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di Liliane Jessica Tami del 17/11/2018

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La caccia è una delle più antiche esperienze umane. Dal primitivismo, la cultura occidentale è riuscita a rendere questa primordiale necessità naturale, una vera e propria arte. Dall'uomo di Cromagnon che afferrava le donne con la forza, l’amore si è sublimato sino a diventar poesia d’amor cortese, e in modo analogo anche l’atavico istinto del cavernicolo predatore si è evoluto nella raffinata ed elegante arte venatoria. La caccia, intesa come "arte nobile", si è elevata non più come mero soddisfacimento dell’istinto carnivoro dell’uomo, ma si è trasformata in una disciplina regolamentata da codici etici ed estetici ben precisi. Innanzitutto essere cacciatore significa amare la natura e rispettarla, e ciò comporta adoperarla anche nell’abbigliamento.
[caption id="attachment_10809" align="aligncenter" width="1000"] Nella foto di sinistra un dignitario nel 1920 in Germania con una giacca Norfolk; a destra particolare di un gentiluomo nel suo abbigliamento venatorio.[/caption]
L’elemento base del cacciatore, a prescindere dalle coordinate geografiche in cui opera, è la giacca, rigorosamente portata con la camicia. Quest'ultima possibilmente in cotone, la cui origine è legata ai campi di fiore bianco, è coerente con l’amore del cacciatore per la natura. Le t-shirt in polimeri sintetici high-tech con stampe mimetiche lasciamole pure ai marines americani: l’idea di avvicinarsi al grembo di Madre Natura, in una foresta selvaggia, indossando derivati della plastica è fuori contesto, puerile e ridicola. Per amore della tradizione la giacca da caccia andrebbe abbinata ad una cravatta, con colori rigorosamente autunnali, o un fazzoletto. In Inghilterra, secoli addietro, questo pezzo di stoffa era nato, col nome di plastron, per fungere da laccio emostatico in caso il cacciatore si fosse ferito. La giacca e i pantaloni, così come gli accessori, dipendono dalla zona geografica e culturale in cui si pratica la caccia: l’esteta che andrà a stanar cinghiali in Tirolo, per rispetto degli usi e costumi sartoriali locali, indosserà un Loden in lana ed un copricapo da Jäger.
Il cacciatore che nei boschi dello Yorkshire andrà a cercar volpi, invece, per amore delle usanze locali, potrebbe indossare una giacca da equitazione rossa dal bavero nero sotto ad un bel cappotto bourbon cerato verde, abbinato al tipico cappello derstalker.
Tutte le giacche da caccia discendono, ovviamente, da abiti elaborati al fine di essere comodi durante le attività sportive: le giacche da equitazione, in inglese chiamate hacking jacket, sono state pensate in modo da essere eleganti soprattutto quando vengono indossate da un gentiluomo sudato seduto in sella il quale deve potersi muovere comodamente. L'indumento è leggermente stretto in vita, ha tre bottoni ed i baveri che si incontrano a metà petto. Se il risvolto fosse più lungo o avesse meno di tre bottoni, non avrebbe un bel appiombo se indossata stando seduti sul cavallo. Tradizionalmente la giacca da equitazione era fatta in tweed, al fine di essere robusta e resistere a strappi, rovi e lacerazioni varie. In passato le giacche da equitazione avevano un taglio più lungo, con uno spacco sul retro che si biforcava sulla schiena del destriero. Le tasche, inclinate, rivolte all’interno e grandi, sono pensate per permettere al cavaliere di afferrare facilmente gli oggetti in esse contenute.
[caption id="attachment_10810" align="aligncenter" width="1000"] Giacca femminile di equitazione in tessuto Tweed.[/caption]

Nei paesi mediterranei, invece, è uso indossare la giacca maremmana, tipica dell’omonima regione italiana e si riconosce per le forme più morbide rispetto ai tagli diritti delle giacche sportive inglesi. Il tratto distintivo di questo capo sono le due tasche davanti, applicate, arrotondate e così ampie da comprendere quasi tutta la parte davanti della giacca arrivando sino quasi al bavero piccolo e morbido. Il cacciatore spesso può trovarsi ad usare il fucile in posizioni che lo obbligano a tenere il gomito alzato, perciò la giacca deve assolutamente permettergli la massima libertà di movimento e non intralciarlo in alcun modo. Per permettere un’ampia gamma di movimenti a chi indossa questo capolavoro stilistico, la tradizione sartoriale vuole l’attaccatura del braccio, possieda una particolarità chiamata soffietto, ossia una piccola piega di stoffa che si apre a fisarmonica per agevolare i movimenti della spalla. Al fine di resistere al freddo, alle intemperie e alle insidie della foresta, la giacca maremmana deve essere prodotta in un materiale robusto e resistente, come il velluto o, in particolare, il fustagno. Il fustagno, oggi usato per confezionare abiti da caccia o da lavoro, è un tessuto estremamente resistente prodotto con armatura a saia a 3 o a 4. In passato, dopo esser stato sbiancato, veniva usato per la biancheria da letto e le federe, in modo che queste fossero non solo indistruttibili ma anche ben calde. Il fustagno, a dipendenza della lavorazione, presenta diverse varietà, come il il beaverteen, il moleskin e il doeskin che imita le pelle di daino. La parola Fustagno, nel Medioevo, designava un tessuto di cotone mischiato a lana oppure a lino.

[caption id="attachment_10811" align="aligncenter" width="1000"] Giacca maremmana vecchio stile confezionata in resistente e comodo pilor, tessuto caldo e impermeabile prodotto esclusivamente in italia da tessiture di assoluta qualità, all’interno del lato sinistro è stato realizzato il taschino porta documenti, il carniere è chiuso con un bottone per parte. Giacca calda e comoda utilizzata da sempre in Toscana da cacciatori e butteri.[/caption]
Il gentiluomo che vuole rifuggire la città andando a caccia sulle selvagge Alpi del Südtirol, potrà ispirarsi agli abiti Trachten ( dal tedesco tragen, indossare), tipici delle Alpi tedesche. La tradizionale giacca, chiamata Joppe, abbinata al cappotto in Loden è perfetta e da sempre onorata dalla nobile tradizione venatoria: celebre è infatti il duca di Stiria Giovanni d'Asburgo-Lorena a cui piaceva andare a caccia indossando il Tracht. Le giacche tirolesi si riconoscono dalla loro forma particolare dei baveri arrotondati e fissati con dei bottoni al petto in modo da seguire bene i movimenti del corpo dell’uomo predatore mentre s’acquatta vicino alla preda. Le giacche tirolesi hanno una duplice eredità: cavallerizza e militare, cosa che si evince dalle spalle squadrate che ricordano l’austerità delle divise, e la martingala. Quest'ultima è quel pezzetto di stoffa, simile ad una mezza cintura, presente sul retro di giacche e cappotti che ne restringe il punto vita e si trova soprattutto nelle divise militari. La tradizione tirolese è grande amante dei colori sgargianti e degli ornamenti: le giacche, infatti, presentano spesso abbinamenti con colori sgargianti che si trovano anche nel piumaggio di fagiani e galli cedroni, come il verde, il rosso o il grigio luccio. L’uomo germanico, un po’ orso e un po’ esteta, ama adornarsi i baveri con decorazioni di corno, spillette, ricami a forma di foglie di quercia e bottoni d’osso finemente intagliati, pur sapendo che andando a caccia ha bisogno di una giacca resistente che lo protegga dalle intemperie e, se possibile, anche dalle zanne di del cinghiale. Sui copricapi il cappello da Jäger può avere una Feldzeichen (ramoscello con tre foglie di quercia) o un Federschmuck (piumetto). La lana cotta delle Joppe e il Loden resistono agli urti, alle lacerazioni e ai tagli. Alla giacca tirolese si può abbinare un cappotto in Loden, ampio, avvolgente, caldo e comodo. Il loden è un panno in lana tipico del Tirolo. La parola Loden deriva da Lodo, che in tedesco arcaico significa balla di lana. Questo panno grezzo è resistente e duraturo, perché viene fatto follare (infeltrire) e garzare, in modo da renderne un lato impermeabile e l’altro peloso.
[caption id="attachment_10812" align="aligncenter" width="1000"] Leopold Kupelwieser, Ritratto di Giovanni Battista Giuseppe Fabiano Sebastiano d'Asburgo-Lorena, arciduca d'Austria (particolare) - 1828.[/caption]
L'uomo europeo, ha perpetrato la caccia anche in ambito coloniale: la giacca sahariana, usata nei primi del ‘900 per la caccia grossa in savana, è nata in ambito bellico e esplorativo. La sua praticità, consiste nelle tasche dalla comoda cintura, che la tengono ben aderente al corpo anche durante le folate di vento desertiche, rendendola molto versatile. Si dice che sia stata portata di moda dall’aviatore canadese Arthur Roy Brown (1893 - 1944), che secondo alcuni potrebbe aver abbattuto, il tragico 21 aprile 1918, l’aviatore ed ufficiale tedesco Manfred Albrecht von Richthofen (1892 - 1918), conosciuto col nome di  Barone Rosso. La sahariana in genere è realizzata in cotone, lino, tessuto impermeabile o anche velluto a coste.
[caption id="attachment_10815" align="aligncenter" width="1000"] A sinistra fotogramma del paziente inglese (The English Patient), film del 1996 diretto da Anthony Minghella, tratto dall'omonimo romanzo dello scrittore canadese Michael Ondaatje: nella foto l'attore e protagonista Ralph Fiennes in Sahariana. Nella foto di destra Sahariana militare di un reale coloniale britannico ai primi del secolo del 900.[/caption]
Le quattro tasche a soffietto e una cintura in vita,  di color  kaki, consentono di riporre comodamente gli oggetti e di proteggersi dalle bufere di sabbia. Il clima africano, ovviamente, è stato determinante per forgiarne la forma. In passato veniva realizzata in drill di cotone, un tessuto molto resistente e di lunga durata, abitualmente destinato alle divise coloniali inglesi. Un celebre amante di questa giacca è stato Ernest Hemingway, che se le faceva appositamente confezionare dal negozio di New York Abercrombie & Fitch, specializzato in abbigliamento sportivo.
 
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di Liliane Jessica Tami del 17/10/2018

