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di Giuseppe Baiocchi del 21/04/2018
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Dio salvi la regina, sembra proprio il caso di dirlo: il matrimonio britannico tra il duca di Sussex Henry Charles Albert David Mountbatten-Windsor (1984) e l’attrice afro-americana e ex modella statunitense Meghan Markle (1981) ha generato non poche problematiche alla Royal family.
Per capire i principi di non condivisione di tale unione anglicana bisogna inizialmente possedere conoscenza dei rudimenti basici della tradizione e delle radici dell’aristocrazia (Nota 1): elementi fondamentali per non trascendere nella confusione e nel gossip generato da telecronisti e giornalisti che con grande evidenza erano sprovvisti di ogni conoscenza nella disciplina dell’istituzione monarchica.
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Harry e Meghan Markle sono marito e moglie. Il principe e l’attrice americana hanno detto il loro “sì” davanti all’Arcivescovo di Canterbury, tra sorrisi, lacrime e tanta commozione.[/caption]
Nella tradizione aristocratica l’unione tra classi sociali diverse era pressoché proibita: la formula del matrimonio morganatico (Nota 2) fu per la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento assolutamente una grande apertura verso la borghesia. Ma nel caso di Henry l’unione avviene addirittura con una persona del ceto popolare, la quale nella sua vita ha mutato ben tre religioni: cattolica inizialmente, dopo il primo matrimonio ebraica (per via del marito) ed infine anglicana. Per i credenti della Chiesa cattolica, così come per quelli della Chiesa anglicana, nata dallo scisma degli anni trenta del Cinquecento, il Re e la famiglia reale hanno un compito fondamentale verso i propri sudditi e verso il territorio che amministrano: sono i guardiani di Dio in terra, i custodi dell’ordine e della tradizione, fonte di ispirazione verso la perfezione etico-morale e soprattutto riguardante gli usi e i costumi che la popolazione dovrebbe seguire (Nota 3).
Per una serie di atteggiamenti e usi, pare evidente come questo matrimonio per etichetta e tradizione non sia stato educativo e d’ispirazione per i tanti che vogliano migliorarsi o ambire ad un uso della convenzione tradizionale.
Partendo dai vestiti degli invitati, completamenti fuori luogo – soprattutto in alcuni capi sgargianti da uomo -, fino ad arrivare ai calzini dei musicisti – in particolare del solista afro-britannico Sheku Kanneh-Mason – che spiccavano decisamente dagli abiti, come fosse stato un matrimonio di un “nuovo ricco” americano.
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Nella foto a sinistra l'ineleganza del solista afro-britannico Sheku Kanneh-Mason. A destra alcuni invitati tra selfie e tatuaggi.[/caption]
Uno degli aspetti principali della decadenza del mondo moderno occidentale si manifesta nella perdita del significato, della forza e della tradizione originaria dell'aristocrazia. Questa si è sempre posta come un valore spirituale, corrisponde a quella funzione di mediazione - uomini che sono centro o modello per le attività inferiori e, simultaneamente, supporto, preparazione e via ad una realizzazione superiore. Essa deve costituire il modo di una superiorità virile, libera, personalizzata, orientata verso l'immanente (Nota 4).
Dove è finita la qualità, il dettaglio, la tradizione, la perfezione? Per i matrimoni normali vi sono già le persone normali. Non si avvertiva il bisogno di ostentare, in Inghilterra, la celebrità e l’orgoglio nero: adeguatamente rappresentati con il gospel – che si poneva a sfida del secolare canto gregoriano e completamente fuori luogo nella St. George’s Chapel del Castello di Windsor -, così come i grandi gesti plateali e proletari dell’emotivo vescovo di Chicago, Michael Curry (1953) da sempre a favore dei matrimoni omosessuali, all’interno della Chiesa anglicana.
