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di Davide Bartoccini 15/09/2017

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Quando capirà il mondo che nulla è sostenibile nel futuro se non si vuole cambiare davvero rotta alla base?
Viviamo costretti in un limbo di rimorso latente e perenne sotto l’indice mai pago dell’utopia del sostenibile. Dubbiosi se sia giusto acquistare quel succulento filetto di manzo argentino mentre riflettiamo sulle flatulenze che secondo alcuni sono la prima causa d’ingrandimento del Buco dell’Ozono; in delirio da stress davanti ai quattro secchielli colorati imposti dal comune per la ‘differenziata’ - con la paura di commettere lo sbaglio irrimediabile e il terrore che il portiere faccia la spia; praticamente fermi a trenta chilometri orari, in ritardo cronico su macchinine elettriche uscite direttamente da Paperopoli per andare in centro quando c’è il blocco del traffico per la ‘Domenica Ecologica’.
Siamo noi a volerlo davvero? No. È il rimorso che ci fa sentire in dovere di farlo. E la ragione è sempre la stessa: il sogno di un mondo migliore.
Riempirsi la bocca di buoni auspici e rosee prospettive è da decenni hobby preferito di tutto quell’entourage rampante, elitario, e rivoluzionario di post-capitalisti redenti con il pallino per la green economy e commercio equo e solidale che picchettano al grido di : “Salviamo il mondo riciclando le bottiglie di plastica finiscono nell’Oceano in scarpe da ginnastica per le nostre maratone ecologiche, che butteremo nella differenziata”. 
Tutto molto freak. Tutto molto bello. Tutto molto dolce.. e onanistico, e sterile, e fine a se stesso. La popolazione mondiale - che secondo il World Population Clock dello United States Census ammonta a 7,477220 miliardi - da sempre bilanciata nei grandi numeri da guerre, epidemie e stermini, vive nei falsi miti di progresso che auspicano e promettono il giorno in cui pace e prosperità regneranno indisturbate sul tutt'uno sociale, che soave e solidale, si moltiplicherà a dismisura senza tenere conto, nel futuro come nel presente, del collasso del sistema.
Una contraddizione in termini ahimè, che non tiene conto delle capacità già allo stremo di un pianeta, il quale non può più sopportare - in alcuno modo - la presenza ulteriore della piaga biblica dell'essere umano consumista: colui che più del petrolio (in esaurimento) è carburante per il capitale (sempre attivo nel soggiogare nuove tipologie di schiavi).
La mancanza di equilibrio logico nella stragrande maggioranza nell’ideale del sostenibile - estirpata pure la pigrizia figlia dell’egoismo o della disillusione dell’essere - è proprio quella del ‘numero’: come non arrivare al risultato della più prosperità tradotta in più consumismo? Quest'ultimo si materializzerebbe in più emissioni nocive, come fabbriche, allevamenti, automezzi e nella produzione di più rifiuti, i quali sono già ovunque ed infestano il mondo senza posa e senza soluzione.
Se si tiene conto di una vecchia stima fatta da Ericsson, nel mondo ci dovrebbero essere all’incirca 5 miliardi di telefoni cellulari, che negli Stati Uniti vengono sostituiti dal 44% di chi ne possiede ogni 2 anni. Quanti ne verranno gettati ogni anno nel 2050, quando secondo le stime saremo 9,7 miliardi? E quante auto verranno accese con connesse emissioni? Quante accartocciate e stipate in discariche a cielo aperto? Quanti chilogrammi di carne proveniente da allevamenti intensivi per garantire ad un nucleo familiare occidentale il fabbisogno minimo? Quante flatulenze in aumento dunque? Con che conseguenze?
Nel mondo del restyling cronico che induce il consumatore ad avere sempre l’ultima novità, ogni anno, ovunque, si getta il vecchio per il nuovo senza aver ancora trovato una soluzione adeguata allo smaltimento dei rifiuti (oltre 4 miliardi di tonnellate di rifiuti ogni anni). Nel mondo della bugia del progresso, ogni anno il 71% della popolazione mondiale continua a vivere sotto la soglia di povertà senza alcuna speranza di miglioramento a breve termine. Nel mondo reale per ogni piccola sensazionalistica crociata sulla sostenibilità del riciclo dei boiler dell’acqua o delle scarpe passate di moda sponsorizzata da una comunità di vegani molisani, il presidente di una super potenza mondiale non ratifica l’accordo sulle emissioni globali per favorire la propria industria pesante e sopperire alle richieste del consumo e ai prezzi del mercato (se non si vuole tenere conto dei paesi che producono al di fuori dei controlli e da sempre ne sono estranei).
Insomma.. Io potrei continuare per molti più caratteri di quanti ne abbia a disposizione in questa pagina: nel Mondo reale, la verità, è che la vera sostenibilità si può ottenere solo con la riduzione della popolazione. Piaccia o no ai fanatici terrorizzati per il calo demografico.
 