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Publio Cornelio Tacito (55 d.C.-117 d.C.) è stato un senatore romano la cui memoria è stata tramandata ai posteri soprattutto grazie alle opere di tipo storiografico. Scrisse perlopiù testi legati alle vicende politiche dell’Impero Romano, ma la sua opera più interessante è indubbiamente quella trattante dei nemici giurati dell’esercito latino: i temibili Germani. Tacito, pur non avendo viaggiato oltre ai limiti a nord dell’Impero, rifacendosi a fonti come Bella Germaniae di Plinio il Vecchio, il De bello Gallico di Gaio Giulio Cesare e Geografia di Strabone, pubblicò un breve testo, in lingua latina, dal titolo De origine et situ Germanorum (sull’origine e gli usi dei germani) in cui analizza l’etnia composta da libere genti che tanto diede filo da torcere all’Impero Romano.
[caption id="attachment_10714" align="aligncenter" width="1000"] Otto Albert Koch, Battaglia di Varus,1909 (Particolare), presso Lippisches Landesmuseum, Germania.[/caption]
La pretesa d’universalità dell’Impero di Roma portò ad una serie di ferocissimi scontri contro ai popoli del Nord, come i celti e i germani. Questi uomini di nordiche origini, suddivisi in decine di tribù, erano fortemente legati alla loro identità e non volevano essere inglobati nei disprezzati limes del regno multietnico d’origine latina. Cimbri e teutoni, due tribù germaniche in cerca di nuove terre, nell’anno 113 prima dell’era volgare, apparvero sulla scena politica estera romana sconfiggendo il console Carbone a Noreia, in Carinzia. Nel 105 a.C. l’esercito romano, guidato dai consoli C.Servilio Cepione e Cn. Mallio Massimo venne sconfitto dai germani ad Arausium (Orange) in Provenza. Nel 102 l’impero latino sconfisse i teutoni a Aquae Sextiae (Aix-en-provence) e i cimbri ai Campi Raudii, nei pressi di Vercelli, mentre cercavano di attraversare il Po. Nel 60 dopo l’era volgare, gli elvezi, etnia celtica assai bellicosa e dotata di uno stupefacente sistema anagrafico di controllo degli abitanti, da cui nacque la Confederazione Elvetica, subendo pressione dai popoli germanici scesi da nord invasero la provincia romana della Gallia cercando nuovi territori. Fu così che Cesare, nel 58 d.C., dovette intervenire in Gallia per difendere i suoi territori dagli Elvezi mossi dai Germani. L’imperatore riuscì a sconfiggere gli agguerriti elvezi, guidati da Orgetorige, e a respingere il temibile esercito dei germanici suebi guidati da Ariovisto oltre al Reno e decise di fortificare il limite del suo regno affinché le tribù germaniche non potessero più entrarvi per compiere razzie. Successivamente l’Imperatore Augusto cambiò tattica: da una politica di difesa portò il regno ad una politica d’offesa, volendo conquistare militarmente la Germania al fine di spostare i confini del regno dal Reno all’Elba. Il tentativo di conquista di quel territorio selvaggio, coperto da foreste e acquitrini, era assai arduo giacché i Germani non possedevano grandi centri urbani, ma erano sparpagliati in centinaia di piccoli agglomerati di non più di 50-100 abitanti. Nonostante la contingenza storica rese i popoli di lingua germanica odiosi ai latini, Tacito ebbe la bravura di descriverne le usanze ed i costumi in modo imparziale e persino di apprezzarne le virtù, tali la rettitudine morale, la fedeltà e la bravura in guerra, contrapposte ai vizi che oramai dilagavano nelle grandi città dell’Impero sempre più corrotte dal denaro, dalla lussuria e dai piaceri triviali.
[caption id="attachment_10716" align="aligncenter" width="1000"] Statua di Tacito (particolare) situata davanti al Parlamento di Vienna, in Austria[/caption]
L’opera di Tacito, che in italiano è conosciuta col titolo Germania, è suddivisa in quattro sezioni. I primi 5 paragrafi trattano del territorio e delle razze che vi abitano, dal sesto al 27 paragrafo degli usi e dei costumi comuni a tutti i Germani, dal 28 al 45esimo compie una disamina delle svariate tribù e nel 46esimo ed ultimo paragrafo tratta, molto brevemente, degli ignoti confini a nord del paese. In questo testo analizzeremo soprattutto le parti più rilevanti, ossia la prima e la seconda, in cui l’autore osserva le usanze germaniche e le contrappone a quelle latine.
La prima sezione, introduttiva, espone una serie di argomenti, razziali e culturali, che caratterizzano questo popolo: l’autore scrive che, secondo lui, le popolazioni della Germania non si sono mescolate con altre genti mediante i matrimoni, e che quindi sono una stirpe a sé stante e pura con una conformazione fisica propria. “Da ciò deriva un aspetto pressoché simile in tutti, nonostante il gran numero di individui; occhi azzurri e torvi, capelli biondo-rossastri, corpi saldi e robusti.”
Un altro argomento molto interessante esposto da Tacito è il fatto che presso questi popoli germani vi è il culto di Ercole ed è ben conosciuta l’Odissea, e che ad Ulisse hanno eretto dei monumenti. Secondo recenti studi di mitologia comprata Ulisse fu, inizialmente, un eroe germanico e non greco, come solitamente si crede, e che avrebbe compiuto l’odissea non nel mare mediterraneo bensì nei mari del Nord. Sul tema dei nordici dori che migrando a sud hanno portato la mitologia classica in Grecia sono stati pubblicati svariati libri, come Omero nel Baltico, di Felici Vinci, di cui consiglio caldamente la lettura.
In seguito Tacito parla dell’economia presso i Germani, che è inesistente. A differenza dei romani i germani non sono stati corrotti dall’avarizia perché non conoscono la moneta e i loro scambi si basano ancora sul baratto. Qui Tacito denuncia la speculazione finanziaria presente nelle città dell’impero, elogiando i Germani che, non avendo la moneta, non possono prestare il denaro ad usura. Anche il modo di trattare le donne e condurre la famiglia è ben diverso dalle usanze latine: l’amore carnale è assai rispettato e non vi è la medesima promiscuità che corrompe i romani delle grandi città. I germani conoscono tardi l’amore e per questo conservano intatta la loro virilità, ed anche le donne non hanno fretta a sposarsi. Inoltre per loro i figli sono importantissimi: limitare le nascite o uccidere i figli successivi al primo è ritenuto un crimine gravissimo. Tacito, criticando la decadenza del suo impero, qui scrive “ le loro buone tradizioni hanno più valore di quanto altrove ne abbiano le buone leggi”. Le donne delle tribù, infatti, conservano la verginità solo per il marito con cui intessono una relazione imperitura e non fanno capricci per ottenere oggetti con cui adornarsi. La sposa novella in genere riceve in regalo dal marito dei buoi e delle armi, diversamente dalle femmine delle città romane che sono ben più vanesie. Nello scambio delle armi tra marito e moglie i Germani vedono simboleggiati il sacro vincolo, i sacri misteri e le divinità delle nozze. Inoltre anche le donne appartenenti al ceto nobile si occupano dei figli e li allattano. Presso i popoli nordici le balie e le nutrici non esistono, e tutti i bambini piccoli vengono cresciuti nella semplicità senza sfarzi e senza lussi.
[caption id="attachment_10715" align="aligncenter" width="1000"] L'Hermannsdenkmal, monumento dedicato ad Arminio accanto alla foresta di Teutoburgo. Arminio (in latino: Gaius Iulius Arminius) fu un principe e condottiero della popolazione dei Germani cherusci, ex prefetto di una coorte cherusca dell'esercito romano. Arminio è noto per aver sconfitto l'esercito romano nella battaglia della foresta di Teutoburgo, quando a capo di una coalizione di tribù germaniche annientò, con l'inganno e il tradimento, tre intere legioni comandate da Publio Quintilio Varo, difendendo così la libertà dei Germani, minacciata da Roma all'apice della sua potenza.[/caption]
I Germani, infatti, ritengono sacri i legami di sangue e nei confronti delle donne e dei bambini nutrono profondo rispetto, e pur amando ubriacarsi vivono quindi in una castità ben salvaguardata e non si lasciano corrompere dagli allettanti spettacoli o dai banchetti che eccitano le passioni. Presso questi popoli l’adulterio è sconosciuto e la donna, madre e sacerdotessa, è rispettata come un Dea, la quale però non teme né il sangue né il sudore affiancando gli uomini nelle feroci imprese belliche. In genere però le donne non combattono: restano presso i villaggi a lavorare i campi in modo che i guerrieri, una volta terminate le battaglie, possano tornare a casa, nutrirsi, oziare, bere e festeggiare sino al successivo combattimento. I Germani maschi amano la guerra e ritengono un atto di pigrizia lavorare per ottenere qualcosa quando mediante la razzia di un villaggio estraneo potrebbero conquistarselo in modo ben più onorevole. Nei pochi periodi di pace i Germani si dedicano ad attività venatorie, al sonno, al cibo e a grandi ed allegre bevute di birra ricavata dall’orzo. Il loro cibo è semplice: selvaggina, frutti selvatici e latte cagliato. Per ciò che riguarda l’arte essi non hanno pretese di tipo economico: la bellezza, sia nelle danze teatrali che nelle opere d’artigianato, è ricercata come fine in sé senza nessun compenso di tipo pecuniario. Essi in genere praticano un solo tipo di spettacolo, composto da due giovani nudi che danzano per divertimento tra spade e framee (una loro arma tipica) per divertimento. L’allenamento li rende abili e l’abilità gli procura eleganza: non danzano in vista di un guadagno e la loro unica ricompensa è il divertimento e il piacere del pubblico, a differenza dei Romani che retribuiscono il mestiere dell’attore. Come nota Tacito con toni moralizzanti, dal particolare s’evince l’universale: la grande libertà dei liberi Germani, ben diversa dalla licenziosità viziosa dei romani abitanti delle città, era proprio il loro vivere in modo spontaneo e conforme alla natura.
 
Per approfondimenti:
_Tacito, Germania, Oscar Mondadori,1991, Milano;
_Cesare, La guerra gallica, Barbera Editore, 2006, Siena.
 
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di Giacomo Filippo Stefanoni 06/07/2018

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Il DSM 5 (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali) include lʼanoressia nervosa nella più ampia categoria dei disturbi della nutrizione e dellʼalimentazione, definendola sulla base di tre criteri fondamentali: la restrizione dellʼassunzione di calorie e la conseguente significativa perdita di peso; lʼintensa paura di aumentare di peso o ingrassare; le alterazioni del modo con cui lʼindividuo vive il proprio peso o la forma del proprio corpo. Da un punto di vista psicodinamico, tuttavia, questa definizione, per quanto utile a livello diagnostico-categoriale, non rende giustizia allʼesperienza soggettiva del paziente, al profilo globale del funzionamento mentale ed allo stile di personalità.
Con quanto detto si vuole sottolineare come lʼanoressia nervosa sia infatti caratterizzata da una sintomatologia definita che può manifestarsi, però, in individui con quadri clinici molto distanti tra loro sia per la gravità, sia dal punto di vista dellʼorganizzazione di personalità. Nel declinare dunque il termine anoressia nervosa al plurale, ossia anoressie nervose, si cerca di dare rilievo alle differenze proprie di ogni individuo che nel corso della sua vita può sviluppare una sintomatologia anoressica.
Massimo Recalcati, noto psicanalista lacaniano, individua alla base del rifiuto del cibo la presenza di diversi desideri sia consci che inconsci che contribuirebbero allʼemergere della sintomatologia. In questo modo diviene maggiormente chiaro come, nonostante i sintomi canonici dellʼanoressia siano simili in ogni individuo, alla loro base esistano dei desideri e delle aspettative molto differenti, legati alla storia ed alla soggettività propria di ciascuno. Di seguito verranno proposti, senza pretese di completezza, alcuni quadri anoressici, descritti da Recalcati, rappresentanti diversi desideri, nel tentativo di illustrare lʼanoressia intesa come anoressie al plurale, vincolate alle differenze strutturali psichiche di ogni soggetto.
Rifiuto come desiderio di separazione.
Questa declinazione della patologia è tipica delle anoressie infantili ed adolescenziali, poiché collegata al passaggio puberale. Fino a questo momento, infatti, nel bambino prevale la spinta a corrispondere al desiderio dellʼAltro, essendo soddisfatto nellʼappagare il genitore. Tale caratteristica infantile esageratamente compiacente tende poi, con lʼadolescenza, a rovesciarsi in unʼopposizione che nega ogni forma di discendenza, filiazione e debito simbolico che, generalmente, si risolve con il passaggio allʼetà adulta. Il soggetto anoressico trova però difficoltà a svincolarsi dallʼopposizione adolescenziale, perché il desiderio infantile di compiacere lʼAltro, di realizzare il desiderio materno, direbbe Lacan, è stato imposto al bambino dal genitore in una modalità troppo intrusiva, cancellatrice di ogni senso del limite. La paura di non riuscire a staccarsi dallʼAltro diventa carburante di una guerra esagerata per dimostrare a sé stessi e al prossimo di essersi effettivamente separati, ma proprio perché necessitante di una continua dimostrazione questo desiderio sottende il mantenimento della dipendenza dallʼAltro. Il cibo assume così le sembianze di contenitore del desiderio altrui e viene rigettato. La volontà di non mangiare difende la singolarità del soggetto contro la volontà genitoriale del: “devi mangiare”. Il rifiuto dellʼoggetto sostiene dunque il desiderio di rivendicare la propria posizione di soggetto contro lʼinsistenza della domanda oggettivizzante dellʼaltro. Con le parole di alcune giovani pazienti di Recalcati (2011): “Per mia madre sono solo una bocca aperta da riempire”; “Non sono un tubo digerente”.
 
- Rifiuto come desiderio di controllo.
Il rifiuto del corpo nellʼanoressia, al contrario del corpo-teatro isterico, assume connotazioni di un corpo-barriera silenzioso e freddo. La non accettazione della dimensione corporea, nellʼanoressia, può essere rifiuto del corpo sessuale e rifiuto di un corpo ingovernabile che per sua natura si trasforma e cambia. In questo modo il corpo è inteso come un corpo con delle necessità, ma la volontà anoressica non riconosce nessuna altra volontà se non quella della propria coscienza per cui non può esistere nulla che non sia sotto il controllo diretto dellʼIo. Il controllo si manifesta così come forza dominatrice del mentale sul somatico, che deve quindi assoggettarsi agli ordini imposti, servendo la volontà disciplinatrice della coscienza. Anche in questo caso, è evidente come il desiderio di controllo e la paura di perderlo rimandino lʼuno allʼaltra, cosicché il controllo rischia continuamente di sfociare nella perdita dello stesso. Secondo G. Bateson (1972), infatti, lʼidea stessa di essere «capitani della propria anima» rimanda sempre ad unʼepistemologia dellʼautocontrollo destinata inevitabilmente al fallimento; inoltre, secondo C. G. Jung, ogni atteggiamento caratterizzato da eccessiva unilateralità corre sempre il rischio di rovesciarsi nel suo opposto.
 
-Rifiuto come desiderio di affetto.
Secondo D. W. Winnicott i disturbi alimentari in età evolutiva rappresentano un dubbio del bambino sullʼaffetto dei propri genitori, ed il rifiuto dellʼoggetto-cibo diventa una modalità per interrogare lʼaltro su questo sentimento. La negazione dellʼoggetto di godimento può essere, in alcuni casi, unʼinvocazione al segno dellʼaffetto del genitore. Precisamente il soggetto anoressico respinge il nutrimento concreto per un nutrimento affettivo e non mangia, rifiutando lʼoggetto per realizzare il desiderio di essere lʼoggetto del desiderio dellʼAltro. Secondo questa modalità il corpo diviene ostaggio di un ricatto che può oscillare verso forme estremamente radicali, arrivando sino allʼesercizio di un potere assoluto. Indubbiamente questa manovra contiene spesso una parte perversa, in quanto, giocando con la vita e la morte, rende il genitore impotente nelle mani dellʼindividuo anoressico che si fa strumento della sua angoscia. Il rifiuto del cibo sottende un desiderio di certezza assoluta sullʼaffetto dellʼAltro che viene tradotto dalla buona o cattiva relazione alla buona o cattiva alimentazione, fino alle forme più disperate dove il soggetto anoressico si fa morto per vedere se il genitore può sopportarne la perdita.
 