Nella sua omelia, coprendosi attraverso il concetto vuoto di “amore”, ha platealmente annunciato lo smantellamento del “vecchio mondo” con il “nuovo”: «Dobbiamo scoprire il potere dell’amore, il potere redentore dell’amore. E quando lo scopriremo, saremo in grado di trasformare questo vecchio mondo in un nuovo mondo. L’amore è l’unica via». A tale proposito non posso non citare il filosofo Massimo Cacciari: «Alla vigilia della fine dei tempi, a satana è data un'estrema opportunità per sedurre l'umanità, ed ora egli s'impegna con sincero entusiasmo e dedizione a garantire a tutti, pane quotidiano, giustizia e pace, e corona questo evento del benessere con un programma di suprema pax religiosa. Convoca a Gerusalemme un grande concilio universale, nel quale inaugura un perfetto ordine tra le religioni finalmente riconciliate. Il successo arride talmente attorno al grande benefattore, e il consenso è talmente forte, che diventa intensa e immensa genuflessione. Solo pochi non ne accettano l'autorità (...). Ed allora essi vengono cacciati dal concilio, e tornano nel deserto, e là si ritrovano dalla parte di Cristo, che il grande inquisitore satana aveva già accusato: "tu hai consegnato gli uomini ad un insopportabile libertà!" E mentre a Gerusalemme risuona l'inno al benefattore, al supremo Re, nel deserto, questo misero resto di umanità, si prepara paradossalmente ed angosciosamente, nel nome del Cristo che li ha destinati ad essere liberi, si prepara all'ultima grande libertà di ogni uomo, a quell'insopportabile grazia di decidere in solitudine ed in libertà, l'evento dell'ascolto e della preghiera. Ascolto e preghiera, sono soltanto scelta che fiorisce dalla libertà dell'uomo».
Verso il discorso propriamente razziale bisogna soffermarsi per capire la vera entità del razzismo aristocratico, il quale non si pone – come il pensiero progressista, ci ha insegnato – in uno stato di superiorità con l’altro, ma di riservatezza e conservazione. Ecco perché tale matrimonio è un tentativo di formalizzare l’irrealizzabile, inteso in concetti filosofici e di protocollo.
Tradizionalmente, nelle nobiltà sta anzitutto in risalto il valore riconosciuto dal sangue e la subordinazione della persona rispetto ad una casata e ad un principio. Il singolo qui non vale individualisticamente o «umanisticamente», bensì in relazione al suo sangue, alle sue origini e alla sua famiglia di cui deve tenere alto il nome, l'onore, la fede. Un ugual risalto viene dato alla ereditarietà e al principio di escludere gli incroci contaminatori. Le differenze col razzismo qui sono evidentissime. Per millenni il razzismo è stato in atto nella nobiltà gentilizia di ogni popolo, ed anzi nella sua forma più alta, perché si è mantenuto aderente all'idea di tradizione ed ha evitato di materializzarsi in una specie di zoologismo. Prima che il concetto di razza si generalizzasse, come secondo le vedute attuali, «aver della razza» è stato sempre sinonimo di aristocrazia. Le qualità di razza sempre significarono qualità di élite, riferentisi non a doti di genialità, di cultura o di intellettualità, ma essenzialmente di carattere e di stile di vita. Esse si opponevano alle qualità dell'uomo comune perché apparivano, in buona misura, innate: le qualità di razza si hanno o non si hanno, non si possono creare, costruire, improvvisare o imparare. L'aristocratico, a questa stregua, è l'esatta antitesi del parvenu, dell'arrivato, dell'uomo che «si fa», che è divenuto quello che «non era». All'ideale borghese della «cultura» e del «progresso» si oppone quello aristocratico e conservatore della tradizione e del sangue. Questo è un punto fondamentale e l'unico vero superamento dei surrogati borghesi e protestantici dell'aristocrazia.
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Nel dipinto: Sir Thomas Lawrence, "Sir Charles Stewart, III marchese di Londonderry" (particolare) - 1814.[/caption]
La cerimonia tradizionale della conservazione della famiglia nobiliare e dei rami cadetti deve avere il valore di un'azione reale, oggettiva, efficace, per quanto spirituale, e non si deve ridurre per nulla a una mera «cerimonia» più o meno teatrale, come è divenuta con questo matrimonio, innescando contemporaneamente anche la decadenza delle caste sacerdotali. Ciò premesso, l'importanza dei riti tradizionali di consacrazione dei nobili, sta nel fatto che essi ci dicono che nell'antica idea dei capi era compreso molto più che non un potere semplicemente materiale, temporale, politico. Il rito riveste un Re di «spirito santo»: solo allora egli è veramente Re. Allora egli ha le chiavi del regno dei cieli. Si può ricordare, che nell'antichità spessissimo si considerò nel Re il vero artefice della vittoria o della disfatta del suo popolo; inoltre, sin a tempi abbastanza recenti, i soldati e i capi non combattevano per la «patria», la «nazione» e il restante bagaglio della moderna ideologia plebea, ma per il loro Re. Da questa spiegazione molto semplice possiamo dedurre come l’aristocrazia britannica abbia mutato la sua politica, avviandola verso una monarchia che non “guida” il popolo, ma che le vuole essere “amico”, vuole “proletarizzarsi” per avere più clamore e amore. In parole povere vuole aumentare il proprio business economico di fatturato, anteponendo le leggi del mercato ai valori della tradizione e dell’integrità di una casa reale. Dunque tutto diventa possibile: il matrimonio con una divorziata, popolana e di colore, un vescovo americano pro-gay in una delle chiese più importanti della storia inglese, ex calciatori tatuati invitati (in passato le condotte di vita, aprivano o chiudevano porte, oggi no), la madre della sposa con il piercing e tante, tantissime anomalie, che i giornalisti di tutto il mondo – servi del sistema globale – hanno esaltato a modello e innovazione dell’istituto monarchico, non conoscendo praticamente nulla di esso.
