bretonne (Associazione bretone), rivolgendosi a nobili e personalità influenti del popolo. Cerca soprattutto di limitare l’emigrazione dei nobili, ma senza molto successo, arrabbiandosi con coloro che gli avevano promesso aiuto, come de Botherel du Plessis, e che infine emigrarono. La Rouërie inviò così una prima lettera al Charles-Philippe conte di Artois (futuro Carlo X di Francia, 1757 - 1836), all’epoca capo dell’emigrazione francese in Inghilterra: «Sarebbe necessario, Monsignore, opporsi al numero crescente di emigranti. In Inghilterra non servono a niente; mentre qui, nelle province, possono riguadagnare la loro influenza familiare e, se necessario, combattere con gli uomini a loro devoti. Potrebbero esserci attacchi isolati contro la loro gente, ma più siamo visti come numerosi e determinati, meno cercheranno di attaccarci»9.

Affinché questa associazione ottenga la vera legittimità, deve essere approvata dal Re. Ma Luigi XVI è considerato dai realisti un prigioniero dei rivoluzionari. La Rouërie decide quindi di rivolgersi al conte di Artois, fratello del re, poi emigrato a Coblenza nel Sacro Romano Impero degli Asburgo. La Rouërie salpò così per Saint-Malo alla volta dell’Inghilterra nel maggio 1791, accompagnata dal maggiore Schaffner, Teresa di Moëlien, sua cugina Gervais Marie-Eugène Tuffin de La Rouërie e tre dei suoi domestici. Dopo un breve passaggio attraverso l’Inghilterra, i viaggiatori raggiungono Ostenda, arrivando a Coblenza il 20 maggio, quindi vanno a Ulm dove vengono accolti dal conte di Artois. Quest’ultimo dà la sua approvazione al progetto, ma non avendo denaro sufficiente con sé, non può fornire i fondi necessari. Tuttavia, raccomanda di contattare Charles Alexandre de Calonne, il quale diede dei preziosi suggerimenti inerenti l’organizzazione dell’associazione, in particolare sulla necessità di reclutare un tesoriere e un ufficiale di collegamento. Il “Colonnello Armand” non ama gli emigrati, tuttavia trova reclita tra loro una sua vecchia conoscenza americana: lo chevalier Jean-Baptiste Georges de Fontevieux (1759 - 93), uno dei suoi ex-ufficiali. Fontevieux, originario del Palatinato-Deux-Ponts, è di origine franco-tedesca. Antrò nell’Associazione, accettando di diventare ufficiale di collegamento e responsabile della trasmissione di spedizioni e posta tra Coblenza e la Bretagna.

Dopo aver sbrigato la pratica burocratica con il Conte d’Artois – un documento firmato che conferma il suo accordo sulla creazione dell’Associazione –, i bretoni riattraversano il confine e ritornano in Francia. Il documento, cucito in una cintura, è indossato da Thérèse de Moëlien. Mentre i bretoni viaggiano attraverso la Lorena, il re Luigi XVI e la sua famiglia, in fuga, vengono arrestati a Varennes, non lontano da lì. I bretoni conosceranno questo luogo durante il loro tragitto. Fatalità, arrivarono a Parigi il 25 giugno del 1791, il giorno stesso del ritorno del Re nella stessa città. Alla ricerca di un posto dove trascorrere la notte a Parigi, La Rouërie va con i suoi compagni dall’amico Valentin Chevetel che li ospita. Con l’amico medico discute come sempre di politica, poiché fin dalla loro conoscenza si erano ritrovati nelle idee liberali. La Rouërie, in serenità, gli espone i suoi piani senza il minimo sospetto. Tuttavia, il povero marchese non poteva sapere che l’ideologia di Chevatel era cambiata radicalmente per causa della rivoluzione.
Vicino al Club dei cordiglieri, divenuto ardente patriota, era vicino a Marat e Danton. Astutamente accogliendo La Rouërie e i suoi compagni a casa sua, sta attento a non condividere le sue idee politico-rivoluzionarie con i suoi ospiti. All’inizio, l’Association bretonne fu semplicemente un’organizzazione civica di persone oneste contro estremisti rivoluzionari, ma l’evoluzione della Rivoluzione portò l’associazione a divenire un apparato militare organizzato, già all’inizio del 1792.
Di ritorno in Bretagna, La Rouërie riporta il potere concesso dal conte di Artois: «Essa è molto lontana da qualsiasi progetto tendente al dispotismo, i suoi princìpi sono fortemente contrari al governo arbitrario e ambiscono unicamente a rimettere il re in una posizione di forza per rafforzare le basi della monarchia, donando felicità al popolo, ed esercitando un’autorità temperata dalle leggi che ristabiliranno la vera Costituzione francese che può essere facilmente riconciliata con una ragionevole libertà; L’aiuto dato è di carattere gratuito; la restaurazione dell’ordine non prevede smembramenti o perdite delle province; uno dei primi effetti della controrivoluzione sarà quello di ripristinare le province nei loro diritti ereditari e di restituire loro gli Stati, la cui convocazione avverrà nel momento stesso in cui il ritorno del buon ordine sarà nuovamente consentito; che risparmieremo il più possibile i mezzi repressivi; quella forza sarà usata solo per reprimere la ribellione testarda; inoltre tutti coloro che, al momento della pubblicazione del Manifesto, rientreranno nella fedeltà regia, saranno assolti dalla precedente condotta intrapresa, a patto che questa non sia stata macchiata da un grande crimine che non possa essere rimosso. In tal caso il procedimento giudiziario, sarà giudicato in base alle leggi e alle forme giudiziarie del Regno»10.
Successivamente, l’associazione riceve anche il sostegno del conte di Provenza, il futuro Luigi XVIII, anch’egli emigrato. Il 4 ottobre 1791, scrive con la sua notoria affabilità: «Potete, signore, assicurarvi da parte mia che il marchese La Rouërie è stato incaricato direttamente dal conte di Artois sui punti statutari dell’Associazione, proposta unicamente per il bene della provincia di Bretagna. Non esito ad unire la mia approvazione a quella di mio fratello e che, conoscendo i sentimenti e la condotta saggia di M. de La Rouërie, esso merita di avere la nostra fiducia e il nostro appoggio a quello che mio fratello ha già concesso. Vi esorto nel continuare il supporto a questa organizzazione, che ci vede già condivisori»11.
La Rouërie decise quindi di organizzare l’associazione. In ogni città del vescovato furono collocati sei commissari e un segretario dell’associazione dei tre Stati. L’amministrazione è detenuta da due segretari Deshayes e Joseph Marie Loaisel de Tréogate (1752 - 1812), mentre il tesoriere sarà colui che tristemente si rese celebre come l’eroe dell’affare di Nancy12, Antoine-Joseph-Marc Désilles (1767 - 90); due uomini, Henri, un oste di Saint-Servan e Vincent sono responsabili dei collegamenti con l’isola di Jersey.
Gli uomini ricevettero così la consegna, attraverso l’Inghilterra, di argento, 6.600 fucili, polvere nera, 300 uniformi complete e 4 cannoni. Viene organizzata l’assunzione dei volontari e si cerca il sostegno delle guarnigioni della Guardia Nazionale. Per regolare i ranghi, si adatta una metodologia davvero innovativa e inusuale. Difatti le truppe si formano, così come i gradi militari, in base alla «quantità numerica di uomini che ciascuno candidato potrà fornire. Chiunque fornisca venti uomini d’armi verrà graduato; trenta, sarà un sottotenente; quaranta, tenente, e così via. Tutto ciò avviene senza richiedere nessun rango di nobiltà per nessun grado e senza dar peso al ceto sociale».
La Rouërie trova sostegno anche tra la popolazione bretone, molto delusa dalla Rivoluzione. Dopo un periodo iniziale favorevole ad essa, adesso è anche fortemente ostile alla Costituzione civile del clero. Sebbene non particolarmente pio, La Rouërie è cattolico. Respinse la Costituzione civile del clero e lo fece con decisione nel manifesto dell’Associazione che stava preparando: «Non possiamo nascondere il fatto che il malcontento popolare si sta diffondendo sempre di più; l’alienazione generale che il popolo mostra per i sacerdoti costituzionali, unita alla stessa diserzione generale della vera chiesa di Roma, che si unisce fin troppo chiaramente al desiderio della grande maggioranza del popolo, contrario alla legge che ha diviso perfino la vecchia chiesa e ha spazzato via il clero francese, senza alcun motivo di pubblica utilità»13.
Denuncia anche, dopo l’abolizione degli Stati di Bretagna, un aumento della povertà e un aumento delle tasse ora tre volte più elevato. «Non possiamo più nascondere che la miseria pubblica sta peggiorando di giorno in giorno, che il commercio sta languendo sempre di più; lasciare che le antiche risorse del popolo vengano spazzate via; e che, tuttavia, […] persino la religione diventa per lui la questione di una nuova tassa»14.
La Rouërie porta con sé tre aiutanti di campo: Aimé Casimir Marie Picquet, chevalier du Boisguy, (detto Bois-Guy 1776 - 1839), di soli quindici anni, Michel-Alain de Limoëlan (1734 - 93) e suo cugino Marie Eugène Charles Tuffin de La Rouërie (1765 - 96), elemento prezioso per i contatti con il porto di Saint-Malo per i collegamenti con i prìncipi emigrati in Inghilterra.
Altri nobili, che in seguito si sono distinti nelle guerre delle Chouannerie, si sono uniti allo Stato Maggiore dell’associazione bretone: Amatore-Jérôme Le Bras des Forges de Boishardy (1762 - 95), Charles Olivier Marie Sévère conte di la Bourdonnaye-Montluc (1766 - 1859), Toussaint du Breil, visconte di Pontbriand, (1776 - 1844), Vincent de Tinténiac (1764 - 95), Sébastien de la Haye, conte di Silz (1756 - 95), Louis-Anne Pontavice (1766 - 93), Jean du Buat, Charles-Edouard de La Haye-Saint-Hilaire (1775 – 1807), Louis Joseph Bénigne de La Haye-Saint-Hilaire (1766 - 1838), Auguste Hay de Bonteville (1775 - 1846) e il principe de Talmont. Se persone di umili origini, come Pierre Guillemot (1759 - 1805) e René Guiheneuf (1746 - 93) si uniscono all’Associazione, la maggior parte dei soci proviene dall’aristocrazia.
Quando il 20 aprile 1792, la Monarchia Costituzionale che vigeva ancora in Francia dichiarò guerra all’arciducato d’Austria del Sacro Romano Impero, che ricevette lo stesso giorno, il sostegno del Regno di Prussia e dell’esercito degli emigrati di Condé. Quando la prima coalizione contro i giacobini è formata, l’Association bretonne è pronta per il combattimento, con una forza di 10.000 soldati.
Da parte loro, i rivoluzionari nel paese di Fougères, intimiditi, non sanno davvero come agire. Sospettano che il marchese mantenga uomini armati e che si svolgano manifestazioni, ma non possiedono prove necessarie. Inoltre, “il Colonnello Armand” non ha mostrato alcun desiderio di conquista, ma pubblicamente presenta la sua associazione come votata alla difesa dal brigantaggio.
Per quanto riguarda Valentin Chevetel, il suo amico dottore, ha ancora le sue amicizie in ciascuna delle due parti, ma tende a non informare più di nulla il suo vecchio amico. Così fino al maggio 1792, le autorità patriottiche del paese non intrapresero alcuna azione contro il marchese o i membri della sua associazione.
Alla fine dello stesso mese, un apparente raduno di diverse decine o centinaia di persone, che vede riuniti tutti i capi dell’associazione, si svolge a Saint-Ouen-la-Rouërie, presso il castello del marchese. Il giorno successivo, gli amministratori dei comuni di Saint-James e Pontorson segnalarono al distretto di Avranches che era in programma un complotto nel castello di La Rouërie. Il sindaco di Saint-Ouen-la-Rouërie Thomas de Lalande, finora tiepido nell’iniziativa, si decide ad intervenire, rivolgendosi al generale Augustin René Christophe de Chevigné (1737 - 1805) di Rennes che ordinò una perquisizione. Il 31 maggio, guidato da Varin e Hévin, membro del consiglio di amministrazione del dipartimento di Ille-et-Vilaine, 400 uomini, penetrarono nel castello del marchese, ma la ricerca fu infruttuosa: il castello era vuoto, tranne alcuni servi e la scimmia che certamente spaventa i soldati. Non viene trovato nulla di compromettente, nessun documento, nessuna arma. I soldati battono la campagna circostante in cerca di prove, senza alcun risultato.
Durante questo periodo, i suoi collaboratori si disperdono. Prevedendo il disastro, La Rouërie trasmette tutti i suoi documenti a Jean du Buat, il quale fuggì in Inghilterra con altri aristocratici dell’Associazione. L’importanza dei documenti affidati, come il documento del duca d’Artois, mostra la fiducia tra i membri. La Rouërie si rifugiò quindi a Mayenne, nel castello di Launay-Villiers, che appartiene a uno dei suoi amici, il cavaliere di Farcy. Cambiando dipartimento sfugge dalla giurisdizione di Ille-et-Vilaine. La Rouërie adotta il falso nome di “Monsieur Milet”, un commerciante di vini presso Bordeaux. Rimane tuttavia in contatto con Schaffner, Moëlien, Fontevieux, Gervais e du Pontavice. Ora deve solo attendere il segnale pianificato per scatenare la rivolta. Ai margini del parco del castello di Launay-Villiers si trova la foresta di Misedon. Questa foresta era la tana di Jean Cottereau (detto Jean Chouan 1757 - 94) e i suoi uomini che avevano preso il nome di Chouans15. Ma da dove deriva questo nome? Ebbene Jean Cottereau e i suoi fratelli ereditarono tutti il cognome Chouan già dal padre, un mercante di zoccoli di Saint-Berthevin a Mayenne, al confine con la Bretagna. Il soprannome ha avuto origine dal suo talento per impersonare il grido del gufo bruno (chouette in francese), chiamato così anche nell’antico francese (chat-huant), una designazione sopravvissuta nell’Ovest dalla lingua d’oïl, il dialetto parlato in Mayenne. Il loro nonno praticando, di nascosto al Signore, la caccia di contrabbando, usava il suono del gufo come segnale di avvertimento per i suoi compagni nel caso di intrusi all’interno del bosco.
Verso la fine di settembre del 1792, avviene un’altra ricerca del famigerato ex Colonnello La Rouërie. A Mayenne, alcune truppa di guardie nazionali, provenienti da Andouillé, La Brûlatte, La Baconnière e Saint-Germain-le-Guillaume non trovando nuovamente il sospetto, decidono di saccheggiare il castello di Fresnay e il castello di Villiers. Avvisati, i contadini di Launay-Villiers e Bourgon si radunarono a Launay-Villiers, un luogo che il marchese aveva appena lasciato dopo essere rimasto lì illegalmente per tre mesi.
[caption id="attachment_12435" align="aligncenter" width="1000"] Incisione del marchese de la Rouërie.[/caption]
Al cavaliere Jacques de Farcy, proprietario del castello di Villiers, che chiese agli insorti di non andare a perdere la vita per la sua proprietà, i contadini replicarono che dopo i castelli dei nobili, sarebbero state le loro fattorie a essere bruciate dai patrioti. Decidono quindi di continuare la loro azione punitiva e si dirigono verso Bourgneuf. Uno degli agenti di La Rouërie, Jean-Louis Gavard, comandato da Jean Chouan, prese quindi il comando degli insorti. I contadini partirono immediatamente alla ricerca delle guardie nazionali, che raggiunsero a Bourgneuf-la-Forêt la sera. Quest’ultimi vengono sconfitti con la perdita di 18 morti. Fonti riportano di uno sconosciuto apparso improvvisamente durante la battaglia con una scimmia al seguito, che preso il comando dei vandeani, li lasciò solo a vittoria conseguita. Essendo Cottereau iscritto alla l’Association bretonne, tutto suggerisce che l’uomo in questione potrebbe essere La Rouërie.
Il giorno dopo, le truppe regolari della città di Laval, accorse per porre fine all’insurrezione, ricevono un’altra imboscata nei pressi dello stagno de la Chaîne. Il combattimento di Bourgneuf-la-Forêt ebbe sarà il primo combattimento che precederà la Chouannerie.
Più tardi, i rivoltosi, applicarono alle loro insegne un curioso “scudo araldico” della rivolta delle Chouannerie. Lo stemma reale dei Re di Francia, veniva infatti sorretto da un gufo per lato, con un doppio motto: In sapientia robur sic Reflorescent16.
Il contadino bretone avrà due punti d’appoggio: il campo per il nutrimento e il bosco per l’occultamento. Sarebbe difficile oggi far comprendere cosa poteva signifiare e soprattutto cosa era la foresta per un bretone: erano città. Le sterminate boscaglie sarebbero state dei nidi di immobilità e di silenzio; se si fosse improvvisamente diboscato una di queste foreste, durante le guerre di Vandea, sarebbe comparso un brulichio di uomini.
L’ingegno dei bretoni fu tale che usarono all’interno delle foreste dei pozzi rotondi e stretti, mascherati al di fuori da coperchi di pietra e di fronde, verticali e orizzontali, che si aprivano in terra a forma di imbuto e terminavano in camere tenebrose. Una delle radure più selvagge del bosco di Misdon, fu traforata da gallerie e da loculi dove andava e veniva un popolo misterioso, veniva chiamata «la grande città». Una radura non meno deserta al di sopra e non meno abitata al di sotto si chiamava «la Piazza reale».
Questa vita sotteranea durava da moltissimo tempo in Bretagna. Dal tempo dei druidi risalivano le cripte, le quali erano antiche come i dolmen. Per sfuggire si erano rifugiati prima nelle foreste poi sotto terra. Risorsa delle bestie, questi covi erano ancora pronti nei boschi quando la rivoluzione scoppiò. La Bretagna si rivoltò trovandosi oppressa da questa liberazione forzata.
Il sottosuolo di tali foreste era una specie di madrepora traforata in tutti i sensi da un labirinto sconosciuto di cellule e di gallerie. Ognuna di quelle cellule cieche dava asilo a cinque o sei uomini. Difficile era respirarvi. In Ile-et-Vilaine, nella foresta del Pertre, asilo del principe di Talmont, non si sentiva un soffio, non si notava una traccia di uomo e vi si sarebbero trovavano seimila uomini; con Focard nel Morbihan, nella foresta di Meulac, non si vedeva nessuno, e vi si nascosero ottomila uomini. Battaglioni invisibili stavano all’agguato. Questi eserciti ignorati sarebbero serpeggiati sotto gli eserciti repubblicani, uscivano ad un tratto da terra e vi rientravano, balzavano innumerevoli e scomparivano, dotati del potere di ubiquità e di quello di disperdersi, valanga, polvere, colossi con la possibilità di rimpicciolirsi, giganti per combattere, nani per scomparire. Giaguari con i costumi di talpe.
Non vi erano solo le foreste, vi erano i boschi. Come al di sotto delle città vi sono i villaggi, al di sotto delle foreste vi sono le boscaglie. Le foreste erano collegate fra loro dai labirinti, dappertutto sparsi, dei boschi. Gli antichi castelli, che erano fortezze, i villaggi che erano accampamenti, le fattorie che erano recinti fatti di imboscate e di trabocchetti, pieni di burroni, di fossati e di palizzate di alberi erano le maglie di quella rete dove rimarranno impigliati gli eserciti repubblicani. Quell’insieme era quello che veniva chiamata la Bocage. Le donne vivevano nelle capanne, gli uomini nelle cripte. Utilizzavano per questa guerra le gallerie delle fate e i vecchi passaggi celtici. Portavano da mangiare agli uomini nascosti sottoterra. Alcuni, dimenticati, morirono di fame. Abitualmente il coperchio fatto di muschio e di fronde era composto con tanta arte che era impossibile distinguerlo dal di fuori fra l’erba ed era molto facile ad aprirsi e chiudersi dall’interno. Questi covi erano scavati con cura. La terra tolta dal pozzo veniva gettata in qualche stagno vicino. La parete interna e il pavimento erano tappezzati di felci e di muschio. Chiamavano quei rifugi «il palco». Risalire fra i vivi senza precauzioni e uscire di terra senza scopo sarebbe stato il loro pericolo più grave. Potevano trovarsi in mezzo a un esercito in marcia. Boschi temibili, trabocchetti doppi. Gli azzurri non oseranno entrare, i bianchi non oseranno uscire.
Per diverse settimane, i soci attendono le direttive dei fratelli del Re. L’attesa provoca nervosismo in alcuni dei soci. Da un lato La Rouërie deve calmare l’ardore di alcuni di loro che desideravano sollevare le armi sul posto, dall’altro chiede ordini al comitato di Saint-Malo il quale vuole attendere la cattura di Parigi, da parte della Coalizione, prima di ordinare l’inizio della rivolta. Da parte sua, Valentin Chevetel arrivò, durante questo periodo, al castello di La Fosse-Hingant, a Saint-Coulomb, che apparteneva al defunto André Désilles, già quartier generale dell’Associazione. Il medico chiese di incontrare La Rouërie, il quale ancora una volta lo aggiorna, senza sospettare minimamente del suo tradimento.
L’11 agosto da una lettera ricevuta, La Rouërie apprende della notizia dell’imminente attacco degli eserciti della Coalizione anti-francese e informa tutti i comitati di prendere le armi per il 10 ottobre, data prevista per la presa di Châlons-en-Champagne, da parte degli eserciti della Coalizione. Il 19 agosto 1792, dopo aver respinto l’offensiva dei rivoluzionari, le truppe prussiane e austriache entrarono in Francia.
Preoccupato lo Chevetel ritorna a Parigi e il 2 settembre, il giorno del suo arrivo, si presenta alle 03.00 del mattino da Danton, l’allora Ministro della Giustizia. Il medico informò il rivoluzionario del pericolo rappresentato dalla Association bretonne e condivise con lui tutto ciò di cui è a conoscenza.
Tuttavia, Danton sceglie di negoziare con La Rouërie. Informato da Chevetel delle opinioni liberali del marchese, scriverà la seguente lettera: «Se tutto ciò che mi ha detto il portatore della lettera è vero, M. de La Rouërie possiede in Bretagna una base militare. Credo che, per salvare la Francia dalla brutta situazione in cui è scivolata, gli uomini non debbano ambire alla rovina del proprio Paese, ma devono riunirsi in uno sforzo comune. Non si tratta più di discussioni su princìpi più o meno condivisibili; il Trono costituzionale e l’integrità del territorio devono essere salvati. Nel probabile caso in cui la Bretagna si renda conto della realtà di quanto affermato, autorizzo il portatore della presente lettera a trattare per mio conto e per quello dei miei amici che, come me, non vogliono affondare nell’anarchia»17.
Ovviamente, vista l’avanzata delle forze della Coalizione che sembravano inarrestabili, Danton sperava segretamente – in caso di sconfitta delle armate francesi che ancora si definivano “costituzionali” –, di poter mantenere il potere grazie al sostegno del marchese de La Rouërie, invece di un ritorno dell’Ancien Régime. Nello stesso periodo il giovane Chateaumbriand, membro dell’armata dei Prìncipi, stilava un breve ritratto dell’avvocato di provincia George Jacques Danton: «Danton, più franco degli inglesi, diceva: «Noi non giudicheremo il Re, lo uccideremo». Diceva anche: «Questi preti, questi nobili, non sono colpevoli, ma debbono morire, perché sono fuori posto, intralciano la marcia degli eventi e disturbano l’avvenire». Tali parole, sotto un’apparenza di orribile profondità, non hanno nessuna grandezza di genio: esse infatti presuppongono che l’innocenza non sia niente, e che l’ordine morale possa essere separato dall’ordine politico senza farlo perire, il che è falso. Danton non credeva nei principî che sosteneva; si era rivestito col mantello rivoluzionario soltanto per arrivare al successo. «Venite a sbraitare con noi - consigliava a un giovane, - quando vi sarete arricchito, farete quel che vorrete». Confessò che, che se non si era venduto alla corte, è che questa non aveva voluto pagarlo abbastanza: sfrontatezza di un’intelligenza che si conosce e di una corruzione che si rivela senza ritegno. Inferiore, persino in bruttezza, a Mirabeau di cui era stato agente, Danton fu superiore a Robespierre, senza avere, come lui, legato il suo nome ai suoi crimini. Non aveva perso il senso religioso; diceva: «Noi abbiamo distrutto la superstizione per instaurare l’ateismo». [...] nell’epoca in cui si sbraitava: «Viva l’inferno!», in cui si celebravano le allegre orge del sangue, dell’acciaio e del furore, in cui si brindava al niente, in cui c’era chi ballava tutto nudo la tarantella dei trapassati, per non avere il fastidio di doversi spogliare al momento di andarli a raggiungere; in quell’epoca bisognava, in conclusione, spingersi fino all’ultima festa, all’ultima facezia del dolore»18.
Il giorno successivo, Chevetel parte per la Bretagna. Al suo arrivo presso lo Château de La Fosse-Hingant fu ricevuto di nuovo da La Rouërie. Louis du Pontavice, allora spia parigina, aveva scoperto i legami di Chevetel con i cordiglieri e ne aveva informato il marchese. Chevetel, tuttavia, non negò i suoi rapporti con Danton, mostrando la lettera con la quale affermava falsamente di aver convinto il Ministro della Giustizia verso il mantenimento della Monarchia Costituzionale, che già traballava. Da uomo d’onore La Rouërie vuole credere al suo amico e si scusa per i suoi sospetti, congratulandosi con Chevetel, facendo rimanere basiti gli altri membri dell’associazione.
La rivolta è imminente, così La Rouërie sta realizzando i manifesti per le città e i villaggi: «Cittadini. [...] appaio in mezzo a voi, alla testa di una forza imponente, nel nome e sotto gli ordini dei prìncipi, fratelli del Re. State tranquilli, sono armato solo per difendere il vostro popolo e le vostre proprietà. E voi bretoni, miei cari amici, voglio aiutarvi a recuperare solo le vecchie franchigie e gli antichi diritti che erano allo stesso tempo il baluardo più solido della vostra libertà politica e religiosa, in quanto organo garante più sicuro della vostra pace interiore e della vostra prosperità che esso produce». Ma a spegnere le fiamme dell’entusiasmo ci penserà la sconfitta degli eserciti della Convenzione a Valmy, il 20 settembre 1792, a soli 35 chilometri da Châlons. Le truppe della coalizione si ritirano, riattraversano il confine e lasciano la Francia. Il 22 settembre, la monarchia fu rovesciata e la Repubblica proclamata.
Il risultato della battaglia di Valmy è un vero disastro per l’Association bretonne. Non appena la notizia trapelò, La Rouërie organizzò un incontro al castello di La Fosse-Hingant. Oltre a La Rouërie, gli unici che possono essere presenti sono Thérèse de Moëlien, Désilles, Schaffner, du Buat de Saint-Gilles, Fontevieux e Chevetel. La Rouërie, nella speranza di un’esplosione popolare realista in Bretagna, con l’aiuto di uno sbarco degli emigrati dall’Inghilterra, propose di mantenere la data del 10 ottobre per insorgere, ma grazie all’opposizione di Fontevieux, Désilles e Saint -Gilles concorda al rinvio delle operazioni fino al 10 marzo 1793. Essendo il leader dell’organizzazione gli viene consigliato di fuggire a Jersey in Inghilterra, ma rifiuta di lasciare la Bretagna.
Nel frattempo, grazie alla complicità di Chevetel, un carico di 3.000 fucili provenienti da Jersey e procurati da du Plessis vengono bloccati alla partenza. Il medico, oramai spia dei rivoluzionari, nel suo rapporto a Danton, afferma di aver convinto personalmente il governatore a ordinare l’embargo delle armi. Tornato a Parigi, il Ministro della Giustizia non ha più alcun problema nella condanna ferma dei cospiratori. Così il 5 ottobre, Danton ordinò a Chevetel di arrestare La Rouërie, insieme agli altri capi della cospirazione. Su consiglio di Philippe François Nazaire Fabre D’Églantine (1750 - 94), a Chevetel viene affiancato un uomo di nome Pierre-Bénigne Lalligand (chiamato Morillon, 1759 - 94), che aveva già avuto un ruolo contro una cospirazione a Grenoble. Subito i due uomini non vanno d’accordo e partono per la Bretagna il 7 ottobre separati. Chevetel adottò il soprannome di Latouche con i repubblicani. Ritornato al Fosse-Hingant gli fu affidata una nuova missione e sempre con Fontevieux, partì il 13 ottobre per Liegi con i fratelli del re, per ricevere notizie sulla situazione e ricevere possibili nuove linee guida.
Su consiglio di Chevetel, Lalligand rimane inattivo a Saint-Servan, in attesa del momento propizio per far scattare la trappola. La Rouërie, ricercato, vaga nelle campagne della Bretagna. Su di lui il rivoluzionario Claude Basire (1764 - 94) scrisse: «La Rouërie non ha perso nulla del suo zelo. Questo instancabile cospiratore, che raramente si riposava, correva da un castello all’altro, da un comitato all’altro per riaccendere le speranze. Vagando costantemente nei boschi o sulle colline, sempre armato, non prendeva mai le strade battute e spesso passava la notte in grotte, inaccessibili agli altri, ai piedi di una quercia o in un burrone. Tutti i nascondigli erano buoni per lui; e non sarebbe mai morto due volte nello stesso posto. Si può immaginare la difficoltà di afferrare un uomo tanto attento quanto impavido».
Dunque un maestro della guerriglia. Armand adotta il falso nome di Gasselin ed è accompagnato solo da Joseph-Anne Loaisel (1752 - 93), il suo segretario19 e Saint-Pierre, uno dei suoi servi. Questi spostamenti lo faranno allontanare sempre più dall’Ille-et-Vilaine, per concentrarsi maggiormente sulla Côtes-d’Armor.
Il 12 gennaio 1793, dopo aver galoppato nella foresta di La Hunaudaye, La Rouërie e i suoi due compagni andarono a trovare rifugio nello Château de La Guyomarais, appartenente all’omonima famiglia, nella parrocchia di Saint-Denoual. Ha nevicato quel giorno e Saint-Pierre ha la febbre.
Monsieur de La Guyomarais è membro dell’Associazione e ha già ospitato La Rouërie tre volte nei mesi precedenti. Anche questa volta, sono alloggiati in una stanza del castello, ma lo stato di Saint-Pierre non migliora. Quando arrivò il 18 gennaio Saint-Pierre si riprese, ma disgrazia volle che La Rouërie dovette ammalarsi a sua volta. La Rouërie soffriva di brividi da febbre e violenti attacchi di tosse: le intemperie lo avevano esposto ad una polmonite. La caccia all’uomo non si ferma: il 24 gennaio, la Guardia Nazionale di Lamballe fa irruzione nel castello di Guyomarais. Avvertiti da un vicino, i castellani riescono comunque a nascondere il marchese, nella fattoria di La Gouhandais, situata a cento metri dal castello. I repubblicani non scoprono nulla, ma questo trattamento fa peggiorare la sua già delicata situazione.
Il giorno successivo, Schaffner e Fontevieux arrivano a Guyomarais, portano con sé un giornale recante la notizia dell’esecuzione di Luigi XVI del 21 gennaio. Tuttavia i soci decidono di non rivelare la morte del Re al marchese, credendo che l’agitazione possa peggiorare la febbre. Costretto a letto, La Rouërie chiese tuttavia di essere di essere informato sulle notizie del processo del re, ed infine scoprirà la verità. Come previsto avrà un delirio, che gli procura un collasso. Per tre giorni, il “Colonnello Armand”, eroe dei due mondi, sarà sempre appeso tra il delirio e l’incoscienza, ma nonostante la presenza di ben tre medici, muore il 30 gennaio 1793, alle 04:30 del mattino20.
Era tuttavia necessario nascondere il corpo, il 31 gennaio, durante la notte, Schaffner, Fontevieux, Loaisel, Lemasson, il giardiniere Perrin, servi e membri della famiglia La Guyomarais, seppellirono La Rouërie nascondendosi nel bosco di Vieux Semis, che appartiene al castello. Fino alla metà di febbraio, la morte di La Rouërie rimane segreta.
[caption id="attachment_12434" align="aligncenter" width="1000"] Sulla sinistra: memoriale dedicato al marchese de la Rouërie; sulla destra: Tomba del Marchese de la Rouërie nel bosco attiguo al castello di Guyomarais.[/caption]
Poco dopo il funerale, Schaffner e Fontevieux lasciarono il maniero. Per quanto riguarda Saint-Pierre, prese i documenti e la corrispondenza del marchese e li portò a Désilles, presso La Fosse-Hinguant, dove lo informò anche della morte del capo dell’associazione. I documenti, posti in un recipiente, vengono seppelliti. Tuttavia la rivoluzione doveva compiere l’ennesimo misfatto. A fine di gennaio, Teresa de Moëlien, sapendo La Rouërie malato, scrive a Valentin Chevetel per chiede il suo aiuto, ricordando la sua professione di medico. Chevetel quindi, arrivato a La Fosse-Hinguant viene a sapere della morte del marchese de La Rouërie, nonché il luogo e le circostanze della sua morte. Chevetel trasmette immediatamente tutte queste informazioni a Lalligand-Morillon.
Il 25 febbraio, quest’ultimo, alla testa di 15 soldati repubblicani, irruppe a La Guyomarais: tutti vengono interrogati per lunghe ore nella casa padronale stessa e i suoi occupanti vengono successivamente arrestati. La famiglia La Guyomarais cerca di negare l’ospitalità, tuttavia il giardiniere Perrin cede e finisce per parlare. Si arriva allo scempio: Lalligand e alcuni soldati si recano sul punto della sepoltura, il corpo viene riesumato e Lalligand lo fa decapitare.
Quindi tornato dai La Guyomarais gettò a terra la testa di La Rouërie, che rotolò ai piedi dell’uomo, che in moto d’orgoglio affermò: «No, non c’è più da negare. Questa è la nobile testa dell’uomo che vi ha fatto tremare per così tanto tempo»21.
Il corpo di La Rouërie straziato viene riposto sottoterra, ma la sua testa fu abbandonata dai repubblicani. Verrà recuperata da due ragazze di La Guyomarais e nascosta sotto una lastra di pietra nella cappella del castello. Il teschio fu scoperto nel 1877 e consegnato alla famiglia La Belinaye.
A seguito delle denunce di Chevetel, Lalligand fece arrestare diversi membri della cospirazione bretone. Scoprì anche i documenti sepolti da Désilles. Ma la maggior parte dei soci è sfuggita alla cattura grazie a Teresa di Moëlien, che poco dopo la morte di La Rouërie, bruciò l’elenco dei membri dell’Associazione.
In totale, Lalligand arrestò 27 persone, che furono deportate a Parigi per essere processate. Dopo diversi mesi di prigione – il processo iniziò il 4 giugno 1793 e terminò il 18 giugno –, alla fine della sentenza, furono assolti tredici accusati, due furono condannati alla deportazione e dodici furono condannati a morte il 26 giugno del 1794, tra cui ricordiamo Monsieur e Madame de La Guyomarais, Louis du Pontavice, La Chauvinais, Madame de la Fonchais, Morin de Launay, Locquet de Granville, Jean Vincent, Groult de La Motte, Picot de Limoëlan, Georges de Fontevieux e Thérèse de Moëlien.
La data prevista dell’insurrezione associativa del 10 marzo 1793, non ebbe mai luogo: morto Charles-Armand Tuffin de la Rouërie i suoi membri si dispersero. È certo che la successiva rivolta delle Chouannerie vedrà nuovamente nelle sue fila gli antichi chevalier della Association bretonne22.
 