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

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di Miriana Fazi 20/05/2017

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Nel dopoguerra, il governo del nuovo stato israeliano, si trovò di fronte ad un dilemma: la Procura Federale dell’Assia chiese l’estradizione del colonnello delle Schutzstaffel (SS) Otto Adolf Eichmann; tuttavia le prospettive di un processo tedesco non si profilavano verosimili. D’altro canto, l’opinione pubblica della divisa Germania sembrava poco incline a rimarcare l’infausta responsabilità connessa alle atrocità naziste. I tempi non erano ancora maturi per un mea culpa collettivo. Si correva così il rischio di dar luogo a un processo, che avrebbe finito per spaccare il Paese e rianimare vecchi conflitti, prospettando un secondo problema, in vista di tale processo: la condanna sarebbe potuta non arrivare o mostrarsi particolarmente lieve rispetto alle aspettative del Governo Israeliano.
[caption id="attachment_8755" align="aligncenter" width="1000"] Otto Adolf Eichmann (Solingen, 19 marzo 1906 – Ramla, 31 maggio 1962) è stato un paramilitare e funzionario tedesco, considerato uno dei maggiori responsabili operativi dello sterminio degli ebrei nella Germania nazista.[/caption]
Nel 1961, la filosofa Hannah Arendt segue le centoventi sedute processuali, inviata dal settimanale statunitense New Yorker a Gerusalemme. Il tedesco Otto Adolf Eichmann, classe 1906, è stato responsabile della sezione IV-B-4, ovvero l'apparato competente sugli affari ebraici, dell'ufficio centrale per la sicurezza del Reich (RSHA), organo nato dalla fusione - voluta da Himmler - del servizio di sicurezza delle SS con la polizia di sicurezza dello stato, unita alla polizia segreta o Gestapo.
Il nazista non era mai andato oltre il grado di tenente-colonnello, ma per l'ufficio ricoperto ha svolto una funzione di grande rilievo nella politica del regime nazionalsocialista: aveva coordinato - a livello europeo - l'organizzazione dei trasferimenti degli ebrei, verso i campi di concentramento e di sterminio. Rifugiatosi nel dopoguerra in Argentina, nel maggio 1960 viene catturato dagli agenti israeliani, i quali lo scortano sotto sequestro a Gerusalemme.
Processato da un tribunale israeliano, nella sua difesa tenne a precisare che, in fondo, si era occupato "soltanto di trasporti". Fu condannato a morte mediante impiccagione e la sentenza fu eseguita il 31 maggio del 1962. Il resoconto di quel processo e le considerazioni che lo concludevano furono pubblicate sulla rivista americana e successivamente furono riunite nel 1963 nel saggio "La banalità del male" (Eichmann a Gerusalemme).
In questo scritto la Arendt analizza come le modalità del pensiero umano, possano evitare azioni malvagie. La banalità del male ha accentuato la relazione fra la facoltà di pensare, la capacità di distinguere tra giusto e sbagliato, la facoltà di giudizio e le loro implicazioni morali, compiti che sono stati estremamente significativi nel lavoro della filosofa ebrea fin dai primi scritti della fine dell'anno 1940, sul fenomeno del totalitarismo.
La prima reazione è più che sinistra: lei sostenne che "le azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, ne demoniaco ne mostruoso". La percezione dell'autrice su Eichmann, sembra essere quella di un uomo comune, caratterizzato dalla sua superficialità e mediocrità che la lasciarono stupita nel considerare il male commesso da lui, che consiste, nell'organizzare la deportazione di milioni di ebrei nei campi di concentramento.
Ciò che la Arendt scorgeva in Eichmann non era neppure stupidità ma qualcosa di completamente negativo: l'incapacità di pensare. Il tedesco ha sempre agito all'interno dei ristretti limiti permessi dalle leggi e dagli ordini. Questi atteggiamenti sono la componente fondamentale di quella che può essere vista come una cieca obbedienza. Dunque se gli alti burocrati potevano apparire dei "mostri", egli in apparenza era persona comune, normale, ma nella sua vita regolare e monotona - nell'eseguire ordini -  i suoi atti erano terribili. In questa "mostruosa normalità" della burocrazia, capace di commettere la più grande atrocità che l'umanità avesse mai visto, la Arendt rintraccia la questione della "banalità del male". La "normalità" espressione di atteggiamenti comuni ripudiati dalla società - in questo caso i programmi della Germania nazista - trova il suo elemento all'interno del comportamento del cittadino comune, il quale non riflette sul contenuto delle regole, ma applica queste in maniera incondizionata. Il nazista ha introdotto il pericolo estremo della irriflessività. Può apparire incredibile che queste atrocità commesse, non arrecavano al carnefice nessun pentimento morale o ammissione di colpa, poiché le circostanze normali della quotidianità, rendevano le operazione routine da lavoro.
Dunque le analisi delle interrelazioni fra la facoltà di pensare, la capacità di distinguere tra giusto e sbagliato, la facoltà di giudizio, e le loro implicazioni morali rappresentano il nucleo tematico dell'opera. A questo proposito la Arendt si è chiesta se la facoltà di pensare, nella sua natura e nei suoi attributi intrinseci, coinvolge la possibilità di evitare di "fare il male".
La banalità del male non è sembrato incorniciare gli standard soliti di male, come patologia di condanna ideologica di chi lo compie: in questo senso la filosofa si domanda se la dimensione del male sono una condizione necessaria di "operare il male".  Si plasmava un nuovo fenomeno del male, le cui radici non sono state ancorate negli standard filosofici, morali, religiosi tradizionali, al meno si aprirà una prospettiva nuova sul comprensione del male.
La stessa, riprende la tematica nelle prime pagine dell'introduzione de "La Vita della Mente": assistendo al processo Eichmann la Arendt disse: " mi sono sentita scioccata perché tutto questo contraddice le nostre teorie sul male".
Un accenno alle sue tesi sulla banalità sono presenti ne "Le Origini di Totalitarismo" (1951), il suo primo saggio, nel quale sosteneva che l'aumento di totalitarismo, era dovuto all'esistenza di un nuovo genere di male, il male assoluto, che, "non poteva essere a lungo spiegato e capito con malvagie ragioni di egoismo, avidità, bramosia, risentimento, sete per potere, e codardia". Nasceva un "hostis generis humani", tradotto dal latino nemico del genere umano.
Come può dunque la capacità di pensare muoversi in modo da evitare il male? Per prima cosa - secondo la Arendt - gli standard etici e morali basati sulle abitudini e sulle usanze hanno dimostrato di poter essere cambiati da un nuovo insieme di regole di comportamento dettate dall'attuale società. La filosofa si interroga sul come sia possibile che pochi individui, non aderiscano al regime malgrado ogni coercizione. A tale domanda risponde in maniera semplice: i non partecipanti, chiamati irresponsabili dalla maggioranza, sono gli unici che osano essere "giudicati da loro stessi"; e sono capaci di farlo non perché posseggano un miglior sistema di valori o perché i vecchi standard di "giusto e sbagliato" siano fermamente radicati nella loro mente e nella loro coscienza, ma perché essi si domandano fino a che punto, un individuo può vivere in pace con sé stesso, dopo aver commesso certe azioni.
[caption id="attachment_8760" align="aligncenter" width="1000"] Hannah Arendt (Hannover, 14 ottobre 1906 – New York, 4 dicembre 1975) è stata una filosofa, storica e scrittrice tedesca naturalizzata statunitense. La privazione dei diritti civili e la persecuzione subite in Germania a partire dal 1933 a causa delle sue origini ebraiche, unitamente alla sua breve carcerazione, contribuirono a far maturare in lei la decisione di emigrare. Il regime nazista le ritirò la cittadinanza nel 1937; Hannah Arendt rimase quindi apolide fino al 1951, anno in cui ottenne la cittadinanza statunitense.[/caption]
La Arendt chiaramente presuppone alla facoltà del pensare questo tipo di giudizio. Questa presupposizione non necessita di una elevata intelligenza, ma semplicemente l'abitudine di vivere insieme, e in particolare con se stessi, il ché significa, essere occupato in un dialogo silenzioso tra l'io e l'io, che da Socrate è stato chiamato "pensare".
L'incapacità di pensare non è stupidità: può essere presente negli individui più intelligenti e la malvagità non è la sua causa, ma è necessaria per causare grande male. Dunque l'uso del pensiero previene il male. Una delle questioni principali consiste nel fatto che un'intera società può sottostare ad un totale cambiamento degli standard morali, senza che i suoi cittadini emettano alcun giudizio circa ciò che sta accadendo. La Arendt sceglie Socrate come suo modello di pensatore. Una maniera per prevenire il male è come detto sopra rintracciabile nel processo del pensare. Questo pensare per Socrate provoca essenzialmente la perplessità che ha il potere di dislocare gli individui dalle loro regole di comportamento.
La capacità di pensare, ha dunque la potenzialità di mettere l'uomo di fronte ad un quadro bianco annullando il bene o il male, ma semplicemente attivando in lui la condizione per stabilire un dialogo con se stesso e permettendogli dunque di deliberare un giudizio circa tali eventi. La Arendt sta cercando di evitare l'aderire degli uomini a ogni tipo di standard morale, sociale o legale senza esercitare la loro capacità di riflettere, basata sul dialogo con se stessi, circa il significato degli avvenimenti, ovvero la manifestazione del pensiero, il quale è capace di provocare perplessità e obbliga l'uomo a riflettere e a pronunziare un giudizio.
La banalità del male che appare attraverso Eichmann, rende evidente come il fenomeno del male può mostrare la sua faccia. In un trattato scritto per un dibattito su "Eichmann a Gerusalemme" nel Collegio Hofstra nel 1964, la Arendt ha affermato che "banalità" significa "senza radici", non radicato nei "motivi cattivi" o "impulso" o forza di "tentazione".
La Arendt asserisce inoltre: "la mia opinione è che il male non è mai 'radicale', ma soltanto estremo, e che non possegga né la profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare tutto il mondo perché cresce in superficie come un fungo. Esso sfida come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, andare a radici, ed nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua "banalità"... solo il bene ha profondità e può essere integrale."
Tornando al processo, archiviata l’ipotesi di matrice tedesca, venne considerata una seconda opzione per avviare il procedimento. Si pensò quindi alla convocazione di un tribunale internazionale ad hoc, che presupponesse l’utilizzo del c.d. Codice di Norimberga (un insieme di principi giuridici scritti e utilizzati per la prima volta nel 1945, ndr).
Un simile approccio, tuttavia, avrebbe comportato la violazione del principio di retroattività della norma penale sostanziale. Un ipotetico tertium genus da considerare, invece, sarebbe stato un processo tutto israeliano.
Al di là dei problemi, sorti dopo l’operazione del Mossad, si poneva una questione squisitamente giuridica: qual era la norma da applicare? Le possibilità facevano capo a tre modelli alternativi. In primo luogo si considerò un rito penale ordinario, che concedesse di processare Eichmann per omicidio plurimo. Tale ipotesi non fu accolta con favore, giacché sembrava svilire la carica simbolica e politica che quel processo sembrava essere destinato ad assumere.
Si considerò un’alternativa incentrata sul modello processuale italiano, mediante l’audizione di un Tribunale Militare. Eppure un impedimento intrinseco alla fattispecie impedì di procedere in tal guisa. Eichmann non era un militare: facendo parte delle SS, era considerato un paramilitare. Peraltro il concorso in omicidio - capo d’imputazione riferito ad Eichmann, era alquanto difficile da provare nel novero dei sei milioni di omicidi commessi.
Di fatto soltanto in un’occasione emerse la partecipazione diretta di Eichmann all’uccisione di un ebreo: si trattava di un ragazzino, sequestrato da Eichmann e ucciso da questi a bastonate, in concorso con la propria guardia del corpo. Pertanto, al fine di evitare un tortuoso processo penale ordinario, si decise di procedere ad una soluzione ibrida, destinata a diventare un precedente giuridico rivoluzionario.
Il paradosso consisteva nel fattore, che uno dei maggiori responsabili dei crimini nazisti della questione ebraica, infine sfociata nella "soluzione finale" rischiasse di avere una pena lieve, per i crimini contro l'umanità commessi.
Si decise di celebrare il processo a Gerusalemme, davanti ad un tribunale ordinario, ma applicando i capi d’ imputazione ricavati dall’esperienza del processo di Norimberga.
Il Parlamento d’Israele aveva infatti recepito i principi giuridici fondamentali, coniati per il processo di Norimberga con un’apposita legge ordinaria: “La legge sulla punizione dei Nazisti e dei loro collaboratori” del 1950.
La normativa introduceva il reato di “crimini contro il popolo ebraico”, una chiara interpretazione estensiva dei “crimini contro l’umanità” previsti dal Codice di Norimberga.
Tale disciplina adottata dal Tribunale distrettuale di Gerusalemme, costituì una potente arma contro la difesa di Eichmann. La legge infatti prevedeva un forte inasprimento delle pene e una fattispecie abbastanza aperta e idonea a condannare qualunque nazista, che fosse stato dotato di un incarico di responsabilità.
Di fatto, sul solco di tali premesse, Eichmann venne condannato dalla propria inappuntabile precisione. Avendo egli annotato ogni operazione con pedanteria maniacale, venne accertata la sua responsabilità solo in ordine all’eliminazione degli ebrei.
[caption id="attachment_8757" align="aligncenter" width="1000"] Col grado di SS-Obersturmbannführer era responsabile di una sezione del RSHA; esperto di questioni ebraiche, nel corso della cosiddetta soluzione finale organizzò il traffico ferroviario per il trasporto degli ebrei ai vari campi di concentramento. Criminale di guerra, sfuggito al processo di Norimberga, si rifugiò in Argentina, ma venne poi catturato dal Mossad, processato e condannato a morte in Israele per genocidio e crimini contro l'umanità.[/caption]
Per questa ragione Eichmann, pur volendo, non avrebbe potuto addurre a propria scusante il fatto di essere un criminale di guerra ordinario. L’ultimo barlume di speranza per Eichmann sarebbe potuto provenire dal fronte del diritto internazionale. Questo perché L’Argentina contestò aspramente l’operazione illegale condotta da Mossad.
Il Tribunale Internazionale delle Nazioni Unite, l’organismo arbitrale specializzato nella risoluzione delle controversie fra gli stati, riconobbe un risarcimento all’Argentina, ma allo stesso tempo decise di non ingerirsi nel Processo di Gerusalemme.
Eichmann venne quindi processato e condannato a morte in tempi relativamente brevi. Il processo in quanto tale, fu di risonanza mondiale, ma la questione giuridica che sorreggeva la sua impalcatura non venne risolta definitivamente con voci assonanti sul piano dottrinale.
Si creò in questo modo un precedente giuridico, che finì per riaprire vexatae questiones mai sopite: era legittima la deroga al principio di irretroattività della legge penale? Molti giuristi blasonati del calibro di Kelsen risposero negativamente. Anzitutto, in base al rilievo che all’epoca dei fatti non esisteva lo Stato di Israele, né di riflesso il Codice penale di Israele, in base al quale il nazista venne alfine condannato.
Secondo altra parte dei commentatori, in caso di gross violations di simile portata sarebbe stata legittima anche una deroga al principio di irretroattività della legge penale. La questione resta teoreticamente ancora aperta e irrisolta. Ai posteri l’ardua sentenza, dunque, con la consapevolezza che “il processo del secolo” si è consumato anche su un terreno di battaglie giuridiche, di cavilli e codici.
 
Per approfondimenti:
_Hannah Arendt, La banalità del male - Edizioni Feltrinelli
_Deborah E. Lipstadt, Il processo Eichmann - Edizioni Einaudi
 
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

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di Davide Bartoccini 14/05/2017

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«Caro Ferrari, lo metta sulle sue macchine da corsa. Le porterà fortuna». E’ il 17 giugno del 1923 , Enzo Ferrari ha 25 anni, è un giovane squattrinato con un passato infelice, ma ha appena vinto la prima competizione della sua vita: il Gran Premio del Circuito del Savio volando su di un’Alfa Romeno Rltf che porta il numero 28.
La contessa Paolina de Biancoli, assiste alla gara e ne rimane entusiasta, nota un’affinità, prova un nostalgico senso materno e gli porge un “cavallino rampante” nero dipinto su un pezzo di tela.
[caption id="attachment_8696" align="aligncenter" width="1000"] Enzo Anselmo Ferrari (Modena, 20 febbraio 1898 – Modena, 14 agosto 1988) è stato un imprenditore, dirigente sportivo e pilota automobilistico italiano, fondatore della omonima casa automobilistica, la cui sezione sportiva, la Scuderia Ferrari, conquistò in Formula 1, con lui ancora in vita, 9 campionati del mondo piloti e 8 campionati del mondo costruttori.[/caption]
La tela proviene da uno SPAD S.XIII, un biplano da caccia, quello ch’era di suo figlio, Francesco Baracca, l’asso degli assi. Lo aveva fatto dipingere sulla fusoliera alla sua quinta vittoria, quando divenne asso nel 1916 durante la Grande Guerra, volando per la 91^ Squadriglia, detta “Squadriglia degli Assi”, dove erano stati riuniti tutti i migliori piloti del Regio Esercito.
Francesco Baracca è stato il più importante pilota italiano del primo Novecento. Aviatore abile e coraggioso, idolo delle folle e sogno di moltissime donne, Baracca divenne presto un mito: "Quando volo, soprattutto quando sto duellando con il nemico, la mia mente è vuota, libera, non pensa. Agisco d'istinto, rovescio l'aereo, lo faccio scivolare d'ala, lo metto in vite, lo richiamo".
A Pinerolo, dal 1909 al 1910, Francesco Baracca frequenta la scuola di cavalleria presso il 2° Reggimento “Piemonte Reale” fondato nel 1692 dal duca di Savoia col motto “Venustus et Audax”. Si tratta di uno dei più prestigiosi reparti dell’esercito italiano e come stemma araldico porta il cavallino rampante argenteo su campo rosso, guardante a sinistra e con la coda abbassata. Francesco Baracca sceglie di adottare, apportando delle varianti, lo stesso stemma del “Piemonte Cavalleria” quale emblema personale per rivendicare le personali origini militari e l'amore per i cavalli. Il cavallino non appare sui primi aerei pilotati dall’Asso degli assi, ma solo a partire dal 1917 quando viene costituita la 91^ Squadriglia Aeroplani, reparto che avrà in dotazione i più recenti caccia forniti dall’alleato francese: il Nieuport 17 ed alcuni SPAD VII e XIII.
Sul lato destro della fusoliera di questi velivoli i piloti usano applicare le loro insegne personali e Baracca adotta come proprio questo cavallino rampante mutandolo da argenteo in nero per farlo spiccare maggiormente rispetto al colore della fusoliera. E’ ormai provato che il cavallino è sempre stato nero, però guardante verso destra, come è testimoniato da un pannello multistrato dipinto, esistente nelle collezioni, sicuramente antecedente la morte di Baracca.
Rientrato in Italia nel luglio del 1915, esegue voli di pattugliamento ed ottiene la prima vittoria il 7 aprile 1916 ai comandi di un Nieuport con il quale abbatte un Aviatik austriaco. Per le sue azioni di guerra, riceve una medaglia di bronzo, tre d’argento, la croce di cavaliere dell’ordine militare di Savoia, la croce di cavaliere ufficiale della Corona Belga, ed infine la medaglia d’oro, con la quale viene premiato per l’abbattimento del trentesimo aereo nemico sul monte Kaberlaba, sull’altopiano di Asiago.
[caption id="attachment_8702" align="aligncenter" width="1000"] Francesco Baracca (Lugo, 9 maggio 1888 – Nervesa della Battaglia, 19 giugno 1918) è stato il principale asso dell'aviazione italiana e medaglia d'oro al valor militare nella prima guerra mondiale, durante la quale gli vengono attribuite trentaquattro vittorie aeree.[/caption]
Purtroppo, il 19 giugno del 1918, rimase ucciso durante una missione di mitragliamento a bassa quota delle trincee austro-ungariche nei pressi di Montello, lungo la linea del Piave, forse da un cecchino, forse da se stesso, con un colpo di rivoltella alla tempia, come era abitudine dei piloti da caccia per non morire bruciati nei loro aerei una volta abbattuti. Aveva 30 anni.
Tornando al giovane Ferrari, questi accettò, anche non sapendo ancora bene come impiegare il cimelio. A quel tempo correva come gentleman-driver, e guidava le Alfa Romeo, che uno stemma già lo avevano.
Questo non lo dissuase però. L’anno seguente fondò una società con lo scopo di comperare automobili da competizioni Alfa, modificarle e competervi nel calendario nazionale delle gare sportive. Il 9 luglio del 1932 il cavallino rampante trovò nuovamente il suo posto, sfrecciando alla 24 ore di Spa-Francorchamps su un fondo giallo – colore modificato dall’originale bianco in onore della sua città natale: Modena. Ferrari fonderà su di esso il suo emblema.
La conoscenza dei telai automobilistici e il suo sconfinato amore per le auto da corsa porteranno alla nascita la ”Scuderia Ferrari” solo nel 1947 – ormai spostasi a Maranello per paura dei bombardamenti – dando inizio ad una leggenda dell’automobilismo.
La scuderia competé al Gran Premio di Monaco nel 1950 e al primo Gran Premio di F1 l’anno seguente. Il resto è storia che conoscerete meglio di me.
Riguardo all’origine dello stemma, che Baracca scelse, e che oggi grazie a Ferrari tutto il mondo conosce e ci invidia, ci sono due ipotesi. La prima che sia una stilizzazione dello stemma del 2′ Reggimento Cavalleria “Piemonte Reale”, al quale Baracca apparteneva. A quel tempo infatti i primi aviatori, come i primi carristi, erano inquadrati nella cavalleria. La seconda invece sarebbe riconducibile alla cavalleria nella pura accezione del virtuosismo del termine. I primi aviatori divenivano assi al quinto avversario abbattuto, e come segno di rispetto per onorare l’avversario dipingevano l’insegna dell’ultimo sul proprio aereo. L’ultimo avversario di Baracca fu un Albratros B.II e le origini di Stoccarda del suo pilota avrebbero motivato l’utilizzo del simbolo della città: la giumenta. Questo ricondurrebbe anche alle iniziali presenti sotto il cavallino S. F. Stuttgart Ferrari.
Come molti grandi legati a doppio filo dalla storia, Francesco Baracca ed Enzo Ferrari non si sono mai conosciuti. Chissà se avrebbero legato. Eppure qualcosa in comune lo avevano: con le macchine inventate dall’uomo “volavano” forte, abbastanza forte da rendere tutta la nazione, che in tempi non sospetti si chiamava patria, fiera di loro, per sempre.
 