-Rifiuto come desiderio di difesa.
Lʼanoressia in questo caso svolge metaforicamente la stessa funzione delle mura di un castello, arroccando il soggetto allʼinterno e tenendo lʼAltro-nemico allʼesterno. La funzione difensiva del rifiuto del cibo protegge lʼindividuo «dallʼincontro traumatico con il godimento dellʼaltro» (Recalcati 2010), preservandolo dalla riduzione ad oggetto utile solo per il soddisfacimento del desiderio altrui. Stupri, intrusioni, lutti e tradimenti sono infatti tra gli elementi scatenanti di questa modalità anoressica che, solidificando i confini del corpo, crea unʼarmatura difensiva. Il rifiuto non svolge più una funzione dialettica con il prossimo, ma agisce come barriera verso la sua violenza distruttiva. «La negazione dellʼessere come strumento per la conservazione dellʼessere» è evidente nelle parole di una giovane paziente di Recalcati (2011): «se la pelle aderisce perfettamente alle ossa, io divento una mummia e le mummie non hanno più paura di nulla».
 
-Rifiuto come desiderio di "snascita".
Questa declinazione dellʼanoressia si inserisce nella clinica delle psicosi gravi, in quanto sembra che il soggetto smetta di interrogare lʼAltro attraverso la propria sintomatologia, recidendo così ogni legame. Ellen West, celebre paziente di L. Binswanger, descriveva la sua anoressia-bulimia come “brama di morte”: un desiderio di fine che esclude la vita spingendo il soggetto fuori dalla scena del mondo. Questa modalità è drasticamente differente da tutte le altre perché non nasconde nessun tentativo dialettico comunicativo con lʼAltro. In questi casi il desiderio è difficilmente analizzabile perché diviene un desiderio di non desiderare.
[caption id="attachment_10425" align="aligncenter" width="1000"] L’ultima fatica di Netflix è “Fino all’osso (To the Bone)” un film che tratta il tema delicato dell’anoressia dal punto di vista di Ellen, una giovanissima ragazza giunta quasi al limite delle sue forze, ma non abbastanza, né per combattere né per lasciarsi vincere.[/caption]
La fine di ogni passione è perseguita e voluta con tutta la passione dellʼessere: quasi una occidentaleggiante rilettura delle religioni orientali che secondo la filosofa Maria Zambrano (1988): «si sforzano di cancellare la differenza umana, di reintegrare ciò che è caratteristico nellʼuomo alla sua origine, di cancellare la nascita; tutte pretendono di snascere (desnacer)». Il soggetto, quindi, per essere aiutato, non necessita più solamente di considerare il proprio desiderio, ma ha bisogno che esso rinasca; attraverso la reintroduzione del desiderio nella e per la vita, il terapeuta tenta di riaccendere nel soggetto quella scintilla «che consente alla vita di continuare ad esistere» (Recalcati 2011).
-L'ingombro fallico e il rifiuto della castrazione nell'anoressia.
Con J. Lacan il discorso freudiano sullʼinvidia del pene si capovolge, mostrando lʼassenza fallica non più come povertà, ma come ricchezza: «il fallo non è più considerato unicamente come simbolo del potere, quanto piuttosto di una certa idiozia, di un ostacolo, di un ingombro del soggetto» (Recalcati 2011). Nella sessuazione maschile, infatti, il fallo immaginario può indicare il prestigio dellʼavere e del possesso «lʼuomo non è ma ha il fallo; la sua posizione è davvero quella del proprietario» (Recalcati 2011). Nel possedere il fallo è però sempre implicata la stessa possibilità di perderlo, che illustra come il rovescio di questa tipologia di sessuazione sia generalmente la castrazione. Nella femmina, al contrario, lʼassenza del fallo è dunque sia povertà che ricchezza, un godimento oltre la monodimensionalità fallica che eleva il discorso verso un apertura con lʼAltro al di là dellʼUno. Tuttavia questo stesso discorso non può valere per la ragazza anoressica, perché, come visto precedentemente, la paura di essere oggettivata dallʼAltro si traduce nel forte rischio difensivo di oggettivare lʼAltro e, in primis, dunque, il corpo. Questo può venire così reso strumento disciplinato e controllato ossessivamente per mantenere lʼidentificazione narcisistica con un idolo fallico. In questo senso, il corpo anoressico può essere il risultato di un femminile che non accettando la natura del corpo, con le proprie caratteristiche e bisogni, finisce per schierarsi allʼopposto più radicale, ovvero dentro la cultura-legge maschile. Facendo questo una ragazza anoressica rischia di divenire una parodia della cultura di controllo occidentale e, essendo sprovvista di un fallo concreto, di utilizzare il proprio corpo come se fosse un fallo ideale, simbolo di potenza e grandiosità. Esso diviene un corpo che assomiglia allʼideale fallico di un maschio nevrotico e un poʼ misogino: un corpo-fallo che non può mai fallire, pegno la propria forza e perfezione. Per lʼanoressica che scappa dalla natura della sua femminilità opponendosi ad essa non cʼè il tempo per notare che la vagina non è solo lʼassenza del pene. Non calcolando la diversità in quanto tale, rischia di adeguarsi alla legge maschile del padre-fallo, diventandone lʼestremizzazione grottesca, un fallorobotico, sotto il potere della volontà e non più un “fapipi” che spaventava il piccolo Hans, celebre paziente di S. Freud, proprio perché agisce fuori dalla coscienza. Con questo tentativo di negazione delle differenze e di tutto ciò che non sottostà alla volontà cosciente, lʼanoressica ambisce, come già detto, allʼUno maschilista che nega lʼAltro e ad un corpo-fallo ideale, ultra prestante, simbolo di potenza e successo.
 
Per approfondimenti:
_Bateson, G. (1971), La cibernetica dellʼIo: una teoria dellʼalcolismo, in Verso unʼecologia della mente, RCS Libri, Milano, 2011;
_C. G. Jung (1957-58), La funzione trascendente, in C. G. Jung, Opere vol. VIII. La dinamica dellʼinconscio, Bollati Boringhieri, Torino, 2016;
_Freud S. (1908), Analisi della fobia di un bambino di cinque anni. Caso clinico del piccolo Hans, in Casi clinici, Bollati Boringhieri, Torino, 2008;
_Recalcati, M. (2010), Lʼuomo senza inconscio, Raffaello Cortina, Milano, 2011;
_Winnicott, D. W. (1993), Colloqui con i genitori, Raffaello Cortina, Milano, 1997;
_Zambrano M. (1988), Lʼagonia dellʼEuropa, Marsilio, Venezia, 2009.
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

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di Maurilio Ginex 29/05/2018

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Nel campo dell’antropologia dedicata al concetto di morte, strutturato secondo un complesso sistema di segni e simbologie, assumono un importante ruolo le lacrime, in quanto rappresentano il “linguaggio della tristezza” e simboleggiano questo legame che si instaura tra i vivi che permangono, e i morti che passano verso una condizione di non-presenza. Una simbologia, quella delle lacrime, che rimanda all’importanza che ha il lamento funebre, in quanto lamento meramente sociale che collettivizza un dolore che nasce come individuale.

[caption id="attachment_10293" align="aligncenter" width="1000"] Ernesto de Martino (Napoli, 1º dicembre 1908 – Roma, 9 maggio 1965) è stato un antropologo, storico delle religioni e filosofo italiano.[/caption]

Il pianto rituale, che costituisce il “lamento funebre”, risulta essere un rito antichissimo che affonda le sue radici in un periodo storico precedente al Cristianesimo, diffusosi in tutta l’area mediterranea. Sul tema del cordoglio e della crisi spirituale-psicologica che l’uomo vive durante la vita, Ernesto De Martino (1908 – 1965) porta avanti una lungimirante analisi. L’autore, in morte e pianto rituale (1958), evidenzia come la crisi vissuta dall’individuo, dopo la scomparsa di un caro, sia elemento costitutivo della natura umana. La crisi del cordoglio genera forme comportamentali che vanno a rappresentare una forma di negazione di un comportamento considerato umanamente “normale”. Queste forme comportamentali a-normali, potrebbero far sfociare il soggetto, che vive il dolore in prima persona, in una follia imperante identificata con la vendetta. Quando De Martino parla del concetto del “far morire i morti in noi” , si riferisce a una pratica interiore ed ideale abbastanza faticosa. Essa si può manifestare in forme anche improprie ed è qui che subentra l’esempio della vendetta, che veicola il soggetto accecato dal dolore e dalla rabbia verso il voler vendicare il morto. Su questo frangente verte il richiamo al Patroclo di Omero, ucciso dal re troiano Ettore, il quale viene vendicato da Achille che non troverà pace finchè non avrà ucciso il carnefice di suo cugino. Tale richiamo all’Iliade di Omero, serve a De Martino per spiegare come nell’oggi un comportamento folle e psicotico, in quanto privo di razionalità, come la vendetta, non potrebbe trovare uno spazio nell’etica universale e dunque non potrebbe essere considerato come “normale”. Il lamento funebre dunque rappresenta una pratica che “preserva” l’individuo dalla possibilità di assumere quei comportamenti anormali. La tipologia del pianto rituale consta di una particolare tecnica costituita da un codice linguistico che designa l’intenzionalità dell’azione rituale in sé , intesa come uno strumento per trasmettere significati. Quest’ultimi codificano il prodotto finale del rito che viene rappresentato da questa generale pratica che serve a preservare l’individuo. In questo modo il rituale diventa un modo per riplasmare culturalmente lo strazio naturale prodotto dal fenomeno . Questa tecnica risulta essere anche un modo per conservare una tradizione che si ricongiunge con i valori morali che la crisi del cordoglio potrebbe potenzialmente compromettere. De Martino elabora quest’analisi evidenziando l’aspetto rituale che si accosta a questo controllo che bisogna avere nei confronti del patire e che nel pianto collettivizzato si concretizza come ritualizzazione delle pulsioni vitali dell’individuo. Come se l’intenzione fosse quella di rendere docile e plasmabile l’impeto di chi in prima persona viene attraversato dalla perdita dell’individuo caro. Qi si dipana un conflitto tra intenzionale (razionale) e non-intenzionale (irrazionale), che viene manipolato dalle regole di un rito che plasma la coscienza. Questa da una condizione incontrollata viene trasformata e riplasmata su forme controllate. È ulla scia di questo senso che il lamento funebre rappresenta una pratica che “preserva” l’individuo. Vi è un rapporto tra cultura e natura, in cui la prima, intesa come insieme di regole che costituiscono la tradizione di un popolo, ha “potere” sulla natura dell’individuo, intesa in questo specifico caso come l’insieme dei fatti emotivi che lo compongono al livello psicologico. Il rischio della mancata negazione e trascendenza del delirio post-trauma, delinea la tipica situazione da crisi del cordoglio. La circostanza in cui bisogna elaborare il lutto deve essere sedata e accompagnata, poiché nell’elaborazione del lutto occorre un duro travaglio interiore che permette di giungere alla razionalizzazione di quella forma di assenza totale che risiede nella morte. In De Martino l’assenza totale è il limite estremo della crisi generata dal cordoglio. In Sud e Magia (1959) De Martino spiega come la fascinazione, la fattura e i riti magici, sono tutti elementi che servono come argine all’orizzonte della crisi che il cordoglio genera negli individui. L’autore evidenzia come i vicini del defunto, attraverso la costituzione del rito, riescano a combattere la temibile conseguenza della crisi che si identifica nel concetto di essere-agito-da. Nell’orizzonte della crisi viene smarrita una potenza che identifica l’uomo, ovvero, il suo esserci nel mondo, come soggetto individuale capace di scegliere e agire secondo valori da lui stesso collaudati. Nella crisi del cordoglio si presenta un fenomeno ambiguo che priva l’uomo di se stesso, portandolo ad essere manipolato da qualcosa di esterno, per l’appunto ad “essere-agito-da” per dirla nei termini utilizzati dall’autore. Dunque l’uomo, che vive il dramma psico-fisico del dolore, viene privato della sua personalità nella sua totalità, perdendo quella facoltà che gli conferisce di essere l’unica causa di se stesso. De Martino si sofferma su una tematica che rispecchia il fenomeno in questione: il “sentimento del vuoto”. Il vuoto interiore e psichico che la crisi del cordoglio genera, rappresenta un problema non soltanto per il soggetto in questione che, estraniato e spaesato, non coglie il fatto di essere dominato da un delirio, ma anche per la realtà che lo circonda, costituita da persone e situazioni che diventano spettatori della follia imperante. L’ortodossia verso le pratiche rituali risulta essere quella garanzia per preservare il soggetto estraniato. Quest’ultimo vive una condizione di oblio interiore che lo porta a consapevolizzare che l’essere-agito-da è in atto e non è più arrestabile per suo volere, ma soltanto attraverso l’aiuto di qualcuno che sta al di fuori di sé.

De Martino mette sullo stesso piano delle malattie mentali, quella crisi generata dal cordoglio poiché in quest’ultimo stato l’uomo può essere ugualmente condotto a commettere qualcosa che razionalmente non farebbe, se non nella condizione estrema dell’essere-agito-da. Condizioni come queste possono essere combattute attraverso vari modi per espiare il dolore, come sentimento del vuoto interiore, che poi sfocia nell’estremismo di questo fenomeno che vede il soggetto sofferente manipolato da pulsioni irrazionali. Quest’ultima un’esperienza che nell’universo del rito popolare consta di varie tappe come per esempio la vestizione del morto, l’accensione di candele per illuminare il viaggio dell’anima e il pianto rituale che rappresenta il momento più catartico del rito. La fatica a cui si alludeva precedentemente, riguardo alla pratica interiore di ciò che De Martino chiama “far morire i morti in noi”, risiede in questa estrema difficoltà che vive il soggetto nel razionalizzare che non deve assolutamente perdere il controllo consapevolizzando quel passaggio di status interno alla perdita. Una continua lotta tra razionale e irrazionale, dove l’individuo non deve perdere il compito che gli conferisce la qualità di uomo, ovvero, quella di essere un ente che agisce secondo propri valori e scelte. De Martino delinea una mappa del fenomeno nella sua totalità, costituita dal cordoglio con le sue possibili conseguenze, dal lamento funebre e dalla vestizione del corpo del defunto, evidenziando l’aspetto protettivo che tale rituale assume per gli individui colpiti. Un medium tra chi consapevolizza il fatto di essere stato colpito dal dolore e chi invece ha il compito di arginare quella crisi che attacca la psicologia di quell’individuo che deve razionalizzare e consapevolizzare.