1 La Rouërie è con la sua legione a Tarrytown, quando apprende da un informatore che Baremore è a riposo in una casa situata in Morrisania a cinquanta chilometri dalla sua posizione. Armand decide quindi di metterlo fuori pericolo e inizia un lungo giro con i suoi dragoni. Il giorno dopo la partenza, poco prima dell’alba, la legione di Armand attraversò le linee britanniche. Quindi, percorre 8 chilometri nel territorio inglese accompagnato da soli 22 dragoni per passare inosservato. Individuano la casa di Baremore, la circonda. Penetrando senza spari, sorprende Baremore nel sonno completo e lo riporta indietro prigioniero senza cadere mano delle truppe britanniche. Di ritorno a Camp Scott, vengono accolti trionfalmente dai soldati americani.

2 Figlia di Anne Gilles Jacques Guérin marchese di Saint-Brice, padre anche del cavaliere Champinel di Saint-Louis, signore di Saint-Etienne, Parigné, le Sollier e di Rocher Sénéchal, capitano di cavalleria nel reggimento Conty, e di Jacquette Le Prestre Hyacinthe de Châteaugiron.

3 Tra gli invitati fi invitato anche lo stesso Washington con consorte. Naturalmente il presidente degli Stati Uniti d’America per motivi lavorativi non riuscì a concedersi i mesi necessari alla traversata, ma ebbe sempre il rimpianto di non essere stato presente al felice giorno del suo amico: «Il minimo dei miei rimpianti è stato quello di non essere in Francia per partecipare alla tua felicità».

4 P. Carrer, La Bretagne et la guerre d’Indépendance américaine, Les Portes du Large, Parigi, 2005, p.219.

5 C. Bazin, Le marquis de la Rouerie «Colonel Armand» de la guerre américaine à la conjuration bretonne, Perrin, Parigi, 1990, p.154.

6 Ivi, pp.163-164.

7 Ivi, p.164.

8 Ivi, p.166.

9 Ivi, p.173-74

10 Archives Départementales des Pyrénées-Orientales, Series W, 31-W-274.

11Ivi, 31-W-274.

12 L’affare di Nancy comunemente indicato come l’ammutinamento di Nancy, fu una repressione militare francese del 31 agosto 1790, due anni prima del rovesciamento finale della monarchia. Ebbe un significato particolare in quanto illustrava il grado di affidabilità dell’esercito reale, minato da tredici mesi di tumulti rivoluzionari. Il giovane Désilles, chiamato anche André, durante gli scontri tra le guardie nazionali del generale Bouillé e i tre reggimenti della Royal Army ammutinati (Régiment du Roi, il Régiment de Châteauvieux – uno dei dodici reggimenti di mercenari svizzeri nella fanteria francese – e la cavalleria Mestre-de-camp), si frappose nel mezzo dei due schieramenti per evitare che una palla di cannone colpisse le truppe dell’Assemblea Costituente. Il gesto, che gli costò la vita, fu preso come esempio della crudeltà della guerra civile, in quanto il giovane ufficiale apparteneva alle truppe rivoltose del Régiment du Roi. Oggi a Nancy l’arco di Trionfo (1782 - 84) dell’architetto Didier-Joseph-François Mélin, porta il suo nome. 

13 C. Bazin, Le marquis de la Rouerie «Colonel Armand» de la guerre américaine à la conjuration bretonne, Perrin, Parigi, 1990, pp.247-48.

14 Ivi, p.248.

15 Il termine Chouan è un cognome francese. Fu usato come nome da guerra dai fratelli Chouan, in particolare Jean Cottereau, meglio noto come Jean Chouan, che guidò una grande rivolta nel Bas-Maine contro la Convenzione parigina. I partecipanti a questa rivolta divennero noti come Chouans, e le battaglie che ne seguirono furono note come le Chouannerie.

16 «La forza è nella saggezza, in tal modo essa rifiorirà». Riferito a questo significato moderno: «La forza sta nella pazienza, i gigli fioriranno di nuovo».

17 Bazin C., Le marquis de la Rouerie «Colonel Armand» de la guerre américaine à la conjuration bretonne, Perrin, Parigi, 1990, p.207.

18 R. A. de Chateaubriand, Memorie D’oltretomba (I), Einaudi, Torino, 2015, pp.302-303.

19 Fu anche direttore generale e responsabile dell’Associazione bretone per la corrispondenza con Londra e Jersey.

20 Nel bosco del castello fu sollevata la tomba del marchese de La Rouërie, dove fu eretta una stele dall’Ambasciata degli Stati Uniti.

21 G. Lenôtre, Le Marquis de la Rouërie et la Conjuration bretonne (1790 - 1793), Perrin, Parigi, 1927, p.250.

22 Un’insurrezione ebbe ancora luogo nel mese di marzo del 1793. La coscrizione di massa della Repubblica provocò la rivolta dei contadini in Bretagna, nel Maine e in Vandea. I contadini ribelli si chiamarono con il nome dei primi insorti del Mayenne: gli Chouans. Nei nuovi leader riconosciamo Sébastien de La Haye de Silz, Aimé Picquet du Boisguy, Vincent de Tinténiac e Amateur-Jérôme Le Bras des Forges de Boishardy. Nel 1794, Joseph-Geneviève, conte di Puisaye (1755 - 1827) si presentò come successore di La Rouërie, al fine di unificare i gruppi della Chouannerie, tentò di rianimare l’Association bretonne.

 
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di Giuseppe Baiocchi del 03/01/2021

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Giuro di essere fedele a sua maestà il Re ed ai suoi reali successori, di osservare fedelmente lo Statuto e le altre leggi dello Stato, ad adempiere a tutti i doveri del mio Stato col solo scopo del bene indivisibile del Re e della Patria”. Tale giuramento, adottato in tutte le scuole italiane, deve averlo pronunciato anche il conte Carlo Fecia di Cossato classe 1908 nato a Roma, quarto di sei figli dal matrimonio tra il padre Carlo Fecia di Cossato e Maria Luisa Gené.

La famiglia di colui che oggi è considerato un vero e proprio asso della storia della marina italiana con il conferimento della medaglia d’oro, si presentava di stampo fortemente monarchico, come molte famiglie della nobiltà militare, le quali mettevano a disposizione la propria esperienza al servizio del regio esercito.

[caption id="attachment_6758" align="aligncenter" width="1024"] Conte Carlo Fecia di Cossato (Roma, 25 settembre 1908 – Napoli, 27 agosto 1944) è stato un militare italiano.[/caption]
Il legame tra casa Savoia e la Marina italiana risale ancor prima dell’Unità di Italia: nel basso medioevo con Amedeo V il Grande, fino ad arrivare al Regno sabaudo di Sardegna e Piemonte dove si identificò l’appellativo “regia-nave” corrispondente al “regio legno”, nome usato per indicare le imbarcazioni sotto il Regno di Sardegna e Piemonte. Nel 1861 il neonato regno d’Italia riusciva ad unire le marine dello stato Pontificio (con solo Roma, rimasta ancora autonoma), il naviglio toscano e la potente flotta napoletana, imponendosi in poco tempo come una delle flotte più importanti del Mediterraneo e d’Europa.
Per non far nascere rivalità tra settentrionali e meridionali, il 6 novembre del 1881 decretò la creazione di un’unica Accademia navale: quella di Livorno, esistente ancora oggi, la quale è una delle migliori scuole navali del mondo. L’educazione civica di tale scuola è fondamentale per capire appieno il comportamento di Fecia di Cossato, profondamente fedele alla casa reale di predominanza piemontese.
[caption id="attachment_6760" align="aligncenter" width="1000"] Constantine Volanakis, la battaglia di Lissa - 1867, olio su tela cm 283 x 169, museo di belle arti di Budapest.[/caption]
Il continuo scambio, fra prestazioni pubbliche richieste e fedeltà concessa, di questi servitori dello Stato era caratteristica di tutti gli ufficiali di marina, che seguivano rigidi giudizi: “sappia che un militare ha doveri, e non ha niun diritto. Neppure la paga s’ha diritto; essa è un dono di sua maestà il Re, nient’altro” asserivano spesso i comandanti di marina alle giovani generazioni, che potevano ambire ad un cambio di mentalità.
Il conte Fecia di Cossato cresce sotto questa istruzione secolare, amando praticare sport fin dalla primissima età. Il nuoto e l’equitazione sono le sue due discipline più amate, venendo da una famiglia di forte tradizioni militari. A vent’anni nel 1928 dopo aver superato brillantemente gli esami, si imbarca l’undici luglio sull’incrociatore Ancona con il grado di guardiamarina.
Siamo in piena epoca fascista: gli anni del consenso. Carlo non solo non è fascista, ma ha una forma di ostilità velata per la politica di corruzione dell’ormai ex-rivoluzione, essendo di elevata rettitudine e incapace a compromessi. Dopo la modifica dello Statuto Albertino nel 1925, Mussolini con un abile mossa mise la monarchia in secondo piano. Questa operazione non sfuggì al conte, che si rifiutò di avere la tessera e per due anni non avanzò di grado, rimanendo come tenente di vascello. Solo il padre, riuscì con l’inganno a far iscrivere il figlio a sua stessa insaputa: inutile l’ira del giovane che rimase esterrefatto, ma iniziò l'avanzamento di carriera militare.
La marina italiana rappresentava nel mediterraneo una forza poderosa: 6 corazzate (2 in allestimento), 7 incrociatori pesanti e 26 leggeri, 15 esploratori, 130 cacciatorpediniere e torpediniere, 115 sommergibili da media e grande crociera e un numero imponente di unità minori. Non possedeva portaerei perché non erano ritenute necessarie nel mediterraneo: uno degli errori fatali della sconfitta della regia-marina, insieme al mancato sviluppo del Radar (inventato in Italia, ma mai sviluppato. Sarà utilizzato dai britannici e farà la differenza). Sarà l’unica forza armata che arriverà preparata al conflitto che vedrà coinvolta l’Italia quel fatidico 11 giugno 1940.
Il romano dopo un breve periodo sull’incrociatore pesante "Trento" veniva destinato al sommergibile "Bausan" (dal dicembre del 1929 all’agosto del 1930), iniziando la sua esperienza sui battelli subaquei. Dal 17 aprile 1932 al maggio del 1933 navigò con l’incrociatore "Libia" e fu stanziato nelle acque dell’estremo oriente, in Cina. Successivamente dal 1934 al 1936, comandò le difese portuali in Africa Orientale, diventando a ventisei anni comandante delle difese portuali di Massaua, capitale nella colonia italiana eritrea.
La lunga successione di imbarchi e di destinazioni esotiche faranno scoprire al conte Fecia di Cossato nuove culture e nuove mentalità, arricchendo già il suo nutrito bagaglio culturale. Il 20 giugno del 1938 viene nominato comandante della torpediniera "San Martino" e successivamente comandante della "Polluce".
La leggenda di Fecia di Cossato entra nel vivo quando il 25 febbraio del 1940, dopo un breve trascorso nel sommergibile "Colonna" (in preparazione alla scuola comando sommergibili) e imbarcato in brevi lasso-temporali sui sommergibili "Menotti", "Bragadin" e "Settimo", fu poi imbarcato del "Tazzoli" come comandante in seconda per fare il tirocinante nella guerra in atlantico: compie a Bordeaux un apprendistato magistrale.
[caption id="attachment_6761" align="aligncenter" width="1000"]betasom Betasom (Bordeaux Sommergibile) è ottenuto dall'unione della prima lettera della parola "Bordeaux", espressa con il nome della lettera dell'alfabeto greco equivalente dal punto di vista fonetico "beta" e la prima sillaba della parola "sommergibile", la base navale dei sottomarini della regia marina a Bordeaux (costa atlantica meridionale francese) durante la seconda guerra mondiale.[/caption]  
Nel settembre del 1939 l’Inghilterra dichiarò il blocco totale alle forze tedesche, forte della sua supremazia marittima: era considerata indiscussa padrona del Mare del Nord. I tedeschi come risposta dichiararono un contro-blocco, inserendo anche la guerra sottomarina totale. In pochi giorni il mare del Nord e la Manica vengono disseminate di mine. Il naviglio britannico fu gravemente danneggiato.
Alla fine di agosto iniziava la guerra dell’atlantico, la quale portò grandi successi ai famosi U-Boote tedeschi contro il traffico mercantile britannico (i due terzi del fabbisogno inglese deve essere importato). Sul continente, invece, la Francia era già invasa dalla wermacht tedesca.
Saranno queste e molte altre le condizioni favorevoli a spingere Benito Mussolini ad entrare in guerra a fianco dell’alleato tedesco e giapponese l’undici giugno del 1940. Nonostante i suoi malumori Carlo esegue gli ordini del Re asserendo: “Possibile che, nel mazzo, vadano a scegliere proprio i due più antipatici!”.
Intanto il 24 giugno la Francia firma l’armistizio con l’Italia. L’evento aumenta l’influenza sul mediterraneo della regia-marina, la quale diventa un avversario ancora più ostico alla royal marine britannica. In tal senso grave fu il diniego di Hitler riguardante l’uso della marina francese in chiave italiana, per il timore che Mussolini successivamente, potesse prendere ancor più slancio in politica estera di quella che già deteneva. Inoltre il führer voleva tenere un equilibrio con il governo filo-nazista di Vichy.
Il 9 luglio mentre la regia marina, comandata dall’ammiraglio Campioni riporta un’importante vittoria morale contro gli inglesi, che per la prima volta battono in ritirata contro gli italiani, perdendo un caccia, un piroscafo e 18 aerei, Carlo Fecia di Cossato si trova in operazioni di protezione, nel Mediterraneo (tra Grecia, Nord Africa e Italia), a bordo del sommergibile "Ciro Menotti".
Dopo queste operazioni il conte lascia il mediterraneo per essere nominato al bordo del "Tazzoli" di base a Betasom, ufficiale in seconda. Fecia di Cossato è profondamente avverso a questo conflitto che ritiene inutile: “(…) ma tutto quello che ti ho detto circa la inevitabile sconfitta che ci aspetta, non può avere e non avrà mai nessuna conseguenza sull’impegno che io metterò a combattere questa guerra in cui tutti siamo impegnati. Una mia opinione personale, che a me purtroppo sembra inconfutabile, potrebbe anche essere errata, e, in ogni caso, si vinca o si perda, il mio dovere di ufficiale e di comandante è quello di tener duro, di pestare il nemico finché avrò mezzi ed ordini per farlo, e di infondere nel mio equipaggio la sicurezza di lottare per una giusta causa verso la vittoria”. Anche da queste, poche, parole si evince il forte spirito di serietà e professionalità che accompagnerà il romano per tutta la sua breve vita.
In Atlantico sono presenti 26 sommergibili italiani, i quali hanno superato lo stretto di Gibilterra (britannico) senza perdite. Sono di base a Bordeaux, che prese l’appellativo di “Betasom”. I marinai italiani sono stimati dai tedeschi per il loro coraggio e la loro perizia tecnica e riportano importanti successi con affondamenti eccellenti: il bollettino di guerra n°71 del 18 agosto del 1940 riguarda, addirittura, l’affondamento di una petroliera di 9000 tonnellate. Con questo episodio comincia per la regia marina una lunga avventura di gloria e di sacrificio. Fecia di Cossato si trova nel bel mezzo di questa situazione ed è uno dei migliori. Scriveranno di lui: “il comandante perlustra instancabile l’orizzonte. Per lui la notte e il riposo non esistono. Sono parecchie “lune” come dice il signor Gazzana, che non tocca la sua cuccetta e non riusciamo proprio a capire come faccia a stare in piedi”. Dunque un uomo di notevole resistenza che dimostra spesso una aggressività, verso il nemico, esasperata che gli fa avere tutta la stima dell’equipaggio, anche quando diviene comandante del "Tazzoli", avendo in seconda l’altro formidabile asso Gianfranco Gazzana Priaroggia che successivamente al comando del “Da Vinci” divenne il comandante con più tonnellaggio di navi affondate.
[caption id="attachment_6762" align="aligncenter" width="926"] Anno 1942 - il conte Carlo Fecia di Cossato, comandante del regio stato maggiore generale "Tazzoli" e il tenente di vascello Gazzana Priaroggia, comandante in seconda del "Tazzoli", in coperta in occasione dell'incontro in Atlantico con altro sommergibile italiano.[/caption]
I siluratori atlantici italiani sono molti: Longobardo, Tosoni-Pittoni, Grossi, Gazzana, Leoni, Todaro, Pollina, Giovannini, Longanesi, Prini, Piomarta – tutti gentiluomini che hanno vissuto in un clima infernale dovuto al calore tremendo che vi era a bordo dei sommergibili, del fetore insopportabile e dello stress della morte, che poteva essere in agguato in qualsiasi momento.
Nel frattempo la Gran Bretagna, trovatasi dopo Dunkerque, in una situazione disperata capisce che i convogli devono avere l’adeguata protezione da parte del naviglio sottile (impegnato nel mediterraneo) e stipula con gli Stati Uniti uno scambio: 50 cacciatorbediniere di vecchio tipo “Flush Deck” per la concessione (99 anni) di cinque basi navali ed aeree britanniche nelle Antille e nell’America centrale. La situazione si riequilibra.
Nel novembre del 1940 nel mediterraneo avvenne il famoso “disastro di Taranto” dove sei navi italiane, nella base portuale, furono distrutte nella notte: un grave colpo. Un anno dopo nel 1941 nei giorni del 26-27-28-29 marzo avvenne la tragedia di "Capo Matapan" nel mediterraneo orientale: in un offensiva poderosa della regia-marina, il nemico grazie all’intelligence (che conosceva gli ordini cifrati italiani) e all'uso del radar era informato sulle mosse delle navi da guerra italiane. La sconfitta di Gaudo e Matapan si concluse con la perdita di tre incrociatori, il siluramento della Vittorio Veneto e la morte di tremila uomini. La marina italiana non si riprese più del tutto da questa sconfitta. Sempre nel 1941 la marina tedesca entrava con 21 sommergibili nel Mediterraneo con base a Salamina, nella Grecia occupata. Continuano gli insuccessi strategici, come quello del 20 marzo del 1942, quando un convoglio britannico salpato da Alessandra arriva a Malta, rifornendo l’isola (luogo strategico fondamentale per la vittoria nello scacchiere mediterraneo). Il 16 giugno del 1942 la regia-marina riporta, una vittoria in inferiorità numerica nella battaglia di Pantelleria affondando ai britannici 1 incrociatore (Kenya), 5 caccia di squadra (Bedouin, Hasty, Nestor, Grove, Aredale), 1 nave di scorta (Kujavak) e 4 piroscafi, tra cui la petroliera Kentucky. Per parte italiana solo il Vivaldi subì gravi danni.
Traslandoci di nuovo in Atlantico, Cossato appare sempre più un uomo di ferro, ma inizia ad avere un forte travaglio psicologico e fisico.
Il 15 luglio 1941 il conte guidò il "Tazzoli" in una nuova missione: il dodici agosto, affonda il piroscafo inglese "Sangara" e il diciannove la petroliera norvegese "Sildra" per rientrare in base l'undici settembre. In questa seconda missione Fecia di Cossato fu decorato con la medaglia di bronzo al valor militare e da parte dei tedeschi con la croce di ferro di seconda classe. Successivamente nel dicembre del 1941 partecipò, partendo da Bordeaux, al salvataggio di oltre 400 naufraghi tedeschi, che gli valsero l'importante decorazione tedesca della croce di ferro di 1ª Classe conferitagli dall'ammiraglio Dönitz.
Il marinaio Dilda il 5 settembre del 1942 annota sul suo diario: “E’ sceso a cambiarsi per il rientro (alla base). Gli tiro fuori dallo stipetto una camicia e lo osservo mentre si toglie il maglione di navigazione. Rimango di stucco: le costole sporgono esageratamente dal torace sul quale non c’è altro che bruna pelle tesa come quella di un tamburo; la spina dorsale e le scapole stanno per saltargli fuori! Gli arti sono fasci secchi di nervi e di muscoli: il ventre e lo stomaco non ci sono più”.
Carlo riesce ad ottenere risultati straordinari: l'11 febbraio 1942 partito per una nuova missione presso le coste americane (gli Stati Uniti erano nel frattempo entrati in guerra) affonda il sei marzo il piroscafo olandese "Astrea" e il giorno successivo la motonave norvegese "Torsbergfjord". Il nove marzo colpisce e affonda il piroscafo uruguayano "Montevideo", l'undici fu invece il turno del piroscafo panamense "Cygney". Il tredici marzo fu la volta dell'inglese "Daytoian" e il quindici della petroliera inglese "Athelqueen". L'asso Fecia di Cossato è oramai famoso e temuto da tutti gli avversari.
L’incarico del "Tazzoli" è molto lungo: dal 5 aprile del 1941 al 28 febbraio del 1943 (22 mesi). Appena torna in patria per le licenze, riposa continuamente, conducendo una vita spartana. I reparti tedeschi raramente in atlantico ebbero incarichi così prolungati, spiegando forse in parte l’esaurimento fisico e il logoramento nervoso di questo incredibile ufficiale di marina sempre lucido, preciso, pieno di carica e capacità umane.
Fecia di Cossato continua a mietere vittime eccellenti: Il diciotto giugno del 1942 è diretto ai Caraibi dove il due agosto affonda la greca "Castor" e il sei la petroliera norvegese "Havsten".  L'italiano in atlantico è un vero e proprio incubo per i convogli alleati: Il dodici dicembre del 1942 furono intercettati ed affondati il piroscafo inglese "Empire Hawk" e l'olandese "Ombilin". Il ventuno è il turno dell'inglese "Queen City" e il venticinque della motonave americana "Dona Aurora".
Queste importanti missioni gli varranno una medaglia di bronzo al valor militare, oltre ad una fama eccezionale.
A tutto questo bisogna aggiungere alcuni difetti dei sommergibili italiani, inferiori tecnologicamente a quelli tedeschi. I sommergibili avevano una età media di dieci anni, possedevano scafi robusti e autonomia sufficiente, così come l’abitabilità. Le qualità nautiche erano più che buone, così come gli apparati motore e energia elettrica. Di contro mancava una centralina di tiro (notevole imprecisione nel lancio dei siluri), le false torri erano troppo voluminose (aumentando la visibilità al nemico), i limiti nello scafo ritardavano l’immediata immersione, rendendoli vulnerabili all’offensiva aerea nemica. Ultima, ma non meno importante, una tattica attendista obsoleta, in una guerra (anche marina) di movimento dove la stessa kriegsmarine tedesca e royal navy andavano spesso ad attaccare le basi nemiche.
Il conte Carlo Fecia di Cossato, conclusa l’esperienza nell’atlantico, come tutti i reparti della regia-marina risente fortemente delle sconfitte terrestri dell’esercito che fanno tendere la bilancia sempre più verso la disfatta, che arriva il 25 luglio del 1943 con l’arresto di Mussolini. Il romano si trova a bordo del torpediniere "Aliseo" in Corsica a Bastia. Dopo il maggio del 1943 con la conquista alleata della Tunisia, la guerra si avvicina alla penisola e nel luglio avviene lo sbarco alleato in Sicilia.
Il ministro della marina Raffaele De Courten convoca a Roma tutti gli ufficiali superiori allertandoli di future operazioni contro i tedeschi. Si arriva all’otto settembre e per Carlo Fecia di Cossato è un duro colpo al suo spirito già fortemente provato: tradire l’alleato tedesco, con il quale aveva condiviso gli anni francesi. Costante, però, era l’opinione in marina, che questo sacrificio di onore militare era richiesto dal Re, per cui l'ambiente si compattò ed eseguì alla lettera gli ordini. La sera dell’otto settembre il comando tedesco cerca di impadronirsi dei comandi italiani in Corsica, sfruttando lo sbandamento delle truppe italiane rimaste senza ordini.
[caption id="attachment_6765" align="aligncenter" width="1754"] L'Aliseo è stata una torpediniera di scorta della Regia Marina. Dopo il termine del conflitto, il trattato di pace assegnò l’Aliseo alla Jugoslavia, in conto riparazione danni di guerra. Con la sigla provvisoria Y9 la torpediniera venne consegnata il 3 maggio 1949.[/caption]
Avviene la battaglia di Bastia e qui viene fuori l’uomo. Qui Carlo Fecia di Cossato non ebbe tentennamenti e la sua reazione davanti al nemico fu decisa, senza dubbi. Toltosi i nastrini delle croci di ferro tedesche (si narra come fossero state gettate in mare) alle 7,15 di mattina aprì il fuoco a distanza ravvicinata: i tedeschi dello "Uj2203", si auto-affondano per le lesioni allo scafo appena un’ora dopo. Fecia di Cossato dirige successivamente le sue bocche da fuoco sul sottomarino tedesco "Uj2219" che dopo trenta minuti viene affondato. Stessa sorte il conte decide di farla fare alla motozattera tedesca "F612". Nella confusione della nottata e della mattinata successiva il colpo di mano tedesco in Corsica fallisce. Carlo Fecia di Cossato giunge per ordine di Nomis di Pollone (su ordine dell’ammiraglio Somigli) prima a Portoferraio (provincia di Livorno) e successivamente, insieme a Aimone Savoia duca di Spoleto, a Palermo. La città ospita tutta la regia-marina fedele a Vittorio Emanuele III, il quale in accordo con gli anglo-americani aveva creato il governo Badoglio a Brindisi. Alcuni reparti di marina confluiranno a Nord dove aderiranno alla repubblica sociale italiana con gli ammiragli Legnani e Ferrini.
Dopo essersi fermate una settimana a Palermo, le unità sottili fra cui "l’Eliseo", raggiunsero Malta, dopo una sosta ad Augusta. Lasciata l'isola, ai primi di ottobre, Carlo giunge a Taranto dove inizia la cobelligeranza, la quale prevede scorte ai convogli degli Alleati.
Nel frattempo nell’aprile 1944 Vittorio Emanuele III nominava Umberto Savoia principe di Piemonte “luogotenente generale del regno” asserendo come: “questa mia decisione che, ho ferma fiducia, faciliterà l’unità della nazione è definitiva e irrevocabile”. Una volta presa Roma il 4 giugno 1944, colui che successivamente sarà il “Re di Maggio” Umberto II, per volontà degli Alleati scioglie il governo Badoglio e forma un comitato di liberazione nazionale (CLN) formato dai vari Croce, Rodinò, Togliatti, Mancini, Sforza solo per citare le persone più di rilievo. Questo comitato non giura, come lo Statuto Albertino richiede, la fedeltà al Re e sarà solo l’intervento del diplomatico Alberto Tarchiani a giustificare l’imposizione, decretando un governo civile. Così il Governo Bonomi si obbligava a rispettare tutti gli impegni assunti dal precedente governo Badoglio e stabilì con Umberto Savoia che i ministri non giurassero con la formula rituale, bensì con una formula che li impegnava soltanto ad esercitare la loro funzione “nell’interesse supremo della nazione”. Inutile dire che questa azione, rispecchia il colpo di mano avvenuto nella notte del 13 giugno 1946 da Alcide De Gasperi.
Questa soluzione viene adottata anche nella regia-marina del Ministro De Courten. Il giuramento del nuovo governo poneva quindi un problema istituzionale che ebbe un impatto tremendo sulla realtà della marina italiana fortemente monarchica. Chi avrebbe seguito De Courten combattendo con un governo non fedele al sovrano? Il 9 settembre si era chiesto alla regia-marina di cambiare schieramento per espresso ordine del Re e successivamente molti comandanti di marina che avevano compiuto il sacrificio di mettere l’onore e la lealtà da parte, si vedevano schierati con un governo non fedele al loro stesso giuramento.
Carlo è stanco, è tormentato dai dubbi, ma con i suoi occhi di ghiaccio emanava sempre un grande carisma tra i marinai. Quando il 22 giugno l’amico Nomis di Pollone lo convocò insieme ai comandanti delle torpediniere per tenere loro un discorso sulla calma e l’obbedienza, il conte esce dal coro e asserisce come non avrebbe eseguito gli ordini di un governo che non prestava fedeltà al Re e il giorno seguente l’Aliseo non sarebbe uscito. Convocato dal ministro in persona a Taranto, il romano rimane fermo nella sua decisione, che lo porterà agli arresti in fortezza. L’agitazione della regia-marina, che aveva preso come un tradimento la questione del giuramento del governo Bonomi, vedevano in Fecia di Cossato un alfiere della loro battaglia etica. Il ministro è costretto il giorno dopo a scarcerarlo per calmare gli animi e invitarlo ad una “licenza” lunga tre mesi a Napoli. La città partenopea è allo sbando: affamata e distrutta, vige la corruzione in tutti i settori. Per un uomo tormentato e sfiduciato Napoli non era sicuramente la città migliore.
Qui si consuma il dramma, l’ufficiale che più di tutti era stato ligio al dovere, l’ufficiale che viene disonorato per non essersi piegato al “politicamente corretto” crolla.
[caption id="attachment_6766" align="aligncenter" width="1243"] Il conte Carlo Fecia di Cossato in plancia durante la navigazione.[/caption]
Riporto la lettera alla madre Luisa Gené:
Mamma carissima, quando riceverai questa mia lettera saranno successi fatti gravissimi che ti addoloreranno molto e di cui sarò il diretto responsabile.
Non pensare che io abbia commesso quel che ho commesso in un momento di pazzia, senza pensare al dolore che ti procuravo. Da nove mesi ho soltanto pensato alla tristissima posizione morale in cui mi trovo, in seguito alla resa ignominiosa della Marina, resa a cui mi sono rassegnato solo perché ci è stata presentata come ordine del Re, che ci chiedeva di fare l’enorme sacrificio del nostro onore militare per poter rimanere il baluardo della monarchia al momento della pace. Tu conosci che cosa succede ora in Italia e capisci come siamo stati indegnamente traditi e ci troviamo ad aver commesso un gesto ignobile senza alcun risultato. Da questa triste constatazione me ne è venuta una profonda amarezza, un disgusto per chi mi circonda e, quello che più conta, un profondo disprezzo per me stesso. Da mesi, mamma, rimugino su questi fatti e non riesco a trovare una via d’uscita, uno scopo alla vita. Da mesi penso ai miei marinai del Tazzoli che sono onorevolmente in fondo al mare e penso che il mio posto è più con loro che con i traditori e i ladruncoli che ci circondano. Spero, mamma, che tu mi capirai e che, anche nell’immenso dolore che ti darà la notizia della mia fine ingloriosa, saprai sempre capire la nobiltà dei motivi che la guida. Tu credi in Dio, ma se c’è un Dio, non è possibile che non apprezzi i miei sentimenti che sono sempre stati puri e la mia rivolta contro la bassezza dell’ora. Per questo, mamma, credo che ci rivedremo un giorno. Abbraccia papà e le sorelle e a te, mamma, tutto il mio affetto profondo e immutato. In questo momento mi sento molto vicino a tutti voi e sono certo che non mi condannerete”.
Il conte si toglie la vita il 28 agosto verso l’una di notte, sparandosi un colpo di pistola alla tempia. Nel 1946 nell’immediato dopoguerra la marina italiana lo dimentica per molti anni con l’Italia repubblicana che gli assegna una medaglia d’argento per l’ultima missione del Tazzoli e una di bronzo per l’azione di Bastia. Solo il 27 gennaio del 1949 gli viene assegnata, con giusto merito, la medaglia d’oro al valor militare che fu appuntata al padre in Piazza S.Marco a Venezia. La marina militare ha quasi totalmente riparato alle sue dimenticanze mettendo in servizio nel 1979 il sottomarino “Fecia di Cossato” appartenente alla classe Sauro.
Il conte Carlo Fecia di Cossato è stato un fedele suddito del Re, tradito dalle circostanze storiche, ha ricevuto spesso una mistificazione totale del suo dramma. Il suo è stato un gesto estremo fuori dal comune che lo rende eroico alla posterità proprio perché rappresenta il più grande degli sconfitti che non si piega agli eventi che gli impongono nella storia. Il sommergibilista è stato l’esempio di quella unità d’Italia voluta dai Savoia, dove il concetto storico della dichiarazione di guerra era ancora un concetto personale fra sovrani e non fra stati. Il fascismo cercò di creare un’identità nazionale scavalcando la monarchia, ma la metodologia del totalitarismo a medio-lungo termine si rilevò fallimentare e cercò di trascinare nel suo crollo anche la dinastia sabauda che aveva cercato di emarginare. Con il crollo della monarchia italiana nel 1946, si concluse "un’idea italiana", che il fascismo -  nonostante tutto -  non aveva eliminato e che la repubblica, sorta dalle ceneri di questa idea, ha cercato per anni di trovare una legittimità storica di “sangue” come ogni rivoluzione creativa nella resistenza partigiana, ma era un concetto debolissimo che si sbriciolò con l’onestà intellettuale di una guerra fraticida di tre schieramenti distinti: fascisti, monarchici, partigiani.
Il nostro eroe cresciuto con questa idea esistenziale non poteva capire i problemi di fondo che un governo Bonomi esprimeva, giocando sul sentimento di metà della nazione italiana, ed è proprio in questo senso che Carlo Fecia di Cossato rimane il vincitore morale di questa grande sconfitta nazionale.
 