L’unico che sembra reggere in Inghilterra la fede e la tradizione rimane il principe di Galles Charles Philip Arthur George Mountbatten-Windsor (1948), uscito distrutto mediaticamente con la popolare, anch’essa amata dal popolo per la sua stravaganza e impudenza, Diana Frances Spencer. Anch’egli ha dovuto tacere per non alimentare polemiche, accompagnando all’altare una persona che avrà visto cinque, sei volte nella vita. Il principe Charles non ama l’architettura moderna, ritenendola un involucro senza anima, ama la campagna inglese, retaggio di una monarchia feudale ancora viva e indossa abiti sartoriali proseguendo la tradizione dei Windsor legati all’eleganza. Anche tale prerogativa sembra venire meno con il primogenito William che ama acquistare abiti commerciali da Zara o altre marche di rilievo, per poi venderle all’asta. Appare chiaro il rovesciamento di tutti i valori del bello, del giusto e della sopravvivenza di tutto ciò che è autentico, vero, sudato, personalizzato. La globalizzazione ha toccato anche l’aristocrazia britannica, lì dove era più forte: nell’eleganza.
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Due foto a confronto: il prinpicino George, figlio di William e una foto d'infanzia del principe Charles.[/caption]
Chi ha avuto modo di seguire la diretta del matrimonio su un noto programma televisivo, avrà notato la presenza ingiustificata di John Peter Sloan, un sedicente scrittore inglese che vive in Italia e possiamo pensare ospite della trasmissione solo perché nato sull’isola di Albione. Ebbene Sloan si congratulava con gli sposi per aver dato il via alla rivoluzione all’interno delle convenzioni inglesi. Henry (Harry, come viene chiamato) in passato si è espresso sempre liberamente, a differenza della Regina: il sedicente scrittore e cittadino britannico sicuramente è all’oscuro della costituzione inglese che impone alla regina un silenzio e un rigido protocollo; inoltre non si può mettere sullo stesso piano di lettura un principe, il sesto per il trono, e la Regina regnante. Questa è la profondità del principale palinsesto nazionale in Italia.
La prima vera spallata al sistema aristocratico, oltre alla Rivoluzione Francese, la diede anche Luigi Filippo di Borbone-Orléans, il quale nel 1814 si proclamava Re dei francesi “per volontà di Dio e della nazione”, inserendo sullo stesso piano Dio e l’uomo.
Non più dunque per diritto divino: che l'uomo non sia sempre all'altezza del principio dell’ascesi della potenza, non importa, la sua funzione resta sempre imprescrivibile ed intangibile, poiché non è all'uomo, ma al Re che si obbedisce e la sua persona vale essenzialmente come un supporto a che si desti quella capacità di dedizione superindividuale, quell'orgoglio nel servire, quella prontezza all'azione e al sacrificio attivo, che vanno a costituire una via di elevazione e di dignificazione per il singolo e, nello stesso tempo, la forza più potente per tener insieme la compagine di organismo politico. La retorica giacobina mise in primo piano, non più il Sovrano, ma la «Patria», la «Nazione», il «Popolo». È in tal senso che si realizzarono le prime fasi del franamento collettivistico che, secondo una inesorabile concatenazione, dovevano condurre per gradi dal ciclo delle grandi monarchie europee, sino al socialismo, comunismo e bolscevismo. Il ricorso a simili entità, in effetti, non è che un fenomeno regressivo: patria e nazione non sono nulla più di un dato naturalistico elementare, e nella loro verità non vanno cercate in basso, nella sostanza promiscua del demos, del popolo, ma in alto, ove ciò che è diffuso in una stirpe si raccoglie, si personalizza, viene ad atto; non alla base, ma al vertice della piramide. E come anticamente poté dirsi: «Dove è l'Imperatore è Roma».
Gli antichi simboli, rappresentanti la «regalità divina» in tutte le grandi civiltà tradizionali, sono diventati insegne della demagogia grazie al socialismo e al comunismo, ideologie che hanno dato nuova vita all'ideale promiscuo del meticciato: il «sole trionfale» dell’antichità è divenuto il «sole dell'avvenire» dell'utopia socialista; il rosso «imperiale» è stato rubato dalla bandiera rossa del marxismo; lo stesso segno occulto del «microcosmo», uomo dominatore «composto da tutti i poteri», cioè la stella a cinque punte, è divenuto l'emblema di satana, della «civiltà proletaria» bolscevica, associandosi ai rozzi segni di falce e martello. Tutti ciò dovrebbe parlare chiare parole a chi voglia cogliere il senso vero della storia; non quello fittizio, supposto dall'ideologia plebeo-giacobina del «progresso», che è venuta insensibilmente a dominare in tutti i trivii della «cultura moderna.