Nel rituale si incorpora una tipologia specifica di linguaggio simbolico che si discosta dal linguaggio ordinario e parlato. Quando precedentemente parlavamo del “linguaggio della tristezza”, riferendoci alle lacrime, si intendeva dire che per l’appunto all’interno di esso si instaura un sistema di significazioni che rimandano a un comportamento convenzionale teso a comunicare come prodotto finale ciò che identifichiamo con il superamento della crisi del cordoglio. A tal riguardo sono di particolare importanze le cosiddette “prefiche”, figure che nell’universo folklorico del Meridione italiano, zona territoriale che ha interessato le ricerche più importanti di De Martino, sono state ampiamente analizzate da quest’ultimo. Le prefiche erano delle lamentatrici, appositamente ingaggiate per piangere durante il rito funebre. Rappresentano, o per meglio dire rappresentavano, delle figure “professionali” che erano adibite all’accompagnamento del dolore patito dai sopravvissuti della comunità di fronte al lutto per la perdita di un individuo caro. Alcuni studi hanno definito il ruolo delle prefiche come una vera ipocrisia convenzionalmente e socialmente accettata, poiché si tratta di donne che non sono imparentate con il morto e che sono estranee a un coinvolgimento diretto nella morte, ma De Martino, al contrario di questa tesi, vede nella figura della prefica una forma culturale, che non soltanto deve essere protetta, ma che allo stesso tempo racchiude una funzione importante, in quanto appartiene a un orizzonte su cui si dipana la tradizione. Nell’ottica dell’autore, che ha compreso che il rito funebre non soltanto rappresenta un elogio della tradizione, ma è anche una forma di salvaguardia per chi viene colpito dalla perdita di un caro, le prefiche devono piangere quasi forzatamente affinchè venga costituita un’atmosfera ideale per giungere al superamento del cordoglio. Per tale ragione nelle tradizioni di quei luoghi dell’entroterra dell’Italia Meridionale, quando si parla di prefiche si sta indicando ciò che un tempo fu una professione. Era delle figure che accompagnavano il rito ed erano pagate appositamente per vivere il dolore di quell’atmosfera. Esse rappresentano un aspetto del culto della morte nato nei tempi antichi e che si è poi sviluppato per tutta la storia nell’avvenire. Agli occhi di De Martino le prefiche sono espressioni culturali da salvaguardare e proteggere di fronte all’incombere del progresso tecnologico che tende più che altro a etichettare come obsoleto ciò che rappresenta lo scenario delle tradizioni popolari. Il loro piangere, il loro gettare urla di dolore, il loro percuotersi il petto di fronte al corpo del defunto, sono tutti dati che fanno capo al loro compito di essere mediatrici della ritualizzazione del pianto. Non dovrebbe assolutamente essere permesso che tratti così caratteristici di una tradizione fossero estinti dal processo evolutivo dei tempi. De Martino, dunque, è in quest’ottica che fa un quadro dei riti funebri, evidenziando come essi, praticati secondo ortodossia, rappresentano delle tecniche di protezione reale dell’individuo che si appresta a un necessario superamento del fenomeno della morte.

 
Per approfondimenti:
_E. De Martino, Morte e pianto rituale: dal lamento pagano al pianto di Maria, Bollati Boringhieri, Torino, 1958;
_E. De Martino, Sud e magia, Feltrinelli, Milano, 1959;
_E. De Martino, Il mondo magico: prolegomeni per una storia del magismo, Bollati Boringhieri, Torino, 1948;
_S. Tambiah, Rituali e cultura, Il Mulino, Bologna, 1995.
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di Giuseppe Baiocchi del 21/04/2018

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Dio salvi la regina, sembra proprio il caso di dirlo: il matrimonio britannico tra il duca di Sussex Henry Charles Albert David Mountbatten-Windsor (1984) e l’attrice afro-americana e ex modella statunitense Meghan Markle (1981) ha generato non poche problematiche alla Royal family. Per capire i principi di non condivisione di tale unione anglicana bisogna inizialmente possedere conoscenza dei rudimenti basici della tradizione e delle radici dell’aristocrazia (Nota 1): elementi fondamentali per non trascendere nella confusione e nel gossip generato da telecronisti e giornalisti che con grande evidenza erano sprovvisti di ogni conoscenza nella disciplina dell’istituzione monarchica.
[caption id="attachment_10260" align="aligncenter" width="1000"] Harry e Meghan Markle sono marito e moglie. Il principe e l’attrice americana hanno detto il loro “sì” davanti all’Arcivescovo di Canterbury, tra sorrisi, lacrime e tanta commozione.[/caption]
Nella tradizione aristocratica l’unione tra classi sociali diverse era pressoché proibita: la formula del matrimonio morganatico (Nota 2) fu per la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento assolutamente una grande apertura verso la borghesia. Ma nel caso di Henry l’unione avviene addirittura con una persona del ceto popolare, la quale nella sua vita ha mutato ben tre religioni: cattolica inizialmente, dopo il primo matrimonio ebraica (per via del marito) ed infine anglicana. Per i credenti della Chiesa cattolica, così come per quelli della Chiesa anglicana, nata dallo scisma degli anni trenta del Cinquecento, il Re e la famiglia reale hanno un compito fondamentale verso i propri sudditi e verso il territorio che amministrano: sono i guardiani di Dio in terra, i custodi dell’ordine e della tradizione, fonte di ispirazione verso la perfezione etico-morale e soprattutto riguardante gli usi e i costumi che la popolazione dovrebbe seguire (Nota 3). Per una serie di atteggiamenti e usi, pare evidente come questo matrimonio per etichetta e tradizione non sia stato educativo e d’ispirazione per i tanti che vogliano migliorarsi o ambire ad un uso della convenzione tradizionale. Partendo dai vestiti degli invitati, completamenti fuori luogo – soprattutto in alcuni capi sgargianti da uomo -, fino ad arrivare ai calzini dei musicisti – in particolare del solista afro-britannico Sheku Kanneh-Mason – che spiccavano decisamente dagli abiti, come fosse stato un matrimonio di un “nuovo ricco” americano.
[caption id="attachment_10261" align="aligncenter" width="1000"] Nella foto a sinistra l'ineleganza del solista afro-britannico Sheku Kanneh-Mason. A destra alcuni invitati tra selfie e tatuaggi.[/caption]

Uno degli aspetti principali della decadenza del mondo moderno occidentale si manifesta nella perdita del significato, della forza e della tradizione originaria dell'aristocrazia. Questa si è sempre posta come un valore spirituale, corrisponde a quella funzione di mediazione - uomini che sono centro o modello per le attività inferiori e, simultaneamente, supporto, preparazione e via ad una realizzazione superiore. Essa deve costituire il modo di una superiorità virile, libera, personalizzata, orientata verso l'immanente (Nota 4). Dove è finita la qualità, il dettaglio, la tradizione, la perfezione? Per i matrimoni normali vi sono già le persone normali. Non si avvertiva il bisogno di ostentare, in Inghilterra, la celebrità e l’orgoglio nero: adeguatamente rappresentati con il gospel – che si poneva a sfida del secolare canto gregoriano e completamente fuori luogo nella St. George’s Chapel del Castello di Windsor -, così come i grandi gesti plateali e proletari dell’emotivo vescovo di Chicago, Michael Curry (1953) da sempre a favore dei matrimoni omosessuali, all’interno della Chiesa anglicana. Nella sua omelia, coprendosi attraverso il concetto vuoto di “amore”, ha platealmente annunciato lo smantellamento del “vecchio mondo” con il “nuovo”: «Dobbiamo scoprire il potere dell’amore, il potere redentore dell’amore. E quando lo scopriremo, saremo in grado di trasformare questo vecchio mondo in un nuovo mondo. L’amore è l’unica via». A tale proposito non posso non citare il filosofo Massimo Cacciari: «Alla vigilia della fine dei tempi, a satana è data un'estrema opportunità per sedurre l'umanità, ed ora egli s'impegna con sincero entusiasmo e dedizione a garantire a tutti, pane quotidiano, giustizia e pace, e corona questo evento del benessere con un programma di suprema pax religiosa. Convoca a Gerusalemme un grande concilio universale, nel quale inaugura un perfetto ordine tra le religioni finalmente riconciliate. Il successo arride talmente attorno al grande benefattore, e il consenso è talmente forte, che diventa intensa e immensa genuflessione. Solo pochi non ne accettano l'autorità (...). Ed allora essi vengono cacciati dal concilio, e tornano nel deserto, e là si ritrovano dalla parte di Cristo, che il grande inquisitore satana aveva già accusato: "tu hai consegnato gli uomini ad un insopportabile libertà!" E mentre a Gerusalemme risuona l'inno al benefattore, al supremo Re, nel deserto, questo misero resto di umanità, si prepara paradossalmente ed angosciosamente, nel nome del Cristo che li ha destinati ad essere liberi, si prepara all'ultima grande libertà di ogni uomo, a quell'insopportabile grazia di decidere in solitudine ed in libertà, l'evento dell'ascolto e della preghiera. Ascolto e preghiera, sono soltanto scelta che fiorisce dalla libertà dell'uomo». Verso il discorso propriamente razziale bisogna soffermarsi per capire la vera entità del razzismo aristocratico, il quale non si pone – come il pensiero progressista, ci ha insegnato – in uno stato di superiorità con l’altro, ma di riservatezza e conservazione. Ecco perché tale matrimonio è un tentativo di formalizzare l’irrealizzabile, inteso in concetti filosofici e di protocollo. Tradizionalmente, nelle nobiltà sta anzitutto in risalto il valore riconosciuto dal sangue e la subordinazione della persona rispetto ad una casata e ad un principio. Il singolo qui non vale individualisticamente o «umanisticamente», bensì in relazione al suo sangue, alle sue origini e alla sua famiglia di cui deve tenere alto il nome, l'onore, la fede. Un ugual risalto viene dato alla ereditarietà e al principio di escludere gli incroci contaminatori. Le differenze col razzismo qui sono evidentissime. Per millenni il razzismo è stato in atto nella nobiltà gentilizia di ogni popolo, ed anzi nella sua forma più alta, perché si è mantenuto aderente all'idea di tradizione ed ha evitato di materializzarsi in una specie di zoologismo. Prima che il concetto di razza si generalizzasse, come secondo le vedute attuali, «aver della razza» è stato sempre sinonimo di aristocrazia. Le qualità di razza sempre significarono qualità di élite, riferentisi non a doti di genialità, di cultura o di intellettualità, ma essenzialmente di carattere e di stile di vita. Esse si opponevano alle qualità dell'uomo comune perché apparivano, in buona misura, innate: le qualità di razza si hanno o non si hanno, non si possono creare, costruire, improvvisare o imparare. L'aristocratico, a questa stregua, è l'esatta antitesi del parvenu, dell'arrivato, dell'uomo che «si fa», che è divenuto quello che «non era». All'ideale borghese della «cultura» e del «progresso» si oppone quello aristocratico e conservatore della tradizione e del sangue. Questo è un punto fondamentale e l'unico vero superamento dei surrogati borghesi e protestantici dell'aristocrazia.