Per approfondimenti:
_Achille Rastelli, Carlo Fecia di Cossato. L'uomo, il mito e il marinaio - Edizioni Mursia 2009
_Antonio Maronari, Un sommergibile non è tornato a casa - Edizioni Rizzoli
_Gianni Oliva, I Savoia - Edizioni Mondadori 1999
 
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

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di Giuseppe Baiocchi del 24-09-2020

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[caption id="attachment_12217" align="aligncenter" width="1000"] Un giovane rampollo della Guardia Nobile del Corpo di Sua Santità.[/caption]
Oggi tale corpo militare è scomparso: San Paulus PP. VI il 14 settembre 1970 ne sopprime l’apparato. Fu così che gli antichi membri di quell’ultimo glorioso stendardo sopravvivono nell’associazione delle «Lance Spezzate», nella quale si mantiene l’osservanza del rito romano antico.
Il Corpo che ha origine nel 1485 con l’istituzione della «Guardia dei Cavalleggieri» da parte di Innocentius PP. VIII (1432 - 92), vanta tradizioni gloriose: dall’immolazione completa del 1527 per difendere la tomba di San Pietro dai lanzichenecchi di Carlo V (1500 - 58); passando per la reclusione presso Castel Sant’Angelo nell’aprile del 1808 da parte dell’usurpatore esercito francese per essere rimasto fedele al Sommo Pontefice; fino alla difesa della Salma del Beato Pius PP. IX (1792 - 1878), quella aggressione al corteo papalino, da parte dei alcuni gruppi anticlericali e massonici romani, il 13 luglio 1878.
La storia si fa più affascinante proprio per la composizione di tale corpo: alla «Guardia dei Cavalleggieri» l’undici dicembre del 1555 si uniscono i «Cavalieri di Guardia di Nostro Signore», che Paulus PP. IV (1476 - 1559) consacrò con il noto motto «Cavalieri della Fede» e che parallelamente la popolazione romana battezzò «Lance Spezzate».
Entrambi i raggruppamenti militari, con i rovesci del 16 febbraio del 1798, ad opera “dell’anti-Cristo Napoleone Bonaparte”, vengono sciolti e l’allora Pontefice Pius PP. VI (1719 - 99) incarcerato, morirà martire a Valenza in Francia.
Lo strapotere francese non tanto sullo Stato Pontificio, ma sul resto dell’Europa, sembra mettere la parola fine al corpo appena costituito, ma come ci ricorda il conte Monaldo Leopardi (1776 - 1847): «dopo ventisei anni di strepito e di trambusto era tempo di pigliare un poco di fiato. La rivoluzione è domata; la republica ha finito colla tirannia come era da aspettarsi; e quel bricconcello di Corso che mangiava i miei regni uno dopo l’altro, come confetti, ha dovuto metterli fuori, e se ne è andato a digerire la scomunica, e a trastullarsi con le ostriche, e coi gabbiani».
Dunque sconfitto Napoleone, Pius PP. VII (1742 - 1823) ripristina la rinnovata «Guardia Nobile del Corpo di Sua Santità», fondendo insieme – tramite Motu Proprio Pontificio dell’undici maggio del 1801 – i due corpi precedentemente creati. Inoltre confluiscono anche i Cavalieri della primaria nobiltà.
Successivamente fu Leo PP. XIII (1810 - 1903), il diciotto dicembre 1824, ad approvare un regolamento organico e disciplinare per il Corpo di Guardia. Poteva così essere ammesso al Corpo il giovane rampollo la cui nobiltà di nascita in «una città in tal rango considerata negli ordini Gerosolimitano e di Santo Stefano» da almeno 60 anni, successivamente 100, doveva possedere l’esercizio della Nobile Magistratura da parte della famiglia del candidato.
Lo Stendardo del Corpo era molto semplice: inizialmente vi erano le due chiavi incrociate su sfondo rosso, mentre successivamente le chiavi furono sostituite dallo stemma del pontefice regnante che la Guardia Nobile serviva. Parimenti rossi, con l’arme del Pontefice, erano infatti i due vessilli, per ogni compagnia, che la precedente Guardia dei Cavalleggeri aveva in assegnazione.
Successivamente al trentuno maggio del 1820 Pius PP. VII concesse alle sue Guardie lo stendardo bianco quadrato, bordato di ricami d’oro ed ai quattro angoli concesse l’utilizzo di fregi, armi e trombe ricamate; al centro del vessillo bianco si sono succeduti da allora gli stemmi di dodici Pontefici: Pius PP. VI (Braschi), Leo PP. XII (della Genga), Pius PP. VII (Chiaramonti), Gregorius PP. XVI (Cappellari), Pius PP. IX (Mastai-Ferretti), Leo PP. XIII (Pecci), Pius PP. X (Sarto), Benedictus PP. XV (della Chiesa), Pius PP. XI (Ratti), Pius PP. XII (Pacelli), Ioannes PP. XXIII (Roncalli), Paulus PP. VI (Montini).
Come ci racconta il marchese don Giulio Patrizi di Ripacandida, (1921 - 2020, duca di Castelgaragnone), uomo integerrimo e di specchiata condotta, autore del significativo tomo “Quell’ultimo glorioso stendardo”: «entrambe le insegne, quella più antica rossa, quella successiva bianca, sono ora custodite dal Museo Storico Lateranense insieme agli altri preziosi cimeli donati dalle Guardie Nobili».
[caption id="attachment_12219" align="aligncenter" width="1000"] Nelle tre immagini (da sinistra a destra): il marchese don Giulio Patrizi di Ripacandida, duca di Castelgaragnone, autore del saggio "Quell'ultimo glorioso stendardo. Le guardie nobili pontificie dall'11 Maggio 1801 al 15 settembre 1970". Sulla destra, la bandiera del corpo con stemma Papale corrente alla foto su fondo bianco.[/caption]
Certamente va ribadito come la totalità di quella che viene definita come “aristocrazia nera”, ovvero quella parte nutrita e numerosa della nobiltà romana che rimase sempre fedele al Papato anche dopo l’invasione dello Stato Pontificio, senza dichiarazione di guerra, da parte delle truppe sabaude. Piccola curiosità non meno significativa delle altre la riscontriamo nel colore di questi amministratori pontifici, i quali in segno di lutto per la già citata invasione e soppressione temporale del Regno papalino, indossavano abiti scuri: un’usanza interrotta unicamente con la Chiesa Conciliare di Paulus PP. VI che soppresse tutta la corte pontificia.
I comandanti della «Guardia Nobile del Corpo di Sua Santità» all’inizio furono ben due, uno per Compagnia, ognuno assistito da un Capitano Coadiutore. Dal 1814, diversamente, fu nominato un unico comandante, così come nel 1895, fu eliminata anche la figura del Capitano Coadiutore.
Il Comandante esercitava l’azione di comando tramite due ufficiali preposti: l’Esente Aiutante Maggiore ed il Cadetto Aiutante. Il primo di queste due figure, assumeva il comando effettivo del Corpo sul campo, quando si muoveva come unità; parallelamente il Cadetto Aiutante presiedeva l’organizzazione dei servizi di Guardia e curava le relazioni con gli altri apparati di servizio quali il Maggiordomo ed il Maestro di Camera. In ogni manifestazione protocollare e visita ufficiale queste due figure erano pressoché inseparabili. Di contro il servizio giornaliero del Corpo era invece comandato dall’Esente di settimana, che presiedeva a tutti i Corpi Militari presenti in Anticamera, e dal Cadetto di servizio che comandava specificatamente il Distaccamento di Servizio della Guardia.
Sempre del sistema di comando, facevano parte sia il Cadetto Tesoriere, che curava l’amministrazione economica e l’Archivista del Corpo, il quale custodiva e ordinava i fascicoli personali, i rapporti giornalieri degli Esenti ed ogni altro atto.
Le Guardie Nobili Pontificie hanno avuto ben undici Comandanti. Il primo, Don Giuseppe Mattei (1735 - 1809), duca di Giove, romano, rimasto celebre per gli eventi dell’aprile del 1808 attraverso i quali – insieme al secondo comandante, il duca Luigi Braschi Onesti e cinquanta Guardie Nobili –, subì la detenzione presso Castel Sant’Angelo da parte degli invasori francesi per essersi opposto al dominio straniero ed essere rimasto fedele al Sommo Pontefice indossando la coccarda bianco-gialla. Secondo leader del Corpo è il già citato Don Luigi Braschi Onesti (1746 - 1816), duca di Nemi, cesenate, divenuto primo Comandante dopo il ritorno del Pontefice, dalla cattività francese, nel 1814. Il Terzo Comandante della Guardia lo troviamo nella figura del principe romano Don Paluzzo Altieri (1760 - 1834): lasciò il comando nel 1819 per essere stato nominato Principe Assistente al Soglio e Senatore di Roma. Il Quarto è un altro principe romano: Don Francesco Barberini di Palestrina (1772 - 1853); egli fu il primo comandante insignito dell’Ordine di Cristo.
Don Carlo Berberini (1817 - 80), duca di Castelvecchio, romano, fu il quinto comandante.
In successione troviamo i romani Don Emilio Altieri (1814 - 78, principe di Oriolo); Don Paolo Altieri (1849 - 1901, principe di Viano); il fiorentino Don Camillo Rospigliosi (1850 - 1915, principe) che prima di divenire Comandante nel 1901, prese parte all’ultima resistenza delle truppe del generale Hermann Kanzler (1822 - 88) all’interno delle mura leonine nel settembre del 1870; Don Giuseppe Aldobrandini (1865 – 1939, principe romano) Comandante del Corpo dal 14 giugno del 1915; Don Francesco Chigi della Rovere (1881 - 1953, principe romano) Comandante del Corpo dal 14 dicembre del 1939; infine troviamo l’ultimo Comandante della Guardia Nobile: Don Mario del Drago (1899 – 1981, principe romano), il quale fu Comandante dal 1957 ed ebbe la forza di sciogliere il Corpo, dopo previo ordine pontificio del Cardinale Segretario di Stato.
Il ruolo di questo prestigioso Corpo Militare dopo l’undici maggio del 1801 fu quello di operare alcune “missioni” di scorta per il Pontefice – come accadde per l’elezione ad Imperatore di Napoleone I a Parigi, da parte di Pius PP. VII (1804), oppure scortare un Cardinal Legato che rappresentava il Pontefice in eventi particolari: congressi eucaristici, grandi celebrazioni religiose, incoronazioni, matrimoni o battesimi di prìncipi regnanti. Altra mansione erano propriamente le spedizioni, all’interno delle quali la Guardia Nobile fungeva da “corriere speciale del Pontefice” per consegnare lo zucchetto cardinalizio ad un Vescovo o Arcivescovo creato Cardinale, oppure la berretta ai Capi di Stato cattolici che godevano del privilegio della imposizione al neo Cardinale.
[caption id="attachment_12218" align="aligncenter" width="1000"] Giuseppe Capparoni, Guardie Nobile Pontificia (sotto Leo PP. XII), dalla "Raccolta della gerarchia ecclesiastica considerata nelle vesti sacre, e civili usate da quelli li quali la compongono", Roma 1827 - incisione all’acquaforte acquerellata 176 x 124 mm (matrice) 290 x 220 mm (foglio).[/caption]
La guardia nobile disponeva di due uniformi distinte a seconda delle diverse occasioni in cui il membro del corpo si trovava a dover operare. La prima era l’uniforme d’onore utilizzata per le occasioni più importanti e per le celebrazioni liturgiche in cui la guardia era presente. Essa era composta da un elmo da corazziere piumato di bianco e crinato di nero, una giubba rossa con bandoliera e spalline dorate, una cintura bianca in vita, pantaloni bianchi e stivali neri da cavallerizzo. In tutti questi particolari l’uniforme ricordava chiaramente quella dei corazzieri e tale rimase sino alla soppressione del corpo, in ricordo dell’originaria funzione svolta da questi uomini.
L’uniforme di servizio era invece utilizzata quotidianamente, ed era composta da un elmo da corazziere con impresso sul davanti lo stemma papale, una giacca color blu di Prussia bottonata a due file d’oro e bordata di rosso con una cintura nera a fibbia dorata con le armi pontificie e un paio di pantaloni azzurro-cupo rigati di rosso.
L’unico armamento della guardia nobile era costituito da una sciabola da cavalleria ed era l’unico, oltre alla Guardia Svizzera Pontificia, ad essere autorizzato a portare le armi anche in chiesa e alla presenza del Pontefice.
Prima di affrontare i vari ruoli all’interno della Guardia Nobile del Corpo di Sua Santità, bisogna necessariamente capire come era strutturata la nobiltà così detta romana, poi aristocrazia nera.
Il Patriziato Romano si divideva in due categorie: i Patrizi romani, che discendevano da coloro che, nel Medioevo, avevano occupato incarichi civili di governo nella Città Pontificia; e dai Patrizi romani coscritti, che appartenevano a una delle sessanta famiglie che il Sommo Pontefice aveva riconosciuto come tali in una Bolla Pontificia speciale, nella quale erano citati nominalmente; questi costituivano il fior fiore del patriziato romano.
La nobiltà romana si divideva anch’essa in due categorie: i nobili che discendevano dai feudatari, ossia dalle famiglie che avevano ricevuto un feudo dal Sommo Pontefice; ed i semplici nobili, la cui nobiltà proveniva dall’affidamento di un incarico a Corte oppure direttamente da una concessione pontificia.
Così l’ossatura del Corpo dall’undici maggio del 1801 era composta dai Tenenti (Brigadieri Generali): le due antiche Cornette della Guardia dei Cavalleggeri, poi chiamate definitivamente “Tenente in I” e “Tenente in II”; gli Esenti (Colonnelli): le sei Lance Spezzate di numero; i Cadetti (Tenenti Colonnello): le sette Lance Spezzate in soprannumero, i due cadetti Aiutanti dei Comandanti ed un decimo Cadetto; le Guardie Comuni (Capitano): composte da trenta elementi denominati cavalieri della prima nobiltà – solo dopo il venti dicembre del 1815 verranno denominati Sottotenenti per poi passare a “Guardia Tenente” e “Guardia Capitano”.
Diversamente, il congedo dal lavoro attivo per una Guardia, si concretizzava attraverso la formula del Giubilato, ovvero la conclusione per anzianità, con il conseguente passaggio in “giubilazione” con una pensione e diritto all’uso dell’uniforme nelle riunioni del corpo, in udienza e nei riti in San Pietro e il Pensionato, ovvero la Guardia che aveva interrotto il servizio prima della Giubilazione, per giustificato motivo, ed al quale era concessa talvolta la pensione e l’uso dell’uniforme.
Nella storia del corpo, spiccano sicuramente alcune Guardie sia per dei pregi, che per dei difetti. Sicuramente il male maggiore per un soldato è l’espulsione dal Corpo. Tralasciandone una per duello formale eseguito a disfida della Guardia maceratese Carlo Costa (1834 - 66), troviamo le espulsioni più rilevanti nel gravissimo reato di aver aderito alla Repubblica Romana (1849). La sorte della radiazione toccò così al ternano Giuseppe Nicoletti nato nel 1799, pensionato dal 1833, il quale schieratosi a favore del triunvirato mazziniano, fu condannato all’unanimità dal Consiglio di Guerra e conseguentemente radiato dal Corpo. Stessa sorte per Luigi Filippi; Alessandro Savini (1814 - 89); Domenico Silveri (1818 - 1900) divenuto celebre per la composizione musicale “Le trombe d’argento”, melodia eseguita al primo pontificale di Pius PP. IX; Antonio Stefanoni (dimissionario); Luigi Capranica (1820 - 91); Prospero Cansacchi (1817 - 90) il quale fu poi, per clemenza, reintegrato e ebbe il giubilato per anzianità; Giuseppe Caccialupi; Giacomo Frischiotti, Girolamo Zelli-Jacobuzzi ed infine altra espulsione avverrà per Giulio della Porta (1827 - 67) per aver commesso un assassinio.
Ovviamente nella storia delle 570 Guardie Nobili, di cui sono state predisposte solo 218 Ammissioni tali casistiche rimangono comunque casi isolati. Difatti molte guardie nobili spiccano per la loro fedeltà e il loro coraggio.
[caption id="attachment_12220" align="aligncenter" width="1000"] Uniforme di gala della Guardia Nobile del Corpo di Sua Santità. Il manichino dell'uniforme si trova presso il Museo del Palazzo Mastai-Ferretti presso la città di Senigallia.[/caption]
[caption id="attachment_12221" align="aligncenter" width="1000"] Uniforme di mezza gala della Guardia Nobile del Corpo di Sua Santità. Il manchino dell'uniforme si trova presso il Museo del Palazzo Mastai-Ferretti presso la città di Senigallia.[/caption]
Emblematico e singolare il percorso della Guardia Flavio Chigi (1810 - 85), romano, il quale dopo una spedizione a Lione presso l’Arcivescovo De Bonald, ottenne le dimissioni nel 1849 per ottenere lo stato ecclesiastico. Dopo aver compiuto gli stadi necessari per la sua formazione, fu ordinato sacerdote da Sua Santità e Suo personale Cameriere Segreto Partecipante; successivamente Nunzio Apostolico a Parigi, e nel Concistoro del 1873 fu infine creato Cardinale.
Onorificenze al merito, come quella del cavalierato di San Silvestro, furono donate dal Papa per la resistenza e la tenacia di alcune Guardie durante la sommossa del 16 novembre del 1848. Ricordiamo così Lodovico Bischi (1809 - 61), Francesco Pietramellara (1802 - 69), Pietro Dandini de Sylva; Paolo Del Bufalo della Valle (1822 - 97); Decio Bentivoglio (1822 - 71).
Per virtuosismo musicale la Guardia Giovanni Longhi (1811 - 98) ebbe incarico nel 1846 di comporre la marcia trionfale in occasione del primo pontificale celebrato da Sua Santità Pius PP. IX: marcia che da quell’epoca si è poi sempre eseguita all’ingresso del Sommo Pontefice nella Chiesa ove celebra il Pontificale.
Ed ancora Augusto Baviera (1828 - 1909) viene ricordato come la Guardia che ha fondato un noto giornale vaticano “L’Osservatore Romano”.
La Guardia Mario Filippo Carpegna (1856 - 1924) dopo varie missioni in Spagna e Russia, sarà spettatore, per conto della Santa Sede, dell’incoronazione Imperiale dello Zar di tutte le Russie Nikolaj II (1868 - 1918). Altra incoronazione di rilievo fu vissuta dalla Guardia Lelio Nicolò Orsini (1877 - 1952), il quale in missione a Londra assistette all’incoronazione di Re Edoardo VII e in missione presso Madrid al matrimonio di Re Alfonso XIII. Ignazio Honorati (1873 - 1959) in missione a Madrid nel 1907, presso il Nunzio Rondanini, fu nello stesso tempo latore, oltreché dello zucchetto cardinalizio, anche delle fasce benedette per il neonato Principe delle Asturie, figlioccio di Sua Santità. Giorgio Salimei (1889 - 1950), dopo una missione a Siviglia, ne ebbe una nella stessa città eterna per accompagnare il Pontefice Pius PP. XII nella storica visita ai Reali d’Italia. Elemento di spicco del Corpo, raggiunse il grado di Tenente, fu trattenuto oltre i limiti del servizio.
Come non ricordare Vincenzo di Napoli Rampolla (1898 - 1965) in missione prima a Parigi (1925), poi a Lourdes (1935) per il Giubileo straordinario. Seguì il Pontefice Pius PP. XII nella visita dei reali d’Italia a Roma (1939), fu giubilato nel 1956 con il grado di Tenente e ricoprì anche i ruoli di Cadetto Aiutante (1938-50) ed Esente Aiutante Maggiore (1951-58).
Anche il marchese Angiolo Pagani Planca Incoronati (1902 - 69) ebbe l’onore di essere in missione a Domrémy il 31-05-1939 con l’Arcivescovo Mgr. Villeneuve, legato Pontificio per le celebrazioni di Santa Giovanna D’Arco.
Oggi, che la Chiesa non festeggia più determinate ricorrenze, ricordiamo con importanza la missione della Guardia Pietro Aluffi (1905 - 58) a Vienna, dove nel 1933 era all’interno della Legazione Pontificia per il 250° anniversario della liberazione dall’assedio ottomano.
[caption id="attachment_12222" align="aligncenter" width="1000"] Rare foto di Guardie Nobili sotto il Pontificato di Pius PP. IX (Mastai-Ferretti).[/caption]
[caption id="attachment_12223" align="aligncenter" width="1000"] Rare foto di Guardie Nobili sotto il Pontificato di Pius PP. IX (Mastai-Ferretti).[/caption]
Spazio va dedicato anche alla Guardia Guido Avignone di San Teodoro (1909 - 90), presente a Fatima per la chiusura dell’Anno Santo, accompagna le sante spoglie di Pius PP. X nel 1959 da Venezia a Roma. Dal 1962 al 66 fu Esente Aiutante Maggiore, Giubilato nel 1967 con il grado di Tenente, fu richiamato in servizio quale archivista del Corpo e tale rimase fino allo scioglimento dello stesso, curando anche il Museo dell’Antico Esercito Pontificio.
Anche in paesi senza passato monarchico, le aristocrazie erano costituite dal corso naturale degli eventi, di fatto se non di diritto. Anche in questi paesi l’ondata di egualitarismo demagogico nata dalla Rivoluzione Francese del 1789 e portata al suo culmine dal comunismo, ha creato in certi ambienti un'atmosfera di risentimento e incomprensione nei confronti delle élite tradizionali.
Le allocuzioni riportate all’inizio di questo scritto di Sua Santità Pius PP. XII hanno quindi portata universale.
Queste “Guardie Nobili del Corpo di Sua Santità” servirono i dodici Pontefici che governarono la Chiesa dal 1801 al 1970. In tale lasso di tempo eroismo, fedeltà, obbedienza, dedizione, umana debolezza hanno contraddistinto i loro comportamenti e le loro gesta. 170 anni sotto lo “Stendardo Bianco” di cui le gloriose tradizioni furono della «Guardia di nostro Signore», dal 1485 al 1798.
 