 Note: si ringrazia il giornale online "Storie di Guerra"
 
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di Liliane Jessica Tami del 27/04/2017

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Di origini modeste Bessie Wallis Warfield, viene al mondo negli Stati Uniti il 19 giugno 1896, presto orfana di padre e con la madre costretta a crescere la figlia contando sugli introiti che le venivano da umili impieghi e dall'elemosina dei parenti. Tuttavia scelse di far studiare la ragazza nelle migliori scuole, certa che così potesse incontrare coetanei ricchi pronti a sposarla. Bessie invece si innamorò del pilota Winfield Spencer, convolò a nozze con lui e durante la luna di miele scoprì che il marito era violento, sadico e alcolizzato. Il divorzio fu una scelta obbligata e pochi mesi più tardi fece amicizia a New York con Ernest Simpson, il futuro secondo coniuge, un agente di assicurazione. Il matrimonio fu celebrato a Chelsea e in seguito andarono a vivere a Londra dove a una festa viene presentata al futuro sovrano che non tarda a corteggiarla.
Per tutti i primi mesi della loro relazione, la stampa britannica mantiene il silenzio sul legame: nessuna immagine esce delle numerose crociere a bordo dello yacht in navigazione nel Mediterraneo, nessuna notizia viene data sulle udienze in corso sul secondo divorzio di Wallis. Giorgio V, padre del principe di Galles, muore il 20 gennaio 1936, Edoardo gli succede e pochi mesi dopo è il vescovo di Bradford ad abbattere il muro del silenzio, dichiarando ai giornali che il re ha un assoluto bisogno della grazia divina per poter ricoprire con questa donna al fianco l'alto e gravoso compito al quale è stato chiamato.
[caption id="attachment_8491" align="aligncenter" width="1000"] Wallis Simpson, nata Bessie Wallis Warfield (1896 – 1986), duchessa di Windsor.[/caption]
I tabloid popolari iniziano così a titolare il comportamento poco consono per la dignità di un membro di casa Windsor e gran parte dell'opinione pubblica è dello stesso avviso, nonostante a fianco di Edoardo si schierino politici di forte caratura come Churchill, ma anche imbarazzanti appoggi pubblici da Edward Mosley, capo dell’ultradestra filo-nazista inglese.
Gli eventi precipitano quando il premier Stanley Baldwin afferma che il paese "non è pronto per una regina Wallis" asserendo come questa non nutra preoccupazioni di ordine morale. I motivi sono politici, legati al passato della signora e ai rapporti con la destra europea. I servizi segreti avevano fornito a Downing Street nei mesi precedenti all'abdicazione del 1936 rapporti nei quali si sostiene che Wallis a Londra manteneva "una affettuosa amicizia" con l'ambasciatore nazista e risultava coinvolta in un vasto traffico internazionale di armi. Troppo, in effetti, per una possibile regina. C'era poi anche altro: grazie a Wallis il sovrano nel 1936 stava maturando l'idea di schierare il paese al fianco di Hitler e del Terzo Reich. Edoardo aveva in animo un vertice ufficiale a Berlino per spartirsi con il Fuhrer le zone di influenza ed era pronto a offrire ai nazisti mano libera in Europa in cambio della salvezza dell'Impero.
Sposando in terze nozze il duca di Windsor, Edoardo VIII, dopo alla sua abdicazione al Trono del Regno Unito, è divenuta Duchessa di Windsor. Accanto al marito, celeberrimo per il suo impeccabile guardaroba e per il buon gusto tipicamente british, Wallis è stata una gentildonna colta, raffinata, dolcemente scandalosa, ma soprattutto è stata il modello estetico per tutte le giovani donne degli anni 30-40 che volevano coltivare l’arte del buon gusto.
A parer suo - che era alta solo un metro e 57 - la bellezza della donna, non dipende esclusivamente dal fisico, bensì dalla cultura e dalla capacità di abbinare i capi più belli ed idonei "Non sono bella, ma quello che so fare è vestirmi meglio di chiunque altro!” asseriva lei, modesta ed inconsapevole musa di intere generazioni. Il gossip su di lei più chiacchierato, oltre le presunte relazioni con i più importanti uomini del mondo, sarebbe la simpatia verso al partito Nazionalsocialista.
La moglie del duca di Windsor mal sopportava gli oggetti brutti: elementi scaturiti per causa della mediocrità estetica degli individui, e - nonostante il matrimonio regale - non nutriva simpatie per la monarchia per la causa dello smembramento della società in classi sociali. Altro elemento discordante con il suo pensiero era riferito al sistema dei titoli nobiliari: questi - difatti - erano tramandati non per merito, bensì per linea di sangue, come è stato sancito da Clodoveo I - Re dei Franchi - nel codice conosciuto con il nome di "Legge Salica" presentato nel 503. Tale sistema adottato delle monarchie europee era mal sopportato da tutti i regimi totalitari, compreso quello nazista di Adolf Hitler, tramite il quale Wallis Simpson - non conoscendone gli sviluppi ideologici definitivi -, stimava essendo anche lei - come il Führer tedesco - una "figlia del popolo", salita agli onori grazie ad una rigorosissima scalata sociale.
A spingere il Re del Regno Unito Edoardo VIII, nel dicembre 1936, ad abdicare rispettando le regole di successione al trono britannico varate nel 1701 dal parlamento inglese - in seguito alla fuga del re Giacomo II in Francia -  in favore della figlia Maria e del marito Giglielmo d’Orange, non poteva infatti che esservi una donna di simpatie popolari e spregiudicata.
[caption id="attachment_8492" align="aligncenter" width="1000"] L’undici dicembre 1936, il re del Regno Unito Edoardo VIII abdicò a favore di suo fratello, il principe Alberto, che diventò re con il nome di Giorgio VI. La sua decisione, la prima volontaria rinuncia al trono da parte di un sovrano britannico in oltre mille anni, fu motivata dalla relazione con Wallis Simpson, una donna divorziata di 40 anni nata in un paesino della Pennsylvania e che l’ex sovrano sposò pochi mesi dopo. Fu un evento storico drammatico per la Gran Bretagna e seguitissimo in tutto il mondo, per ragioni ugualmente distribuite di politica e pettegolezzo. La foto di destra mostra un’immagine di Fort Belvedere, il palazzo del XVIII secolo nel parco di Windsor che fu la residenza di re Edoardo VIII.[/caption]
Wallis Simpson, moglie di Edoardo Ottavo, divenuto duca di Windsor dopo all’abdicazione a lei imputabile, è stata l’unica persona al mondo infatti a permettersi di criticare pubblicamente la Regina d’Inghilterra per il suo gusto estetico: disse, infatti, che la Regina si vestiva come una cuoca.
Amare all’estremo il bello, aborrire l’arte degenerata, bramare gli oggetti preziosi, esser pronti a sacrificare tutto in nome di un rigido piacere estetico e di un’ideale superiore di bellezza ed armonia, sono infatti caratteristiche che hanno plasmato il suo mito. Una cura del dettaglio che - per paradosso - porterà la donna statunitense ad avvicinarsi al gusto adottato dal terzo Reich, con l’austera eleganza delle divise delle SS disegnate dallo stilista Hugo Boss, fino alle magnifiche architetture di Albert Speer. Per capire la bramosia di bellezza di Wallis Simpson bisogna andare a vedere nel suo coffret à bijoux che, dopo alla sua morte avvenuta il 24 aprile 1986, contava più di 214 preziosi tra anelli, collier e spille, realizzati apposta per lei dalle più famose maison orafe; Cartier, Van Cleef & Arpels tra i tanti. Grazie ai regali del duca di Windsor, in 20 anni di matrimonio, Wallis ha raccolto una delle più grandi collezioni di gioielli al mondo, battuta all’asta da Sotheby’s a Ginevra, nel 1987, alla cifra record di 53 milioni e mezzo di dollari. Grazie a quest’asta Liz Taylor, che cercava di competere con Wallis, eletta dal Time donna dell’anno del 1936, riuscì ad accaparrarsi la tanto desiderata spilla a forma di piume tempestata di diamanti disegnata proprio da Edoardo VIII nel 1935. Molto spesso il bijoux portava con sé un messaggio d’amore di Edoardo. Uno su tutti, l’anello con smeraldo che lui le regalò per festeggiare il loro fidanzamento e la separazione dal secondo marito di Wallis, Ernest Aldrich Simpson, direttore di un’agenzia di trasporti.
All’interno, il gioiello portava la dedica che sanciva l’inizio ufficiale della storia d’amore tra il principe del Galles e la donna più ambita del momento: adesso si appartenevano. La coppia, infatti, dopo essersi liberati dalle responsabilità della corona a favore del fratello si sposa il 3 giugno del 1937 Château de Candé in Francia.
Nonostante tutte le opposizioni politiche e sociali allo scandaloso matrimonio tra l’erede al trono ed una ragazza divorziata - per ben ben due volte e appartenente al ceto medio -, Edoardo VIII, primogenito del Re , non tornerà mai sui suoi passi, e per 35 anni, sino alla sua morte - avvenuta il 28 maggio 1972 nella Villa Windsor di Parigi -, la coppia più elegante del secolo, resterà unita e indivisibile.
[caption id="attachment_8499" align="aligncenter" width="1000"] Una foto del tanto celebre matrimonio fra i due. A destra, il castello di Château de Candé: il castello è localizzato nel comune della cittadina francese di Monts, nell'Indre-et-Loire, a 10 km dal sud di Tours.[/caption]
Su Wallis Simpson vi sono una quantità incredibile di dicerie, sia per ciò che riguarda la vita privata, che per quella pubblica e politica: alcune fonti affermano che, prima del matrimonio con l’elegante duca Edoardo III, abbia avuto una relazione con Johachim von Ribbentrop, ministro degli esteri tedeschi, ed altri pettegoli asseriscono che abbia imparato in Asia i trucchi di seduzione sensuale delle Geishe. La storia però, sulla sua simpatia per il Partito Nazionalsocialista dei Lavoratori tedeschi parla chiaro: nel 1937, Adolf Hitler ricevette la coppia a Berchstesgaden in pompa magna ed il principe del Galles assistette alle parate delle Schutz-staffeln (squadre di protezione).
Secondo un documento della polizia segreta portoghese, la PVDE (Polícia de Vigilância e Defesa do Estado), Edoardo e Wallis in quegli anni cercarono di aiutare la Germania a vincere la guerra, mediante un’attività di divulgazione di documenti segreti, affinché il popolo inglese non adottasse i democratici valori americani. Il governo inglese, per disfarsi di Edoardo, lo mandò alle Bahamas nominandolo governatore sino alla fine della guerra, che si godette sullo yatch tra vini prelibati e feste in grande stile. Franklin Delano Roosevelt temeva che la duchessa potesse riferire troppe informazioni belliche importanti all’amico Ribbentrop e, come riporta un documento dell’FBI divulgato dal The Guardian, la fece sorvegliare costantemente. La coppia, anti-democratica ed anti-monarchica - nella sua apparente dissolutezza - visse sino alla fine con una ferrea disciplina, seguendo l'amore per il bello e tentando di abbattere le barriere tra le classi sociali, ma non sempre i due riuscirono correttamente ad esprimere nella pratica i loro ideali. 
 