[caption id="attachment_10264" align="aligncenter" width="1000"] Nel dipinto: Sir Thomas Lawrence, "Sir Charles Stewart, III marchese di Londonderry" (particolare) - 1814.[/caption]
La cerimonia tradizionale della conservazione della famiglia nobiliare e dei rami cadetti deve avere il valore di un'azione reale, oggettiva, efficace, per quanto spirituale, e non si deve ridurre per nulla a una mera «cerimonia» più o meno teatrale, come è divenuta con questo matrimonio, innescando contemporaneamente anche la decadenza delle caste sacerdotali. Ciò premesso, l'importanza dei riti tradizionali di consacrazione dei nobili, sta nel fatto che essi ci dicono che nell'antica idea dei capi era compreso molto più che non un potere semplicemente materiale, temporale, politico. Il rito riveste un Re di «spirito santo»: solo allora egli è veramente Re. Allora egli ha le chiavi del regno dei cieli. Si può ricordare, che nell'antichità spessissimo si considerò nel Re il vero artefice della vittoria o della disfatta del suo popolo; inoltre, sin a tempi abbastanza recenti, i soldati e i capi non combattevano per la «patria», la «nazione» e il restante bagaglio della moderna ideologia plebea, ma per il loro Re. Da questa spiegazione molto semplice possiamo dedurre come l’aristocrazia britannica abbia mutato la sua politica, avviandola verso una monarchia che non “guida” il popolo, ma che le vuole essere “amico”, vuole “proletarizzarsi” per avere più clamore e amore. In parole povere vuole aumentare il proprio business economico di fatturato, anteponendo le leggi del mercato ai valori della tradizione e dell’integrità di una casa reale. Dunque tutto diventa possibile: il matrimonio con una divorziata, popolana e di colore, un vescovo americano pro-gay in una delle chiese più importanti della storia inglese, ex calciatori tatuati invitati (in passato le condotte di vita, aprivano o chiudevano porte, oggi no), la madre della sposa con il piercing e tante, tantissime anomalie, che i giornalisti di tutto il mondo – servi del sistema globale – hanno esaltato a modello e innovazione dell’istituto monarchico, non conoscendo praticamente nulla di esso. L’unico che sembra reggere in Inghilterra la fede e la tradizione rimane il principe di Galles Charles Philip Arthur George Mountbatten-Windsor (1948), uscito distrutto mediaticamente con la popolare, anch’essa amata dal popolo per la sua stravaganza e impudenza, Diana Frances Spencer. Anch’egli ha dovuto tacere per non alimentare polemiche, accompagnando all’altare una persona che avrà visto cinque, sei volte nella vita. Il principe Charles non ama l’architettura moderna, ritenendola un involucro senza anima, ama la campagna inglese, retaggio di una monarchia feudale ancora viva e indossa abiti sartoriali proseguendo la tradizione dei Windsor legati all’eleganza. Anche tale prerogativa sembra venire meno con il primogenito William che ama acquistare abiti commerciali da Zara o altre marche di rilievo, per poi venderle all’asta. Appare chiaro il rovesciamento di tutti i valori del bello, del giusto e della sopravvivenza di tutto ciò che è autentico, vero, sudato, personalizzato. La globalizzazione ha toccato anche l’aristocrazia britannica, lì dove era più forte: nell’eleganza.
[caption id="attachment_10262" align="aligncenter" width="1000"] Due foto a confronto: il prinpicino George, figlio di William e una foto d'infanzia del principe Charles.[/caption]
Chi ha avuto modo di seguire la diretta del matrimonio su un noto programma televisivo, avrà notato la presenza ingiustificata di John Peter Sloan, un sedicente scrittore inglese che vive in Italia e possiamo pensare ospite della trasmissione solo perché nato sull’isola di Albione. Ebbene Sloan si congratulava con gli sposi per aver dato il via alla rivoluzione all’interno delle convenzioni inglesi. Henry (Harry, come viene chiamato) in passato si è espresso sempre liberamente, a differenza della Regina: il sedicente scrittore e cittadino britannico sicuramente è all’oscuro della costituzione inglese che impone alla regina un silenzio e un rigido protocollo; inoltre non si può mettere sullo stesso piano di lettura un principe, il sesto per il trono, e la Regina regnante. Questa è la profondità del principale palinsesto nazionale in Italia. La prima vera spallata al sistema aristocratico, oltre alla Rivoluzione Francese, la diede anche Luigi Filippo di Borbone-Orléans, il quale nel 1814 si proclamava Re dei francesi “per volontà di Dio e della nazione”, inserendo sullo stesso piano Dio e l’uomo. Non più dunque per diritto divino: che l'uomo non sia sempre all'altezza del principio dell’ascesi della potenza, non importa, la sua funzione resta sempre imprescrivibile ed intangibile, poiché non è all'uomo, ma al Re che si obbedisce e la sua persona vale essenzialmente come un supporto a che si desti quella capacità di dedizione superindividuale, quell'orgoglio nel servire, quella prontezza all'azione e al sacrificio attivo, che vanno a costituire una via di elevazione e di dignificazione per il singolo e, nello stesso tempo, la forza più potente per tener insieme la compagine di organismo politico. La retorica giacobina mise in primo piano, non più il Sovrano, ma la «Patria», la «Nazione», il «Popolo». È in tal senso che si realizzarono le prime fasi del franamento collettivistico che, secondo una inesorabile concatenazione, dovevano condurre per gradi dal ciclo delle grandi monarchie europee, sino al socialismo, comunismo e bolscevismo. Il ricorso a simili entità, in effetti, non è che un fenomeno regressivo: patria e nazione non sono nulla più di un dato naturalistico elementare, e nella loro verità non vanno cercate in basso, nella sostanza promiscua del demos, del popolo, ma in alto, ove ciò che è diffuso in una stirpe si raccoglie, si personalizza, viene ad atto; non alla base, ma al vertice della piramide. E come anticamente poté dirsi: «Dove è l'Imperatore è Roma». Gli antichi simboli, rappresentanti la «regalità divina» in tutte le grandi civiltà tradizionali, sono diventati insegne della demagogia grazie al socialismo e al comunismo, ideologie che hanno dato nuova vita all'ideale promiscuo del meticciato: il «sole trionfale» dell’antichità è divenuto il «sole dell'avvenire» dell'utopia socialista; il rosso «imperiale» è stato rubato dalla bandiera rossa del marxismo; lo stesso segno occulto del «microcosmo», uomo dominatore «composto da tutti i poteri», cioè la stella a cinque punte, è divenuto l'emblema di satana, della «civiltà proletaria» bolscevica, associandosi ai rozzi segni di falce e martello. Tutti ciò dovrebbe parlare chiare parole a chi voglia cogliere il senso vero della storia; non quello fittizio, supposto dall'ideologia plebeo-giacobina del «progresso», che è venuta insensibilmente a dominare in tutti i trivii della «cultura moderna. Perché con l’idealismo e con la sostituzione dell’uomo a Dio, il primo vuole ambire alla sua volontà di potenza assoluta: vuole che il Re o presidente della Repubblica (come in Italia) sia un amico, vuole candidare persone impreparate a governare, solo perché sono giovani, si arroga il diritto di criticare tutto e tutti, senza possederne meriti speciali o pregi particolari; insomma in poche parole tutto può essere concesso e tutto ciò che è stravagante e alternativo è visto con bontà e massima apertura al cambiamento. Ma dove ci sta portando ciò? All’annientamento spirituale e umano della nostra identità di europei e poi di italiani. Ma tutto ciò, oggi, che cosa è, se non un curioso ragionamento? A questo titolo dunque la prendano coloro, che non possono capirne di più.
 
Note
_Nota 1: Tradizione vien dal termine tradere, cioè trasmettere. Si presuppone, infatti, nel trasmettere una continuità, una identità del contenuto, cosa che a sua volta è inconcepibile senza un certo superamento della condizione temporale. Non si può dunque parlarse di tradizione in senso superiore dovunque il suo contenuto non si leghi a qualcosa di metafisico e di super-naturale. La tradizione può avere forme di espressione e di manifestazione varie, ma se essa non vuole trascendere nel significato di routine, trasmissione meccanica di consuetudini, abitudini e idee che si stratificano e sempre più si rendono opache e soggette alla deformazione, di là da quelle forme esteriori e di espressione della tradizione deve sussistere una vera chiara conoscenza. Qui in fondo, si ha una condizionalità reciproca: la tradizione serve da base allo spirito aristocratico così come questo serve da base alla tradizione.
_Nota 2: Prima negatività, è stata la rinuncia al matrimonio definito “Morganatico”, ovvero un’unione tra un uomo appartenente ad una famiglia reale o regnante, e una donna di rango inferiore - un casato che non è reale o regnante, o una donna che non appartiene alla nobiltà. Né la sposa né alcuno dei figli nati dal matrimonio può avere alcuna pretesa sui titoli del marito, sui suoi diritti o le sue proprietà. I figli sono considerati legittimi per tutti gli altri aspetti, e si applica la proibizione di bigamia;
_Nota 3: Ogni forma tradizionale di civiltà fu caratterizzata dalla presenza di esseri, i quali, per via della loro "divinità", cioè di una superiorità innata o acquisita rispetto alle condizioni umane e naturali, apparivano capaci di rappresentare la presenza viva ed efficace del principio metafisico in seno all'ordine temporale. Tale, secondo il senso interno della sua etimologia e il valore originario della sua funzione, era il Rex secondo l'unico concetto di una divinità regale coadiuvata da una regalità sacerdotale;
_Nota 4: Ariston dal greco καλός significa appunto “il meglio”, il tipo dell'aristòcrate risponde effettivamente allo spirito migliore della classicità, nel suo irradicarsi fortemente nel senso di dignità e di superiorità di classe, nel tendere a ciò che vive all'interno si testimoni altresì, e rigorosamente, in una forma, suggellandosi in un'armonia di corpo, di spirito e di volontà, in una tradizione di onore, di stile, di alta tenuta e di, severità sia nel gesto che negli stessi dettagli del costume e delle forme esteriori, in generale in ogni modo del sentire, del reagire, del pensare. Dal punto di vista interno, le qualità dell'aristòcrate sono simili a quelle dell'asceta: vi è un senso di superiorità rispetto a ciò che è semplice interesse al "vivere"; vi è un predominio dell'ethos sul pathos; vi è una semplificazione interiore e un disprezzo rispetto alla massa greggia delle tendenze, delle emozioni e delle sensazioni, ove sta il segreto di una calma che non è indifferenza, ma superiorità reale, di una capacità d'apertura d'animo, di squisitezza e di finezza nello stesso tempo che di azione chiara e forte, in cui si scolpisce la figura del nobile. Quell'assenza spontanea degli impulsi ciechi da cui gli uomini sono spinti come affamati alla mensa della vita; quel possesso di sé che non è una preoccupazione, ma una semplicità e quasi una seconda natura sempre presente; quella compostezza e quell'equilibrio cosciente che, appunto, conduce allo «stile».
 
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di Federico Giacomini 03/04/2018

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“Come è illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere ad una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare. Ed è questo insieme un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine della società; perché l’oggetto naturale di qualsiasi intervento della società stessa è quello di aiutare in maniera suppletiva [subsidium afferre] le membra del corpo sociale, non già distruggerle ed assorbirle”.
 