Per approfondimenti:
_Giulio Patrizi di Ripacandida, Quell'ultimo glorioso stendardo. Le guardie nobili pontificie dall'11 Maggio 1801 al 15 settembre 1970, Città del Vaticano, 1994;
_Giulio Sacchetti, I due Stendardi della Guardia Nobile Pontificia, in Strenna dei Romanisti, 1990;
_Giuseppe Capparoni, Raccolta della Gerarchia ecclesiastica, Giacomo Antonelli editore, 1827.
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di Giuseppe Baiocchi del 15-08-2020

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Note:
Losanga è un termine utilizzato in araldica per indicare una figura geometrica di quattro lati con l’angolo superiore e quello inferiore acuti, mentre i due laterali sono ottusi. È simile al fuso che però è più allungato.
2 Il marchese di Castelnau fu governatore generale della colonia francese di Pondicherry dal 1783 al 1785.
La Belle-Poule era una nave francese, che in una fregata di quattro navi, il 17 giugno 1778, sconfisse la fregata inglese Arethuse, inaugurando l’ingresso della Francia nella guerra d’indipendenza americana. La battaglia navale ebbe luogo al largo delle coste Lèonardes, vicino alla baia di Goulven.
Charles Joseph Patissier, Marchese de Bussy-Castelnau (1718 - 7 gennaio 1785) o Charles Joseph Patissier de Bussy fu governatore generale della colonia francese di Pondicherry dal 1783 al 1785. Prestò servizio distinto sotto Joseph François Dupleix nelle Indie orientali e ricevette l’Ordine di Saint Louis. Contribuì al recupero dalla Gran Bretagna di Pondicherry nel 1748, e fu nominato nel 1782 per guidare tutte le forze militari francesi oltre il Capo di Buona Speranza. Coordinò le sue operazioni con Pierre André de Suffren e combatté con distinzione contro gli inglesi numericamente superiori durante le campagne indiane della Guerra d'indipendenza americana.
Il capo squadra, in francese Chef d’escadre, era un grado della marina militare francese durante l’Ancien Régime. Il caposquadra è un ufficiale generale che comanda una squadra, composta da una flotta di meno di venti vascelli di linea.
L’ammiraglio Pierre André de Suffren de Saint-Tropez venne soprannominato “Jupiter”.
Il catogan è un tipo d’acconciatura settecentesca maschile che deve il suo nome al generale e conte inglese William Cadogan (1675 - 1726), il quale legava la lunga chioma con un nastro. Questo particolare tipo di coda divenne molto alla moda tra i soldati della fanteria.
Pierre André de Suffren de Saint-Tropez ( 1729-1788), terzo marchese di Saint-Tropez, è stato un ammiraglio francese. Nacque nel castello di Saint-Cannat, presso Aix-en-Provence nell’attuale dipartimento di Bocche del Rodano. Deve la sua fama alla campagna nell’Oceano Indiano, nella quale contese, senza successo, la supremazia alla forza britannica guidata dal viceammiraglio sir Edward Hughes.
Nel 1520 i Portoghesi sbarcarono a Pondichéry, seguiti da Olandesi e Danesi. Nel 1674 divenne colonia francese. Nel 1750 la colonia francese in India era composta da una cinquantina di villaggi. Per mettere fine all'espansione francese in India, gli Inglesi tentarono più volte di conquistare Pondichéry con una serie di assedi. La città fu catturata tre volte e altrettante volte forzatamente sgomberata. Dal 1816, a seguito dell'ultimo trattato con i Britannici, la Francia continuò a mantenere il controllo di Pondichéry per altri 138 anni, finché non la abbandonò nel 1954 cedendo la città all'India.
10 Claude François Dorothée, marchese de Jouffroy d’Abbans, (1751 - 1832) era un architetto navale, ingegnere, industriale e massone francese. Il suo maggiore merito è quello d’aver inventato i primi battelli a vapore.
11 La battaglia navale di Provédien è la seconda delle battaglie navali ingaggiate tra la flotta britannica del vice-ammiraglio Edward Hughes e la flotta francese del balivo de Suffren nell’oceano indiano durante la guerra d’indipendenza americana. La battaglia ha avuto luogo il 12 aprile 1782 lungo le coste est di Ceylon.
12 Hyder Ali (1721 - 82)   è stato un monarca e militare indiano. Fu sultano e de facto regnante del Regno di Mysore, in India meridionale.  Egli oppose una strenua resistenza anti-coloniale all'avanzata militare della Compagnia britannica delle Indie Orientali e fu l’innovatore nell’uso militare dei razzi Mysore.
13 Lo jabot è un ornamento cucito o semplicemente applicato sul petto di camicie o di bluse, realizzato in pizzo o nello stesso tessuto del capo. Storicamente nato nell'abbigliamento maschile alla corte di Luigi XIV, re di Francia, lo jabot entra a far parte della moda femminile nel 1800, come accessorio ornamentale, pur continuando ad apparire sulle camicie eleganti da uomo, prima di essere sostituito dalla cravatta.
 
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di Giuseppe Baiocchi  del 12-08-2020

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Così si esprimeva Karl I von Habsburg-Lothringen-Este – che seguendo la linea della corona ungherese è denominato come Károly IV – il 26 Marzo del 1921 tornato dall’esilio in Ungheria per ripristinare la Monarchia, del defunto Impero dell’Austria-Ungheria.
[caption id="attachment_12091" align="aligncenter" width="1000"] Karl I successe ai Troni nel novembre 1916 dopo la morte di suo prozio, l'imperatore Francesco Giuseppe. Il 2 dicembre 1916 assunse il titolo di comandante supremo dell'intero esercito, succedendo all'arciduca Federico . La sua incoronazione a Re d'Ungheria avvenne il 30 dicembre. Nella foto: Re Karl IV d'Ungheria, la regina Zita e il loro figlio, il principe ereditario Otto, nel dicembre 1916.[/caption]
«Un sentimento indescrivibile nel ritrovarsi, sconosciuti, in casa propria... Sul confine, dalla parte ungherese, c'era un vecchio maresciallo dei gendarmi nativo di Debreczen, un tipico figlio della puszta, bruno di colorito, che non sapeva nemmeno da che parte dovesse incominciare a controllare un passaporto. Accanto a lui c'era un soldato con i calzini estivi di tela.. proseguimmo per Pinkafö, dove mangiammo nella Gasthaus Jenner. Il primo pasto caldo dopo due giorni: Schnitzel con cetrioli sott'aceto. Dopo, l'oste conservò le posate e i resti del mio cetriolo come ricordo. Era interessante vedere con quale entusiasmo la gente accettava valute estere. Pagammo il pasto in franchi francesi, la macchina in franchi svizzeri. Da Pinkafö continuammo per Oberwarth, dove in quel momento si snodava la processione del Resurrexit.
Quando ci passò davanti scendemmo dall'auto e ci inginocchiammo. La seguiva la guarnigione della cittadina, con gli uomini vestiti delle uniformi del buon tempo andato e l'artiglieria con i cartocci. Fu un momento di indicibile sollievo, specie alla vista delle mie vecchie uniformi. Da Oberwarth proseguimmo per St.Mihály.. Chiesi ad alcune persone che aspetto aveva il loro Re. Come avevo immaginato, mi fecero vedere delle fotografie, però nessuno mi riconobbe. Alla fine brindammo tutti alla salute del sovrano; mi rimproverarono perché non avevo vuotato anch'io il bicchiere in solo sorso come loro. Non ne ero stato capace perché il vino era troppo forte per me. Siccome la macchina era rimasta in panne, continuammo verso la nostra prima destinazione, Szombathely, su un calesse tirato da cavalli. Vi arrivammo verso le dieci di sera, e ci fermammo proprio davanti al palazzo vescovile. Il vescovo stava ancora pranzando e aveva come ospite un ministro ungherese, il dottor Vass. Quando Tamás mandò su un domestico incaricato di chiedere ospitalità per la notte per lui e un altro signore, il vescovo a tutta prima si dimostrò abbastanza irritato. Ma siccome era un anfitrione scese nel salone per accoglierci. Ci porse la mano e poi rimanemmo un momento in silenzio. Tamás gli chiese se non riconosceva il gentiluomo in sua compagnia. Il vescovo disse no. Allora Tamás gli dichiarò, in tono solenne, che era nientemeno che Sua Maestà apostolica il Re. Il vescovo ebbe un sussulto e mi condusse in una stanza attigua, dove chiese: «È lei veramente?». Gli confermai che ero io. Il ghiaccio era rotto».
Dopo la conclusione del conflitto mondiale nel 1918, le potenze vincitrici con tre trattati di pace, rispettivamente Versailles (per la Germania 1919-20), Saint German (per l’Austria 1919) e Trianon (per l’Ungheria 1920), impongono la pace agli sconfitti. Il bilancio sotto il profilo geopolitico è catastrofico: l’Impero dell’Austria-Ungheria per gli interessi anglo-francesi viene smembrato in tanti piccoli Stati nazionali, appellandosi ai fatali punti Wilsoniani riguardanti il concetto dell’autodeterminazione dei popoli.
L’ultimo Imperatore, Karl I von Habsburg-Lothringen-Este, nel 1919 è costretto all’esilio. Così scrive in una lettera negli istanti più concitati da Feldkirck il 24 marzo: «Nel momento in cui m’accingo a lasciare l’Austria tedesca per entrare nella Svizzera ospitale, elevo solenne protesta per me e per la mia Casa, di cui fu cura continua la felicità e la pace dei suoi popoli, contro le misure che ledono i miei secolari diritti di Sovrano, prese dal Governo e dalla Assemblea Costituente l’11 novembre 1918, e contro la mia deposizione dal trono, l’esilio mio e dei membri della Casa Asburgo-Lorena proclamate per l’avvenire. Nel manifesto dell’11 novembre 1918 ho dichiarato di rimettere all’Austria tedesca il diritto di decidere sulla forma di Stato. Il Governo austro-tedesco, lasciando a parte il mio manifesto scritto in un’ora assai penosa, decise lo stesso giorno di proporre all’assemblea Nazionale provvisoria, che doveva aver luogo il 12 novembre, la proclamazione della Repubblica austro-tedesca, anticipando così quella decisione che, secondo il mio manifesto, spettava di diritto soltanto all’intero popolo austro-tedesco. Questa proposta del Governo austro-tedesco, sotto la pressione della flotta radunata, venne approvata il 12 novembre 1918 da un’Assemblea Nazionale provvisoria, i cui membri si erano da 
[caption id="attachment_12092" align="aligncenter" width="1000"] Il castello di Prangins, residenza svizzera dell'ultimo Imperato dell'Austria-Ungheria Karli I, è un castello nel comune di Prangins nel Canton Vaud in Svizzera . Si tratta di un sito del patrimonio svizzero di importanza nazionale. Ospita una parte del Museo nazionale svizzero. La terrazza regala viste sul Lago di Ginevra e sulle Alpi.[/caption]
soli conferiti il mandato di rappresentare il popolo austro-tedesco senza potersi considerare rappresentanti eletti, poiché essi provenivano dall’antico parlamento austriaco che non aveva avuto dagli elettori la autorità di oltrepassare le funzioni costituzionali. Oltre a ciò ha avuto luogo la contraddizione che gli stessi elementi che hanno determinato il crollo e che fino ad allora avevano vivacemente combattuto la riunione dell’Assemblea Nazionale provvisoria, vollero poi lasciar decidere a questa Assemblea il destino dell’Austria in una delle sue questioni più vitali.
La Costituente, eletta il 16 febbraio 1919, si sostituì all’assemblea Nazionale provvisoria e confermò le sue deliberazioni riguardo la forma di Stato e l’annessione alla Germania. Anche tali deliberazioni non hanno alcun potere impegnativo, perché la costituente non è l’espressione dell’opinione e della volontà dell’Austria-tedesca. Il pubblico anche fuori dall’Austria tedesca sa che le elezioni per la Costituente ebbero luogo sotto il regno del terrore, e che gli elettori che il 16 febbraio 1919 andarono alle urne, non votarono affatto spontaneamente ma sotto l’influenza di un metodico incitamento e sotto la pressione di una milizia di partito della Volkswehr. La Costituente eletta il 16 febbraio 1919 andarono alle urne, non votarono affatto spontaneamente, ma sotto l’influenza di un metodico incitamento e sotto la pressione di una milizia di partito. La Costituente eletta il 16 febbraio 1919 non è affatto rappresentanza della Nazione austro-tedesca, come l’ha definito il governo austro-tedesco. Vasti territori reclamati da questo stesso governo, come ad esempio le zone abitate da Tedeschi del Sud Tirolo, della Boemia, della Moravia, della Corinzia, della Carnia e della Stiria, non sono rappresentate in questa Costituente, mentre invece hanno votato stranieri, come i Tedeschi di Germania che vivono in Austria. Una rappresentanza nazionale di uno Stato senza confine composta così arbitrariamente si è arrogato il diritto di decidere sulla forma e l’ordinamento di uno Stato non ancora costituito secondo il diritto del popolo. Tutto ciò quindi che il Governo austro-tedesco e l’Assemblea Nazionale provvisoria e costituente hanno deciso e decretato dall’11 novembre in poi, e ciò che disporranno in avvenire, è nullo e non valido per me e per la mia Casa.
La permanenza mia e della mia famiglia a Eckartsau non fu mai il riconoscimento di uno sviluppo rivoluzionario che interrompeva la continuità del diritto, ma un pegno di fiducia nel popolo col quale io e i miei abbiamo condiviso i dolori e i sacrifici dell’infausta guerra. In mezzo a questo popolo non ho mai temuto per la sicurezza della mia amata Consorte e dei figliuoli.
Ma siccome il Governo austro-tedesco mi fece sapere a mezzo del suo Cancelliere che, rifiutando di abdicare sarei stato internato qualora non avessi abbandonato il Paese, e poco tempo fa lo stesso Governo a mezzo della “Corrispondenza di Stato” mi aveva dichiarato posto fuori legge, mi trovai di fronte all’importante problema se dovesse essere risparmiata all’Austria la vergogna di abbandonare il suo legittimo capo in preda a un’ondata contro la quale oggi non sta alcuna diga. Per questo motivo io lascio l’Austria. Profondamente commosso e riconoscente ricordo in quest’ora di fedeli che in me e nella mia Casa amano la cara Patria. All’Esercito che mi ha giurato fedeltà e che è legato a me dal comune ricordo dei dolorosi avvenimenti della guerra, un mio particolare pensiero. Durante la guerra fui chiamato al Trono dei miei Padri, mi sforzai di guidare i miei popoli alla pace, e in pace volli e voglio essere per loro un Padre giusto e sincero».
Per la famiglia reale un breve periodo nella placida Svizzera, presso Prangins sul lago di Ginevra, ad intrattenere relazioni diplomatiche con la Francia repubblicana e il Vaticano del Papa Benedetto XV. Obiettivo di Karl è ripristinare la Monarchia in Ungheria, dove le possibilità sono molto più favorevoli rispetto all’Austria: il Paese magiaro infatti dal 1º marzo del 1920, è retto da una vecchia conoscenza dell’Imperatore, Miklós Horthy de Nagybánya (1868 - 1957), paradossalmente l’ultimo ammiraglio della marina austro-ungarica, in una nazione che dopo Trianon, aveva perso l’unico sbocco marittimo, Fiume.
Il nuovo reggente dopo diversi rovesci politici, tra le riforme mancate di Mihály Károlyi e il terrore rosso di Béla Kun, sembrava finalmente aver ristabilito un nuovo equilibrio restaurando la monarchia, con il compito gravoso di decidere se richiamare un Asburgo o scegliere un nuovo Monarca magiaro. Con la fallimentare contrattazione nel trattato di Trianon, dove all’Ungheria vengono sottratti i 2/3 dei sui territori a favore dei nuovi Stati che avrebbero composto la “Piccola Intesa” (Cecoslovacchia, Romania, Regno dei Serbi Croati e Sloveni) il consenso di Horthy sembra traballare.
[caption id="attachment_12093" align="aligncenter" width="1000"] Miklós Horthy de Nagybánya è stato un ammiraglio e statista ungherese di stampo conservatore, che divenne reggente dell'Ungheria, dopo la caduta dell'Impero d'Austria-Ungheria.[/caption]
Dalla Svizzera, Karl continua la trattativa con la Francia per avere il consenso tacito ad effettuare la restaurazione: si vedono due ideologie distanti a livello geopolitico, da una parte Philippe Berthelot (1866 – 1934) - appoggiato anche dal marchese George Nathaniel Curzon - ambiva a creare la Piccola Intesa (1920), per far possedere alla Francia una tenaglia militare contro l’Ungheria e le pretese filo-germaniche degli austriaci; dall’altra Aristide Briand (1862 – 1932) preferiva una confederazione economico-danubiana, filo-francese, che abbia in Karl I il legante tra i vari popoli del suo ex Impero, per porlo come limes all’espansionismo alemanno-tedesco. Sempre nel 1920 si conclude il breve mandato, da Presidente della Repubblica francese, di Paul Deschanel (1855 – 1922) per una grave malattia personale e subentra il socialista Alexandre Millerand (1859 – 1943), il quale non vedeva lesi in alcun modo gli interessi della Francia in una politica asburgica di restaurazione magiara.
Saranno tali premesse e un tacito accordo presidenziale (successivamente pubblicamente smentito per non causare un incidente diplomatico tra Ungheria e Francia) che faranno partire a piedi l’ultimo Imperatore dallo Château de Prangins in Svizzera fino a Gex, cittadina francese sul confine svizzero occidentale. Nella cittadina della Regione dell’Ain lo aspetta una macchina che lo condurrà a Strasburgo dove il giorno dopo, l’Orient-Express lo condurrà direttamente a Vienna. La storia di Karl I ci appare come una sorta di viaggio leggendario, ed in verità deve essere stato così anche per lui: nella capitale del suo ex-Impero saranno in suo possesso due passaporti falsi, uno spagnolo, ed un secondo della croce rossa inglese.
Il beato Karl raggiunge appena arrivato, la sede di un suo antico amico: il conte Thomas Graf Erdödy von Monyorókerék und Monoszló (1886-1931), antico compagno e ufficiale ussaro. La sera del 25 marzo del 1921 fu l’unica notte, nei numerosi anni di esilio, che l’Imperatore trascorse a Vienna. L’indomani la meta è Budapest: prima tappa del viaggio si compie, sempre con il conte Thomas, fino alla cittadina di Seebenstein nel Burgenland (Bassa Austria); successivamente Aspang, Mönichkirchen ed infine il confine ungherese con la cittadina di Sinnersdorf.
Verso sera Karl arriva nella cittadina di Szombathely: deve parlare, all’interno del palazzo vescovile, con il conte e vescovo Gróf zabolai Mikes János (1876 - 1945) e con il ministro e sacerdote Vass József (1877 – 1930); quest’ultimo riferirà all’Imperatore: «il gabinetto del reggente è finito nel momento in cui il re incoronato rimette piede sul suolo ungherese». Viene chiamato al cospetto di Karl anche l’ex ufficiale imperiale e regio, colonnello Anton Lehár (1871-1962), che ora comanda l’intera armata dell’Ungheria Occidentale: è un fedelissimo.
Il presidente del Consiglio conte Pál Teleki de Szék (1879 – 1941) viene svegliato in piena notte e raggiunge la cittadina di Szombathely, la quale si trova ad appena 10 km dalla frontiera austriaca (dopo Trattato di Trianon). Appena giunto dal vescovo il Primo Ministro rimane spiazzato dalla figura del Sovrano e manterrà un atteggiamento di indecisione per tutta la durata del primo golpe reazionario. Tutte le alte cariche dello Stato sono comunque concordi a rimettere sul Trono il loro Re legittimo. Karl non a caso si reca nella cittadina di confine: le fedeli truppe di Lehár, se abilmente mosse in anticipo, potevano costringere Horthy ad una resa immediata, ma egli si fida eccessivamente del “Reggente”, considerandolo ancora fedele alla causa monarchica.
[caption id="attachment_12094" align="aligncenter" width="1000"] Protagonisti del primo colpo di restaurazione del marzo 1921 (da sinistra a destra): Thomas Erdödy von Monyorókerék und Monoszló (1886-1931), conte e vescovo di Szombathely (1911 - 35) Zabola János Mikes (1876 - 1945), József Vass (1877 - 1930), Anton Freiherr von Lehár (1876 - 1962), Sigray Antal Mária Fülöp Alajos (1879 - 1947), László Ede Almásy de Zsadány et Törökszentmiklós (1895 – 1951), Conte Pál Teleki de Szék (1879 - 1941).[/caption]
Durante la discussione su come agire, il Primo Ministro Pál Teleki propone di entrare a Budapest senza la scorta militare, convinto che il dittatore ungherese gli lasci il potere e si metta da parte: Karl si fida e acconsente. Sarà un primo errore fatale. Il piano prevede che il giorno seguente il ministro Vass e il Presidente del Consiglio Teleki anticipino l’arrivo di Karl a Budapest per preparargli il terreno e parlare anticipatamente con Horthy. L’Imperatore verrà accompagnato nel viaggio dal conte Sigray Antal Mária Fülöp Alajos (politico legittimista ungherese e feroce oppositore al nazismo 1879 – 1947) e da László Ede Almásy de Zsadány et Törökszentmiklós (1895 – 1951), colui che diventerà celebre grazie alla penna di Michael Ondaatje nel 1992 con il romanzo The English Patient (Il Paziente inglese), poi reso ancor più celebre dal film di Anthony Minghella del 1996 dall’omonimo titolo. Prima di partire la mattina seguente, il vescovo Mikes celebra la messa, poi l’Imperatore parte sicuro e speranzoso: saprà solo davanti al Palazzo di Budapest che il Primo Ministro Teleki non è mai giunto da Horthy e dovrà farsi annunciare dal conte Sigray che si esprimerà sulle scale, rivolto verso Karl: «Vostra Maestà si dovrà mostrare molto energico».
Furono due ore di trattativa con il “Reggente” ungherese, il quale esclamo: «È una catastrofe. Vostra Maestà deve ripartire subito e rientrare immediatamente in Svizzera! […] che cosa mi offre in cambio Vostra Maestà?». Miklós Horthy dimostrerà un cinismo, che lo farà passare alla storia come uno degli alti tradimenti più gravi verso l’aristocrazia e l’istituto monarchico. Le scuse che il dittatore prende davanti a Karl sono la sicura ostilità dei paesi confinanti, il pericolo di un’invasione straniera, l’inaffidabilità dell’esercito e l’impossibilità di trovare un Ministro che svolga la funzione sotto di un Re. Karl cerca di promettergli titoli per farlo desistere, ma Horthy prende tempo e si aggiudica lo scontro verbale. Sarebbe bastata un’arma da fuoco per riprendere il potere e far desistere il reggente, ma come sappiamo bene, Karl I era un autentico gentiluomo.
Alcuni giorni dopo l’ex Imperatore è nuovamente nella cittadina di Szombathely affranto, ma non ancora piegato: possiede ancora alcune carte da giocare, nonostante la situazione geopolitica si sia complicata, poiché Horthy parlando con l’ambasciatore francese Maurice-Nicolas Fouchet, chiede verità sull’appoggio tacito francese, che da Parigi viene ovviamente smentito.
[caption id="attachment_12095" align="aligncenter" width="1000"] I protagonisti del secondo colpo di restaurazione nell'ottobre 1921: Gyula Gömbös de Jákfa (1886 - 1936), il conte István Bethlen de Bethlen (1874 - 1946), Őrgróf Pallavicini György Mária Arthúr József Ede István Gusztáv Károly (1881 - 1946), Tibor Farkas de Boldogfa ( 1883 - 1940), il conte Gyula Andrássy de Csíkszentkirály et Krasznahorka (1860 - 1929),[/caption]
Il Reggente magiaro inoltre approfittò della prima ritirata di Karl per irrobustire le linee del suo esercito a lui fedeli ed epurare gli ufficiali legittimisti. Mentre l’ultimo imperatore degli Asburgo tornava sul suolo Svizzero, dopo essere stato acclamato in Ungheria il giorno della sua partenza, fu subito da principio chiaro a Karl che un secondo colpo di restaurazione si sarebbe dovuto progettare in brevissimo tempo: difatti gli effettivi del colonnello legittimista Anton Lehár erano stati rinforzati da un nuovo battaglione di gendarmeria, che gli Stati vincitori avevano predisposto alla frontiera con l’Austria per via dell’incidente diplomatico avvenuto con la prima restaurazione primaverile di Karl.
Horthy inizia a temere e con ordine scritto richiama le ulteriori truppe a Budapest per essere riassegnate: il tempo stringe.
Passano solo diversi mesi perché Karl, assorbito il colpo, possa far ritorno nelle sue antiche terre imperiali: arriviamo al secondo colpo di restaurazione di ottobre. Il 20 del mese, insieme a sua moglie Zita Maria delle Grazie Adelgonda Micaela Raffaela Gabriella Giuseppina Antonia Luisa Agnese di Borbone-Parma (1892 – 1989), parte per l’Ungheria a bordo di un monoplano Junkers denominato “Ad Astra” di 180 cavalli e sei posti. Artefici del piano sono due personalità molto vicine a Karl: il barone Albin Schager von Eckartsau (1877 – 1941) e Aladar Boroviczény (1890 – 1963). L’aereo si alza da Dübendorf e fu il primo volo, durato quattro ore, di un sovrano nella storia continentale europea.
Nel frattempo in Ungheria al Presidente del Consiglio Pál Teleki de Szék era succeduto il conte István Bethlen de Bethlen (1874 - 1946) e Horthy continuava a prendere tempo, mandando telegrammi all’Imperatore: «la visita fatta a Pasqua da Vostra Maestà – inerente la restaurazione - appare momentaneamente impossibile […]. Tuttavia desidero cogliere l’occasione per assicurare alla Maestà Vostra che nulla è più lontano da me dell’idea di aggrapparmi alla carica che copro ora; al contrario, attendo con impazienza il momento in cui mi sarà dato abbandonare questa scomoda poltrona». Parole che suonano poco veritiere come ci testimonia lo storico Roberto Coaloa: «Come tutti gli avventurieri politici che l’avevano preceduto e che gli succedettero, Horthy aveva identificato a tal punto l’ambizione col patriottismo, l’egoismo con l’idealismo e addirittura il lusso fastoso con il sacrificio da non riuscire probabilmente a distinguerli più neppure lui».
[caption id="attachment_12096" align="aligncenter" width="1000"] Domenica 23 ottobre del 1921: nella foto Karl I e Zita di Borbone-Parma (a destra in piedi) pregano davanti al convoglio ferroviario di Sopron celebrando la messa mattutina.[/caption]  
Karl e Zita arrivati in pieno pomeriggio in territorio magiaro, nei pressi del castello di Denesfa, capiscono subito che la corrispondenza postale – effettuata in precedenza, durante i preparativi del golpe – non ha avuto esito sperato: tutti i protagonisti e alleati dell’Imperatore lo attendono per le 24 ore successive. Nonostante i primi disagi sia il colonnello Lehár, che il conte Gyula Andrássy de Csíkszentkirály et Krasznahorka (1860 - 1929) leader del partito legittimista ungherese e ex Ministro degli Esteri dell’ultimo anno imperiale dell’Austria-Ungheria, si mettono a disposizione del Sovrano. Il gruppo di comando trasla velocemente verso quello che sarà il nuovo e spartano quartier generale a Sopron: lì sono attesi da altri due collaboratori di Karl, il politico reazionario István Rakovszky de Nagyrákó et Nagyselmecz (1858 - 1931) e dal dottor Adolf Gratz Gusztáv (1875 - 1946).
La folla che accoglie i regnanti è immensa: sia i militari, che la popolazione civile inneggiano a Károly IV. Il piano è semplice: servirsi del convoglio ferroviario che avrebbe riportato la guarnigione a Budapest e deporre Horthy dalla reggenza del Regno. Lo scacco sembra essersi compiuto e il 22 ottobre il convoglio legittimista, composto da circa 1500 militari e politici reazionari è diretto a Budapest, all’oscuro del Reggente. Il treno giunge a 12:00 presso la cittadina di Győr, dove ad attenderli vi sono altre truppe legittimiste che compiono il giuramento: «Attraverso l’acqua e il fuoco, sul mare, per terra e nell’aria per Dio, per il re e per la patria».
Il primo tradimento verso Karl, lo compie il comandante della guarnigione di Győr, che fa avvertire Horthy, il quale è completamente impreparato e spaventato. Nonostante alcuni ordini frettosi del Reggente, di smantellare parti ferroviarie dirette a Budapest da Occidente, il piano di rallentamento, pare non funzionare, anzi le guarnigioni dirette ad affrontare l’Imperatore non solo non sparano un colpo, ma si uniscono ai legittimisti: così avviene presso diverse cittadine magiare, come Komarom, Tata, Potis e Bcske.
[caption id="attachment_12097" align="aligncenter" width="1000"] Il giuramento di fedeltà al beato Imperatore Karl, da parte delle truppe legittimiste magiare.[/caption]
In linea generale nonostante Karl fosse arrivato senza preavviso sul suolo Ungherese e nonostante il piano iniziale della sorpresa era venuto meno, tutto sembra proseguire per il meglio. La mattina seguente il treno arriva nei pressi di Buda con 4000 uomini effettivi. Nella capitale Horthy sembra non avere più in mano carte da giocare e si affida completamente alle doti dell’ambizioso Gyula Gömbös de Jákfa (1886 – 1936), futuro generale filo-nazista. Quest’ultimo non trovando truppe a lui fedele, rimedia 300 studenti universitari, armati in tutta fretta, inventando un’inesistente invasione ceca della capitale. Gli studenti nazionalisti ebbero una prima scaramuccia con un contingente mandato avanti da Lehár, provenienti da Budaörs e mandati ad occupare il sobborgo di Kelenföld. Ci furono diverse perdite tra i legittimisti, i quali ripiegarono, comportando un abbassamento del morale al colonnello Lehár (nel frattempo promosso generale), che dichiarò inaspettatamente le sue dimissioni, fidandosi di lasciare l’incarico al generale Pál Hegedűs (1861 – 1944). Come testimonierà un giornale italiano “L’illustrazione italiana” sull’accaduto: «Quanto al colonnello Lehár, lasciamolo stare. Ogni condottiero trova gli uomini che si merita. Napoleone ha tratto fuori dal popolo, persino dalla bassa forza, i suoi grandi marescialli; Karl ha trovato Lehár. Quelli uomini della Marsigliese, questo, del Valzer, bella cosa è il valzer. Ma le trombe, se vogliamo davvero far crollare le mura di Gerico, han da suonare altre musiche! Se valzereggiano, Gerico resta in piedi; e Karl resta a piedi».
[caption id="attachment_12098" align="aligncenter" width="1000"] Truppe leali all'Imperatore accolgono il vagone dei legittimisti magiari presso Sopron.[/caption]
Sulla fedeltà del generale nei confronti di Karl non ci fu nulla da eccepire, ma il morale basso delle truppe era dovuto alla forte instabilità politica, economica e militare magiara, che proseguiva da almeno quattro anni dalla fine della Grande Guerra.
Contrariamente sarà il generale Pál Hegedűs a tradire l’Imperatore Karl operando il passaggio degli artiglieri, fondamentali nell’operazione bellica, dalla parte di Horthy il giorno seguente, grazie ad una tregua proposta dallo stesso generale magiaro voltagabbana, che aveva fatto sistemare le truppe del Reggente su posizioni favorevoli verso un eventuale assalto legittimista del giorno seguente.
Hegedűs rivelò il tradimento quando tornato a Torbágy, nei sobborghi della capitale, chiese l’esonero accampando la scusa che i propri figli si erano arruolati nelle truppe nazionali del Reggente. Resta un mistero ancora oggi, del perché Hegedűs non fosse stato arrestato. Durante la notte alcune guarnigioni di Karl vengono fatte prigioniere, poiché la tregua non viene rispettata da parte di Horthy, il quale giocò una partita sporca dall’inizio alla fine della vicenda: le uniformi dei due eserciti non avevano motivi differenti e molto spesso tale ambiguità giocò contro i legittimisti.
La mattina seguente il reggente propone le “condizioni di pace”, le quali vengono lette sul treno in partenza, diretto verso la capitale per l’ultimo scontro: quello decisivo. Le condizioni proponevano la consegna del materiale bellico e l’abdicazione al trono d’Ungheria da parte di Karl, con la sicurezza garantita alla sua persona e alla sua famiglia in territorio magiaro. Nel mentre della lettura, fuori dallo scompartimento, partono alcuni colpi, che creano molta confusione tra le truppe legittimiste, le quali in brevissimo tempo capiscono di essere state accerchiate. Sarà lo stesso Karl I ha dichiarare ai suoi uomini il “cessate il fuoco” poiché oramai tutto sarebbe stato inutile. Ancora una volta Karl perse poiché il suo animo nobile non vide la meschinità dietro alcuni suoi collaboratori: per un individuo della sua virtù era inconcepibile il tradimento senza scrupoli. Il destino di una intera generazione di ungheresi veniva segnato il 23 ottobre del 1921: il treno tornò indietro verso Bicske, concludendo il secondo e ultimo tentativo di restaurare il legittimo re d’Ungheria.
[caption id="attachment_12099" align="aligncenter" width="1000"] Nella foto, truppe leali a Károly IV, attendono il re nella stazione ferroviaria di Győr, il 20 ottobre del 1921.[/caption]
 