Per approfondimenti:
_Caroline Blackwood, La duchessa - Editore Codice
_Gilbert Sinoué, Le storie d'amore che hanno cambiato il mondo - Editore Neri Pozza
_Juan Vilches, Ti regalo il mio regno - Editore Imprimatur
 
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di Antonella Leonardi 23/02/2017

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La storia del nostro Paese, ha il privilegio di possedere radici profonde e ricche di eventi storici sulle scienze, sulle lettere, sulle arti che ancora oggi molti addetti ai lavori - delle corrispettiva discipline - studiano con vivo interesse per ricercare sempre qualcosa di nuovo nei carteggi che sono stati già visionati dai propri predecessori, ma il nobile fine di questi studiosi è la divulgazione delle informazioni storiche, in ogni ambito, ad ogni fascia di età e ad ogni livello di istruzione.
Grazie a questi contributi scientifici, riuniti in numerosi volumi con altrettante numerose firme, vi può essere una consultazione senza preconcetto e soprattutto senza la paura della scoperta di sapere cosa è accaduto nel corso della storia.
Dall’arte figurativa, alle correnti letterarie, fino alle scienze come la fisica, la medicina, la biologia o la scienza politica, abbiamo l’opportunità di consultare, in forma cartacea o multimediale, ogni genere di informazione.
E proprio l’informazione, ad oggi, in specie quella quotidiana, ci porta a partecipare alla vita politica, istituzionale, scientifica, letteraria minuto per minuto dimenticando delle volte il valore delle basi storiche.
Spesso e volentieri, si dibatte per vie multimediali di problemi attuali e si perde la via della riflessione che era svolta davanti ad un buon the o ad un caffè; si preferisce dare spazio alla tastiera piuttosto che al dibattitto faccia a faccia. Si perde l’opportunità di sentire il tono della voce, di leggere gli sguardi di chi ci comunica un pensiero o un opinione personale davanti ai quotidiani cartacei che oggi sono in forte crisi perché si è perso un modus operandi quotidiano di sfogliare un cartaceo ricco di notizie scritte in maniera, molte volte, esaustiva.
Una previsione, su questo aspetto, meditata e scritta con grande lungimiranza da Vittorio Frosini sulla "Nuova Antologia" dal titolo "I giovani e la Costituzione", Fascicolo n. 2206 (aprile - giugno 1998), p. 296, spiegava il beneficio del ruolo del mondo multimediale e dell’avvicinamento dei giovani e non, ai personaggi politici che rivestono ruoli istituzionali in carica in ogni ente: locale, regionale e nazionale con l’obiettivo di esporne i motivi.
Ma proprio su questo aspetto, nasce un problema: la crisi del cartaceo.
[caption id="attachment_7939" align="aligncenter" width="1000"] Casa museo di Giovanni Spadolini a Pian de’ Giullari. La Biblioteca è dislocata in tre sedi: nella sede della Fondazione a Pian dei Giullari (n. 139), con i volumi relativi a Illuminismo, Rivoluzione francese ed epoca napoleonica, opere di letteratura e critica letteraria, riviste e periodici del XIX Firenze e alla Toscana. Sempre in questa sede si trova la collezione d’arte con varie opere di artisti italiani dell’Ottocento e primo Novecento, stampe e documenti, la raccolta di oggetti napoleonici e risorgimentali. Nella biblioteca aperta al pubblico, situata sempre a Pian dei Giullari (n. 36/A), si trova il settore di Storia contemporanea e risorgimentale. Nella dimora storica della famiglia Spadolini, in via Cavour a Firenze, posta di recente sotto vincolo dalla Soprintendenza della Toscana quale “casa della memoria”, sono raccolti i volumi correlati all’Arte e alla storia delle città italiane, alla fondazione del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, oltre ad alcune sezioni minori.[/caption]
Ogni dibattito politico, fino a qualche anno fa, aveva una presenza fisica di liberi cittadini o tesserati di partito che partecipavano e dibattevano, delle volte con fervore, delle problematiche che investono l’Italia su ogni aspetto attraverso i partiti politici che esponevano le problematiche degli italiani all’interno dei palazzi istituzionali per intervenire nei tempi utili. Vige a questo punto, tenere in considerazione l’importanza dei partiti politici.
La conoscenza storica della monarchia sabauda e dei partiti politici pre-unitari, concilia perfettamente con gli eventi storici del nostro paese sin da prima dell’Unità d’Italia – risalente al 1861 – che vide movimenti strutturati per unire il Paese politicamente - tramite la figura del Re -, poiché nei decenni precedenti vi erano stati tentativi fallimentari per unificare la penisola. Se culturalmente l'Italia poteva ritenersi "unita" tramite i poeti e scrittori medievali come Dante e Boccaccio, l'intento dell'unificazione politica e geografica italiana nasce nel 1848 con Carlo Alberto. Il fermento culturale del paese è stato sempre molto forte: L’Antologia di Vieusseux (1823-1831) fu una testimonianza scritta, tutt’oggi consultabile nelle biblioteche italiane che posseggono - o hanno la fortuna di possedere - questo prezioso carteggio che attuò un processo di unità culturale e politico, ma che successivamente fu chiusa per via degli amari veti che il Gran Ducato di Toscana apportò alla rivista.
[caption id="attachment_7929" align="aligncenter" width="1000"] Giovan Pietro Vieusseux nasce in Liguria da famiglia svizzero-francese originaria di Ginevra, stabilitosi a Firenze nel 1819, dopo anni di viaggi per commercio (tra Losanna, Bruxelles, Liegi e Aquisgrana), si dedicò alla promozione culturale. Fondò nel 1820 il Gabinetto Vieusseux che, inizialmente, era pensato come un centro di diffusione della lettura di periodici e di libri stranieri (all'epoca poco diffusi in Italia), allo scopo di svecchiare la cultura nazionale. In contatto epistolare con i principali intellettuali del tempo, fondò unitamente a Gino Capponi Antologia, periodico d'informazione letteraria e politica, il cui primo numero uscì nel gennaio 1821.[1] La rivista ospitò, tra gli altri, scritti di Carlo Botta, Pietro Colletta, Ugo Foscolo, Pietro Giordani, Raffaele Lambruschini, Giuseppe Mazzini e Niccolò Tommaseo. Fu proprio un articolo di quest'ultimo che nel marzo 1833 causò la soppressione del periodico. A seguito della cessazione dell'Antologia, Vieusseux fondò nel 1841 l'Archivio storico italiano, prestigiosa rivista storica tuttora attiva. La prima serie del periodico riprendeva il lavoro di Ludovico Antonio Muratori, che era stato il primo studioso a pubblicare le fonti storiche italiane.[/caption]
Cultura e politica, sono due aspetti apparentemente distanti; nella realtà dei fatti sono un connubio inseparabile che ha bisogno di essere tutelato, salvaguardato e promosso. E nei partiti politici storici (Repubblicano, Comunista, socialista e democristiano) nessuno poteva fare politica se non aveva posto tra i primati per compiere azioni di buon governo la preparazione culturale.
Negli ultimi anni, in specie dal periodo della Seconda Repubblica, che personalmente preferisco chiamare "secondo tempo dell’era repubblicana", il sistema organizzativo dei partiti nelle fasi di reclutamento, istruzione, scuola di partito, organizzazione e soprattutto strutturazione di questo, sono venuti meno e i partiti sorti dallo scioglimento dei partiti storici, hanno preferito pensare alla comunicazione politica piuttosto che alla strutturazione e alla organizzazione del partito su ogni fronte.
[caption id="attachment_7938" align="aligncenter" width="1000"] Funerali di aldo moro. 11-05-1978 Roma. Nella foto si riconoscono i politici Ingrao, Leone, Fanfani, Andreotti, Rognoni.[/caption]
Ed in questa fase storica del nostro Paese, così complessa e confusionaria, per meglio comprendere il compito dei partiti politici, dei suoi personaggi più conosciuti e non, per capire il perché si è arrivati ad avere oggi questa condizione nelle realtà istituzionali locali, regionali, nazionali e sovranazionali, dobbiamo fare i conti con la storia. Non è semplice argomentarne, ma non è impossibile raccontarla.
Il fine ultimo di questa rubrica, è quello di conoscere la vita politica e dei partiti per avere una maggiore consapevolezza di questo momento storico, per conoscere e trarre suggerimenti al fine di proporli a chi accanto a noi, svolge l’attività politica all’interno dei palazzi istituzionali, a chi può smuovere le coscienze in un epoca storica dove la crisi culturale ha preso il sopravvento, a chi vuol cominciare o ricominciare a credere nella storia del nostro paese e nel valore aggiunto che l’Italia possiede ma che noi stentiamo a promuovere, ai valori morali e nazionali che ci appartengono; e nei partiti politici, possiamo leggere la nostra poliedrica ed inestimabile identità.
Concludo questa breve premessa a favore di questa rubrica, con una affermazione di Niccolò Machiavelli, padre della Scienza Politica: "La storia è maestra delle nostre azioni".
 