Tale principio è ordinatore ed ha carattere normativo, non è una sorta di “imperativo categorico”, ma deriva da una precisa concezione antropologica relativa alla dimensione sociale dell’uomo e alle sue ripercussioni politiche ed economiche.
Trattare il principio senza il suo fondamento sarebbe come progettare un tempio senza preoccuparsi delle colonne.
Tale fondamento è di tipo metafisico, in quanto riguarda l’uomo e le sue formazioni sociali cui il principio sarà applicato, e la questione è la coordinazione dei loro rapporti che dovrà rispettare la loro specifica natura e non “piegarla” a qualcosa di estraneo.
Si è usi racchiudere nel nome di “persona” la complessità dell’essere umano. Il problema della sua definizione è stato dibattuto a lungo in filosofia, specie per ciò che concerne la sue conseguenze nel diritto e nelle scienze.
San Tommaso d’Aquino sosteneva che “il termine persona indica quanto di più nobile c’è nell’universo, ovvero un essere sussistente di natura razionale”; a questa definizione di San Tommaso d’Aquino si può avvicinare quella di Boezio: “naturae rationalis individua substantia”. Da ambedue le definizioni emergono le nozioni di: individuo, la caratteristica e qualità di un soggetto; natura, comune a tutti gli individui; sostanza, “il modo fondamentale di essere […] ciò che esiste in sé e per sé”.
Accorpando queste tre definizioni con il termine “persona” si farà riferimento a una sostanza individualizzata di natura razionale. Nei confronti della stessa natura umana la persona è il singolo unico e irripetibile il quale ha come fondamento ultimo il possesso di un atto di essere proprio, intendendo con ciò il principio metafisico per il quale una cosa è realmente e radicalmente, il suo essere come atto di perfezione basilare. Si può asserire che anche altre sostanze individuali “sono”, ma la persona “agendo per se stessa” mostra una sussistenza superiore ed il suo atto di essere è più “proprio”.
Proprio in quanto la nozione di sostanza rimanda a quella di “persona” in quanto essere sussistente, avente l’atto di essere in sé e per sé e che non dipende da altro che non da sé, non potendo essere inglobata né assorbita, essa risulta individuo unico tra tutti. Tale fondamento metafisico della stessa si vedrà è vero fondamento del principio di sussidiarietà.
Caratteristiche dell’essere persona:
_inalienabilità. Il suo essere non si può sottrarre dalla persona stessa né assunto da altri. Secondo una definizione classica la persona è sui iuris et alteri incommunicabilis, ha una sfera di intangibilità in quanto appartiene a se stessa e non è alienabile in chiunque o qualunque cosa. Non può essere annullata né in un nulla né in un Tutto (Natura o Divinità).
_Irripetibilità. La persona è unica, nella sua singolarità, dunque irripetibile. La sua dignità “non deriva da qualcosa di astratto, ma dalla radice metafisica di questo essere sussistente che, in quanto tale, è singolare, concreto, reale, individuale” .
_Completezza. La persona è tale per sé e non in relazione a un tutto, per il fatto di essere un tutto in se stessa in quanto essere sussistente. Essa non è parte di qualcosa: “il concetto di parte è in contrasto con quello di persona”.
_Intenzionalità e relazionalità. Le quali indicano la capacità di instaurare relazioni aprendosi verso gli altri. Se essa non si auto-possedesse non si potrebbe aprire verso gli altri fino a donarsi.
_Autonomia. La persona agisce per se, né seguendo gli altri né agendo d’istinto, ma usando la razionalità che la rende autonoma nel giudizio e nella libertà di scelta.
Altra caratteristica dell’uomo è la socievolezza. Come ci hanno dimostrato filosofi del ‘900 di tradizione ebraica Martin Buber ed Emanuel Levinas, l’uomo si comprende come essere in relazione agli altri. Tra persona e società c’è una sorta di rapporto di dipendenza: si pensi alla dimensione affettiva e a dimensioni materiali. Come asseriva il filosofo francese Jaques Maritain: “la persona come tale è un tutto. Dire che la società è un tutto composto di persone, è quindi dire che la società è un tutto composto di tanti tutti”. Essa è frutto del libero auto-realizzarsi della persona avente sostanza, del suo espandersi verso gli altri, del suo comunicare. La società non ha sostanza, dunque non è al di sopra della persona.
La solita definizione di società è: “unione morale e stabile di più individui che tendono a un medesimo fine”. Come scrive Sofia Vanni Rovighi: “l’uomo non si risolve nel suo essere sociale […] La società civile […] nasce dalla necessità per l’uomo di conseguire dei fini, legati col bene essenziale della sua natura, che non potrebbe conseguire se vivesse isolato. Il fine della società è il bene comune dei suoi membri […] La società civile non è un ente fisico […] ossia non è una sostanza esistente per conto proprio, indipendentemente dagli individui che la compongono: chi esiste e chi opera è sempre e soltanto l’individuo. E questo andrebbe tenuto presente quando si sentono esaltare i poteri della società, della comunità, dello Stato. Quando lo Stato può tutto e ha tutti i diritti nei confronti dei singoli individui [significa che] uno o più individui che reggono lo Stato possono tutto, a scapito di tutti gli altri individui che non possono nulla. Che cosa è allora la società? Niente del tutto? E’ una unità di relazione; è un complesso di relazioni fra gli individui che la compongono […] E perciò la società ha una realtà: realtà di relazione”.
In questa prospettiva è chiaro che la dimensione sociale porta un notevole arricchimento alla persona, chiara è anche la distinzione tra la presenza di sostanza metafisica presente nella persona, ma assente nella società. I due termini distinti assumono diversi ruoli: strumentale quindi la società nei confronti della realtà libera e sostanziale della persona. Ugualmente la prospettiva rimane invariata, viene anzi ulteriormente rafforzata sostituendo alla società lo Stato.
“Per ciò che l’uomo è come cittadino, per ciò che ha e riceve dalla partecipazione alla comunità politica, l’uomo dipende da questa […]. Ma l’uomo non ha il suo essere uomo dallo Stato; l’uomo non si risolve nel cittadino: ha da conseguire una perfezione che va oltre i risultati raggiungibili sulla terra e per nulla al mondo può sacrificare questa sua finalità – che lo fa uomo. Il che è quanto dire che neppure per il bene dello Stato l’uomo può violare la legge morale e andar contro le conclusioni della sua coscienza”.
Per quanto concerne il contesto filosofico (anche teologico) nel quale si è sviluppato il principio di sussidiarietà, il concetto di bene comune va oltre il vago concetto di un qualcosa di dato da un’ autorità od ente superiore alla persona in nome del bene sociale.
Si veda la sintesi espressa nel Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa: “Unico e irripetibile nella sua individualità, ogni uomo è un essere aperto alla relazione con gli altri nella società. Il convivere nella rete di rapporti che lega tra loro individui, famiglie, gruppi intermedi, in relazioni di incontro, di comunicazione e di scambio, assicura al vivere una qualità migliore. Il bene comune che gli uomini ricercano e conseguono formando la comunità sociale è garanzia del bene personale, familiare e associativo”.
Secondo l’ottica espressa nel compendio il bene comune è garanzia del bene sociale e si configura in funzione dello stesso, delle associazioni, delle naturali espansioni della persona (famiglia in primis); ciò rimane il riferimento unico in quanto metafisicamente fondato. Sempre nel compendio si legge che il bene comune non deve essere visto come un fine in se, ma acquisisce autentico valore in quanto è riferimento per il raggiungimento dei fini della persona: “Una società che, a tutti i livelli, vuole rimanere al servizio dell’essere umano è quella che si propone come meta prioritaria il bene comune in quanto bene di tutti gli uomini e di tutto l’uomo […]. La responsabilità di conseguire il bene comune compete, oltre che alle singole persone, anche allo Stato, poiché il bene comune è la ragion d’essere dell’autorità politica […]. L’uomo, la famiglia, i corpi intermedi non sono in grado di pervenire da se stessi al loro pieno sviluppo; da ciò deriva la necessità di istituzioni politiche, la cui finalità è quella di rendere accessibili alle persone i beni necessari […] per condurre una vita veramente umana”.
Da tale testo sul bene comune limpidamente emerge il ruolo strumentale delle istituzioni in vista del pieno raggiungimento del singolo uomo, della famiglia e corpi intermedi, dell’ente dotato di sostanza e delle sue naturali espansioni nei confronti dello Stato.
Un altro testo a conferma dell’importanza profonda del bene comune è il Catechismo della Chiesa Cattolica: “Per bene comune si deve intendere ‘l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono ai gruppi, come ai singoli membri, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente’. Il bene comune interessa la vita di tutti. Esige la prudenza da parte di ciascuno e più ancora da parte di coloro che esercitano l’ufficio dell’autorità”.
Nel documento sono specificati tre elementi sostanziali i quali formano il bene comune: rispetto della persona; autorità; pace.
Nel nome del bene comune, i poteri pubblici sono tenuti a tutelare i diritti fondamentali dell’uomo ed hanno il dovere di permettere ai cittadini la loro completa realizzazione. Spetta all’autorità rendere accessibile ai cittadini i beni essenziali ad una vita pienamente umana: il lavoro, il vitto, il vestito, la cultura, il diritto a formare una famiglia. Il concetto di pace coincide con quello di sicurezza sociale la quale autorità deve garantire ivi compreso il diritto alla legittima difesa personale.
Come scriveva nel 1953 il filosofo domenicano A.F.Utz il contenuto del principio di sussidiarietà è il diritto del singolo di fronte allo Stato e alle formazioni maggiori. Il singolo viene considerato in quanto esponente del diritto prestatale, dallo stesso si costituiscono società e Stato. Allo stesso modo, anche i corpi intermedi e le configurazioni sociali devono determinarsi in relazione a propri diritti sui quali le entità maggiori non possono intervenire se non nel caso di una vera e reale necessità. Un diritto di ingerenza da parte dello Stato è concesso solo trattandosi di sottrarre al singolo o alla formazione minore un compito che essi non sono in grado di espletare. Il diritto del singolo e delle formazioni minori vale nella misura in cui gli stessi possono esigere l’aiuto delle formazioni maggiori e statali prima che le siano tolti i rispettivi compiti. Da qui il termine sussidiarietà (prestazione d’aiuto) il quale esprime un rapporto giuridico e non amicale. Tale rapporto contiene in sé una formula implicita secondo la quale “quanta più libertà è possibile, tanta più autorità è necessaria”.
Già l’ Enciclica Quadragesimo anno,che verrà esaminata successivamente, dimostra come la questione dell’autorità è intimamente correlata alla sussidiarietà la quale è anche un principio giuridico in base al quale viene formulata e una gerarchia di poteri. Elemento che contraddistingue il principio di sussidiarietà è il concetto di auto-responsabilità del singolo e della formazione cui appartiene, il quale influisce direttamente nel bene comune. L’autorità viene vista quindi come elemento di difesa sociale, diviene essa istituzione coercitiva quando il bene sociale non viene più assicurato dal singolo o dalla formazione minore. Sempre dal concetto che vede la persona metafisicamente superiore a società e Stato deriva tale concezione del principio di sussidiarietà.
La persona metafisicamente superiore a società e Stato. Trattandosi di un concetto di superiorità metafisica, essa non riguarda solo la persona, riguarda anche la comunità in quanto naturale espansione della stessa ed in primis la famiglia sullo Stato e sulla società nei quali viene meno l’elemento della consistenza metafisica ma, solamente come sosteneva la Vanni Rovighi, una realtà di relazione.
Secondo H.E.Hengstenberg, “la comunità è l’unione stabile e duratura di persone in un valore comune, nel quale al contempo i singoli vivono la propria realizzazione […]. Per la società sono quindi caratteristici non tanto i valori comuni convenuti […] quanto piuttosto un fine comune da realizzare. I membri della società si riuniscono con lo scopo di realizzare un fine esterno […]. La società ha un carattere organizzativo. Per la comunità, invece, l’elemento di realizzare insieme un fine esterno, non solo non è necessario, ma addirittura è di impedimento se questa ‘intenzione’ era la ragione che guidava il loro intimo incontro […]. La società è all’opposto della comunità, non metafisica. Possiamo rappresentare l’essenza della società ricorrendo a un semplice esempio. Se più uomini insieme sollevano una cassa, dal momento che questa è troppo pesante per un uomo solo, allora essi sono dipendenti l’uno dall’altro in vista del sollevamento della cassa (il successo). Ma questo successo si aggiunge come un risultato accessorio ai singoli. Non si tratta di una comune intima determinazione del loro essere (come nella procreazione), e per questo non è necessario un legame reale tra gli uomini. Essi possono essere reciprocamente indifferenti a se stessi […]. La comunità, è giustificata solo per il fatto che essa è ciò che è […]. La comunità ha un senso (interno), mentre la società ha uno scopo (esterno) […]. Lo stesso ordinamento gerarchico non necessita di essere dimostrato. Esso trova il proprio fondamento nella superiorità metafisica della comunità di fronte alla società. Nella comunità viene a compiersi la natura e la personalità dell’uomo. La società ha un senso immediato solo in quanto rende possibile, facilita, protegge ed assicura il compimento e la vita della comunità. Il fatto che il matrimonio occupi il primo posto è dato dal suo carattere di pura comunità” .
Si è quindi parlato inizialmente di un circolo il quale si viene a creare tra istituzioni, comunità e Stato. Risulta ora evidente che esso ruota, volendo trovare le sue fondamenta, attorno a concetti quali persona e mondi vitali (comunità), le quali si configurano come colonne portanti dell’arco a volta del principio di sussidiarietà.
Per approfondimenti:
_Pio XI, Enciclica Quadragesimo anno (1931), parte V n. 35, AAS 23 (1931);
_San Tommaso d’Aquino, Summa Theologicae, vol. 1;
_S. Boezio, Liber de persona duabus naturis contra Eutychen et Nestorium, ad Joannen Diaconum Ecclesiae Romanae, cap. III, PL 64, 1343;
_S. Vanni Rovighi, Elementi di filosofia, vol. 2, La Scuola, Brescia (1995);
_G.Vittadini, Che cosa è la sussidiarietà, Guerini e associati, Milano (2007);
_San Tommaso d’Aquino, Commentum in librum III Sententiarum;
_J. Maritain. La persona e il bene comune, Morcelliana, Brescia (1963);
_S.Vanni Rovighi, Elementi di filosofia, vol. 3, La Scuola, Brescia (1995);
_Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2004;
_Catechismo della Chiesa cattolica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2000;
_P.Del Debbio, Fondamenti filosofici del principio di sussidiarietà, in Che cosa è la sussidiarietà, G. Vittadini;
_H.E.Hengstemberg, Philosophische Begrundung des Subsidiaritatsprinzip, in A.F.Utz (a cura di), Das Subsidiaritatsprinzip.
 
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di Federico Giacomini 23/02/2018