Lo spazio geopolitico ed economico di cui gli Asburgo erano stati espropriati dopo la Grande Guerra diverrà ostaggio di dittatori filo-fascisti e successivamente satellite dell’Imperialismo bolscevico. Lo stesso Karl scrisse: «Il territorio situato sulle due parti del medio Danubio dopo la scomparsa dell’Austria-Ungheria non è soltanto la patria di uomini disperati che soffrono duramente, ma un focolare di pericoli di grande importanza. E non poteva essere altrimenti, poiché la disgregazione dell’Austria-Ungheria fu la violazione di principi storici, geografici, etnografici, economici, sociali e culturali. Nel territorio fra Teschen e Buda, Bregenz e Czernovitz vivevano e vivono, in alcuni luoghi in massa compatta, in altri confusi tra loro, Tedeschi, Magiari, Cechi, Slovacchi, Polacchi, Ucraini, Croati, Serbi, Sloveni, Italiani, Rumeni, Ladini, Turchi, Armeni, Zingari e alcune altre frazioni di popoli. Nessuna di queste nazioni possiede un territorio ben determinato e non intaccato da altre nazionalità. Perfino in mezzo agli italiani (un tempo austriaci) che si sono uniti ai connazionali d’Italia e il cui confine linguistico settentrionale è abbastanza evidente, si trovano isole di lingua straniera, ad esempio quelle tedesche del Piano di Lavarone e di Folgaria, della Val di Non, a nord-est di Trento, ed altre ancora. […] Voler soddisfare in modo generale ed effettivo il diritto di autonomia nazionale porterebbe ad una scomposizione in atomi della Vecchia-Ungheria sì da far sorgere dalle sue citate isole linguistiche altrettanti Stati. […] Fu un grande danno per l’Europa che l’antica formazione economica danubiana sia andata perduta, poiché nessuna nuova può sostituirla ed ivi oggi esiste un vuoto. Non si deve ritenere che un sistema fluviale abbia sempre e dovunque la forza di formare e mantenere Stati, ma in base a un sistema fluviale si costruisce un sistema economico quando le parti vitali di un tale sistema sono state già un tempo riunite in uno Stato, sistema economico che è frutto del lavoro dei secoli e che non può essere cambiato dall’oggi al domani […]. Distruggere un’opera così portentosa, delicata come un congegno d’orologio, pensiero, volontà e prodotto dell’economia moderna significa creare un cumulo di macerie».
 
Per approfondimenti:
_Baiocchi G., Finis Austriae. Sul tramonto dell'Europa, Il Cerchio, Rimini, 2019;
_Brook-Shepherd G., La tragedia degli ultimi Asburgo, Rizzoli, Milano, 1974;
_Coaloa R., Carlo d’Asburgo, l’ultimo imperatore, Il canneto editore, Genova, 2012;
_Werkmann K., Il morto di Madeira – L’esilio di Carlo I in Svizzera – I tentativi di restaurazione in Ungheria – La morte, Felice Le Monnier, Firenze, 1924.
 
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di Giuseppe Baiocchi  del 29-07-2020