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di Massimiliano Mocchia di Coggiola 30/01/2017

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Sulla figura del dandy si è scritto e parlato a non finire, con una vasta letteratura in materia. Per iniziare dobbiamo porre l’attenzione sul dandy contemporaneo, una figura che ha ormai attraversato due secoli di storia del mondo occidentale.
Nato in Inghilterra all’inizio del XIX secolo, il dandy è generalmente definito come una persona di sesso maschile dall’abbigliamento ricercato ma non volgare, fedele ai principi del classico e apparentemente nemico della moda, dal carattere leggero e affettato. Il linguaggio del dandy è scelto, ricercato, colto. Il suo guardaroba è idealmente su misura; pone attenzione alla scelta dei tessuti e del taglio, conosce la storia del costume, e preferisce dar di sé un’immagine talmente classica da sfiorare o, in certi casi, toccare una moda passata nel suo abbigliamento: gli accessori fondamentali sono ovviamente quelli caratteristici del guardaroba maschile, come camicia, cravatta, papillon, giacca, panciotto, pantaloni, scarpe, cappello, berretto, mantello, cappotto, pelliccia, guanti; ma anche ghette, polacchini, canne da passeggio, gemelli da polso, solini staccabili – tanto per citare gli accessori più comuni.
[caption id="attachment_7612" align="aligncenter" width="1191"] Giovanni Boldini, Conte Robert de Montesquieu. Il conte (1855 -1921), è stato un poeta, scrittore e celebre dandy francese.[/caption]
Tiene alla formalità, ma gioca con le regole. Giuseppe Scaraffia rileva ancora che ama parlare con leggerezza di argomenti importanti, e con gravità di argomenti seri, dando di sé un’immagine artificiosa, e forse superficiale.
Il dandy, asseriva Charles Baudelaire: “vive e dorme davanti ad uno specchio”, e non riconosce leggi altrui se non le proprie - afferma Max Beerbohm -, dichiarandosi un essere amorale – ma non immorale, precisa d’Annunzio nei suoi diari, parlando di se stesso. Il gusto raffinato del guardaroba si traduce in una condotta di vita spesso eccessiva, comunque mai banale, volentieri criticata dalla società, o dai media o dai moralisti in genere.
Disprezza il lavoro e la fatica fisica, preferisce i salotti e i circoli mondani o letterari, ma non trascura i bordelli, il gioco d’azzardo, e i vizi più o meno delittuosi. È uomo prettamente cittadino, e non può esistere se non in una capitale o in un grosso agglomerato provinciale. Può essere d’estrazione borghese o aristocratica, e dell’aristocrazia ama lo stile di vita e l’educazione. Concentra la propria esistenza alla ricerca del Bello, artistico e di costume, e non prevede altro scopo nella propria vita se non la realizzazione di una perfezione ideale e programmatica. Nega l’utilità di ciò che si dice pratico, e detesta l’idea d’essere - come asseriva Baudelaire - “utile a qualcosa”. Nega l’etichettatura, fugge le definizioni e le regole. Per tali ragioni difficilmente ha dettagliati gusti sessuali e ha pendenze politiche: spesso tali personaggi si dichiarano antidemocratici, dando al termine un’accezione più sociale che politica.
Il tempo è per il dandy un continuo scoccare di presenti, di “qui ed ora”, minacciando così ogni culto moderno fondato sul progresso e sull’affanno ideologico, morale e religioso; egli non fatica e non lavora, non entrando quindi nel circolo della produzione e del consumo di massa che tanto aborrisce. Secondo Giancarlo Maresca:“Interrompe una catena infinita di deleghe che l'individuo rilascia al gruppo ed il gruppo ad altri gruppi, assumendo su di sé ogni responsabilità”.
Simile allo snob, il dandy è tuttavia estremamente individualista, rifiuta l’idea d’appartenenza a una classe o a un circolo: egli è al centro di se stesso, uomo vitruviano senza preconcetti o idoli da imitare. Lo snob è stimolato dal manicheismo (questi accetta o rifiuta la moda o un’opinione o una persona in quanto appartenente ad un dato settore sociale ed economico), mentre il dandy verifica la bellezza dall’effetto e non dalla firma; il suo estremo individualismo lo rende più libero di spaziare in campi inesplorati, in atteggiamenti che uno snob riterrebbe sconvenienti e che al dandy donano nella massima misura.
Barbey d’Aurevilly affermava che il dandy è indefinibile; questi è, di fatto, un’astrazione talmente pura che, se non fosse evidente ieri come oggi, potremmo dire tranquillamente di averlo solo immaginato.
[caption id="attachment_7616" align="aligncenter" width="1113"] A sinistra Charles Baudelaire fotografato da Étienne Carjat, nel 1862. Nell'immagine di destra una caricatura di Isaac Robert Cruikshank. sull'anatomia della "tribù dei dandy" del 1818.[/caption]
Il dandismo ha avuto protagonisti in varie epoche e dimensioni artistiche, sociali e politiche: sebbene si sia più volte trasformato nelle apparenze, non ha mai variato la sua sostanza, o filosofia di base. Per questo è sempre attuale parlare di dandismo, e per farlo iniziamo con una citazione tratta da “Tragedia e attualità del dandy”, articolo di Jervé a cura di Gustavo Alberto Palumbo del 13 Maggio 2011 sulla testata virtuale «Iconicon»:
Per quale motivo dovremmo giudicare ultracontemporaneo un movimento al quale molti attingono, per i fini più disparati, pur giudicandolo però in definitiva solo una simpatica ma datata bizzarria dell'Inghilterra vittoriana, un'etica dell'eccentricità, nata già vecchia perché intrisa della nostalgia di un'età dell'oro ideale, in contrapposizione all'orrendo avanzare di quella modernità che degrada a prostituta la Dea Bellezza? Per un motivo tanto semplice quanto tassativo: perché la figura del Dandy è fatta della stessa materia della Tragedia. Il Dandismo è tutt'altro che una patetica gardenia aulente all'occhiello del pensiero di fine Ottocento, è un futuribile pugnale di cristallo affondato nel ventre molle dell'attuale pensiero Mainstream. Allora c'erano i borghesi benpensanti da scandalizzare, per chi consacrava la propria vita all'arte, oggi c'è la trasversalissima categoria dei Mainstreamer – gli individui immersi nel flusso – da scuotere per tentarne un possibile risveglio dall’ipnosi preconfezionata che il pensiero unificato dei media diffonde in modo strisciante".
Un dandy moderno, volendo mantenere il giusto equilibrio tra eccentricità e basilare eleganza, non disprezzerà la moda in quanto tale (se non come sistema commerciale ad uso del volgo), ma riuscirà a renderla sapientemente complice del proprio stile. Mélanges espressivi di capi moderni e di capi antichi, senza cadere nell’antiquariato se non per provocazione. L’ideale sarebbe una perfetta adesione ai canoni contemporanei, una qualità eccelsa dei materiali e del taglio, ed infine una dimostrazione di un gusto superiore, sublime, che va al di là di ciò che si vede sulle riviste e nelle strade chic delle capitali. Uno stile oltre la moda, una Übermoda.
Pare chiaro come la sartoria diventi un punto nevralgico in questa delicata costruzione di sé: gli ideali non si raggiungono che tramite sforzi sovrumani. Il dandy si accontenta di poco, dacché il sarto è il suo migliore amico e poi che il dandy sia il migliore amico del sarto - questa - è un’altra faccenda.
Il mercato del vintage permette al dandy di risparmiare, e di giocare col fascino del passato. La qualità dei prodotti vintage è spesso eccelsa, anche in quello che fu pret-a-porter; se il classico è lingua morta, abbiamo perlomeno il privilegio di poterlo parlare perfettamente, visto che è oramai impossibile a evolvere, e di prendere il meglio dalle diverse epoche passate. Si tratta di equilibri tanto delicati quanto sovente incomprensibili ai più.
Appuntando una considerazione di rilievo, alle volte il troppo retrò uccide il retrò stesso, mi spiego. Figurini del 1800 vagano per le città e in internet alla ricerca di un riconoscimento pubblico. Costoro non si limitano a un´eleganza fatta di dettagli, ma, fedeli ad un ideale di dandismo piuttosto frainteso, inalberano di tanto in tanto macroscopici cenni ad una realtà che considerano teatrale: una redingote, una bombetta, una canna da passeggio, o un monocolo. Se sono coraggiosi, tutto questo messo assieme. Altrimenti procedono per gradi, a piccoli passi. Invero, sarebbe meglio dire che questi personaggi "retrocedono". Sono gli adepti, dichiarati o inconsapevoli, del retrò per il retrò. Questi signori, che per la maggior parte godono a prendersi molto sul serio, rifiutano e demonizzano ogni contatto col mondo attuale ch’essi chiamano, con un certo livore o disprezzo, "moderno". Quasi tutti loro si credono fortemente dandy perché questo par loro il meccanismo da oliare costantemente: un incontrollabile arretrare del tempo sociale e personale. Fanno pensare a certi mobili moderni, malamente intagliati nello “stile antico”, e venduti con una vernice già scrostata ed una finta patina sugli ammennicoli dorati che non hanno mai inteso brillare.
[caption id="attachment_7618" align="aligncenter" width="1113"] A sinistra: un dipinto del pittore e scrittore Massimiliano Mocchia di Coggiola. A destra "Due secoli di storia del Politecnico" di Hervé Loilier, del 1986. In particolare l'ultimo dipinto mostra come l'eleganza era usata soprattutto anche in ambito militare.[/caption]
La figura del dandy non ha una sede fisica fissa e stabile: sicuramente le grandi città offrono molto dello stile di vita che questa figura ambisce ad avere. Il dandy deve solo scegliere ciò di cui ha voglia, seguendo le proprie disposizioni spirituali. Dunque, le capitali europee e americane come Londra, Parigi, Roma, Milano, o New York e San Francisco costituiscono sicuramente i poli di attrazione più conosciuti. Il dandy dei secoli passati eleggeva domicilio in una di queste città, preferibilmente europea per via della cultura inevitabilmente infusa in tra le pietre stesse dei palazzi. Un dandy in provincia non esiste, se non nei fine settimana (e con grande fatica), o per ragioni particolarissime. Il sonno profondo in cui dorme l'Italia è sopportabile soltanto nel considerare l'eleganza che certi luoghi emanano ancora, a sprezzo dei barbarismi atlantisti importati per comodità e gusto del facile guadagno dalle nostre parti.
A partire dai quarantacinque anni in poi, almeno così pare, è difficile convincere un adulto di aver sbagliato, di aver mal giudicato, di portare i paraocchi come i cavalli da tiro. Soddisfatti della loro vita e della loro tintarella, gli intellettuali giovanilisti (già, ché spesso lo sono loro malgrado) non hanno più l’età né il fisico per addentrarsi nelle nuove correnti sotterranee che ribollono nei club delle capitali dell’arte e della mondanità mondiale. Ecco perché il dandismo di oggi è essenzialmente affare dei giovani. E non dei “giovani sessantenni”, ma dei giovani ventenni, trentenni, quarantenni.
È mancato loro un pezzetto di educazione reazionaria: raramente sono stati accompagnati dal sarto dal papà, che aveva di meglio da fare, né la governante ha insegnato loro come tenersi a tavola, visto che la governante non l’avevano. I vecchi trovano ridicolo qualcosa che fa parte della loro infanzia, dei ricordi che hanno circa i loro genitori e i loro nonni, dei quali si sono sbarazzati gioiosamente. I giovani, non avendo vissuto tutto ciò, sono abbastanza sensibili da scorgere il lato punk dell’intera faccenda.
Quando il lavoro era inteso come produzione utile al benessere economico dello stato o alla comunità, Baudelaire rifiutava i “professionismi” e dichiara di avere in orrore l’idea di essere utile a qualcuno. L’arte, ieri come oggi, non era considerata un lavoro poiché non se ne vede l’utilità. Ma il dandy moderno - se non vive di rendita e non è un artista di fama - deve a volte scendere a patti col suo tempo; da un certo punto di vista si tratta di compromessi, da un altro si vuole suggerire un adattamento ad un ambiente ostile. Come il canguro siberiano si adatterà - grossomodo - alla giungla amazzonica, così il dandy si adatta al 2000 per non morire e perpetrare il proprio stile di vita. Che si ricorda essere un bisogno concreto, e non una posa. Ricordiamo le parole di d’Annunzio: "Io sono un animale di lusso; e il superfluo m'è necessario come il respiro". Il lavoro diventa utile al dandy, il quale rifiutando la volgarità di una vita per il lavoro e del lavoro per una vita, può e deve cambiare opinioni, ha il diritto di contraddirsi, di essere ricco e povero, e quindi di scegliere tutti gli “impieghi” che gli sono a genio. Impiegato in banca prima, stilista poi, in seguito pubblicitario, clochard, pasticciere, fotografo pornografico, ballerino, attore, opinionista e via proseguendo.
[caption id="attachment_7620" align="aligncenter" width="1000"] A destra: Richard Dighton, The Dandy Club -1818. Al centro: Toulouse-Lautrec, Ritratto di Oscar Wilde - 1884. A sinistra: Ken Yang, Narcissus - 2013[/caption]
Avviandoci verso la conclusione, vi è ancora una domanda che sovente viene posta a chi studia o pratica il dandismo. Una domanda rituale, non banale ma nemmeno tanto complessa: come reagisce un dandy moderno fronte alla tecnologia? Povere creature ridacchiano nell’osservare un uomo elegante al telefono cellulare, o scoprirne il profilo su Facebook. Dicono che “stona”. Tale reazione trova origine nell’opinione comunemente condivisa che il dandy sia un personaggio retrogrado, attaccato eccessivamente al passato - un “passato” mai ben definito -, e ansioso di riportare il proprio modus vivendi ai tempi in cui Iphone e aeroplani non esistevano ancora. Un’opinione che, dicevamo, non è avulsa da una certa ingenuità, poiché si tende a credere che tali invenzioni volgarizzino in qualche maniera la qualità della vita odierna. Ma perché? Come sempre, la sostanza sta nella differenza tra il come tali mezzi siano percepiti e utilizzati da una determinata persona, e non nei mezzi (o oggetti) in sé.
"Che dite? …E’ inutile? …Lo so! Ma non ci si batte nella speranza della vittoria! No, no, è molto più bello quando è inutile!". Così Cirano de Bergerac. La rivolta del dandy era e resterà sempre inutile, al di là della visione romantica che gli storici possono dargli, o sociologica. Che il dandy si renda conto del proprio ruolo di sovversivo non è dato sapere: nel passato probabilmente no: l’eleganza, che è fatta di dettagli, saltava agli occhi degli eleganti stessi, fossero esteti o semplici impiegati. Oggi invece, più che mai salta agli occhi lo stridente contrasto tra una bruttezza violenta, permanente, alla quale tutti paiono essersi abituati, e l’eleganza dell’esteta moderno.
Inesorabile, il dandy prosegue per la sua strada; i passanti lo fermano, a volte per ridergli in faccia, a volte perché innervositi dalla sua esistenza, a volte per complimentarsi: “Ce ne fossero ancora di persone così eleganti come lei!”, dice una signora in jeans e maglietta. Una battaglia persa è sempre più chic di una vittoria schiacciante: la triste consapevolezza di battersi per un ideale già schiacciato dalla volgare baraonda dei vincitori dà altra dignità all’estetismo odierno. Non era forse un dandy nostrano, Curzio Malaparte, a parlare dell’eleganza dei vinti?
 