Perché con l’idealismo e con la sostituzione dell’uomo a Dio, il primo vuole ambire alla sua volontà di potenza assoluta: vuole che il Re o presidente della Repubblica (come in Italia) sia un amico, vuole candidare persone impreparate a governare, solo perché sono giovani, si arroga il diritto di criticare tutto e tutti, senza possederne meriti speciali o pregi particolari; insomma in poche parole tutto può essere concesso e tutto ciò che è stravagante e alternativo è visto con bontà e massima apertura al cambiamento. Ma dove ci sta portando ciò? All’annientamento spirituale e umano della nostra identità di europei e poi di italiani.
Ma tutto ciò, oggi, che cosa è, se non un curioso ragionamento? A questo titolo dunque la prendano coloro, che non possono capirne di più.
_Nota 1: Tradizione vien dal termine tradere, cioè trasmettere. Si presuppone, infatti, nel trasmettere una continuità, una identità del contenuto, cosa che a sua volta è inconcepibile senza un certo superamento della condizione temporale. Non si può dunque parlarse di tradizione in senso superiore dovunque il suo contenuto non si leghi a qualcosa di metafisico e di super-naturale. La tradizione può avere forme di espressione e di manifestazione varie, ma se essa non vuole trascendere nel significato di routine, trasmissione meccanica di consuetudini, abitudini e idee che si stratificano e sempre più si rendono opache e soggette alla deformazione, di là da quelle forme esteriori e di espressione della tradizione deve sussistere una vera chiara conoscenza. Qui in fondo, si ha una condizionalità reciproca: la tradizione serve da base allo spirito aristocratico così come questo serve da base alla tradizione.
_Nota 2: Prima negatività, è stata la rinuncia al matrimonio definito “Morganatico”, ovvero un’unione tra un uomo appartenente ad una famiglia reale o regnante, e una donna di rango inferiore - un casato che non è reale o regnante, o una donna che non appartiene alla nobiltà. Né la sposa né alcuno dei figli nati dal matrimonio può avere alcuna pretesa sui titoli del marito, sui suoi diritti o le sue proprietà. I figli sono considerati legittimi per tutti gli altri aspetti, e si applica la proibizione di bigamia;
_Nota 3: Ogni forma tradizionale di civiltà fu caratterizzata dalla presenza di esseri, i quali, per via della loro "divinità", cioè di una superiorità innata o acquisita rispetto alle condizioni umane e naturali, apparivano capaci di rappresentare la presenza viva ed efficace del principio metafisico in seno all'ordine temporale. Tale, secondo il senso interno della sua etimologia e il valore originario della sua funzione, era il Rex secondo l'unico concetto di una divinità regale coadiuvata da una regalità sacerdotale;
_Nota 4: Ariston dal greco καλός significa appunto “il meglio”, il tipo dell'aristòcrate risponde effettivamente allo spirito migliore della classicità, nel suo irradicarsi fortemente nel senso di dignità e di superiorità di classe, nel tendere a ciò che vive all'interno si testimoni altresì, e rigorosamente, in una forma, suggellandosi in un'armonia di corpo, di spirito e di volontà, in una tradizione di onore, di stile, di alta tenuta e di, severità sia nel gesto che negli stessi dettagli del costume e delle forme esteriori, in generale in ogni modo del sentire, del reagire, del pensare. Dal punto di vista interno, le qualità dell'aristòcrate sono simili a quelle dell'asceta: vi è un senso di superiorità rispetto a ciò che è semplice interesse al "vivere"; vi è un predominio dell'ethos sul pathos; vi è una semplificazione interiore e un disprezzo rispetto alla massa greggia delle tendenze, delle emozioni e delle sensazioni, ove sta il segreto di una calma che non è indifferenza, ma superiorità reale, di una capacità d'apertura d'animo, di squisitezza e di finezza nello stesso tempo che di azione chiara e forte, in cui si scolpisce la figura del nobile. Quell'assenza spontanea degli impulsi ciechi da cui gli uomini sono spinti come affamati alla mensa della vita; quel possesso di sé che non è una preoccupazione, ma una semplicità e quasi una seconda natura sempre presente; quella compostezza e quell'equilibrio cosciente che, appunto, conduce allo «stile».
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