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Nato nel 1909 a Piacenza da famiglia aristocratica, con una lunga tradizione militare, il barone Amedeo Guillet è un brillante gentiluomo che conduce una vita spensierata tra ricevimenti, incontri galanti e gare di equitazione. Divenuto sottotenente nel 1931, dopo aver studiato all'accademia militare di Modena, entra ben presto nella squadra italiana equestre selezionata per le olimpiadi del 1936 a Berlino, nella Germania nazista di Hitler. Tutto sembra scritto per Amedeo, quando nell’inverno del 1934 gli eventi precipitano e Mussolini annuncia al mondo le sue mire coloniali in Africa orientale: in poche settimane l’Italia si ritrova in uniforme.
Guillet non è un membro della rivoluzione fascista, ma il patriottismo e la fedeltà alla casa Savoia hanno il sopravvento inducendolo a lasciare la sua vita comoda e agiata per un'avventura dagli esiti imprevedibili, in nome di una guerra lontana. Nell’Agosto del 1935 Amedeo Guillet arriva nel Corno d’Africa e per il giovane italiano è l’inizio di un' avventura che durerà otto anni.
[caption id="attachment_6699" align="aligncenter" width="1000"]amedeo-guillet Amedeo Guillet, noto anche con il nome di Ahmed Abdallah Al Redai (احمد عبد الله‎). Nato a Piacenza il 7 febbraio 1909 e deceduto a Roma il 16 giugno del 2010, è stato un ufficiale, guerrigliero e diplomatico italiano.[/caption]
Le ostilità iniziano il 3 ottobre 1935 quando le truppe italiane varcano il confine tra Eritrea ed Etiopia, cogliendo di sorpresa le truppe del Negus, Hailè Selassiè.
Il tenente Guillet è a capo di un contingente di duecento combattenti libici, in maggioranza beduini, chiamati “Spahis”: soldati mercenari che combattono con il proprio cavallo e le proprie armi per 10 lire al giorno. Il Barone conquisterà la loro fiducia, apprendendo la loro lingua e trattandoli come fratelli. Instaurerà con loro quella correttezza e serietà reciproca, tanto che uno dei suoi spahis gli salverà la vita nel suo primo combattimento durante la campagna. Nel conflitto si distinguerà per un sanguinoso corpo a corpo con il nemico, salvandosi miracolosamente per ben due volte da morte certa.
L’avanzata dell’esercito italiano appare inesorabile: corre il cinque maggio del 1936 e le truppe di Badoglio entrano ad Addis Abeba. Quattro giorni dopo le milizie del generale Rodolfo Graziani occupano Dire Dawa: la guerra è finita, l’Etiopia è italiana e Adua vendicata. Amedeo Guillet torna in patria dove gli verrà conferita la sua prima medaglia.
[caption id="attachment_2563" align="aligncenter" width="1000"] A sinistra disegno di uno Spahis libico. A destra il tenente Guillet insieme ad uno Spahis.[/caption]
La vittoria in Etiopia segna il trionfo del fascismo, ma Amedeo Guillet non è ad Addis Abeba per festeggiare l’arrivo delle truppe italiane: da Roma gli si ordina di recarsi in Libia, nella bianca Tripoli fatta edificare in gran parte dal governatore Italo Balbo. E' proprio quest’ultimo a chiedere a Guillet di organizzare la solenne cerimonia per l’arrivo in Libia di Benito Mussolini, essendo stato nominato organizzatore e responsabile della parte equestre della cerimonia.
Il piacentino provvede al reperimento e all’addestramento dei cavalli che monteranno il Duce e i gerarchi al suo seguito: la cerimonia prevede che il Capo del Governo, seguito da Achille Starace e dagli altri fascisti, attraversi a cavallo la città, salga sulla collina e sollevi solennemente in aria la cosìdetta “spada dell’Islam” (fatta forgiare a Firenze). Quello che agli occhi contemporanei potrebbe essere inteso come un eclatante gesto propagandistico del regime aveva uno scopo ben preciso. Nel 1934, Mussolini avviò una politica di incoraggiamento nei confronti della religione islamica, definendo le popolazioni locali "musulmani italiani della quarta sponda d'Italia", adoperandosi in prima persona per far costruire e restaurare scuole coraniche e moschee, installando strutture per i pellegrini diretti alla Mecca, ordinando l'edificazione a Tripoli di una Scuola Superiore di Cultura Islamica.
[caption id="attachment_6700" align="aligncenter" width="1000"] Il 20 marzo 1937, nei pressi di Tripoli, Mussolini, benché firmatario dei Patti Lateranensi con la Chiesa, decise di farsi conferire il titolo di protettore dell'islam. Secondo l'interpretazione del Duce, essendo subentrato in Libia il governo italiano al posto di quello ottomano, tale titolo gli spettava di diritto in quanto, in qualche modo, erede dell'autorità del califfo.[/caption]
Come leggere oggi questo gesto umanitario, da parte di un totalitarismo che nel 1938 avrebbe promulgato, per scelte geopolitiche, le leggi razziali? Ebbene il  fascismo (dopo l'embargo) insieme ad alcuni settori del mondo islamico riconoscevano nella Francia, nel Regno Unito dei nemici comuni e il regime voleva sfruttare tale fattore a proprio vantaggio. Questa unione era venuta alla luce dopo gli accordi sanciti dal trattato di Versailles del 1919, dominato dalle potenze definite "plutocratiche" franco-anglo-americane le quali non avevano soddisfatto pienamente né le richieste avanzate dal Regno d'Italia, né quelle avanzate dal mondo islamico.
Dopo i trionfi di Tripoli, il nostro protagonista torna in Italia per essere operato alla mano ferita, in un paese che si dibatte fra le sanzioni economiche e l’autarchia.
Nella convalescenza napoletana, dagli zii, ritrova una delle sue cugine: Beatrice Gandolfo. Per tutti Bice, conosciuta da bambina, questa ormai  ha 18 anni ed è divenuta affascinante. Dopo una rapida frequentazione i due non hanno dubbi: vogliono sposarsi.
Ancora una volta nella vita del Barone un imprevisto: il governo fascista promulga la "legge matrimoniale" stabilendo come, per i dipendenti pubblici (quindi anche gli ufficiali militari), il matrimonio debba fungere come elemento obbligatorio per l'avanzamento ad incarichi superiori. Guillet, che non aveva mai voluto sposarsi fino a quel momento, comprende che maritarsi con sua cugina semplificherebbe la sua ascesa militare. Contrariamente Amedeo decide di non ottemperare il matrimonio con Beatrice per una mera questione di onore e lealtà verso questa, non volendo approfittare del rito per effettuare l'avanzamento di carriera. Prometterà alla sua futura moglie il matrimonio, solo dopo la sua promozione. Esiste solo una strada per l'avanzamento di grado: quella dell'acquisizione del merito sul campo di battaglia. Arriva la giusta occasione con la guerra del generalissimo Franco in Spagna. Nell’agosto del 1937 accetta la proposta del generale Luigi Frusci, comandante della Divisione Fiamme Nere di prender parte alla spedizione di sostegno italiana ai nazionalisti nella guerra civile spagnola (1936-1939).
Asserirà sulla guerra spagnola: “non ero un fascista, ma ho fatto la guerra di Spagna e direi che la rifarei perché altrimenti tutta e dico tutta la Spagna, sarebbe diventata comunista. Io non sono contro a questo e quello, ma la Spagna comunista non la vedo di buon occhio né per l’Italia, né per l’Europa".
L’Italia del governo fascista non dichiara ufficialmente guerra alla Spagna per ragioni diplomatiche, ma invia reparti sotto la dicitura "Corpo Truppe volontarie" - un vero e proprio esercito nella realtà.  Guillet, con a capo uno squadrone di arditi, organizza i primi camuffamenti: vestito con pantaloni alla zuava e scarponi da montagna si introduce nella penisola iberica sotto falso nome, spacciandosi come "Alonso Grazioso". Guiderà eroicamente l’assalto di San Pedro de Romeral permettendo la conquista di Santander e sarà lo stesso Francisco Franco a premiare il suo valore con medaglie e decorazioni. Dopo otto mesi, essendo ferito ad una gamba, per il tenente arriva il momento di tornare in Africa. Ricoverato allo ospedale di Tripoli, Amedeo conosce una giovane libica ebrea che studia medicina. Per le nuove leggi razziali, volute dal regime, deve lasciare l’Università. Per Guillet tutto ciò risulta intollerabile e l’ufficiale chiederà aiuto addirittura ad italo Balbo, riuscendo alla fine ad aiutare la ragazza. In questo frangente in Guillet si è spezzato qualcosa. Inizia a mettere in discussione i dogmi del regime in nome di una giustizia regia superiore, morale.
Amedeo Guillet è un uomo libero che si oppone alle ingiustizie e la sua indole generosa gli permette di costruire un rapporto privilegiato con le popolazioni indigene.
Nel 1939 deve tornare in Africa Orientale, nel frattempo sotto l'amministrazione di Amedeo Savoia Duca D'Aosta. Per le sue grandi doti umane, il piacentino viene scelto per una missione delicatissima: il vicerè d’Etiopia, offre a Guillet  il comando di un reparto indigeno: avrà il compito di portare ordine e legalità in una vasta area infestata da bande guerriere e predoni.
[caption id="attachment_6702" align="aligncenter" width="1000"] Nella foto si sinistra: il Barone Amedeo Guillet (di spalle) riceve istruzioni dal Viceré D'Etiopia Amedeo Savoia Duca D'Aosta nella zona di Amba Ghiorghis sui monti etiopi del Semièn, vicino all'attuale città etiope di Shire sul confine dell'Eritrea. Nella immagine di destra, mappa politica dell'Impero coloniale italiano nel 1939.[/caption]
Il tenente tornando in Eritrea trova un paese molto diverso da quello lasciato: l’Italia aveva cambiato il volto della sua stessa colonia. Asmara è simile alla sua patria, gli eritrei sono affezionati agli italiani, un affetto che non trova similitudini in Libia, dove la situazione è molto diversa.  Guillet assume ora il controllo del territorio. In una delle sue quotidiane ronde a cavallo, il gruppo squadroni Amhara torna dal recupero di alcuni capi bestiame rubati. Il capo indigeno, felicissimo del recupero, ospita il suo reggimento, ed è qui che il Barone conoscerà la bellissima Khadija, la figlia del capo-villaggio. La ragazza vuole sposare un capo-guerriero e la passione per Guillet esplode subitanea. Amedeo si congeda, ma alcuni uomini lo seguono: vogliono arruolarsi e diventare suoi soldati; anche Khadija si unisce al gruppo, decisa a condividere la guerra di Guillet. La bella indigena cerca in ogni modo di attirare la sua attenzione, ma il comandante la tratta con distacco. Un giorno, complice la morte di un commilitone, Amedeo sconfortato, cede alle lusinghe della donna, la quale da quel momento diventa la sua compagna.
Con a suo fianco Khadija e sempre accompagnato dalla sua banda di fedelissimi, il tenente Guillet prosegue la sua missione.
Qualcosa in lui sta già cambiando, questa guerra gli appare insensata, lontana dai principi appresi in accademia. Le sue convinzioni vacillano, non si riconosce più nell' immagine del perfetto soldato italiano. Il giovane ufficiale inizia così a prendere decisioni impensabili: una volta catturata la banda del principale guerrigliero del Negus, deciderà di sua iniziativa di sovvertire il regolamento, che asseriva come "Qualunque ribelle armato deve essere passato per le armi".
Il Barone osserva i volti fieri di quei nemici, decide di risparmiarli, proponendo loro di arruolarsi nei suoi reparti e di diventare suoi soldati: "Chi non vuol venire, può non venire, chi vuol venire viene ma il primo che tradisce lo uccido. Chiedo scusa, ma io ho parlato così" si espresse Amedeo in una intervista Rai di quasi dieci anni fa.
Queste decisioni verranno tacitamente accettate da Amedeo Savoia Duca d'Aosta, che conosce la bravura del suo comandante e vi si affida pienamente.
Il Viceré deciderà, addirittura, di creare un intero reggimento di cavalleria indigena: un'unità speciale autonoma e di grande impatto, incaricando nuovamente Guillet, il suo uomo migliore. In un mese e mezzo Amedeo darà vita al “Gruppo Bande Amhara a cavallo” comprendente combattenti diversissimi per etnia, religione e tradizioni, un'amalgama inconsueta che soltanto un grande conoscitore di uomini come il piacentino, poteva riuscire a governare.
[caption id="attachment_6703" align="aligncenter" width="1000"] La foto a sinistra ritrae il Barone Amedeo Guillet nel 1940 agli ordini della sua "Banda Amhara a cavallo" in operazione di guerra. A sinistra il logo del gruppo armato indigeno.[/caption]
Nel frattempo il mondo scivola inesorabile verso la seconda guerra mondiale: il 10 giugno del 1940 l’Italia entra in guerra.
L’Africa Orientale italiana nel 1940 non era preparata per sostenere una guerra prolungata. Le scorte disponibili erano valutabili in 6 mesi e la colonia era nell’impossibilità di ricevere rifornimenti. La consistenza numerica delle truppe era decisamente superiore a quella del nemico, ma la scarsità di mezzi e materiali era gravissima. Per tali motivi le operazioni offensive si limitarono all’occupazione della città di Cassala (4 luglio 1940), venti chilometri oltre la frontiera Eritrea in Sudan e successivamente alla conquista della Somalia britannica e francese. Nonostante ciò, fu subito chiaro quanto la situazione dell’esercito coloniale italiano in Africa Orientale fosse disperata, visti i ritardi dell’operazione Leone Marino (l’invasione dell’Inghilterra da parte dei tedeschi) e gli scarsi progressi in Africa Occidentale da parte del generale Graziani. Le forze in Africa Orientale sarebbero state alla mercé di un nemico che riceveva con continuità aiuti e rifornimenti. Cassala era stata presa come primo obbiettivo di una strategia di conquista di parte del Sudan, rivelatasi poi velleitaria a causa dell’inferiorità, soprattutto qualitativa in mezzi meccanizzati rispetto all’esercito inglese. Nel gennaio del 1941, incapaci di resistere alla pressione britannica, le truppe coloniali italiane dell'Africa orientale, tallonate dal vicino nemico, si ritirarono ordinatamente in direzione Agordat per tentare una prima difesa, attestando le truppe, circa 17.000 uomini, sulla linea Cherù – Aicota. I tre giorni di aspri combattimenti, consentiranno al Regio esercito di respingere gli attacchi dei reparti inglesi sulla direttrice di Cherù e su quella di Aicota.
A questo punto, il comandante dello scacchiere nord, generale Luigi Frusci (già comandante di Guillet in Spagna), ordinò il ripiegamento su Agordat, commettendo un gravissimo errore di valutazione: le truppe inglesi, per lo più meccanizzate, al contrario di quelle italiane appiedate, riuscirono ad attaccare separatamente le due colonne in ripiegamento, arrecando gravissime perdite. I "tank" Matilda MK II, sbilanciavano la situazione verso la vittoria britannica, poichè tali carri armati erano invulnerabili all’artiglieria italiana. Il Regio esercito ripiegò in disordine per sfuggire al contatto con i carri armati inglesi. 
Il 21 gennaio, durante il ripiegamento delle truppe italiane verso le posizioni fortificate di Agordat, Amedeo Guillet entra nella leggenda: gli viene chiesto di rallentare il nemico di un nutrito reparto esplorante: "la Gazelle Force" per permettere all'esercito in rotta di arrivare alle montagne e riordinarsi.
Così racconta l'ufficiale britannico della gazelle Force: “Quando la nostra batteria prese posizione, un gruppo di cavalleria indigena, guidata da un ufficiale su un cavallo bianco, la caricò da Nord, piombando giù dalle colline. Con coraggio eccezionale questi soldati galopparono fino a trenta metri dai nostri cannoni, sparando dalla sella e lanciando bombe a mano, mentre i nostri cannoni, voltati a 180 gradi sparavano a zero. Le granate scivolavano sul terreno senza esplodere, mentre alcune squarciavano addirittura il petto dei cavalli. Ma prima che quella carica di pazzi potesse essere fermata, i nostri dovettero ricorrere alle mitragliatrici”.
La carica della cavalleria, portò lo scompiglio fra i terrorizzati soldati anglo-indiani. Le cariche sono diverse e nella seconda carica l'esercito anglo-indiano è scompaginato nello schieramento. L'azione spericolata è un' idea geniale, molto coraggiosa: attaccare nel mezzo dello schieramento, facendo affidamento sul fatto che le mitragliatrici e l'artiglieria  non potevano sparare senza rischiare di colpire la fanteria indiana, coinvolta all'arma bianca. 
[caption id="attachment_6714" align="aligncenter" width="1754"] Nella cartina di sinistra, movimenti del Regio esercito nelle operazioni in Africa Orientale. Nella foto di centro il tenente Renato Togni, nato a Frascati (Roma) autore dell'eroica "carica di alleggerimento". A destra: soldati italiana battono in ritirata nel marzo del 1941.[/caption]
Nel combattimento, eroica la carica del tenente di Cavalleria Renato Togni (medaglia d’oro al Valore Militare alla memoria) vice-comandante del gruppo e amico personale di Amedeo. Togni accortosi, dopo il successo della prima carica, che tre carri Matilda stavano per prendere alle spalle Guillet, carica con i suoi trenta cavalleggeri. Salvò la situazione, ma rimase ucciso giungendo a ridosso dei mezzi inglesi, falciato da una scarica di mitragliatrice, cadde sul cofano di un carro britannico. Quel giorno il Gruppo Bande Amhara ebbe 176 morti, la perdita di 100 cavalli e 260 feriti.
Nonostante le pesanti perdite subite dal nemico (nel frattempo riavutosi dalla sorpresa), il tenente Barone Guillet ottiene una importante vittoria, permettendo alle truppe italiane in ritirata di raggiungere indisturbate gli altipiani etiopi dove i carri armati britannici non potevano raggiungerli. Quella di Amedeo Guillet fu l’ultima carica di cavalleria nella storia militare dell’Africa.
Gli eventi precipitano anche in Africa del Nord, dove il cinque gennaio del 1941 gli inglesi spezzano il fronte italiano e riconquistano Sīdī Barrānī in Libia (Presa dal generale Bergonzoli il 16 Settembre del 1940). All’inizio del 1941 l’avanzata dell’esercito inglese sta ormai travolgendo le truppe italiane in Africa orientale. Dopo sei giorni di resistenza nella gola di Ad Teclesan in Eritrea, l’esercito italiano viene spazzato via dal nemico: è la disfatta. Gli italiani si arrendono e lasciano Asmara agli inglesi.
[caption id="attachment_6705" align="aligncenter" width="1000"] Scatto sulla strada per Sīdī Barrānī. Truppe inglesi avanzano verso il territorio italiano in Libia. ©Recolored-war in colour.[/caption]
Nell’Aprile del 1941, le truppe britanniche conquistano l'Eritrea: l'Italia non ha più il suo Impero e l’esercito italiano è costretto alla ritirata. Nel caos che ne consegue gli indigeni disertano, i civili fuggono. Il tenente Guillet ferito ad un piede, si rende conto di essere isolato dal resto dell’esercito italiano e contemporaneamente dimenticato dal nemico. Così rimasto solo con un centinaio di soldati indigeni a cavallo, decide di non arrendersi e sulla sua testa arriverà presto una taglia di mille sterline d’oro: vivo o morto. Dismessa l’uniforme militare, il tenente indossa il turbante e la futa, tipica dell’abbigliamento indigeno, i tratti del volto mediterranei e la conoscenza perfetta della lingua araba lo aiutano a cambiare identità: il suo nuovo nome è Ahmed Abdallah al Redai. Ha con sé la sua compagna indigena e alcuni suoi fedeli combattenti: la sua guerra diviene una guerriglia facendo nascere il mito del “Comandante Diavolo” (Cummandar es Shaitan).
Io mi considero l’uomo più fortunato che abbia mai visto (…) naturalmente ho sofferto, ma la fortuna si paga” queste sono state le parole di Amedeo Guillet, una vera e propria leggenda italiana, un eroe per questo paese, oggi quasi sconosciuto. 
Una scelta difficile quella di rimanere in territorio africano, ma decisa.  Il tenente italiano pensava che finché avesse combattuto in Eritrea, avrebbe trattenuto le truppe inglesi, che altrimenti sarebbero finite in Libia, ma il diritto internazionale di guerra non prevedeva che una parte di un esercito nemico sconfitto o arreso, potesse continuare un conflitto, dopo la firma della resa da parte del generale. Il comandante firmando per tutti, compresi gli ufficiali, aveva decretato la sconfitta.
Amedeo ha in mente una strategia precisa: far credere che gli italiani sono ancora in grado di reagire, per nulla sfiancati dal conflitto e capaci di negoziare con determinazione un ruolo in Africa. Per il tenente Amedeo Guillet inizia una nuova guerra: la sua guerra privata africana.
Cacciati gli italiani, il Negus torna in Etiopia (da ricordare come il negus ristabilì la schiavitù del suo stato feudale) e ha l'obiettivo, sempre sognato, di annettere l’Eritrea avvalendosi del contributo strategico inglese. Amedeo non ha intenzione di abbandonare la causa e cerca di infiammare gli animi eritrei, facendo leva sui sentimenti anti-etiopico. Il nostro uomo riarma dunque i volontari che hanno avuto l’intenzione di seguirlo e lo fa sfruttando le caserme abbandonate del Regio Esercito che non sono state prese in consegna ancora dai britannici. Guillet in breve tempo diventa un eroe nazionale eritreo, idolatrato dai soldati che in lui vedono un combattente vicino alla cultura eritrea: coraggio, devozione, sacrificio sono i valori universali che scatenano il consenso tra le truppe. Nel nome di questi valori i suoi uomini lo seguiranno ovunque: nessuno di loro tradirà mai il leggendario "comandante diavolo".
Vivendo costantemente sotto falsa identità di semplice "yemenita" rimasto bloccato in Africa dopo il crollo dell’impero italiano, in Guillet avviene una conversione interiore: inizia a pregare cinque volte al giorno come un musulmano, crede in Dio ma non dà peso al rito devozionale cattolico.
Il tenente italiano non è più l'uomo arrivato nel 1940 in Africa: non è più un italiano, non è più un ufficiale, non è più un cattolico. Si è spogliato della sua identità: è diventato un indigeno tra gli indigeni, come la figura leggendaria di Lawrence d’Arabia. Ma a differenza dell’inglese che aveva un impero alle spalle ed era foraggiato da milioni di sterline d’oro, con cui poteva comprare la fedeltà delle bande arabe che lo portarono ad occupare la città di Aqaba, Amedeo Guillet non ebbe denaro e sostegno da nessuna forza politica. Il piacentino Guillet, travestito di tutto punto, condusse le sue bande eritree in una lotta contro i britannici senza quartiere e senza esclusioni di colpi: sabotò ferrovie, linee telegrafiche, fece saltare ponti, saccheggiò depositi militari; fu una guerriglia che non dette tregua. Le azioni della sua banda vennero considerate inizialmente opera di fuorilegge locali, poi la stampa (sempre in cerca di notizie) iniziò a comprendere l'importanza del soldato italiano, iniziando a ricamare merletti intorno al mito del “comandante diavolo" e attorno alle sue gesta: capaci in una carica di cavalleria di sconfiggere i carri armati di sua maestà britannica.
Qui scese inesorabile il velo della censura inglese: tutto venne inserito in un rapporto “Top Secret” dagli agenti britannici, che consideravano prioritario eliminare Guillet. Con la sua morte, la ribellione eritrea sarebbe scemata e il Negus avrebbe potuto espandere i propri domini.
Il capo dell’Intelligence inglese in Africa Orientale è a quel tempo il maggiore Max Harari, il quale bracca sempre più il Barone Amedeo Guillet. L’alta taglia messa sopra la sua testa lo rende una preda appetitosa per i cacciatore di taglie arabe, ma nessuno intende tradirlo, nè lo tradirà mai. 
Amedeo si recherà, travestito da arabo, al presidio britannico in Eritrea denunciando l’avvistamento di se stesso in altri luoghi, depistando così le indagini dell’Intelligence. Mai fu riconosciuto o catturato (intascò anche i soldi della taglia) nessuno comprese mai che sotto i panni del delatore indigeno si celava il nemico.
Guillet dunque non si arrende anche se braccato, continua a combattere e si permette perfino di prendersi gioco dei servizi segreti inglesi.
Ma la storia di Guillet non è un frutto del caso, Amedeo ha una disciplina ed un' educazione ferrea che, unite ad una vasta cultura e intelligenza, lo portano a diventare il genio che conosciamo. Il maggiore Max Harari, nel frattempo, interroga chiunque lo abbia conosciuto: raccoglie metodicamente qualsiasi informazione, documento o pettegolezzo che lo riguardi. Oramai Guillet sa di avere i giorni contati, la messa in scena con gli inglesi non può continuare ancora a lungo, le ferite riportate in diverse battaglie e le febbri malariche lo stanno stremando e saranno i suoi stessi uomini a convincerlo a curarsi. Una volta catturato l’italiano, anche la loro guerriglia sarebbe precpitata verso una rapida fine. Nel rassegnato dolore Amedeo Guillet scioglie la banda e cerca di recarsi in Yemen. Lascerà anche la sua donna Khadija, tra le lacrime, rimanendo solo. Accompagnerà l’italiano solo lo yemenita Daifallah. I due uomini in poco tempo raggiungono Massaua, per poi ripartire.
Guillet e Daifallah durante il viaggio per lo Yemen, vengono buttati in mare dai contrabbandieri e sfuggendo ai pescecani raggiungeranno a nuoto la penisola di Buri, addentrandosi nel deserto della Dancalia, dove stanchi e affamati verranno malmenati da alcuni pastori nomadi e lasciati in fin di vita, vicino ad un pozzo. Durante la notte verranno salvati da un mercante che fu scambiato da Guillet per un angelo dell’aldilà. Il tenente era in preda alle allucinazioni.
Al Sayed Ibrahim al Yemani, come un buon samaritano, sfama e disseta i due sventurati e li accoglie nella sua casa. Guillet dopo essersi ripreso decide di tentare nuovamente la strada per lo Yemen. Giunto nuovamente a Massaua: spacciandosi per uno yemenita malato di mente, riesce ad ottenere il permesso per un passaggio regolare. Alla fine del dicembre del 1941, finalmente arriva nel porto di Hodèida dove pronuncerà le parole che lo consacreranno alla fede islamica: “non vi è altro Dio all’infuori di Dio e Maometto è il mio profeta”. Gli yemeniti si insospettiscono: credendolo una spia inglese lo incarcerano. Saranno proprio gli inglesi, nel frattempo venuti a sapere di Guillet, a volere la sua estradizione. L’Imam Ahmed Ibn Yahia, vicino politicamente allo Stato italiano, lo libera e lo promuove Gran Maniscalco di corte.
[caption id="attachment_6706" align="aligncenter" width="1000"] A sinistra Guillet in abiti arabi. A destra l'Imam yemenita Ahmed Ibn Yahia.[/caption]
Tra l’Imam e Amedeo nasce un rapporto di stima, il sovrano lo fa curare è gli elargisce uno stipendio da colonnello. Dopo un anno trascorso nello Yemen, per l'italiano è tempo di ripartire: gli inglesi mettono una nave della crociera a disposizione di tutti i civili italiani che vogliono tornare in patria. Guillet non si lascia sfuggire l’occasione, passando ancora una volta sotto al naso dei britannici, imbarcandosi clandestinamente al porto di Massaua. Guillet viaggierà nascosto nel manicomio della nave per 40 giorni di navigazione, compiendo il periplo dell’Africa, arrivando in Italia il 2 settembre del 1943. Dopo anni di guerre, avventure e peripezie, Amedeo Guillet è di nuovo a casa, ma l’Italia che trova è un paese allo sbando: siamo alle porte della guerra civile. Amedeo è già maggiore, la sua ambita promozione l’ha ottenuta da tempo, ma nessuno era riuscito a comunicarglielo. Possiede una sola idea: mantenere la parola data ai guerrieri che lo stanno aspettando in Africa. Per questo motivo tiene segreta la sua presenza verso i familiari che lo stanno aspettando, compresa la sua promessa sposa Beatrice Gandolfo. La scelta del Barone è quella della via più difficile, la più illogica, la meno conveniente: continuare a combattere. Chiede di essere inviato e paracadutato in Etiopia, in modo da poter ricontattare le tribù a lui fedeli e continuare così la guerriglia. Il ministero della guerra autorizza il Barone piacentino ad attuare il suo piano in Etiopia, ma in pochi giorni si arriva all'otto settembre. L’Italia è nel caos con i nemici inglesi che diventano alleati. Al quartier generale Guillet trova le porte sbarrate, ma non si arrende. Ha giurato fedeltà al Re che vuole intercettare. Il sovrano è fuggito da Roma e si è recato a Brindisi. Solo lui può scioglierlo dal suo impegno e restituirlo alla vita civile. Qui si denota come la monarchia è l'unico faro, l'unica luce che guida Amedeo attraverso l’Italia divisa in due, alla ricerca del monarca.
Amedeo arriva a Brindisi e dialoga con Vittorio Emanuele III il quale, ascoltata la sua storia, asserisce: “Lei ha fatto il suo dovere, le sono molto grato. Si ricordi che noi passiamo, ma l’Italia rimane e bisogna sempre servirla in ogni modo, perché la cosa più grande che possiamo avere è la nostra patria”.
Tornato a casa, Amedeo Guillet si riunisce a Beatrice Gandolfo, non prima di averla informata del suo trascorso africano.
A Napoli, il 21 settembre 1944 il “comandante diavolo” si sposa. Dal matrimonio nasceranno due figli: Paolo e Alfredo. A soli 37 anni Guillet viene promosso generale. Passano due anni e l’Italia è già Repubblica. Per Amedeo la carriera militare non ha più senso, ma sciolto dal vincolo di fedeltà voluto da Umberto II, accetterà di lavorare con i servizi segreti militari: le sue conoscenze linguistiche facevano di lui un operatore di grande valore e affidamento.
[caption id="attachment_6707" align="aligncenter" width="1000"] Le due donne della vita di Amedeo: Khadija e Beatrice Gandolfo.[/caption]
Guillet tornerà anni dopo in Eritrea, in missione per lo Stato italiano, e avrà modo di rincontrarsi con Khadija per volere soprattutto di Beatrice. Sua moglie voleva ringraziare l’africana per essersi presa cura del marito, facendole avere in dono un bracciale. Amedeo e Khadija si incontrano in una sala da tè: entrambi sanno che quella è l’ultima volta che si vedranno. Si trattengono alcune ora senza parlare. L’africana lo saluterà stringendo il bracciale della moglie con grande dignità e fierezza.
Con questo viaggio in Africa, la storia di Amedeo Guillet sembra conclusa ed invece negli anni cinquanta Guillet decide di sfruttare l’esperienza e le conoscenze accumulate: inizierà la carriera diplomatica insieme alla moglie Beatrice Gandolfo. Sarà ambasciatore d’Italia in Egitto (1950), in Yemen (1952), in Giordania (1962), in Marocco (1968) e in India (1971).
Il singolare destino di Amedei Guillet è quello di trovarsi in situazioni estreme, sempre accompagnato dalla sua proverbiale fortuna. Sopravvissuto illeso a due incidenti aerei nella stessa giornata, sarà anche testimone diretto e indenne di ben due colpi di stato, sia in Yemen che in Marocco. Senza farsi scoraggiare dalle difficoltà, l’ambasciatore Guillet promosse il dialogo tra cristiani, ebrei e musulmani: custodiva nella propria casa, la reliquia di una spina della corona di Cristo, mentre nella sua scuderia si trovava l’ultimo discendente del cavallo di Maometto. Dettagli simbolici, certo, ma indici di valori concreti.
Amedeo ha vissuto gli ultimi anni in Irlanda, la patria dei suoi antichi nemici. Diventò fraterno amico di Max Harari, il maggiore che nel 1941 gli aveva dato la caccia. Vittorio Dan Segre divenne suo biografo. Nel novembre del 2000 il capo dello Stato italiano Carlo Azelio Ciampi conferisce al generale Amedeo Guillet la massima onorificenza italiana: la Gran Croce dell’ordine militare della Repubblica.
[caption id="attachment_6713" align="aligncenter" width="1000"] Il Barone Amedeo Guillet in età avanzata, dopo aver ricevuto l'onoreficenza nel 2000.[/caption]
A 91 anni Amedeo torna in Africa per rivedere i luoghi della sua guerra e gli eritrei lo accolgono come un eroe, anzi come il primo patriota dell’indipendenza eritrea. E' lo stesso presidente Isaias Afewerki ad ospitarlo con onori degni di un capo di stato.
Prima di concludere la sua vita a Roma il 16 giugno del 2010 all’età di 101 anni, Amedeo Guillet torna a trovare l’uomo che nel deserto della Dancalia gli salvò la vita: Al Sayed Ibrahim al Yemani. Il mercante non riconosce l’anziano italiano, rammaricandosi di non potergli offrire dell’acqua poiché il crollo del muro del pozzo ha reso quest'ultimo inutilizzabile. Accogliendo cordialmente l'ospite, gli narra la storia a chi lo viene a trovare: il salvataggio nel deserto di due yemeniti moribondi. Il vecchio mercante è sicuro che quegli uomini siano stati inviati da Allah, che spesso mette alla prova la fede e la carità dei suoi fedeli ponendo sul loro cammino eventi speciali e soprannaturali. Amedeo non ha dubbi: quel viandante yemenita di cui parla Al Sayed è lui. Amedeo sta per svelare la sua identità, ma non volendo distruggere il mito dei due forestieri inviati da Dio, tace.
Congedatosi Amedeo paga alcuni operai, che nella stessa notte aggiusteranno il pozzo del vecchio mercante, per far avere ad Al Sayed un’altra straordinaria novella da raccontare ai pellegrini del deserto. Quello stesso deserto dove si sono incrociati i destini di eroi senza nome e senza tempo: testimoni delle prodezze del tenente Guillet, delle scorrerie del comandante diavolo e dei miracoli di Allah.
 
Per approfondimenti:
_La guerra privata del tenente Guillet, di Vittorio Dan sagre - Edizioni Corbaccio;
_Gli italiani in africa orientale - la nostalgia delle colonie, di Angelo del Boca - Edizioni Mondadori;
_Gli italiani in africa orientale - la caduta dell'Impero, di Angelo del Boca - Edizioni  Mondadori;
_7 anni di guerra;
_Sebastain O’Kelly, Vita, avventure e amori di Amedeo Guillet un eroe italiano in Africa Orientale - Edizioni Rizzoli, Milano;
_Mario Mongelli, Amedeo Guillet un gentiluomo italiano senza tempo - Edizioni Rivista Militare, Roma 2007.
 
Un ringraziamento particolare al Dott. Emidio Ciabattoni per aver innescato quella scintilla che poi mi ha portato all'approfondimento dell'uomo Guillet.
 
© L'altro - Das Andere - Riproduzione riservata

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di Giuseppe Baiocchi del 09-03-2020