Per approfondimenti:
_AA.VV., I nuovi dandies; Franco Angeli, 2006.
_B. d'Aurevilly, Del dandismo e di G. Brummell; Studio Tesi, 1994.
_H. de Balzac, Trattato della vita elegante; edizioni ETS, 1998.
_Charles Baudelaire, Il pittore della vita moderna; Marsilio, 1994.
_M. Beerbohm, Dandy e dandies; Studio Tesi, 1987.
_Albert Camus, L’uomo in rivolta; Bompiani, 2000.
_I. Comi, Universo figurato di un dandy; Stefanoni, 2004.
_I. Comi, George Bryan Brummell; Stefanoni, 2008.
_I. Comi, Il periglioso osare nell’ineffabile – dieci fazzoletti per un dandy; Stefanoni, 2005.
_G. Franci, Il sistema del dandy (Wilde, Beardsley, Beerbohm); Pàtron, 1977.
_R. Kempf, Dandies – Baudelaire e amici; Bompiani,1980.
_S. Lanuzza, Vita da dandy; Stampa Alternativa, 1999.
_E. Moers, Storia inimitabile del Dandy; Rizzoli, 1965.
_G. Scaraffia, Dizionario del dandy; Laterza, 1981, Sellerio 2007.
_G. Scaraffia, Gli ultimi dandies; Sellerio, 2002
 
Approfondimenti multimediali:
_(ita) http://noveporte.it/IlDandy.aspx
_(fr) Savoir-Vivre ou Mourir http://francois.darbonneau.free.fr/index.html
_(eng) The Chap http://thechap.co.uk/
_(eng) Lord Whimsy  http://www.lordwhimsy.com/
_(eng) Dandyisme.net  http://www.dandyism.net/
 
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di Liliane Jessica Tami  del 18/10/2016

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Il XIX secolo, se osservato attraverso la cruna d’un’ago sartoriale, è stato una parabola sorta con la Jeunesse Dorée, rivali dei Sans Culottes della Rivoluzione Francese (letteralmente “senza culottes” i tipici pantaloni sotto il ginocchio indossati dalla nobiltà e dall'alta borghesia durante l’antico regime. Prende il nome di "patrioti", cioè i più radicali tra i partigiani della rivoluzione a partire dal 1791, soprattutto a Parigi), e conclusasi col primo stilista moderno Paul Poiret, che ha aperto la sua rivoluzionaria casa di moda nel 1903. Il 1800 è stato un anno di profondi cambiamenti, dati dal fatto che con la Rivoluzione Francese l’abito ha cessato di essere un’etichetta che intrappolava le persone all’interno di una classe sociale.
L’ottocento è sorto con l’introduzione della democrazia in Francia ed è morto con l’Hoch Capitalismus globale, che ha reso i capi d’abbigliamento una merce apolide riproducibile in serie sradicata quindi da ogni cultura e tradizione. 
[caption id="attachment_6477" align="aligncenter" width="1000"] Louis-Léopold Boilly - Incredibile-parata[/caption]
Se fino alla rivoluzione francese dall’abito di una persona se ne poteva evincere il ceto d’appartenenza, con la fine del vecchio regime, dalla presa della Bastiglia del 14 luglio 1789 in poi, esso divenne un modo con cui esprimere pubblicamente la propria posizione politica. Il motto “Liberté, Egalité, Fraternité” non piaceva per nulla ai controrivoluzionari monarchici e vandeani, che decisero d’opporsi all’avanzare dell popolo ed al mal costume dei sans-culottes attraverso una raffinata ricerca estetica. I giovani monarchici, sovente di fede cattolica, aborrivano la democrazia, che definivano un’opera massonica perpetrata con l’ausilio degli americani ed in particolare del generale La Fayette, il quale diede un diverso gusto e una nuova moda. Egli disegnò di suo pugno le divise del corpo militare volontario chiamato Guardia nazionale francese, a cui Napoleone Bonaparte nel 1812, contrappose il corpo militare Guardia Municipale Francese. Il marchese de La Fayette, nato in Francia ma avente la cittadinanza Americana, amava vestirsi all’inglese e ben presto i giacobini, che sostenevano le sue  idee democratiche, presero a seguire i dettami della moda anglo-americana.
[caption id="attachment_6465" align="aligncenter" width="1000"]liliane2 a destra: Gilbert du Motier de La Fayette - a sinistra: Louis-Léopold Boilly, Ritratto di un sanculotto[/caption]
I giovani monarchici si potevano distinguere facilmente dal popolo che aveva acriticamente preso parte alla rivoluzione perchè vestivano con un gusto estremamente raffinato, a volte persino un po’ caricaturale. Inizialmente cercarono di opporsi al crollo dell’ancien régime anche con le armi, ma in seguito al fallimento dell’insurrezione dei realisti del 13 vendemmiaio si limitarono a perpetrare la loro guerra attraverso pizzi e merletti, ed in particolare con la cipria, che essendo fatta di farina alimentare veniva definita uno sfregio nei confronti di chi non poteva permettersi il pane. Gli appartenenti alla gioventù dorata, così chiamati proprio per il loro cospicuo uso di accessori dorati, tra cui occhiali a pinza sul naso e grosse fibbie preziose sulle scarpe, amavano indossare capi sartoriali appartenenti alla tradizione francese, come il frac con falde quadrate, i culottes aderenti ed un colletto nero, da cui ne deriva anche il nomignolo collets noir. Questi giovani che manifestavano il loro estremismo politico nel ben vestire, anche definiti Incroyables e Merveilleuses a dipendenza del sesso, a volte portavano i capelli lunghi sul davanti e corti sulla nuca, come i condannati alla ghigliottina e, benchè fedeli difensori dell’uso della cipria, del pizzo e del profumo al muschio (da cui un altro nomignolo, muscadins) amavano accompagnarsi d’un lungo bastone decorato con motivo a spirale, che usavano a guisa d’un manganello per malmenare i nemici politici.
[caption id="attachment_6463" align="aligncenter" width="1000"] Frederic Hendrik Kaemmerer. Corteo nuziale olandese.[/caption]

Le ragazze appartenenti alla Jeunesse Dorée, definite Merveilleuses (meraviglioso), mosse un po’ dal ribrezzo per vesti delle contadine ed un po’ da un malinconico anelare all’età dell’oro, prediligevano invece abiti lunghi dalla foggia leggera che richiamavano lo stile dell’antica Grecia. Durante i Balli delle Vittime, a cui si poteva accedere solamente se si affermava d’avere degli amici o dei parenti uccisi dai rivoluzionari, le ragazze potevano sfoggiare i loro travestimenti da Diana o Minerva, abbinati ai sandali alla greca chiamati Cothurnes o ad una vezzosa borsetta chiamata balantine, in onore della lingua ellenica che i rivoluzionari non conoscevano. Alcune Merveilleuses, per incrementare il livello di provocazione presente nell’abito squisitamente neoclassico, a volte si coprivano solamente con una tunica in leggerissima garza per lasciare intravedere la biancheria intima sottostante. Assai meno provocatorie erano le donne girondine, sempre contro-rivoluzionarie ma non estreme quanto le ragazze della Jeunesse Dorée. Sovente vedove di uomini della vandea ingiustamente accusati presso al tribunale della Rivoluzione e sterminati a migliaia attraverso la tecnica dell’annegamento, esse portavano i guanti bianchi a dimostrazione della loro innocenza e si cingevano il collo con un nastro rosso, che stava a rappresentare il sangue sgorgato dalle vittime della ghigliottina. La repressione violenta perpetrata dai democratici – e secondo Hanna Harendt legittimata moralmente dai testi di Jean Jacques Rousseau- fu tale da poter essere paragonata ad un genocidio, ed è per questo che le donne portavano spesso le vesti e le scarpe nere e bordate di rosso, in segno di lutto. È importante ricordare che il Regime del Terrore (1793- 1794) voluto dai giacobini e dai Sans-Culottes contro i preti, i vandeani ed i fedeli alla corona. Si era istituito il fittizio Tribunale Rivoluzionario con cui eliminare in massa gli oppositori politici attraverso una serie di processi-farsa, in cui gli accusati non avevano nè un giudice né un avvocato. Fu l’unico caso della storia, in cui gli imputati vennero giudicati con un “processo” per la loro fede politica di fatto non anti-giuridica. Il tribunale Rivoluzionario venne soppresso il 31 maggio 1975 e secondo la scrittrice Anne Bernet le vittime di quest’istituzione, tra cui figura anche Maria Antonietta, sono state circa 300 000. Per via di quest’onda di sangue che ha travolto la neonata Repubblica Francese anche chi si dichiarava neutro prediligeva indossare funesti capi di colore nero e rosso.