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La storia del principio di sussidiarietà può essere identificata con la trama delle forme assistenziali assunte in Occidente. Anticamente infatti non esisteva un rapporto equilibrato tra l’opera di singoli e formazioni sociali da un lato e istituzioni politiche statali dall’altro. Fino dalla tarda antichità il mondo cristiano da vita ad un sistema assistenziale basato su una risposta di natura associativa, la quale traduce una pratica comunitaria diffusa, che dalla caritas evangelica, per la prima volta fa derivare uno ius hospitalis a tutti riconosciuto.
Fino dal primo Medioevo (ultimo periodo imperiale) si assiste alla realizzazione di un “sistema di carità” formato da istituzioni libere ed autogestite le quali erano sostenute da decisioni personali e volontarie di chi sceglieva di far parte di una “associazione elemosiniera” o di dedicare la propria vita al servizio ospedaliero.
Il rimando è alla antica visione positiva del povero, il quale era incarnazione del pauper Christi e della sua redenzione la quale si perpetua nelle membra sofferenti. L’azione caritativa rappresentava in un certo senso una possibilità concreta e privilegiata in un certo senso di salvare l’anima: gesto utile ai caritatevoli prima che ai beneficiari. Strutture permanenti di accoglienza chiamati xenodochia e poi hospitalia vennero fondate lungo le principali reti viarie e presso conventi, residenze episcopali, monasteri, sedi plebane (l’antica pieve, casa del popolo), in contesti nei quali i centri urbani rivestivano importanza minore. In queste sedi veniva praticato un ricovero largamente indifferenziato che era rivolto a malati cronici, anziani, invalidi e poveri.
La figura giuridica entro la quale si collocava l’intervento caritativo, con la sistemazione del diritto giustinianeo, era quella dell’opera pia. Una realtà che, pur agendo nella sfera civile, conservava in ragione della sua peculiare natura una notevole autonomia e godeva di esenzioni in quanto beni della Chiesa, garanzie e notevole autonomia. Potevano disporre di donazioni, lasciti e usare rendite o patrimoni per i loro interventi assistenziali: forme molteplici di carità familiare e personale venivano istituzionalizzate.
Dopo l’ VIII-IX secolo questo tipo di organizzazioni assistenziali si inserivano in una situazione sociale relativamente stabile: una situazione alimentare che non era insoddisfacente ed assenza di epidemie favorirono una crescita demografica, legata verso un favorevole rapporto tra le risorse e la popolazione. La successiva e straordinaria crescita delle città fu sostenuta da una rete assistenziale che si adeguò a nuove esigenze con la creazione di ospedali urbani da una parte, e un ceto borghese e mercantile che sosteneva numerose confraternite elemosiniere dall’altro. Gli ordini mendicanti protagonisti di tale azione furono i Domenicani, all’origine delle “misericordie” ed in molti borghi e città italiane i Francescani, con i “consorzi elemosinieri”. La povertà urbana trovò in molti casi efficace risposta, al di fuori di un piano complessivo delle magistrature comunali, in una prospettiva di sussidiarietà formatasi in modo spontaneo.
A partire dalla metà del XIV sec., due elementi conducono ad un primo cambiamento del sistema: peggioramento delle condizioni sanitarie e sociali con epidemie ricorrenti di peste, e sviluppo economico causa di ampia marginalità sociale.
La concezione della povertà si fa varia e nella letteratura umanistica (si veda il III capitolo riguardante l’opera di J.L.Vives), volta ad illustrare conseguenze sociali potenzialmente pericolose e caratteristiche ambivalenti della stessa, si sottolinea il bisogno di discernere le elemosine. Il contatto con idee precedenti tuttavia non venne perso, le stesse furono sempre riproposte da movimenti di riforma religiosa e furono fatte proprie nell’epoca dell’umanesimo civile con la creazione di uffici cittadini di assistenza ed in Toscana e Lombardia vennero creati gli “ospedali maggiori”.
Tale ormai indispensabile ed inedito intervento di poteri laici ed ecclesiastici consentì una maggiore specializzazione, sia sociale che medica, pure collocandosi in un processo segnato da un “disciplinamento” religioso e sociale. Una caratteristica di tale legislazione - la quale precedette in numerose città italiane, la successiva norma anglo-elisabettiana -, fu la distinzione tra poveri inabili (buoni) ed abili al lavoro (cattivi), i quali furono obbligati al lavoro in luoghi di internamento. Fu rivolta una attenzione particolare ai poveri “vergognosi”, civili e nobili decaduti.
A queste categorie furono rivolte istituzioni ormai specializzate, che nel XVI secolo si posero l’obiettivo di recludere le stesse a scopo rieducativo: vennero fondati gli “ospedali generali” in Francia, le “workhouse” in Inghilterra e Olanda, gli “alberghi dei poveri” nella penisola italiana. Con questi strumenti la popolazione cittadina marginale trovò asilo e possibilità di lavoro, mentre la “reclusione”, spesso nei suoi effetti sopravvalutata e fraintesa, non esaurì la gamma degli interventi assistenzialistici in Europa e non presentò soluzioni di continuità con le tradizioni caritative delle comunità rurali e delle città. Le riforme cattolica e protestante offrirono un grande impulso attraverso le iniziative promosse da gruppi legati a nuovi fermenti cristiani e all’umanesimo devoto. I cambiamenti attuati nel 500 - dall’Italia settentrionale alle Fiandre, dalla Baviera alla Renania e alla Francia - risposero a fini morali e spirituali più che al controllo sociale.
Accanto alla rete di ospedali urbani, consorzi elemosinieri e monti di pietà, sorsero molteplici iniziative laiche e, negli Stati cattolici sorsero nuove organizzazioni religiose e nuove confraternite rivolte all’assistenza degli orfani. In Europa si fondarono numerosi ospizi e ritiri per anziani, minori abbandonati, giovani donne, inabili, vedove, in un quadro di una sempre più viva sensibilità per i temi della famiglia e dell’infanzia. Le stesse prerogative ecclesiastiche riguardanti gli enti ospedalieri e assistenziali, affermate dal Concilio di Trento in una continuità con la tradizione del medioevo, restarono interne ad un sistema il quale riflesse posizioni largamente condivise, mentre furono sempre vive le autonomie legate alle corporazioni di mestiere, ai ceti, alle libertà locali. La prima affermazione di statualità moderna si inserì in una trama di poteri articolati e diffusi, unici in grado di occuparsi dei problemi territoriali e delle sue componenti professionali e lavorative.
[caption id="attachment_9939" align="aligncenter" width="1000"] l Concilio di Trento o Concilio Tridentino fu il XIX concilio ecumenico, ovvero una riunione di tutti i vescovi del mondo, per discutere di argomenti riguardanti la vita della Chiesa cattolica. Esso avrebbe dovuto "conciliare" cattolici e protestanti, durando ben 18 anni, dal 1545 al 1563, sotto il pontificato di tre papi. Si risolse in una serie di affermazioni tese a ribadire la dottrina cattolica che Lutero contestava. Con questo concilio venne definita la riforma della Chiesa cattolica (Controriforma) e la reazione alle dottrine del calvinismo e del luteranesimo (Riforma protestante).[/caption]
Non a caso, fra gli inizi del XVII secolo e la metà del successivo, l’Europa conobbe da una parte interventi di “ingegneria disciplinare” dell’assolutismo illuminato, ma dall’altro lo sviluppo di numerose iniziative basate sull’assistenza domiciliare e su un diretto rapporto con il povero, di perdurante ispirazione religiosa, nel solco dell’esperienza confraternale. Alle istanze di rinnovamento diffuse nei paesi riformati, fece riscontro l’opera di san Vincenzo de’Paoli e l’azione delle religiose da lui fondate al di fuori del chiostro, mentre la spiritualità di san Francesco di Sales diede un particolare impulso a una carità a sfondo sociale. Non è un caso che in quel periodo molte proposte di cambiamento giunsero da ambienti religiosi, miranti a una migliore organizzazione dei ricoveri, e più tardi, a un generale ripensamento del sistema caritativo. In tale prospettiva la scoperta del “sociale” – che portò a una sottolineatura della centralità del momento sanitario e ospedaliero, nonché dell’importanza di un associazionismo libero da vincoli di ceto – mise in discussione molte delle forme ereditate dal passato, ma non un comune riferimento ideale.
Come avvenne in Inghilterra con le “poor laws”, i tentativi di riforma si dovettero misurare con un mutamento rispetto al quale si rese necessario un intervento pubblico e i suoi caratteri di universalià e razionalizzazione. Se in Italia non si giunse a sistemi di “carità legale”, si giunse comunque ad un ingresso dello Stato e non più solo dell’autorità cittadina nel campo della beneficienza pubblica. Di fronte ad un processo sempre più rapido di crescita demografica e di modernizzazione economica, con il conseguente aumento della povertà e disgregazione dei rapporti familiari, si imposero delle decise innovazioni.
Andarono verso tale direzione molte voci di matrice illuministica, accompagnate a volte da accenti antipauperistici, anche se con Montesquieu non mancò chi sostenne una estensione più coerente dei diritti nel sociale. Tale estensione fu resa più urgente dai limiti imposti ai corpi intermedi, soprattutto in rapporto ai diritti tradizionali delle comunità, mentre gli ordini religiosi, le corporazioni e le confraternite furono colpite dalla politica delle soppressioni con ricadute ovvie sul tenore di vita di popolazioni rurali ed urbane.
Due principali caratteristiche possiamo trovare nelle legislazioni assistenziali tra la fine del 700 e gli inizi dell’800, nel tentativo, di ricreare la coesione sociale: sul piano municipale la concentrazione degli istituti che porterà ai “bureaux de bienfaisance” e in età napoleonica alle congregazioni di carità, ed in secondo luogo un intervento governativo diretto nella gestione degli enti, con nomina pubblica degli amministratori e controllo diretto dei patrimoni, vista l’inadeguatezza e la diminuzione delle rendite e dei lasciti testamentari.
Alla luce di nuovi indirizzi delle scienze sociali e mediche si crearono premesse per una nuova visione dell’ospedalizzazione, che non prevedeva più una cura indifferenziata, attraverso l’apertura di istituti per fronteggiare il problema della povertà. Aumentarono le possibilità di intervento e i governi se ne servirono ampiamente, talora con un uso selettivo e discriminante dei sussidi elemosinieri. Soprattutto in relazione a un’inedita mentalità produttivistica, case d’industria e di ricovero allargarono notevolmente la loro capacità ricettiva ma, furono utilizzate a fini del controllo territoriale e di polizia. In più di un’occasione, tuttavia, si arrivò a svolgere un’opera di assistenza immediata, sovente con il ricorso del lavoro a domicilio, nei confronti della povertà tradizionale e della nuova marginalità sociale tipica delle città europee fra il ‘700 e l’800. Incertezze teoriche si rifletterono sul piano pratico, in sostituzione delle disgregate forme di solidarietà, al dovere dello Stato di occuparsi dei bisogni non corrispose un diritto all’assistenza se non per il breve periodo del giacobinismo nella Francia rivoluzionaria.
Nel periodo della Restaurazione si cercò un diverso equilibrio, con i gruppi dirigenti che mantennero il controllo dello Stato sulle istituzioni di beneficienza, ma allo stesso tempo favorirono impostazioni paternalistiche basate su una politica sociale fatta di lavori pubblici e sussidi familiari, mutuo soccorso, ospedali e ricoveri. Tali scelte si rivelarono del resto insufficienti, in un processo di industrializzazione e modernizzazione economica, e questo non poté che riaprire spazi per l’iniziativa religiosa e privata. Le chiese tornarono in primo piano e, dopo le soppressioni del 700 e dell’età napoleonica, si registrò una diffusione di ordini religiosi, soprattutto femminili, dediti alla rieducazione, all’istruzione popolare, all’assistenza ospedaliera e privata.
A tale fenomeno di amplia portata si accompagnò sovente un associazionismo laicale che diede vita a forme di soccorso originali soprattutto verso le forme di povertà causate dall’urbanesimo come la devianza giovanile e il disagio familiare. Su tali basi si svilupparono ulteriori progetti nel campo del credito popolare, della cooperazione in agricoltura, del mutuo soccorso operaio, i quali costituirono una risposta coraggiosa ed aperta alle necessità del tempo.
Tutto l’800 conobbe dunque un incremento di opere sociali, con la fondazione di gradi istituti medici specializzati anche nel campo pedagogico, frutto di una nascente filantropia laica e di una rinnovata coscienza religiosa, unite nel tentativo di un contenimento dei costi elevati del “progresso” celebrato da tante parti. Diverse ispirazioni animarono una vasta gamma di iniziative, in un concetto di sussidiarietà costruita dal basso in grado di intervenire sulla politica.
Sul finire del secolo furono introdotte delle prime norme legislative di rilievo nel campo previdenziale, infortunistico, mutualistico-sanitario, di tutela dell’infanzia e della maternità coniugando seppur con tensioni le richieste dei movimenti di ispirazione democratico-cristiana e socialista. Con la Lettera enciclica Rerum novarum del Pontefice Leone XIII (che sarà trattata nel cap.IV) si incoraggiò tale prospettiva prendendo le difese dell’associazionismo e del particolare ruolo dei corpi intermedi.
[caption id="attachment_9941" align="aligncenter" width="1000"] Nell'immagine: miniatura sul ritratto di Papa Leone XIII (particolare). Papa Leone XIII (1810 – 1903) è stato il 256º Papa della Chiesa cattolica (dal 1878 alla morte). È ricordato nella storia dei Papi dell'epoca moderna come Pontefice che ritenne che fra i compiti della Chiesa rientrasse anche l'attività pastorale in campo socio-politico. Se con lui non si ebbe la promulgazione di ulteriori dogmi dopo quello dell'infallibilità papale solennemente proclamato dal Concilio Vaticano I, egli viene tuttavia ricordato quale Papa delle encicliche: ne scrisse ben 86, con lo scopo di superare l'isolamento nel quale la Santa Sede si era ritrovata dopo la perdita del potere temporale con l'unità d'Italia. La sua più famosa enciclica fu la Rerum Novarum con la quale si realizzò una svolta nella Chiesa cattolica, ormai pronta ad affrontare le sfide della modernità come guida spirituale internazionale. In questo senso correttamente gli fu attribuito il nome di "Papa dei lavoratori" e di "Papa sociale", infatti scrisse la prima enciclica esplicitamente sociale nella storia della Chiesa cattolica e formulò quindi i fondamenti della moderna dottrina sociale della Chiesa.[/caption]
L’evoluzione legislativa della fine del XIX secolo e dell’inizio del XX secolo costituì indubbiamente il punto d’arrivo dell’azione pubblica nel settora dell’assistenza e in molti casi gli stati si orientarono in questo senso dopo l’esempio della Germania bismarckiana. Al tempo stesso la rete degli istituti di beneficenza e delle opere pie fu ovunque posta sotto il controllo statale, come avvenne in Italia con la legge Crispi del 1890. Fu il risultato paradossale di un intervento statale di risposta alle attese sociali e che per molti aspetti le deluse, anche se l’associazionismo non perse vitalità e continuò ad esercitare un ruolo fondamentale nella risposta al bisogno.
Alla vigilia della I guerra mondiale, la formazione della società di massa, impose il passaggio ad una fase ulteriore caratterizzata da un’estensione dei servizi di assistenza ai lavoratori e alle loro famiglie. Dagli anni ’30 si accompagnò una forte crescita delle spese per i servizi sanitari e mutualistici divenuti obbligatori, mentre si delinearono i primi sistemi di welfare state in riferimento al modello inglese, su base universalistica e fondato sul diritto di cittadinanza. I movimenti politici sociali e le chiese cristiane sostennero con convinzione l’idea del welfare state, pur in una varietà di proposte ed in difesa del proprio spazio d’iniziativa.
I sistemi occidentali hanno in genere sviluppato tali premesse, raggiungendo innegabili risultati di socialità e di democrazia. Il sacrificio sovente imposto alle forme autonome di organizzazione e il peso attribuito all’azione pubblica –controllata e in molti casi direttamente esercitata da istituzioni dello stato o di altri enti territoriali- rappresentano tuttavia elementi problematici dall’inizio latenti e palesi di fronte alla più recente crisi del welfare state. Si tratta di una crisi certo dovuta a fattori esterni - di natura finanziaria, fiscale, demografica -, ma che è non di meno legata alla crescente difficoltà di rispondere a esigenze non riconducibili alla sfera economica e non affrontabili da un’autorità politica centrale e inevitabilmente lontana. Non a caso non è mai venuta meno e si è anzi sempre più affermata la necessità di lasciare spazio ai soggetti della società civile, riaffermando il valore della sussidiarietà, in rapporto alle politiche dello Stato moderno, come fondamento di un intervento efficace e come espressione della libera iniziativa delle formazioni sociali.
Per approfondimenti:
_Benedetto XVI, Lettera enciclica Deus caritas est (2005);
_Boezio S., Liber de persona duabus naturis contra Eutychen et Nestorium, ad Joannen Diaconum Ecclesiae Romanae;
_Bortoli B., I giganti del lavoro sociale, Erickson, Trento (2006);
_Catechismo della Chiesa cattolica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2000;
_Concilio Vaticano II, Costituzione pastorale Gaudium et spes (1965), AAS 58 (1966);
_Concilio Vaticano II, Dichiarazione Gravissimum educationis (1965), AAS 58 (1966);
_Dal Pra Ponticelli M., Dizionario di Servizio Sociale, Carocci Faber, Roma (2010);
_Dal Pra Ponticelli M., Pieroni G., Introduzione al Servizio Sociale, Carocci Faber, Roma 2005;
_Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica Familiaris consortio (1981), AAS 74 (1982);
_Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Centesimus annus (1991), Libreria editrice vaticana (1991);
_Giovanni XXIII, Lettera enciclica Mater et Magistra (1961), AAS 53 (1961);
_Giovanni XXIII, Lettera enciclica Pacem in terris (1963), AAS 55 (1963);
_Leone XIII, Lettera enciclica Rerum novarum (1891), AAS 23 (1890-91);
_Lombo J.A., F. Russo, Antropologia filosofica. Una introduzione;
_Magagnotti P., Il principio di sussidiarietà nella dottrina sociale della Chiesa, Edizioni Studio Domenicano, Bologna (1991);
_Maritain J.. La persona e il bene comune, Morcelliana, Brescia (1963);
_Paolo VI, Lettera apostolica Octogesima adveniens (1971), AAS 63 (1971);
_Paolo VI, Lettera enciclica Populorum progressio (1967), AAS 59 (1967);
_Pio XII, Radiomessaggio al VII congresso internazionale dei medici cattolici (1956), AAS 48 (1956);
_Pio XII, Radiomessaggio natalizio sul problema della democrazia (1944), AAS 37 (1945);
_Pio XI, Lettera enciclica Quadragesimo anno (1931), AAS 23 (1931);
_Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2004;
_Villa F., Dimensioni del Servizio Sociale, Vita e pensiero, Milano (2000);
_Vittadini G., Che cosa è la sussidiarietà, Guerini e associati, Milano (2007);
_Vives J.L., De subventione pauperum, Fabrizio Serra, Pisa-Roma (2008);
_San Tommaso d’Aquino, Commentum in librum III Sententiarum;
_San Tommaso d’Aquino, Summa Theologicae;
_Vanni Rovighi S, Elementi di filosofia, vol. 2, La Scuola, Brescia (1995);
_Vanni Rovighi S., Elementi di filosofia, vol. 3 , La Scuola, Brescia (1995);
_Utz A.F., Die geistesgeschichtlichen Grundlagen des Subsidiaritatsprinzip, in Utz A.F.(a cura di), Das Subsidiaritatsprinzip, Kerle, Heidelberg, 1953, (trad. it. In A.F.Utz (a cura di), Il principio di sussidiarietà, a cura di P.Del Debbio, trad. it. Di G.Lacchin).
 