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A Torino presso il palazzo della Cisterna, nell’ottobre del 1898 nasceva il principe Amedeo di Savoia, definito dai posteri e dagli storici come “l’eroe dell’Amba Alagi”. Nella città sabauda rimase fino ai sette anni, quando il padre, Emanuele Filiberto, si trasferì a Napoli, al comando di quel Corpo di Armata.
La prima fanciullezza, come da tradizione, non era stata lieta per il piccolo aristos: all’età di due anni si era infatti svolta la tragedia di Adua (1896), evento che portò l’assassinio di suo zio, il Re Umberto I, il quale fu ucciso da un anarchico italiano Gaetano Bresci (1869 - 1901).
Iniziava allora in Italia lo strano e ben doloroso fenomeno per il quale – a somiglianza di un solo altro paese, la Francia – l’istanza sociale e la necessità materiale delle folle sembrava dovessero essere inscindibili da una furibonda, iconoclasta volontà di distruzione delle tradizioni patrie e della virtù militare. A Napoli l’ambiente era più sereno: quella reggia di Capodimonte era più sorridente con il suo magnifico parco, il cielo era più mite, l’anima popolare meno intristita dalla propaganda dei negatori. In tale ambiente crebbero Amedeo ed il suo fratellino minore Aimone – sopraggiunto dopo di lui – e quel vasto palazzo con parco senza fine, vide il di-sfrenarsi delle loro fanciullezze. Fu un ragazzo terribile Amedeo, di quelli le cui ragazzate lasciano il cuore sospeso.
In quell’epoca ormai lontana, l’aviatore Louis Charles Joseph Blériot (1872 - 1936) aveva attraversato la Manica, Jorge Antonio Chávez Dartnell (1887 - 1910) aveva sorvolato le Alpi; l’aviazione – con l’opera ed il sacrificio dei pionieri – faceva le sue prime asperrime prove, ed Amedeo aveva una voglia pazza di volare.
Voleva volare il giovane duca, ma macchine non ne aveva; trovati due vecchi ombrelli in un solaio, ne irrobustì le stecche con spago e filo di ferro, ed ecco i nostri due argonauti lanciarsi con questi ombrelli aperti, attaccati al manico, dal primo, ma pur altissimo piano della Reggia. Videro dal basso, col cuore sospeso, discendere precipitosamente i due ragazzi e fu un accorrere di gente: non si erano fatti quasi niente in quel volo precipitoso di otto metri, solo qualche ammaccatura: «Volare mi piace» – asserì serissimo Amedeo, strizzando un occhio alla gente accorsa ansiosa e trepidante a raccattare i due signorini.
Altro episodio curioso, fu alle spese del colonnello Emilio Montasini, aiutante di campo del padre e ottimo colonnello d’artiglieria: Amedeo, da promesso artigliere, volle rendergli onore.
Vi erano nel parco della reggia alcuni vecchi cannoni di bronzo del Settecento ad avancarica. Amedeo prese la polvere di molte cartucce da fucile, caricò il vecchio cannone, pose una lunga miccia, mise Aimone a far da palo per annunciare l’arrivo del colonnello e quando questi apparve al cancello, diede fuoco. Il vecchio palazzo tremò, il boato si udì per tutta Napoli: pallido, emozionato il colonnello accorse. Questa volta era stata troppo grossa, ed i due colpevoli furono trascinati davanti ai genitori per avere la giusta sanzione. Ma, nel salire la grande scalea, Amedeo diceva al fratello: «Hai inteso che colpo? Io di artiglieria me ne intendo»! Questo spirito avventuroso, questo sorridente arditismo spericolante lo accompagnarono per tutta la vita.
Nelle due foto, da sinistra a destra, Amedeo Umberto Lorenzo Marco Paolo Isabella Luigi Filippo Maria Giuseppe Giovanni di Savoia-Aosta, in una foto di giovane età (Torino, 21 ottobre 1898 – Nairobi, 3 marzo 1942). E’ stato un generale, aviatore e patriota italiano, membro di Casa Savoia appartenente al ramo Savoia-Aosta. Fu viceré d’Etiopia dal 1937 al 1941. Nella foto di destra Umberto I (Umberto Rainerio Carlo Emanuele Giovanni Maria Ferdinando Eugenio di Savoia; Torino, 14 marzo 1844 – Monza, 29 luglio 1900) è stato Re d’Italia dal 1878 al 1900.
Infine evento che suscitò un simpatico scalpore europeo, fu durante il soggiorno spagnolo formativo, dove durante una corrida, il giovane Amedeo diede spettacolo all’entrata dell’arena durante lo svolgimento del gioco. Anche in questa esperienza vi fu – da parte dell’istitutore – molta paura. Di contro l’arena fu in tumulto tra applausi, urla di entusiasmo e lanci di cappelli. I giornali madrileni ne fecero un gran parlare e dissero chi era il protagonista: il nipote dell’ex Re di Spagna: Amedeo Ferdinando di Savoia. I giornali del Regno d’Italia censurarono l’accaduto. Tre erano gli elementi fondamentali della sua natura: la noncuranza assoluta del pericolo, che gli veniva da una tradizione secolare di gloria militare e civile; un senso pratico ed ordinato della amministrazione e della vita, che aveva assorbito dai suoi vecchi antenati piemontesi; ed infine una rara sincerità: virtù che ottiene comprensione, anima gli uomini e solleva entusiasmi ed affetti. Fu certo la sincerità più limpida che gli sgorgava dal cuore quella che guidò naturalmente la sua condotta tra gli allievi della Accademia Militare della Nunziatella di Napoli allorché, a 15 anni, fu rinchiuso in quel collegio per iniziare la sua vita militare. I primi periodi per il duca furono duri, ma con il suo carattere ben presto divenne fratello e amico dei suoi camerati, i quali nonostante la confidenza nutrivano sempre grande rispetto per Amedeo. Egli aveva, innata, questa incommensurabile virtù della semplicità che aggioga le anime: virtù che non si può improvvisare, che deve essere innata, che deve avere perciò origini lontane, come in lui le aveva, nei secoli. Aveva 17 anni quando nel 1915 scoppiò la guerra Europea. Scrisse di suo pugno una petizione al Re: voleva andare a combattere per il regio-esercito l’ultima guerra dell’Unità, così come era propagandata. Ma, data la sua età, era obbligatorio il consenso del padre.
Emanuele Filiberto firma: per il giovane ufficiale si spalanca la prima – piccola – avventura della sua vita. Vestito in grigio-verde in un reggimento di artiglieria a cavallo, si reca presso il Monte Sei Busi: impavido sotto valanghe di ferro e di fuoco, si merita una medaglia di bronzo. Dissero di lui: «noi, tuoi compagni, noi soli veramente sappiamo che se non fossi stato un principe di Savoia, la medaglia sul tuo petto sarebbe stata d'argento. Noi siamo testimoni che ci hai perduto ad essere principe». Leggendo la motivazione della sua seconda medaglia – questa di argento, quando aveva 19 anni – si comprende come l’avesse meritata: non vaghe ed altisonanti parole, non retoriche frasi, ma fatti precisi: era veramente un soldato, ed alla prova del fuoco quella sua temerarietà infantile, si era trasformata in ragionata e consapevole virtù guerriera.
Durante la guerra carsica, recatosi a visitare una trincea – che un generale aveva fatto costruire e che personalmente illustrava -, la quale doveva fungere a modello ed esempio di come sarebbero dovute essere strutturate tutte le trincee, egli non espresse giudizio guardando muto l’opera che pur era costata tanta sollecitudine e tanta fatica, finché, alla reiterata domanda espressa dallo stesso generale: «che gliene sembra Altezza Reale», Amedeo non esitò a rispondere nella sua invincibile sincerità: «la sto studiando attentamente per evitarla»! Questo episodio riferito da Beretta a De Vecchi trova il suo riscontro in altri successivi di epoche diverse, come ad esempio quello di quando, deliziandosene perdutamente, vide nel cielo di Gorizia – ove egli allora era addetto – un aeroplano eseguire la più ardita gamma di loopings, di tonneaux, di virate, di cabrate che si fossero mai viste e che pur erano severamente proibite; ed accanto a lui, vi era furente il comandante della brigata aerea, il quale si avvicinò all’avventuroso giovane pilota appena atterrato per comunicargli di tenere gli arresti. Amedeo era pieno di ammirazione, si avvicinò al giovane ufficiale, lo prese sotto braccio, gli disse: «che bello, ma perché non me lo ha detto che sarei venuto con lei»?
Nelle tre immagini da sinistra a destra. Il nonno di Amedeo: Amedeo Ferdinando Maria di Savoia (1845-1890), era figlio del primo Re d’Italia Vittorio Emanuele II. Fu re di Spagna (1871 -1873) e il primo duca d’Aosta, capostipite del ramo Savoia-Aosta; al centro il padre: Emanuele Filiberto Vittorio Eugenio Alberto Genova Giuseppe Maria di Savoia-Aosta (1869 – 1931) è stato un membro di Casa Savoia, appartenente al ramo Savoia-Aosta, ed un generale italiano; infine il fratello Aimone Roberto Margherita Maria Giuseppe Torino di Savoia-Aosta (1900 –1948) è stato un membro di Casa Savoia, appartenente al ramo Savoia-Aosta, e un ammiraglio italiano. Fu anche re di Croazia con il nome di Tomislavo II, senza però mai prendere possesso del trono.
Quel giovano era il tenente Tait, che divenne poi il suo aiutante di volo e non lo abbandonò mai più: gli fu vicino nell’ora estrema. Finita la grande guerra, nel 1919 Amedeo se ne andò con lo zio in Somalia. L’amore dell’Africa lo dominava dall’infanzia, da quando bambino se ne andava al porto a vedere le navi che partivano. Abitava con lo zio un bungalow nel villaggio di Afgoi, a 20 Km. da Mogadiscio. Quel vecchio marinaio ed esploratore, quella grande anima chiusa ed ardente di Luigi di Savoia, che conobbe tutte le altezze tutte le discipline e tutte le rinunce, stava trasformando un lembo di Africa con la sua tenace volontà di colono.
Il senso eroico della vita non aveva bisogno di insegnarlo al nipote Amedeo, poiché era impresso nel suo spirito. Ma altre cose gli insegnò, rimanendo impresse e gli servirono da viatico quando si trovò venti anni dopo a dominare il vastissimo territorio dell’Etiopia. Gli fece comprendere la tenacia delle opere durevoli: ad amare la terra che risponde all’uomo che la lavora e la feconda col suo sudore. «Non mi sbaglio, – diceva suo zio –, ma se noi vogliamo, la Somalia ha un grande avvenire: canna da zucchero, cotone, arachidi, alberi di kapoc, possono rendere enormemente». Queste nozioni gli servirono come vedremo, più tardi, e le mise in pratica.
Rimase sei mesi presso lo zio e poi ritornò facendo il giro del Capo di Buona Speranza, ma si ammalò e dovette sbarcare a Zanzibar, ove stette un mese tra la vita e la morte, soccorso dalla madre, accorsa subito al suo capezzale. Della sua malattia e delle angosce materne troviamo indelebile nobilissima traccia nelle pagine scritte dalla duchessa madre nel suo libro: «Ma vie errante».
Ritornato in Patria nel 1920 fu destinato a Palermo. Era l’epoca tremenda del dopoguerra italiano, quando imboscati e disertori si riunivano per dare veste di ideale alla fellonia ed alla viltà. Del resto, sempre, nelle ore torbide della nostra vita nazionale la diserzione diventa un ideale, il tradimento una virtù e l’incitamento alla rivolta esige il suo premio. Fu per sfuggire a tale stato nauseante di eventi, che Amedeo – sotto il nome di capitano della Cisterna – se ne andò in Congo belga, a Stanleyville a fare l’operaio in una fabbrica di sapone. Della sua esperienza disse: «Voglio vedere cosa sarei capace di fare nella vita civile se fossi nato diversamente da come sono nato». Non si può dire che l’esperimento non sia riuscito, perché da operaio semplice divenne capo operaio, e poi assistente, ed alla fine del 13° mese era già vice-direttore della grande fabbrica e stavano per nominarlo direttore, quando dette le dimissioni per ritornare in Italia; e solo allora si seppe chi era. La cronaca pettegola dette un’altra versione di questa strana sosta di oltre un anno nel Congo. Così dopo 13 mesi – dalla lunga esperienza del Congo –, ritornò con una carovana da lui allestita, lungo i grandi laghi equatoriali: il Victoria ed il Tangunica. Sostò ai piedi del Ruvenzori, in memoria dello zio che ne aveva fatto la scalata, ed, ultima tappa del viaggio, prima di imbarcarsi a Mombasa, fu a Nairobi, quella fatale Nairobi, dove doveva venti anni dopo chiudere la sua nobile vita. L’Amore dell’Africa ormai lo teneva, e nel Continente Nero riuscì a farsi destinare nel 1925, rimanendovi per sei anni, fino al 1931, salvo brevi parentesi a Torino per la scuola di guerra, o quella ancor più breve – ma importante – del suo matrimonio nel 1926 con Anna di Francia, la dolce e nobile compagna della Sua vita. Il Regno d'Italia stava riconquistando la Libia, di cui non aveva potuto occuparsi durante la guerra, mantenendo solo la costa. In queste operazioni di polizia che talvolta si tramutavano in vere e proprie e sanguinose battaglie, seguito dal maggiore Volpini, suo aiutante – che doveva poi morirgli accanto da generale sul picco dell’Amba Alagi – Amedeo si distinse perché fu infaticabile e temerario, a piedi, a cavallo, a dorso di cammello, a bordo di aeroplani, mitragliando i ribelli a volo radente, tornando con l’apparecchio crivellato di colpi.
Tutte le marce e le battaglie, di Zella, dei pozzi di Bir Tagritt, Nufilia, Marzuk, Kufra, ricordano il suo nome. Con la occupazione di Kufra la colonia era ridonata totalmente alla patria, e la si poteva oramai attraversare in piena tranquillità dalla costa fino al più profondo deserto. Ritornato in patria alla morte del padre – comandante vittorioso della III Armata, avvenuta nel 1931 –, non solo per il passato glorioso del duca ma per un suo testamento spirituale che rimane una delle pagine umane più nobili e belle che siano mai state scritte, Amedeo divenuto Duca di Aosta, passò l’anno seguente nella aviazione. Si compiva così un Suo ardentissimo voto.
Cinque anni egli passò, assegnato a Gorizia, e dimorante con Sua Altezza Reale Anna e le sue due figliuole nel malinconico castello di Miramare: cinque anni, quale comandante, prima di stormo, poi di brigata aerea, indi di divisione.
Le sue squadriglie erano ragione di orgoglio per l’ala Italiana, per precisione di volo, per disciplina e coraggio ed allenamento di piloti. Intanto si era svolta la conquista dell’Etiopia. In uno slancio concorde di volontà l’Italia aveva conquistato un Impero; ed egli, andati via i due primi Vice-Re manifestò, per la prima volta nella vita, il desiderio di un comando.
Amedeo di Savoia, duca d’Aosta con i genitori, durante il primo conflitto. ©Maurizio Lodi
Era un poco rischioso, specie dopo un ultimo e grave attentato al Governatore del tempo, ed il Re era titubante, ma egli insistette, ed eccolo infine partire il 21 Dicembre 1937 da Napoli, Vice-Re dell’Etiopia. Queste sono vicende recenti, ogni Italiano le conosce, ed io non ho che da riassumere solo qualche dato, qualche fatto saliente che aiuti a mettere in rilievo la figura del nostro Principe. Egli sbarcò a Massaua, e la prima sosta fu al cimitero di Dogali, a salutare i cinquecento, i morti di De Cristoforis, ancora allineati in ordine di battaglia, sotto la terra arsa. Arrivato ad Addis Abeba si accorse subito che tra i veri pionieri si era mescolato un piccolo mondo di profittatori, e non esitò a buttarsi a corpo perduto per eliminare le iniquità, per mettere ovunque ordine e pulizia; non esitò a dire ai suoi funzionari: «se non mi chiamassi Savoia vorrei fare a cazzotti con certa gente»! Memore degli insegnamenti dello zio indimenticabile, Amedeo cominciò subito a realizzare un vasto piano di sfruttamento agricolo e minerario del vastissimo Impero.
Spesso egli asseriva: «gli Italiani non sanno quale immensa ricchezza essi hanno conquistato». Nell’Amara vi erano i giacimenti immensi di lignite e di torba, cave di marmo e di argilla, e c’era da sviluppare la industria del baco da seta. Nel Calla Sidama vi erano miniere di ematite e di limmite ed i grandi fiumi auriferi, le immense foreste ove già erano state catalogate ottantaquattro specie di legno pregiato. La foresta di Belleltà, non tutta ancora esplorata dall’uomo, poteva rivelare incredibili sorprese, sgominante quale era per la sua vastità, intersecata da fiumi torrenti e ruscelli, sbarrata da alberi secolari, intrecciata da liane, fauna favolosa di scimmie, di leopardi neri, di pitoni e bufali ed elefanti e rinoceronti. Nell’Harrarino le foreste degli Arussi, piene di podacarpi ed eucalipti gonfi di cellulosa, e le piantagioni di caffè e le miniere di mica. Nella Eritrea e nella Somalia il cotone, i semi oleosi, nella Migiurtinia l’incenso, la mirra, lo stagno.
Né aveva trascurato con sotterfugi ingegnosissimi che, dalle Indie olandesi, gli fossero inviati i semi del caucciù per svincolare la patria da questo gravoso tributo allo straniero. Era un mondo favoloso che si apriva al lavoro degli Italiani, già da secoli dispersi per tutto l’orbe terraqueo in cerca di pane: colà milioni e milioni di lavoratori avrebbero trovato sfogo e ricchezza! Questa era la sua opera dunque, grandiosa opera, alla quale si accinse con tutto il fervore dell’anima.
Ogni domenica, libero dai fardelli burocratici, dagli incartamenti e dai ricevimenti, si dedicava alle visite nei punti più lontani dell’Impero con il suo apparecchio ad Elolo, su piste di fortuna tra il Kenia Italiano e quello Inglese, ove c’era un presidio con un solo tenente bianco ed una banda di Dubat. Quel povero tenente non vedeva un bianco da sette mesi, rimase confuso e quasi singhiozzava quando riconobbe il Vice-Re che scendeva dall’aeroplano su quel campo di fortuna. In quell’angolo sperduto di mondo il Duca, sotto una tenda, divise con quell’ufficiale un piatto di pasta preparato dai Dubat.
Amedeo, nel viaggio di ritorno, ricordando gli occhi umidi, la voce trepida di quel tenente, asseriva ai suoi compagni di volo: «ci vuole tanto poco a fare contenti gli uomini»!
Un’altra domenica, a Ricchiè, un vecchio centenario, saputo dell’arrivo del Vice-Re in quella sperduta località, si fece portare alla sua presenza in barella da due servi. Si prosternò nella polvere, disse: io ho perduto un figlio in battaglia per l’Italia, io sono fiero di avere perduto mio figlio per te. Ed Amedeo concludeva, nel viaggio di ritorno: «la poesia è la sola regola della vita».
Un’altra domenica a Debra Sina, davanti ad una banda di 600 uomini ve n’era uno, alto quasi come lui, Basciai Uoldié, che era stato il più acre nemico degli italiani, il quale aveva tagliato a suo tempo il ponte di Termaber per ritardare la marcia italiana su Addis Abeba, che era considerato, ed a giusto titolo, un eroe nazionale Abissino. Basciai Uoldié aveva dichiarato che non avrebbe fatto atto di sottomissione ad altri che al Vice-Re in persona, ed Amedeo non aveva atteso che andasse da lui; volle – di contro – andare davanti lui stesso al suo valoroso avversario e stabilì che tutti gli uomini della banda avrebbero conservato le armi. L’indigeno si pose un ginocchio in terra e disse: «giuro di servirti, fino alla morte». E mantenne la parola, perché tre anni dopo perì da prode, combattendo per il Regno d’Italia. Alla inaugurazione della strada Dancala tra Dessié ed Assab – lunga 1000 chilometri -, un’opera romana costruita sotto il sole ardente dai nostri operai.
Uomo anche vicino ai lavoratori italiani in Africa Orientale: lungo le strade dell’Impero, numerose erano i tumoli degli operai deceduti per incidenti sul lavoro. Spesso Amedeo si fermava per l’ultimo saluto agli scomparsi: «Questi tumuli», diceva il viceré, «che si snodano lungo questa strada grandiosa sono come gli acini di un rosario, il rosario del lavoratore Italiano». Tale atteggiamento lo portò ben presto ad essere stimato e rispettato sia dai civili che dai militari.
Nelle ultime sue visite, sulla fine del 1939 fu a Bonga, nel Galla Sidamo, tra i pigmei. Tutta la popolazione indigena era schierata nuda lungo la strada, uomini e donne. La popolazione – che ancora accendevano il fuoco fregando due pezzi di legno – possedeva armi ancora primitive, e gli italiani, se consideriamo strettamente il periodo del comando del viceré monarchico, portarono civiltà e prosperità, abolendo le vessazioni alla popolazione civile del viceré fascista Graziani. Riportiamo un passaggio del bellissimo romanzo I fantasmi dell'Impero del trio Cosentino-Dodaro-Panella: «Sua Altezza Reale il Duca Amedeo di Savoia Aosta non aveva avuto fretta a riceverlo [...]. Il suo rapporto stava sulla grande scrivania del nuovo Vice Re ordinatissima, così diversa da quella di Graziani, sempre ingombra di carte [...]. Per carità, il duca era stato cortesissimo. Lo aveva accolto in piedi, sorridente, in uniforme da generale dell’Aeronautica, sovrastandolo di trenta centimetri buoni dall'alto dei suoi due metri, e gli aveva calorosamente stretto la mano. L’ufficio era lo stesso di prima, eppure niente sembrava uguale; anche Mazzi era stato sostituito da un segaligno maggiore di cavalleria piemontese, sicuramente con tutti i quarti di nobiltà in regola. E i saluti fascisti s'erano ridotti al minimo indispensabile: non ne aveva visto fare nemmeno uno da quando era arrivato».
Oggi, gli ex cittadini dell’Impero italiano sono ricaduti nuovamente nelle barbarie: l’abbandono – per causa del conflitto mondiale – del Regno d'Italia, portò queste regioni nel caos più assoluto, dove tiranni senza scrupoli adoperarono per lunghissimo tempo i loro interessi, in maniera brutale.
Luigi Amedeo Giuseppe Maria Ferdinando Francesco di Savoia (Madrid, 29 gennaio 1873 – Villaggio Duca degli Abruzzi, 18 marzo 1933) è stato un ammiraglio, esploratore e alpinista italiano.
Alla soglia degli anni quaranta, oscure nuvole si addensavano sull’orizzonte europeo. La Germania nazista invade la Polonia e la guerra europea era scoppiata. L’Italia vi entrò solo un anno dopo: il viceré ripartì in patria per discutere con il Capo del Governo Mussolini, i limiti delle truppe del regio-esercito in Africa Orientale. Espresse egualmente il suo pensiero, e ne possiamo trovare traccia nei diari di Galeazzo Ciano, nelle affermazioni dei sopravvissuti, nonché nella risposta scritta che egli inviò alle precise domande che gli furono rivolte nel 1940 e delle quali non si tenne, purtroppo, alcun conto: le condizioni militari dell’Impero erano tali che non solo un’offensiva non sarebbe stata possibile, ma neppure una azione difensiva. Avrebbe potuto, sì, esserci una resistenza più o meno lunga, avrebbe potuto l’esiguo corpo di spedizione, sprovvisto di armi per una guerra moderna, sacrificarsi, scrivendo pagine ardenti di gloria militare, ma l’Impero sarebbe stato perduto: i britannici disponevano di continui rifornimenti, dati dall’immenso patrimonio coloniale e soprattutto – in chiave africana – dal controllo del canale di Suez. Nonostante le problematiche Amedeo gioca d’anticipo, è spregiudicato: Mussolini promette la resa dell’Inghilterra con l’operazione tedesca “Leone marino” e l’acquisizione della Somalia britannica e francese, che avrebbe permesso al Regno d'Italia importanti contropartite al tavolo della pace.
Il primo anno si chiuse all’attivo con la spedizione del Somaliland, ma con il sopraggiungere delle armi, delle munizioni, dei viveri provenienti da tutto il Commonwealth, le truppe inglesi passarono alla offensiva mentre il nostro corpo di spedizione ripiegava ordinatamente dall’invasione – tatticamente di scarso rilievo, per mancanza mezzi – del Sudan britannico. In questi tempi amari, pagine che farebbero l’onore e la gloria di ogni popolo del mondo sono pressoché ignorate dagli Italiani, quando non sono calpestate ed irrise. Le pagine di Cheren, fulgide, non meno di quelle delle Termopili, le pagine di Culquabert che vide ad ondate sacrificarsi i Carabinieri Reali, sono oggi un libro chiuso. Sigillato sembra il libro immortale dell’Amba Alagi, ma ben si riaprirà un giorno se è vero che la patria è una verità eterna e che, nel nostro breve cammino mortale, la gloria illumina il cuore degli uomini.
L’ultimo consiglio di governo al Ghebì di Addis Abeba fu tenuto il 3 aprile del 1941. Con 3.800 uomini il viceré salì i 3.400 metri dell’Amba Alagi. Il 16 maggio, dopo 43 giorni di assedio e dopo avere reiterate volte respinto le intimazioni di resa, le condizioni erano queste: il comando italiano aveva ridotto gli effettivi a 2.500 uomini, poiché 1.300 erano periti negli aspri combattimenti, non esisteva più un solo colpo di cannone, vi erano ancora pochi caricatori per le armi leggere, i pochi muli erano stati già tutti sacrificati, la sete era allucinante, ma dalle pendici del monte si vedeva avvicinare sempre più una marea di fute bianche, i 30.000 armati di Ras Seium. No, non vi era più scampo! Ed il duca che aveva cercato più volte la morte su quell’Amba desolata, che aveva visto morire attorno a sé i migliori suoi fidi, pensò che aveva il dovere di risparmiare l’orrenda carneficina che attendeva i superstiti, adesso che era salvo l’onore della bandiera. Mandò fuori il suo Volpini a trattare con gli inglesi; ma gli armati di Ras Scium non rispettarono la guarentigia della bandiera bianca, una scarica di fucili uccise lui e gli altri parlamentari, così che furono gli inglesi a dover recarsi dal duca; e due giorni dopo vi fu la discesa dall’Amba Alagi.
Amedeo di Savoia fu l’ultimo ad abbandonarla dopo avere diviso con i superstiti le poche cose ed il danaro che gli restava; ma prima si recò nel forte Toselli, dove due giorni prima era stato sepolto il generale Volpini, l’amico del cuore, che per 15 anni aveva – ai suoi ordini – diviso la gioia e le asprezze della sua vita, ed aveva pagato l’estremo tributo alla sua granitica fedeltà. Venne portato ad Adi Ugri ove restò 15 giorni, chiuso in una piccola casa, in attesa della sistemazione definitiva, e fu ad Adì Ugri, nel chiuso di quattro pareti che seppe dalla radio della medaglia d’oro al valor militare assegnatagli da Sua Maestà il Re: «ho seguito con viva affezione e con ammirata fierezza la tua opera di comandante e di soldato. Ti ho conferito la medaglia d’oro al Valore Militare, desiderando premiare in te anche coloro che, combattendo ai tuoi ordini, hanno bene meritato dalla Patria». Sì! Egli si sentiva di essere il depositario dei mille e mille caduti nella difesa dell’Impero; nel suo cuore batteva quello di una moltitudine di morti e di superstiti.
La Sua nuova dimora fu stabilita a Nairobi. Gli fu assegnato il villino da caccia di Lady Me Millan, a 70 Km da Nairobi, edificio abbandonato da anni, infestato da pulci, da zecche e da topi, e dovette personalmente per una settimana intera, aiutato dai suoi, provvedere a liberarsi – per quanto possibile – da questi ospiti indesiderabili.
Le gazzette inglesi farneticavano sulla libertà di cui godeva il principe, che poteva recarsi ove volesse, ospite, dicevano, e non prigioniero di Sua Maestà Britannica; che da Addis Abeba gli erano stati portati i suoi cavalli, che possedeva una automobile per i suoi spostamenti. La verità era un’altra: Amedeo non poteva andare al di là di 380 m dalla casetta, vigilato da un bene attrezzato e numeroso corpo di guardia, ed invece dei cavalli e dell’auto, esisteva una carrozza di cui si servivano gli ufficiali inglesi, che dopo una settimana l’avevano resa inservibile. Era un prigioniero, come gli altri, che ebbe la prima lettera dei suoi dopo sette mesi di prigionia, e niente lo feriva e lo umiliava più delle letture delle riviste sud africane ed inglesi che gli ufficiali di guardia gli mostravano. In una si diceva che, sull’impegno della sua parola di onore, gli sarebbe stato concesso di andare in Italia a rivedere la sua famiglia. Il rossore gli salì al viso. Come si poteva pensare che egli avrebbe accettato un simile privilegio? Un’altra volta lesse in una rivista sud africana che i suoi magnifici soldati erano i «contemptible scavengings in the biways of the battle».
Umiliato, depresso, in quella solitudine disperata rotta solamente dalle notizie sempre peggiori che giungevano dai lontani campi di battaglia europei, fu punto un giorno da una zecca, e ne risultarono altissime febbri a tipo tifoideo, che gli durarono settimane e lo ridussero allo stremo, mentre il suo medico, il dottor Borra, invano chiedeva di poter fare delle analisi e degli esami speciali, ed invano chiedeva medicinali. Appena rimessosi chiese ed ottenne di poter recarsi al Comando del Campo da cui dipendeva, per avere la assicurazione che le donne ed i bambini internati nel Kenia sarebbero stati evacuati per primi, con precedenza su tutti.
Voleva entrare nel campo per salutare i suoi soldati prigionieri, ma gli fu vietato, ed allora girò attorno al filo spinato entro il quale erano rinchiusi, mentre i suoi vecchi soldati gli gridavano parole di amore. Fu visto pallido, diritto, con gli occhi gonfi di lacrime, e non si vergognò di dire a chi lo accompagnava: «talvolta piangere è una felicità»! Ma la febbre tornata altissima dimostrava i sintomi inequivocabili della malaria. 
In quell’organismo, debilitato dalla lunga sofferenza morale, dalle privazioni fisiche durate nelle lunghe settimane di assedio sull’Amba Alagi, i lunghi attacchi febbrili determinati dalla insalubrità del luogo, portarono il duca alla morte.
Nelle tre foto da sinistra a destra: la tomba del viceré Amedeo a Nairobi, capitale del Kenya; cartolina di propaganda che mostra un fante italiano coloniale, che riprende le fattezze del duca d’Aosta, intento ad attendere il momento del ritorno italiano; foto, antecedente al conflitto, di Amedeo di Savoia duca d’Aosta, viceré dell’Africa Orientale Italiana.
Quando si recò a trovarlo il maggiore Ray Wittit, unico tra gli ufficiali inglesi che, avendo in tempi felici conosciuto il duca di Aosta, non aveva dimenticato l’omaggio che a lui si doveva nella sventura, quando andò a trovarlo e lo vide in quelle condizioni, su quel lettino di ferro ove non poteva allungare i piedi, con gli occhi lucidi di febbre, nella più grande desolazione, non poté contenere il suo sdegno, che esplose in sacro furore: questo era il modo di trattare un principe reale della più vecchia dinastia regnante di Europa? Questo era il modo di trattare un glorioso nemico, leale e cavalleresco, tenendolo lì, a 70 km dal consorzio umano, in quella casetta abbandonata al limite di una foresta? Questa era la asserita, vantata ospitalità del Re di Inghilterra? Così riuscì ad ottenere che, a spese del duca, questo fosse ricoverato in una casa di cura, La Maja Cumbery Nursing Home.
Ma oramai il destino era segnato, ed ecco allora – per salvare la faccia – il medico inglese che appare all’ultima ora, ecco anche affacciarsi quel Rennel Road, compagno di giochi della sua fanciullezza, quando il padre era ambasciatore in Italia nei tempi felici. Il padre che amava ed era riamato dagli italiani aveva scritto al figlio: ricordati di quanto dobbiamo ai duchi di Aosta, e sii di conforto al prigioniero.
Ma il figlio era andato all’aeroporto, aveva salutato con ostentata indifferenza lasciando di ghiaccio il duca che gli era andato incontro per abbracciarlo; ed ora, eccolo lì, vicino al suo letto di morte: «Che sei venuto a fare ora? – gli disse il duca – ora è tardi, vattene». Si, oramai era tardi per le finzioni del mondo; adesso voleva essere solo con Dio e con i pochi fidi superstiti, per prepararsi a morire; oramai aveva gli occhi chiari della morte che guardano con distacco le cose vane e caduche. Il 1° marzo il comando inglese, convinto ormai della fine imminente, consente infine agli amici del duca di recarsi al suo capezzale.
«Scrivi, scrivi, io ti detto, ho paura di non fare in tempo, scrivi; giunga l’estremo saluto ai miei soldati di terra, del mare e del cielo, compagni di arme di tante campagne d’Italia e di Libia. Ai miei camerati di prigionia, ed a tutti quelli che con indomito valore mi hanno seguito in questa epopea africana, lascio il retaggio di portare il tricolore sulle Ambe dove i nostri morti montano la guardia. Scrivi, Verin, scrivi: riaffermo al mio Re, in questa ora suprema la fedeltà di tutta la vita». Poi asserisce al dottor Borra: «quante volte, caro dottore, ho pensato che sarebbe stato meglio morire sull’Amba Alagi. Colà la morte non mi ha voluto. Ma ora, di fronte a Dio, penso che sarebbe stata vanità: bisogna saper morire anche in mano al nemico, anche in un povero ospedale». Padre Boratto gli somministra i Sacramenti la sera del 2 marzo: mancano poche ore alla fine, ed il duca dice al cappellano militare «come è bello morire in pace, con Dio, con gli uomini, con se stesso. Questo solo è quello che veramente conta».
Alle ore 3:56, al duca sopravviene la fine. La morte del duca d'Aosta ci ha lasciato un pezzo di quel Regno d'Italia, oggi scomparso, che tanto di buono aveva prodotto per aumentare il prestigio nazionale fuori dal Bel Paese. Oggi, egli diviene esempio distinto di capacità umane e militari: un esempio gestionale per la classe politica. 
Per approfondimenti:
_Edoardo Borra, Amedeo di Savoia, terzo duca d'Aosta e Viceré d'Etiopia, Mursia, Torino, 1985;
_Dino Ramella, Il duca d'Aosta e gli italiani in Africa orientale, Daniela Piazza Editore, Torino, 2017;
_Gigi Speroni, Amedeo d'Aosta, L'eroe dell'Amba Alagi, Rusconi, Milano, 1998.
_Cosentino-Dodaro-Panella, I fantasmi dell’Impero, Serlio Editore, Palermo, 2017.
 