[caption id="attachment_6484" align="aligncenter" width="1000"] Il Tribunale rivoluzionario (Tribunal révolutionnaire) era un tribunale speciale del 1793 a Parigi, dalla Convenzione Nazionale durante la rivoluzione francese. Giudicava gli oppositori politici. Divenne, in breve, il più potente mezzo del Regime del Terrore (1793-1794), sentenziando la pena di morte per molte personalità illustri.[/caption]
Non appena il bianco giglio della famiglia reale dei Borboni è stato estirpato dalla Francia - ma non dall’Europa: oggi gli eredi della corona francese, altezza Reale Henri Albert Gabriel Félix Marie Guillaume Granduca di Lussemburgo e Filippo di Borbone e Grecia (Filippo VI) Re di Spagna, governano ancora - l’abito ha cessato di essere una questione di classe sociale ed è diventato un fatto personale.
Aprendo una piccola parentesi sulla bandiera reale francese, del 1661, Il campo bianco, senza stemma, di solito seminato di gigli d'oro, era stato introdotto verso il 1598 da Enrico IV. Il bianco, invece, era apparso come colore nazionale nel secolo XV e l'uso di bandiere bianche, di solito abbellite con ricami in oro e azzurro, risale appunto al XVI secolo. Era considerato il colore del vessillo di Giovanna d’Arco, della Gerusalemme celeste e delle vesti del Signore e degli angeli; per la tradizione medievale era associato ai Galli, dei quali era il simbolo e il nome stesso (in greco gala = latte).
Lo stendardo reale (fondo bianco in gigli oro con stemma reale) diventa bandiera di stato nel 1632, come insegna del comandante supremo della marina da guerra e in seguito riservata al re. Fu abolita nel 1790 e ripresa da Luigi XVIII il 14 aprile 1814 come stendardo reale in mare. Infine fu definitivamente soppressa nel 1830. Il disegno dello stemma di stato, corrispondente alle armi medie, era di esecuzione complicata e costosa, spesso soggetto a varianti. Lo scudo era sorretto da due angeli, spesso di aspetto infantile (forse a causa di un disegno commissionato dallo stesso Luigi XIV nel 1689), sormontato dalla corona con o senza fodera rossa e circondato dai collari degli ordini di San Michele e del Santo Spirito
Tornando alla storia del costume, alcuni individui potenti o di nobile lignaggio iniziarono a vestirsi in malo modo per una semplice questione di Weltaschauung (concezione del mondo). Il rivoluzionario Jean-Paul Barat, per comprarsi l’amicizia del popolo si vestiva di proposito come una persona molto povera. In nome del principio d’uguaglianza sia i sans-culottes che i Repubblicani si privarono di orpelli preziosi ed anche i nobili cessarono di tingersi i capelli. A partire dal 1792 divenne d’obbligo indossare la coccarda tricolore oppure ornamenti e nastri che ne ricordassero il colore.
[caption id="attachment_6467" align="aligncenter" width="1000"] Nel 2015 al Palazzo del Senato di Milano è avvenuta una mostra di ventisei manichini di grandezza naturale riguardanti la storia militare reale francese. A cura del sarto di fama internazionale Gabriele Mendella i figurini sono stati completi di uniformi, equipaggiati con armi originali che hanno offerto un’immagine viva dei corpi di guardia civili e militari che componevano La "Maison du Roi", ovvero i soldati della Guardia del Re di Francia. A sinistra due figurini della Gardes du Corps di Luigi XVI a Versailles che nelle funeste giornate del 5-6 ottobre 1789, sacrificarono la vita nello sforzo di salvare la regina Maria Antonietta dalla folla che aveva invaso gli appartamenti reali a Versailles (a destra: dettaglio della cotta ricamata indossata dalle Gardes de la Manche nel 18° secolo). In alto a destra i due vessilli reali francesi - 1632-1790 e 1814-1830.[/caption]

La frangia più povera della popolazione legata agli ideali neo-liberisti giacobini non possedeva né i soldi né la voglia di acquistare abiti dal taglio e dai tessuti inglesi (come la moda di La Fayette prevedeva), così gli operai, i marinai ed i contadini fecero della loro divisa da lavoro il loro vessillo. Questa milizia spontanea e scoordinata, mossa più dalla fame che dalla visione razionale della politica, si vestiva in modo semplice, soprattutto senza Culottes. Le Culottes sono le tipiche braghe bianche indossate dai borghesi dell’epoca. I proletari indossavano le bretelle e sovente un gilet senza giacca, che accostavano ad un fazzoletto al collo, simbolo adottato nei secoli successivi dai partigiani. Oltre agli zoccoli di legno i sans-culottes portavano una redingote scura dal colletto rosso, il berretto frigio (ripreso poi dal belga Pierre Culliford per la creazione del cappello dei Puffi), su cui appuntavano la coccarda tricolore e la carmagnola, una tipica giacca da operaio diritta e corta.

 
Per approfondimenti:
_Gabriele Mendella, La Maison Du Roy 1690-1792
_Giorgio Marangoni, Evoluzione storica e stilistica della moda-Vol.2
_Vittorio Vidotto, Storia Moderna - Edizioni Laterza
 
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di Luca Steinmann del 04/10/2016

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Oggi volevo farvi partecipi di una riflessione destinata a tutti coloro che stanno per concludere gli studi o che abbiano da poco iniziato il precorso lavorativo.
Lo farò ponendomi due domande distinte:
_Come si può salvaguardare l’obiettivo che ci si è dati nella vita senza che questo venga inquinato da fattori esterni?
_Come si può difendere la propria persona e la purezza (perlomeno presunta) dei propri ideali senza che questi vengano contaminati?
Queste sono domande che ogni giovane professionista, ogni ragazzo che passa dal percorso di studio a quello lavorativo si pone (o dovrebbe farlo). Ognuno di noi in gioventù ha avuto dei sogni, degli ideali, delle passioni che avrebbe voluto diventassero il proprio lavoro, oppure che il proprio lavoro diventasse il mezzo per realizzarle.
In molto pochi ci riescono. O peggio. In molto pochi, arrivati in quella fase della vita in cui si può tentare di determinare il proprio destino, provano a farlo.
La maggior parte getta la spugna senza neanche rendersene conto. Michel Houllebecq spiega magistralmente questa resa nel primo capitolo di ‘Sottomissione’, libro che come pochi riesce a mettere a nudo le contraddizioni a cui il tipo umano contemporaneo va incontro.
[caption id="attachment_6235" align="aligncenter" width="1000"] L'attimo fuggente è un film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams[/caption]
La laurea, secondo Houllebecq, segna per questo tipo umano il momento in cui una parte della propria vita, generalmente quella migliore, si conclude, e con essa anche la lotta per raggiungere i propri sogni.
Questi lasciano spazio alla brama di denaro per alcuni, altri rimangono invece ipnotizzati dal desiderio di mettersi alla prova, di ritagliarsi una posizione invidiabile e sicura in un mondo che si augurano essere competitivo. Così, senza accorgersene, la laurea e l’affermazione professionale conducono alla perdita di qualcosa di inestimabile: la libertà.
Che cos’è la libertà? Secondo Nietsche essere liberi non significa fare tutto ciò che si vuole senza avere confini, ma amare ciò che si fa. Essere liberi è dunque un impegno costante, una lotta quotidiana per rendere ciò che si ama la propria vita, pr trasformare le proprie passioni nel proprio mestiere. Chi rinuncia a ciò rinuncia ad essere libero. Chi rinuncia a sogni, passioni e ideali per una professione fine a se stessa potrà anche diventare ricco, ma rimarrà schiavo. In tanti rinunciano. Quasi nessuno, però, riconosce il proprio stato di schiavitù. E’ difficile e doloroso ammettere di avere abbandonato ciò che più si è amato, mettendo dunque in dubbio le scelte fatte e in gioco l’intero senso della propria esistenza. Per questo molti iniziano a trovare giustificazioni, a cercare scuse per la propria percepita mancanza di libertà.
Scuse che queste persone spesso trovano nella moneta con cui è stata pagata la rinuncia ad essere liberi: nei soldi e negli agi ad essi connessi. Così chi solo poco tempo prima sognava di cambiare il mondo quasi improvvisamente si trova a passare le proprie (poche) giornate libere entrando in negozi e spendendo cifre sproporzionate per prodotti inutili e costosi che spera (invano) possano colmare il proprio vuoto; senza rendersene conto si inizia a frequentare locali, a consumare cene e a trascorrere serate di lusso insieme soltanto ai “propri pari”, cioè a persone che abbiano fatto gli stessi tipi di scelte e abbiano il portafogli altrettanto gonfio, persone a cui solo fino a poco tempo prima non si avrebbe avuto nulla da dire, con cui adesso ci si trova a condividere lo sperpero della propria incompletezza.
[caption id="attachment_15050" align="aligncenter" width="1000"] Jean Béraud - Au Bistro (1891)[/caption]
In poco tempo ci si trova ad essere persone che non si voleva essere e che prima si disprezzava. Se non si vive come si pensa si inizia a pensare come si vive. E si diventa quel tipo umano di cui scrive Hoillebecq che mai si sarebbe voluti diventare. La rinuncia alla propria libertà è una scelta di comodo e di agio. E’ una fuga. Che in quanto tale non potrà durare per sempre, andrà invece a scontrarsi contro ciò da cui si fugge: insoddisfazione, tristezza, solitudine, incompletezza, nichilismo e assenza di un dovere superiore sono i principali motivi per cui le persone tra i 30 e i 55 anni si rivolgono agli psicologi o per cui queste intraprendono viaggi verso Oriente alla ricerca di un’esperienza interiore che colmi la propria insoddisfazione. “In Europa sento la mancanza di qualcosa che sono venuto a cercare qui” dicevano a Tiziano Terzani i pellegrini sulla via per il Tibet. Questa ricerca dell’indefinito non è altro che il tentativo di rimediare alla libertà perduta. Il cui ricordo e desiderio rimangono però per sempre dentro ognuno di noi. Se è vero che la natura dell’essere umano è una ed eterna – e il fallimento degli esperimenti totalitari volti alla creazione di nuovi tipi di uomini sembra confermarlo – allora rimarrà per sempre dentro di noi il desiderio per ciò che un tempo abbiamo amato, che abbiamo sognato e in cui abbiamo creduto. Non riusciremo mai a dimenticare ciò che un tempo ci faceva sentire liberi, ciò a cui le convenzioni sociali, l’affermazione professionale e il desiderio di ricchezza e sicurezza economica ci hanno spinto ad abbandonare. La letteratura è ricca di narrazioni che raccontano questo Streben: Gabriel Garcia Màrquez in ‘Cent’anni di solitudine’ descrive l’immutabilità della natura umana (venendo poi ripreso da Fabrizio d Andrè che gli dedicò la canzone di ‘Sally’); James Joyce nell’ultima storia dei racconti di ‘Gente di Dublino’ mostra come ciò che si ha amato e che ci ha dato la libertà rimanga sempre nascosto dentro di noi, per poi emergere con forza quando meno ce lo si aspetta e mettendo in crisi tutte le piccole sicurezze costruite per non doversi guardare dentro; Ezra Pound riprende Joyce scrivendo: "Ciò che ami davvero non ti verrà strappato. Quel che ami davvero è la tua eredità”.
Tentare di fare di ciò che si ama il proprio mestiere è molto difficile, ma è anche ciò che può evitare la solitudine della schiavitù. La vita professionale, ciò che da piccoli veniva chiamato “il mondo dei grandi” è piena di ostacoli, di influenze esterne, di pressioni che rendono complicato difendere la fedeltà a ciò che si ama. A questo si aggiungono le nostre debolezze, i nostri limiti e i nostri errori. Eppure riconoscere e determinate il proprio destino è possibile. Come? Per esempio avendo un grande ideale o l’esempio di una persona, magari un nonno o un maestro, i cui comportamenti siano un modello che funga da stella polare nella velocità e nel disordine della vita contemporanea. Nonostante si viva in un mondo in cui l’individualismo è sfrenato, in cui viene insegnato che la competitività tra individui è il massimo valore, in cui i rapporti umani sono amichevoli finché non diventano concorrenziali, rimangono forti ed eterni quegli ideali di amore e di identificazione disinteressata nel bene comune, nella comunità, nella patria. Rimane l’esempio di quelle persone che hanno anteposto il proprio piccolo interesse personale a qualcosa di più grande. Non importa che fine abbiano fatto o di che morte siano caduti, non importa che epilogo abbiano avuto le società ispirate ai nostri ideali, ciò che importa non è per cosa si combatte ma come lo si fa. L’esempio di chi ha avuto il coraggio di rinunciare alle proprie piccole sicurezze per impegnarsi in qualcosa di più grande e di altruista rimane eterno. “Aiuta gli altri e aiuterai anche te stesso” diceva Confucio ai suoi discepoli. Certo non è facile. Per rinunciare a se stessi a favore degli altri ci vuole coraggio, lo stesso che manca a coloro che rinunciano a sogni passione e ideali una volta finiti gli studi. Per Ernst Jünger coraggio significa “professare fede in quel che si pensa”, quindi rimanere fedeli a passioni, sogni e a quanto si sente essere un dovere. Chi riesce a farlo abbraccia valori eterni e indistruttibili e diventa lui stesso un esempio da ricordare. Le sue scelte diventano eterne, non scompariranno con la sua morte fisica ma vivono in coloro che ne colgono l’esempio.
[caption id="attachment_6234" align="aligncenter" width="1000"] Scena tratta dal film "Il Club degli imperatori" diretto da Michael Hoffman del 2002.[/caption]
Essere coraggiosi significa rendere immortale il proprio esempio e scacciare le paure. Finché l’uomo è solo vive esclusivamente di paura. Proviamo paura perché sappiamo di andare incontro all’ignoto, alla certezza della morte. Ma quando troviamo il coraggio di sciogliere noi stessi nel nostro ideale, nelle nostre passioni e nei nostri sogni allora diventiamo un esempio di cui andar fieri. Un esempio che non invecchierà con il decadimento fisico, ma che colmerà il vuoto che sentiranno invece coloro che per paura hanno scelto di perdere ciò che amano. Nonostante sia difficile, nonostante possa portare alla povertà economica è sempre meglio scegliere di lottare per ciò che si ama. E anche se si verrà sconfitti, anche se si farà la fame, anche se verremo spogliati di tutte le ricchezze materiali avremo sempre con noi l’eredità di chi ci ha preceduto e dato l’esempio. Avremo sempre con noi ciò che amiamo e che abbiamo scelto di difendere. Chi avrà preso un’altra strada, quella della rinuncia, potrà invece solo nascondere la solitudine sotto costosi vestiti , grosse automobili ed eventi mondani. Terminati i quali tamponerà la propria solitudine tornando a spiare noi, che viviamo davvero. E comunque non è detto che verremo sconfitti. Lo scopriremo solo vivendo.
 
Per approfondimenti:
_http://www.laconfederazioneitaliana.it/?p=4448
 
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

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di Liliane Jessica Tami del 05/09/2016

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Dopo la tremenda guerra dei trent’anni, che dal 1599 al 1649 disintegrò l’europa con le sue insurrezioni e guerre civili, le grandi monarchie si impegnarono per cercare di ridare ordine ad una società lasciata nell'incertezza e nel disordine. La Francia del Re sole, l’Impero Asburgico nella Mittel Europa, La reggia du Madrid del re Carlo III, gli Hohenzollern in Prussia che resero Berlino “L’Atene d’Europa", l’Inghilterra di Giacomo II Stuart diventata grande grazie ad Oliver Cromwell e la piccola casata dei Savoia ebbero l’onere, ma anche l’onore, di redimere il popolo dalla miseria e dalla povertà in cui i conflitti l’avevano gettato.
[caption id="attachment_15041" align="aligncenter" width="1000"] da sinistra a destra: Luigi XIV di Borbone, detto il Re Sole - Carlo Sebastiano di Borbone III, Re di Spagna - Federico II Hohenzollern, Re di Prussia - Giacomo II Stuart, Re d'Inghilterra, Carlo Emanuele I di Savoia.[/caption]
Fu così che le grandi Monarchie scelsero lo stile del  Rococò, ancor più del Barocco, per tentare di inaugurare un’era di “democratizzazione” degli usi e dei costumi dei grandi signori. Oro e pietre preziose, educazione e filosofia del buon gusto, ideale di vita colta e raffinata non potevano restare lussi esclusivi per le élites ed i nobili.
Così les philosophes e i grandi sovrani illuminati si impegnarono affinchè anche la media borghesia potesse aver accesso ad oggetti di grande bellezza e qualità, prodotti per la prima volta nella storia del mondo, su scala industriale. Sempre più spesso anche il sapere accademico inerente le belle arti, fino al settecento monopolizzato dall’Académie Royale di re Luigi XIV , veniva divulgato alle masse, permettendo così la nascita della figura del “dilettante” di pittura, ossia un amateur o connaisseur,
ben distinto dall’accademico.
[caption id="attachment_5861" align="aligncenter" width="1000"] Jean-Léon Gérome, ricevimento del Gran Condé da parte di luigi XIV a Versailles nel 1674.[/caption]
Nei trattati di Jonathan Richardson (The connaisseur, 1719) e nel saggio sopra la pittura di Francesco Algarotti, in cui si espone il perchè il connaisseur è in grado di consigliare meglio gli artisti rispetto all’accademico, viene appunto elogiata la cultura libera degli appassionati autodidatti. Sempre in quegli anni nell’ambito della filosofia prendono vita le prime teorie sulla filosofia estetica ed il gusto, ed in particolare ricordiamo Baumgarten e Montesquieu. Filosofi come Hogart, nella sua "Analisi della bellezza" scritta nel 1753, coglie nella linea curva dei riccioli la vera essenza del sublime, ed è proprio nella fluidità degli elementi naturali che ha sede l’anima del Rococò, che appunto deriva dal termine Rocaille, figura con ghirigori e conchiglie di pietra.
Fondamentale per il Rococò sono le pietre preziose che uniscono la vita delle donne d'epoca: oltre ai primi accenni di emancipazione sessuale e libertinismo nei disegni di Francois Bucher e nelle licenziose pulzelle di Honoré Fragonard, i gioielli composti da finte pietre preziose, che finalmente possono ornare le chiome anche di quelle donne troppo povere per potersi permettere rubini e diamanti veri.
Nella storia della frivolezza del gentil sesso, l’invenzione della pasta di vetro agli inizi del 1700 permise anche alle dame della media borghesia di agghindarsi di quei colori che fino ad allora erano loro proibiti per una mera questione economica. La pasta di vetro, inventata nel 1676 da George Ravenscroft, proprietario della Savoy Glass House di Londra, scoprì che aggiungendo dell’ossido di piombo al normale vetro di silice poteva ottenere pietre finte brillanti quasi come quelle vere.
Di fronte alla bellezza di tali creazioni alchemiche nemmeno le dame più ricche, come Madame du Barry, potevano tirarsi in dietro: celebri sono infatti i suoi orecchini celesti forgiati proprio in umilissima pasta di vetro. Il più celebre orafo che adoperò la pasta di vetro fu George Frederic Strass ( 1701-73), che nel 1730 andò a Parigi a scatenare la gran moda dei gioielli finti. Nel 1767 nacque anche l’associazione dei Bijoutiers-faussetiers, che contava ben più di 300 membri. E, per il dispiacere di quei gioiellieri come Pouget, che producevano solo per i nobili, venne a crollare il binomio gioiello=ricchezza.
Madame de Pompadour, la favorita del Re di Francia, nel 1763 promosse l’attività della manifattura di Sèvres, affinché tutti i suoi cittadini potessero beneficiare di un’educazione estetica che iniziava proprio col pranzo del primo mattino servito in piatti di degna bellezza. Graziosi piatti decorati con motivi floreali, tazzine fini e delicate da lasciar passare la luce tra le loro pareti e brocche smaltate finalmente a portata di tutti i medio borghesi: le grandi rivoluzioni, se non mirano a portare pace tra le classi sociali offrendo anche agli ultimi gli stessi privilegi estetici ed etici del Re, non servono proprio a nulla. E la porcellana, in virtù dell’ottimo rapporto tra qualità, bellezza e prezzo, era lo strumento perfetto per iniziare a portare un po’ di bellezza anche nella greve casa d’un contadino.
La storia della porcellana europea è un grande esempio di come, nel 1700, si verificò il grande passaggio dall’artigianato all’arte industriale.
Qualcuno attribuisce la venuta della porcellana in Europa a Marco Polo, ma di fatto è stato il progredirne del commercio, inaugurato dai portoghesi nel XVI secolo con le terre dell’est, che ne diffuse l’uso. Grandi sforzi fece poi Francesco Maria De’Medici per promuovere la creazione della porcellana ed altrettanti ne vennero fatti nelle manifatture francesi di Saint-Cloud a Ruen, in Francia, ma ancora non si conosceva l’ingrediente segreto della porcellana più pregiata ed essa era ancora relegata al rango di arte minore. Per scoprire il segreto per forgiare la porcellana perfetta ci volle un alchimista: Johann Friedrich Böttger, alchimista esperto nello studio di terre colorate, dedicò la sua vita al tentativo di creare l’oro in laboratorio.
[caption id="attachment_5866" align="aligncenter" width="1000"] Johann Paul Adolf Kiessling, Olio su Tela, Scoperta a Meissen[/caption]
In realtà la sua vita, nonostante riuscì a scoprire il segreto per forgiare l’oro bianco, fu estremamente straziante: a soli diciotto anni venne preso come amico-prigioniero del Re di Sassonia Augusto II e rinchiuso in una meravigliosa ala del castello in cui poteva beneficiare di ogni tipo di lusso e ricchezza, al prezzo della libertà.
Il sovrano, storico coltissimo e collezionista d’oggetti di ogni genere, voleva quel giuovin talento tutto per sé per consacrarlo, ed immolarlo totalmente, alla ricerca della formula perfetta per ottenere una porcellana ancora più bella e pura di quella cinese. Dopo anni di tentativi ed esperimenti tra alambicchi ed atanor (i forni alchemici) che scatenarono non poche polemiche tra il popolo, giacché il sovrano svuotò le casse di stato per finanziare questo progetto, Böttger finalmente scoprì l’ingrediente perfetto per ottenere tazzine così lisce e delicate da sembrare prodotte dagli Dei. L’alchimista, nei suoi laboratori, mettendo a punto un impasto a base di caolino, feldspato e quarzo, sostanze che conferiscono alla materia bianchezza, traslucidità e consistenza, riuscì a far cuocere nel “Gran fuoco” a 1550° gradi gli elementi e poi nel “piccolo fuoco" a 900 gradi, riuscì ad ottenere i primi servizi da tavola dell’ambito oro bianco.
Il 25 gennaio 1710 viene fondata a Meissen la prima manifattura europea di porcellana, i cui prodotti vengono finalmente divulgati sul mercato nel 1713 a Lipsia, in occasione della festa pasquale, ottenendo un successo strepitoso. La ricetta della porcellana, essendo frutto di decenni di lunghi lavori, era ovviamente segreta ed il Re Augusto II, che voleva tenere il monopolio di questo commercio, aveva imposto a Böttger, oramai divenuto uno schiavo coperto d’oro rinchiuso nello Jungfernbaste, di non divulgarla a nessuno.
Ma si sa: il mestiere più antico del mondo, dopo la dispensatrice d’amore, è il dispensatore di notizie: un’abile spia, nel 1719, forse in veste d’artigiano, riuscì ad insinuarsi nel palazzo del Re e nei laboratori di porcellana per rubarne la ricetta segreta. In breve tempo vendette a carissimo prezzo la formula segreta alla Manifattura di Vienna da dove poi venne divulgata in tutta Europa, inaugurando un fiorente commercio. Le più celebri manifatture di porcellana nacquero poco dopo: nel 1743 Carlo di Borbone, a Napoli, nello splendido palazzo Capodimonte, diede vita all’omonima fabbrica, e nel 1775 anche Carlo Teodoro del Palatinato, a Frankenthal, aprì la sua celebre manifattura. Nel 1763 Federico il grande, ricalcando le orme di Madame de Pompadour a Sèvres, inaugurò a sua volta un laboratorio di porcellana. Il mercato di queste creazioni, non essendo forgiate esclusivamente per le fasce più ricche della popolazione, fu amplissimo ed ancora oggi molte manifatture storiche come quella del marchese fiorentino Carlo Ginori producono ancora oggetti di qualità e grande bellezza. Peccato che da una cinquantina d’anni a questa parte la porcellana, producibile in modo eco-compatibile e di rara bellezza, sia stata sostituita dalle brutture in plastica usa-e-getta prodotte col petrolio ed il lavoro nei paesi del terzo mondo.
 
Per approfondimenti:
_Storia dell'Arte, dal quattrocento al settecento, Atlas, 2008, Gillo Dorfles, Stefania Buganza, Jacopo Stoppa
_Guida al piccolo antiquario, Paolo de Vecchi, Edizione CDE, Milano
_Storia dei gioielli, Anderson Black, istituto geografico De Agostini, Novara
_Antiquariato, Alessandra Migliorati , riconoscere gli stili, atlanti universali Giunti, Milano, 2003
 
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di Davide Bartoccini del 27/06/2016

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Ditemi che ho sbagliato una battuta, ma non una cravatta.”
Affermava sicuro e vanitoso l’attore David Niven . Lui, emblema di quell’eleganza puramente britannica che non c’è più, possedeva ben tre stanze di cravatte, che venivano ordinatamente suddivise per toni di colore e fantasie. Ma facciamo un passo indietro, e vediamo dove trova le proprie origini questo vezzo tutto maschile. Uno degli ultimi e pochi simboli d’eleganza tenuti in voga dalla barbara contemporaneità.