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

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di Giuseppe Baiocchi del 23-02-2020

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Franz Josef Otto Robert Maria Anton Karl Max Heinrich Sixtus Xaver Felix Renatus Ludwig Gaetan Pius Ignatius (1912 - 2011), noto come Otto d’Asburgo ha sicuramente ricoperto nella storia del secondo dopoguerra un ruolo di spicco all’interno della politica europea.
Il giovane Otto in uniforme imperiale e regia da ufficiale.
Capo della Casa d’Asburgo dal 1922 al 2007, anno in cui abdicò in favore del figlio Karl Thomas Robert Maria Franziskus Georg Bahnam von Habsburg-Lothringen (1961), fu il primogenito maschio dell’imperatore austriaco e re d’Ungheria Karl I (1887 - 1922) e di sua moglie Zita di Borbone-Parma (1892 - 1989). L’educazione dell’arciduca Otto, nonostante le ristrettezze economiche dettate dall’esilio, non sarà trascurata. L’erede, di una delle più importanti famiglie europee, fu seguito dal precettore conte Henri de Degenfeld, che lo avvia verso un’istruzione portata avanti anche da ex-ministri e direttori della Monarchia Duale, i quali avranno il gravoso compito di elevarlo verso un livello d’istruzione corrispondente al diploma superiore. Coerente con la tradizione asburgica sviluppa, come il padre, un alto senso di responsabilità, che successivamente gli tornerà utile in vista delle sue battaglie politiche.
Ma come poteva essere la giornata di un arciduca? Sicuramente molto dura: ci si alzava alle 06:30 di mattina, seguiva la Santa messa, la prima colazione, una breve pausa e successivamente si praticava equitazione o scherma, secondo le tradizioni di famiglia. Dunque lezioni e compiti, fino a colazione, poi Ottone poteva avere una ricreazione per riprendere i suoi studi fino al pranzo serale. Incredibile ci appare oggi, anche la conoscenza delle lingue europee: oltre il francese e l’inglese, il tedesco e l’ungherese, si esprimeva correttamente in italiano, spagnolo, ceco, croato e serbo.
La famiglia gli insegna presto che ogni sua azione è sempre sotto «gli occhi di Dio», istruendolo verso i temi della tradizione cristiana.
Oltre al rigore, degno di un Imperatore, la sua infanzia doveva toccare anche la problematica delle ristrettezze economiche, dettate dalla condizione, sempre instabile, della famiglia soprattutto dopo la morte del padre nel 1922 nell’esilio portoghese di Madeira. Accade anche che Otto non possa uscire di casa per diversi giorni finché il calzolaio del villaggio spagnolo non gli ripari il suo unico paio di scarpe, o che il ragazzo veda piangere una delle dame di compagnia della madre Zita, perché non vi erano i soldi per la spesa. La famiglia imperiale, in esilio, sarà prima ospitata da Alfonso XIII de Borbón (1886 - 1941) che li trattò da vero signore e galantuomo dal 1922 al 1929, successivamente si trasferirono in Belgio in uno château vicino Louvain, dove l’arciduca ereditario d’Austria poté frequentare l’università nella medesima città. La madre nel suo primo giorno universitario gli disse: «È una gran cosa essere fino a questo punto nelle mani di Dio». Alcuni amici della famiglia imperiale, gli offrirono un’auto per spostarsi e all’età di 23 anni conseguirà il dottorato in scienze politiche sociali, bruciando i tempi: siamo agli inizi degli anni trenta.
Una generazione di ex sudditi imperiali lo guardava, nonostante l'esilio, come punto di riferimento per un’eventuale restaurazione e in alternativa come leader politico. Uno di questi era lo scrittore Joseph Roth (1894 - 1939), afflitto dalla piaga dell’alcolismo. Alcuni suoi amici conoscendo l’infatuazione dello scrittore per gli Asburgo, ebbero l’idea di chiedere all’arciduca di intervenire. Il giovane, dopo aver convocato lo scrittore galiziano asserì: «Roth, in qualità di vostro imperatore, io vi ordino di smettere di bere». Roth, già ex soldato dell’Imperiale e regio esercito, in piedi sull’attenti, rispose una decisa esclamazione affermativa, prima di lasciare la stanza.
Nel frattempo la Repubblica d’Austria, nel 1933, con il cancelliere austro-fascista Engelbert Dollfuss (1892 - 1934) – per scongiurare la presa del partito nazionalsocialista hitleriano in Austria –, rafforza il suo potere politico: viene sospeso il regime parlamentare creando un sistema corporativistico fascista a partito unico, con il Fronte Patriottico. L’arciduca Otto è inquieto per gli avvenimenti e riceve molti attestati di stima e sostegno da numerosi austriaci, sotto l’ala del cugino, il principe Maximilian Fürst von Hohenberg (1902 - 1962), figlio dell’arciduca assassinato a Sarajevo nel 1914, Franz Ferdinand.
Tutto precipita un anno dopo, quando nel 1934 Dollfuss viene assassinato il 25 luglio a Vienna, durante un tentativo di Colpo di Stato nazionalsocialista. Sarà in tale periodo che avviene un evento alquanto particolare e portentoso, a simbolo dell’attaccamento della popolazione austriaca nei confronti della casata degli Asburgo: il 26 agosto il piccolo borgo di Kopfstetten ha il coraggio di nominare l’arciduca Otto, cittadino onorario – ricordando come l’Asburgo fosse apolide in quel periodo. Da due anni, 269 comuni avevano già compiuto questo gesto di sfida di fronte alla minaccia di Adolf Hitler che amava affermare: «L’Austria? Sono cinque Asburgo e cento ebrei».
Riconoscente, il giovane rampollo pretendente al Trono, invia dal suo esilio belga una lettera aperta al sindaco di Kopfstetten, proprio l’ultima cittadina – come ci ricorda Zweig ne “Il Mondo di ieri” – da dove la famiglia imperiale aveva lasciato l’Austria: «Gli adii di Kopfstetten sono incisi per sempre nella mia memoria, anche se allora ero molto piccolo. Non dimenticherò mai l’angoscia che percepivo sul viso dei miei genitori nell’atto di separarsi da un popolo al quale avevano dedicato tutto se stessi […] Mi sembra sempre di sentire mio padre, l’Imperatore Karl, gridare “Arrivederci!” ai soldati che erano venuti alla stazione per portargli l’ultimo saluto. Purtroppo non ha più rivisto la sua patria, questo Re della pace! E per quanto mi riguarda, con questa lettera conto di trovarmi già tra voi. So che i vostri cuori sono tutti in festa pronti ad accogliermi.. e per questo vi dico cordialmente a presto»!
Successore di Dollfuss, il cancelliere Kurt Alois von Schuschnigg (1897 - 1977), da lui designato, nel 1935 riesce a far adottare dal parlamento alcune misure favorevoli alla dinastia il cui soggiorno in Austria era vietato. I decreti anti-Asburgo del 1919 sono parzialmente aboliti e due Burg, così come cinque case a Vienna, gli sono restituite. Possiamo pensare che Otto potesse cogliere il momento storico per una restaurazione nero-oro in Austria? Il cancelliere, viste le pressioni politiche si reca da Otto e nelle sue memorie scriverà: «dal pretendente al trono si diffondeva l’immagine di una personalità molto simpatica, cosciente delle sue responsabilità, sobrio nei modi, dotato di una intelligenza aperta, affinata dalle molteplici conoscenze e da una estrema gentilezza, una persona che sopportava a stento il suo destino di esiliato, con un impero giovanile che lo portava a non vedere gli effetti prospettici dovuti alla lontananza». Ancora tentativi, come quello avvenuto sempre tra il cancelliere, in lotta con l’estrema destra e l’estrema sinistra, e il capo del governo francese Pierre Laval (1883 - 1945). Ancora von Schuschnigg annoterà: «L’Austria e gli Asburgo sono concetti che, storicamente parlando, sono inseparabili come quello di Vienna dall’Austria o quello della Francia dai Borboni». Otto rappresentava l’uomo della tradizione e del legante culturale austriaco, colui che potrebbe garantire l’indipendenza d’Austria, nei confronti della Germania. Inoltre Otto d’Asburgo fu uno dei leader del tempo a opporsi nettamente alle lusinghe di Hitler, il quale prometteva all’interno del Mein Kampf, la restaurazione della monarchia asburgica in cambio del sostegno al nazionalsocialismo austriaco. La risposta di Otto mostra grande coraggio, quando senza ambiguità risponde su di una testata giornalistica: «Hitler è il solo uomo con cui ho sempre rifiutato di avere la benché minima relazione». Otto fin dall’inizio fu convinto, leggendo attentamente la sua opera, che il leader del partito nazionalsocialista voleva la guerra.
Intanto gli avvenimenti precipitano: nel 1936, in segno di riconoscenza verso il Führer per non essersi opposto alla campagna d’Etiopia del regime fascista (1935), Benito Mussolini ritira il suo appoggio al governo austriaco come “protettore dell’Austria” ritirando le truppe del Regio-esercito dal Brennero. Al fine di mantenere l’indipendenza, il cancelliere Schuschnigg è costretto a firmare un accordo con Hitler nel quale quest’ultimo prometteva di non invadere l’Austria in cambio della partecipazione dei “nazisti moderati” al governo di Vienna: ancora un’ultima illusione. È da affermare, di contro, che quasi la metà del Paese voleva ed ambiva all’annessione alla Germania, per ricreare quello che fu Il Sacro Romano Impero a lingua unicamente tedesca, dunque pangermanista.
Addirittura anche i socialisti austriaci erano impegnati a sostenere l’Anschluss e così il 12 marzo del 1938, avveniva quello che passerà alla storia come Delenda Austria: la nazione veniva inglobata al Reich tedesco, con i blindati della Wehrmacht che supereranno la frontiera della Repubblica austriaca, senza incontrare resistenza dall’esercito. L’Austria si trasformava nella Ostmark (La Marca dell’Est), una provincia del Grande Reich.
L’avversione di Otto al nazismo, fin dagli albori, lo pose come l’acerrimo nemico di Hitler, per quanto riguardava le posizioni del Führer sull’istituzione monarchica. È tristemente famosa la frase del nome in codice dell’Anschluss “Operazione Otto” e altrettanto forti furono le frasi di Hitler sprezzante sul passato dell’Austria-Ungheria, che definiva “impero meticcio”. Ancora due inviti da parte del cancelliere tedesco vengono rifiutate nettamente da Otto. Una posizione diversa, rispetto a quella presa dagli Hohenzollern, specialmente dal Kronprinz August Wilhelm Heinrich Günther Viktor Hohenzollern (1887 – 1949, il primogenito del Kaiser Guglielmo II) il quale aveva pubblicamente appoggiato Hitler durante la campagna elettorale, per avere in cambio una restaurazione della propria famiglia. L’arciduca ricorderà come una volta incontratosi con il principe prussiano, questi si presentò in camicia bruna delle SA, mettendolo «a forte disagio». Come in altri casi politici, Hitler sfruttò il nome della Casa reale per prendere voti, poi una volta al potere, scaricò gli Hohenzollern, non restituendo alcun “Trono e Altare”.
Una settimana dopo l’annessione dell’Austria, il giorno di compleanno del Führer, il Ministro austriaco della Giustizia emette un mandato d’arresto contro Otto d’Asburgo e si legge nella nota «alto tradimento», poiché domandò aiuto alle Potenze straniere per impedire l’annessione. La stampa di lingua tedesca è dura, additandolo come «un reietto degenerato degli Asburgo» e un «criminale in fuga»: inizia la caccia all’uomo, che terminerà solo con la fine della seconda guerra mondiale. Il primo tentativo di rapimento da parte nazista, avviene nel 1939, quando un commando della Gestapo tenta di rapirlo: a Parigi, Otto soggiorna in un hotel di boulevard Raspail e, dopo l’armistizio del 1940, esso figura nella lista dei 76 nomi stabilita dall’alto comando come “elementi pericolosi e sovversivi”. Le autorità francesi hanno ordine espresso di arrestare tali individui; addirittura Walter Richard Rudolf Hess (1894 - 1987) voleva assassinarlo immediatamente dopo l’arresto avvenuto. L’arciduca si trovava in una situazione di immenso pericolo: la sera del 9 giugno 1940, quando il governo francese era già stato trasferito a Bordeaux, Otto è invitato ad un pranzo al Ritz da un ex ambasciatore americano presso il re dei belgi, per le 20:30. Una cena alquanto surreale se si pensa che cinque giorni dopo le truppe tedesche entravano trionfalmente a Parigi. La città è un deserto e gli uomini possono sentire il rumore dei loro passi che risuono nella sottostante piazza: «Eravamo i soli ospiti dell’albergo. Era incredibile quando ci penso… […] La cena era stata servita secondo le regole dell’albergo da camerati in frac come se niente fosse. La cena fu sontuosa, la discussione entusiasmante». Curioso che il libro degli ospiti del Grand Hotel veda, dopo la firma dell’arciduca, quella del feldmaresciallo Erwin Johannes Eugen Rommel (1891 - 1944), avvenuta pochi giorni dopo; qualche anno più tardi Otto d’Asburgo affermerà «di sicuro il mio nome non gli sarà sfuggito»! Il giorno dopo egli partirà per la Spagna ed il Portogallo, aiutando anche un centinaio di compatrioti austriaci alla frontiera con la Spagna franchista. A breve approda negli Stati Uniti, dove a Washington, convince l’amministrazione Roosevelt a dichiarare il 25 luglio “l’Austrian Day” e pubblica articoli per la rivista “The Voice of Austria”.
Il prestigio della sua figura è tale che viene ricevuto anche presso la Casa Bianca dal presidente e sua moglie, incontrerà banchieri e industriali. Le sue conferenze affascinano il pubblico americano: le sue esposizioni sono chiare e precise, per un pubblico che conosce a malapena la Mitteleuropa. Sarà anche grazie al lavoro di Otto d’Asburgo, che alla conferenza dei ministri degli affari esteri che si era tenuta a Mosca il 19 ottobre 1943, gli alleati dichiararono che a conclusione del conflitto l’Austria sarebbe dovuta essere libera e indipendente, annullando, de facto, l’Anschluss. Infaticabile difensore dell’identità dell’Austria Otto d’Asburgo lavorerà a Washington fino al 1944, mentre la sua famiglia si era trasferita in Québec. Il suo ruolo negli Stati Uniti diviene essenziale, poiché egli si sforzò di far capire l’importanza dell’equilibrio geopolitico mitteleuropeo verso gli americani, ricordando loro molto spesso i gravi errori dei trattati post 1918, dove l’incoscienza, l’ignoranza e il disprezzo avevano regnato sovrane sui paesi sconfitti.
Scoperto ben presto il piano egemonico comunista di Stalin nei confronti dell’Austria, che prese il nome di “Morghenthau” (dal nome di un segretario di Stato americano al Tesoro che l’aveva elaborato), vi si oppose con grande energia. Tale programma prevedeva la divisione dell’Austria in due parti: Vienna sarebbe andata sotto il controllo dell’Unione Sovietica (come poi avverrà per circa dieci anni) insieme a metà del territorio austriaco. I negoziati, quando Otto ne viene a conoscenza, sono già in uno stadio avanzato. Il presidente americano riferisce all’arciduca che è possibile ancora rivedere tale piano a condizione che lo richieda il Primo Ministro britannico, un certo Winston Churchill. L’inglese decretò, con molta semplicità che «la strada per l’India, vitale per l’Inghilterra, passava per Vienna e che quindi bisognava modificare il piano d’occupazione dell’Austria». Un lavoro oscuro e silenzioso quello dell’arciduca: se il piano Morgenthau fosse stato applicato l’Austria sarebbe scomparsa. L’armata Rossa entra in Vienna il 12 aprile 1945, presentandosi come “liberatrice” e facendo temere un trionfo bolscevico alle elezioni. Stalin ordinerà l’edificazione di un monumento alla loro gloria in piazza Schwarzenberg, ancora presente, inquadrato oggi da una fontana.
Memoriale sovietico di guerra a Schwarzenbergplatz, Vienna.
L’Austria viene così “salvata” in quattro zone e non data interamente ai sovietici. La zona britannica controlla la Stiria, la Carinzia e il Tirolo orientale; la zona francese occupa il Tirolo settentrionale e il Vorarlberg; la porzione americana la parte sud dell’Alta Austria e Salisburgo; infine la Russia la Bassa Austria, il Burgenland e la parte dell’Alta Austria. Vienna stessa è scorporata in ben cinque zone, dove nel primo distretto era presente la sede amministrativa delle quattro potenze di occupazione e la capitale divenne dal 1948 il crocevia della guerra fredda.
L’esilio per Otto d’Asburgo sembra finire e dopo 25 anni può tornare nella sua terra (1945 - 1946): altra speranza effimera dopo tanti sforzi. Su richiesta del governo austriaco, gli Alleati ristabiliscono le leggi anti-Asburgo del 1919. L’accanimento ingiustificato porta la firma del presidente repubblicano Karl Renner (1870 - 1950), colui che nel 1938 aveva approvato l’annessione dell’Austria da parte di Hitler. La famiglia è costretta a ripartire per l’esilio, mentre l’Europa andava trasformandosi in quel “campo di battaglia” tra le due ideologie imperialiste che si affrontavano. L’arciduca risiede in Francia, ma viaggia spesso come conferenziere. Per lui, l’evento più importante nell’immediato dopoguerra è il matrimonio: a 39 anni nel 1951, sposerà a Nancy, antica capitale del ducato della Lorena, la regina ventiseienne di Sassonia-Meiningen.
L’atmosfera è particolare: oltre alle 80.000 persone presenti, è presente una scorta di soldati in uniforme ungherese e diversi dignitari sfilano con le uniformi dell’antico Impero. I due si conobbero nel 1950, dopo lo scoppio della guerra di Corea. I campi dei rifugiati ungheresi in Germania erano scossi dalla paura del vicino confine sovietico: «È così che ho incontrato la mia futura sposa. Lei cooperava con la caritas che si occupava degli ungheresi con i quali ne condivideva la sorte. I beni della sua famiglia che si trovavano in zona di occupazione sovietica, quella che sarebbe poi diventata la “Repubblica democratica tedesca”, erano stati confiscati integralmente. Questa giovane donna coraggiosa, esiliata come lo ero io e proveniente da una famiglia provata dalla sorte, mi ha subito attirato».
Dopo il matrimonio la coppia si trasferisce in Baviera, nella confortevole villa di Pöcking sul lago di Starnberg a sud di Monaco, romanticamente lo stesso luogo dove trovò la morte Ludwig II il 13 giugno del 1886. Le nascite si susseguono: Andrea (1953), le gemelle Monika e Michaela (1954), Gabriella (1956), Walburga (1958), Karl (l’erede tanto atteso nel 1961) e Georg (1964). Sulla moglie l’arciduca asserirà: «La favola non è mai terminata. Abbiamo avuto sette figli, cinque bambine e due bambini. Penso che le famiglie numerose siano una buona cosa, sia per i bambini come per il Paese».
Dopo la liberazione da parte sovietica dell’Austria nel 1955 (Trattato di Belvedere), Otto ottiene nuovamente la nazionalità austriaca, senza il permesso di tornare sul suolo natio. Nel 1957 Otto dichiara di riconoscere apertamente la Repubblica d’Austria, ma ancora i socialisti si oppongo forzatamente al suo rientro. Ancora il 31 maggio del 1962, egli rinuncia “in conformità all’articolo 2 della legge del 3 aprile 1919 al suo ruolo di membro del casato degli Asburgo-Lorena e alle rivendicazioni di sovranità che ne derivano. Nonostante i suoi gesti di distensione, il “dottor Asburgo” fa ancora paura in Austria. Solo nel 1966, il 31 ottobre, potrà rimettere piede su suolo austriaco, ma continuerà sempre a risiedere in Baviera, ottenendo anche la cittadinanza tedesca nell’aprile de 1978: tale operazione gli permetterà di candidarsi alle elezioni del parlamento europeo del 1979. Il ministro presidente della Bassa Austria accetterà la doppia cittadinanza – vietata in Austria – poiché il dottor Asburgo-Lorena ha merito di aver fatto «ricomparire sulle carte geografiche del mondo l’Austria, dopo la seconda guerra mondiale».
La vigilia del matrimonio una cena di gala si svolge all’hotel Excelsior. Otto indossa il collare dell’ordine del Toson d’Oro di cui è Gran Maestro; la regina esibisce un cerchietto di diamanti che apparteneva alla duchessa Maria Giuseppe, nonna del marito. A sua nuora Zita consegna le insegne in diamanti dell’ordine della Croce stellata che lei portava il giorno del suo matrimonio con Karl – onorificenza femminile in cui la sposa del capo del casato d’Austria è detentrice da quasi due secoli.
Otto viaggia in molti Paesi d’Europa per cooperare politicamente alla sua ricostruzione: famosa la conferenza del 28 marzo 1968 al gran teatro di Le Mans, avente titolo “Austria tra est e ovest” organizzata dall’Accademia du Maine diretta da Guy des Cars. Recentemente, teneva ancora una conferenza “a braccio” al Circolo dell’Unione interalleata con “L’Europa degli anni 2000”, seducendo il numerosissimo pubblico presente. Possiamo capire come egli potesse essere ascoltato anche dai politici di primissima classe, in occasione della guerra di Jugoslavia (1991 - 2001). La famiglia Asburgo, perso il potere temporale, dopo essere sopravvissuta a tante rivoluzioni, persecuzioni e guerre, oggi si impegna con costanza – seguendo l’esempio di Otto – in numerose attività diplomatiche, caritative, amministrative e culturali, sempre in segno dei valori dell’Unità Europea. Certamente nel segno di un Vecchio Continente non asservito dall’attuale tecnocrazia economica e politica: Otto si sorprese nel vedere sulle banconote europee nessun personaggio storico celebre per il nostro continente, né nell’aver denotato alcun elemento del patrimonio artistico, architettonico, spirituale, scientifico e industriale, ma vuoti archi astratti che non conservano in sé nessun valore. La soppressione delle feste cristiane, figlio di un pretenzioso calendario europeo comparso nel 2011 rammaricò molto l’arciduca, che da sempre si era battuto per altri valori. Il complotto per far dimenticare le radici e l’identità “dell’Europa dei popoli”, oggi è ancora in atto. Un vero e proprio lavaggio della coscienza europeo. Come afferma anche il dott. Federico Nicolaci nei suoi studi: «Lo stupore con cui l’Europa scopre oggi di essere una “tecnocrazia senza radici” (Habermad 2014, p.21) e una costruzione “fondamentalmente vuota” (Judt 1996), come la crisi dei debiti sovrani e la conflittualità intra-europea che da essi si è sprigionata dimostrano chiaramente, ricorda lo stupore del miope, giacché tale esito non è accidentale, ma è il risultato ultimo di un parossistico rafforzamento dell'approccio funzionalistico e tecnocratico all'integrazione europea. Un'auto-comprensione altamente impoverita dell'Europa ha reso possibile che venissero abbracciati quegli stessi processi di spoliticizzazione che sono oggi la causa della sua disintegrazione politica e culturale. È evidente, infatti, che un'Europa unita e legittimata solo dai benefici materiali (dispensati da una “polity” sovranazionale sottratta in linea di principio, e nel caso della BCE de iure, all'influenza politica democratica) è un'Europa profondamente instabile, essenzialmente disunita: quando tali benefici si rivoltano in svantaggi, come sta accadendo con la crisi dell'Euro, nessuna “energia” rimane ad arginare le forze centrifughe e disintegranti. Un’unione dei progetti è un tempio completamente vuoto, inanimato, e nella misura in cui l’Europa pensa di sé semplicemente in termini pragmatico-funzionali, allora essa pronuncia volontariamente la propria condanna».
Ancora, proseguendo con le problematiche europee, ci sono voluti ben 92 anni per pagare i 269 miliardi di Reichmarks, ossia i 200 milioni di euro, dovuti alle riparazioni di guerra della Germania, estrapolate nel trattato di Versailles, saldato solo il 3 ottobre 2010. Il ritorno dell’Imperatrice Zita, con i suoi funerali di Stato in Austria sono stati oggetto di ampie discussioni da parte dell’opinione pubblica europea. Meno contestata, la beatificazione dell’Imperatore Karl I, avvenuta il 3 ottobre del 2004, per mano di Papa Giovanni Paolo II, che permise l’esposizione del ritratto del beato Imperatore sulle finestre di città del Vaticano, ricordate anche da Otto, il quale lascia un grande vuoto politico il 14 luglio del 2011 alla veneranda età di 99 anni, presso il suo domicilio di Pöcking in Baviera. L’arciduca si era molto indebolito, dopo essere caduto da una scalinata e soprattutto dopo la perdita della sua amata moglie un anno e mezzo prima. Lascia i famigliari in punta di piedi, addormentandosi nel sonno, con stile, così come aveva vissuto senza mai alzare la voce, per tutta la sua vita.
Otto in età avanzata.
I suoi funerali solenni a Vienna il 1°agosto sono stati accompagnati da 1 milione di austriaci (in un paese di 8,3 milioni di abitanti), ma anche da ungheresi, ruteni, galiziani, croati, italiani, boemi: il vecchio Impero scomparso, si riuniva per l’ultima volta. Nella cattedrale di Santo Stefano, la cerimonia si è svolta in presenza di numerosi monarchi e principi europei, del bel mondo, ma l’evento solenne ha visto anche alte personalità della politica europea e personaggi di rilievo religioso. Presenti tutti i cavalieri dell’Ordine del Toson D’Oro, ordine di cui l’Arciduca era stato Gran Maestro in Austria ed erano presenti anche un nutrito gruppo di quattrocento Kaiserjäger in gran tenuta tirolese, simbolo dell’attaccamento dell’ex contea del Tirolo all’erede al Trono. La televisione pubblica ORF ha trasmesso le esequie in diretta con diversi reportage storici e attuali, fino alla storica cerimonia di sepoltura presso la Cripta dei Cappuccini, che si apprestava ad accogliere ancora una volta “un semplice peccatore”.
 
Per approfondimenti
_Marie-Madaleine Martin, Othon de Habsbourg – prince d’occident, edizione Du Conquistador, 1959;
_Jean Des Cars, La storia degli Asburgo, Udine, Nuova editrice goriziana, 2018;
_Flavia Foradini, Otto d’Asburgo. L’ultimo atto di una dinastia, Trieste, Mgs Press, 2004.
 
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