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di Gabriele Rèpaci 25/01/2018

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«Una delle caratteristiche dell’èra economica secondo i suoi aspetti più squallidi e plebei è appunto questa specie di autosadismo, che consiste nel glorificare il lavoro come valore etico e dovere essenziale, e nel concepire sotto specie di lavoro qualsiasi forma di attività». Così si esprimeva Julius Evola nella sua celebre opera Gli Uomini e le Rovine (1953).
Nell’epoca moderna infatti, a differenza che nelle società antiche, il lavoro cessa di essere qualcosa che si impone semplicemente per soddisfare delle esigenze materiali per divenire fine a se stesso: una condanna a cui l’uomo è costretto per soddisfare i propri bisogni materiali - «ti guadagnerai il pane col sudore della tua fronte» è scritto nella Genesi - esso diventa un valore intrinseco.
La storia della modernità è la storia dell’imposizione del lavoro, che ha lasciato sull’intero pianeta una lunga scia di desolazioni e orrori. Ci sono voluti diversi secoli di aperta violenza su larga scala per sottomettere gli uomini al servizio incondizionato dell’idolo del lavoro.
Nell’Antichità europea, il lavoro veniva disprezzato proprio perché era considerato il luogo per eccellenza dell’assoggettamento alla necessità. Tale disprezzo lo troviamo tanto nei Greci e nei Romani quanto nei Traci, nei Lidii, nei Persiani e negli Indiani. In Grecia soprattutto esso era percepito come un’attività servile, che in quanto tale, era in antagonismo con la libertà, e quindi con la cittadinanza. Tanto è vero che in greco il termine ponos che sta ad indicare l’attività lavorativa era sinonimo di sforzo, fatica, pena e sofferenza.
Lo stesso stato d’animo vigeva a Roma. Sul lavoro, il filosofo Seneca asseriva come «è privo d’onore e non potrebbe rivestire neppure la più semplice apparenza dell’onestà», se l'attività si presentava manuale.
Cicerone aggiunge che «il salario è il prezzo di una servitù», che «niente di nobile potrà mai uscire da un negozio», che «il posto di un uomo libero non è in officina». La lingua latina distingue nettamente il labor, che evoca il lavoro penoso ed oppressivo, e l’opus, l’attività creativa. “Lavorare” (laborare) ha spesso il significato di “soffrire”: «laborare ex capite», “soffrire di mal di testa”. Viceversa la parola otium non designa affatto la pigrizia o il fatto di “non fare niente”, bensì l’attività superiore orientata verso la creazione, di cui il commercio rappresenta la negazione (negotium, “negozio”).
Quanto alla parola moderna francese travail, essa scaturisce dal termine tripalium, che in origine era uno strumento di tortura.
Pur senza volere operare un’idealizzazione del passato, il sociologo francese Alain Caillé ritiene che «l’immagine del paradiso perduto e dell’Età dell’oro forse non è esclusivamente mitica come in genere si crede»: tutte le ricerche etnografiche concordano nel dimostrare che in quel che resta delle società “selvagge” il tempo di lavoro medio non supera mai quattro ore al giorno. «La maggior parte del tempo è dedicata al sonno, al gioco, alle chiacchiere o alla celebrazione dei riti». Queste società capaci di limitare i loro bisogni, non si preoccupano affatto di accumulare: se per caso diventano più produttive, non aumentano la produzione ma il tempo dedicato agli ozi (nota 1).
Sarebbe sbagliato vedere in questa svalutazione del lavoro semplicemente il riflesso di una visione gerarchica della società e la conseguenza della “comodità”, rappresentata dall’esistenza di schiavi; essa esprime, in realtà, un concetto molto più importante: la libertà – come d’altra parte anche l’eguaglianza – non può risiedere nella sfera della necessità e che vi è autentica libertà solo nell’affrancamento da tale sfera, ovverosia al di là dell’economico.
L’idea contemporanea del lavoro ha origine con il capitalismo manifatturiero. Sino a quel momento, cioè sino al secolo XVIII, il termine “lavoro” (labour; Arbeit, travail) designava la pena dei servi e dei giornalieri, che producevano beni di consumo o servizi necessari alla vita, che dovevano essere rinnovati giorno dopo giorno, senza che nulla potesse essere dato per acquisito.
Gli artigiani, che fabbricavano oggetti durevoli, accumulabili, che gli acquirenti di regola trasmettevano ai posteri, non “lavoravano” “operavano” e nella loro “opera” potevano utilizzare il “lavoro” di uomini di fatica, chiamati a svolgere compiti grossolani. La produzione materiale non era dunque, nell’insieme, retta dalla razionalità economica.
Nessun secolo più del Novecento ha fatto del lavoro il proprio idolo. Tutti i principali partiti politici dell’epoca moderna, incluso quello nazista, sono stati partiti dei lavoratori. Socialisti e conservatori, democratici e fascisti si sono combattuti fino all’ultimo sangue, ma per quanto fossero nemici mortali hanno sacrificato le loro divergenze per concordare sulla necessità di promuovere l’ideale che “il lavoro rende liberi” che ha trovato eco nella macabra iscrizione sopra l’ingresso del lager di Auschwitz.
[caption id="attachment_9808" align="aligncenter" width="1000"] Wall Street è un film del 1987 diretto da Oliver Stone e prodotto negli Stati Uniti dalla 20th Century Fox. Nel fotogramma l'attore statunitense Michael Douglas veste i panni di Gekko[/caption]
Benché Marx nella sua Critica al Programma di Gotha (1875) avesse affermato contro Lassalle che non il lavoro, bensì la natura era la fonte di ogni ricchezza, l’ideologia marxista - così come i regimi comunisti - ha sempre esaltato il lavoro quale strumento di liberazione dell’uomo dal regno della necessità. In un breve ma illuminante articolo - elaborato su richiesta di Enrico Bignami, direttore de La Plebe - dell'ottobre 1872, Sull’autorità, Engels sostenne che la fabbrica è un fatto naturale della tecnica, non un modo specialmente borghese per razionalizzare il lavoro: di conseguenza, essa sarebbe dovuta esistere tanto in una società comunista come in quella capitalista, «indipendentemente dall’organizzazione sociale».
Nella società classista e nella società senza classi, la dimensione della necessità sarebbe stata sempre una dimensione di autorità e obbedienza, di governanti e governati. Gli esisti funesti di tale concezione furono evidenti nell’Unione Sovietica, in particolare sotto Stalin, dove Aleksej Grigor’evič Stachanov (1906 – 1907) venne celebrato quale “lavoratore modello” ed esempio per tutti gli operai sovietici.
[caption id="attachment_9809" align="aligncenter" width="1000"] Aleksej Grigor'evič Stachanov (1906 – 1977) è stato un minatore sovietico. Lavorò nelle miniere di carbone della regione di Donbass nel bacino del Donec (allora appartenente all'Unione Sovietica ed attualmente in territorio ucraino), fu eroe del lavoro socialista (1970) e membro del Partito Comunista dell'Unione Sovietica (1936).[/caption]
Il dittatore georgiano in un suo celebre discorso disse: « […] Il movimento stacanovista rappresenta l’avvenire della nostra industria, reca in sé il germe del futuro slancio culturale e tecnico della classe operaia e ci apre la sola strada per la quale possiamo raggiungere quegli alti indici produttivi indispensabili per passare dal socialismo al comunismo ed eliminare il contrasto tra lavoro intellettuale e lavoro manuale».
Il marxismo, in tutte le sue varianti, non è mai riuscito a comprendere che la fabbrica non è mai stata il regno della libertà; piuttosto è sempre stata quel regno della sopravvivenza, della “necessità”, che svuotava il mondo umano attorno a sé. Alla sua nascita si oppose l’aspra resistenza degli artigiani, delle comunità agricole e in genere di tutto un mondo più comunalistico e a misura umana.
L’obiettivo che dobbiamo porci oggi, non è dunque rinunziare a lavorare, bensì operare una modalità edificante di società differente, in cui non si viva più per produrre, ma si produca per vivere. La riduzione del carico di lavoro può tuttavia, all’interno di una società consumista come la nostra, produrre effetti nefasti.
Dato l’economicismo dominante, capita purtroppo molto spesso che il tempo non lavorativo, quando non è divorato dalle costrizioni della vita moderna (trasporti, burocrazia ecc., in breve quello che Ivan Illich ha definito lavoro fantasma), è convertito in un’attività commerciale (lavoro nero) o nel consumismo dei servizi commerciali.
L’allungamento della durata della vita in Occidente, a partire dal 1950, corrisponde a circa tre ore in più per ogni giorno, ma questo coincide più o meno con il tempo medio che un europeo passa davanti al televisore ed è pari al doppio del tempo che un francese passa al volante o su un mezzo di trasporto. Il buon uso del tempo liberato, guadagnato sul tempo di lavoro, non è così scontato in una società logorata dal produttivismo. Se sono diventate droghe non solo il consumo, ma anche il lavoro (workaholics, dicono gli americani), questa nuova libertà può essere causa di angoscia.
L’uscita dal sistema produttivistico e lavoristico non può quindi che comportare l’edificazione di un organizzazione sociale completamente diversa, in cui si devono organizzare - accanto al lavoro, il tempo libero e il gioco e in cui le relazioni fra gli esseri umani vengano prima della produzione e del consumo di inutili -, dannosi prodotti a perdere.
Ed è evidente che per fare ciò, l’attuale modo di produzione capitalistico deve essere rimpiazzato da una società ecologica fondata su relazioni non gerarchiche, su comunità decentralizzate, su eco tecnologie come l’energia solare, l’agricoltura organica e industrie a misura umana, ovvero su forme di insediamento realmente democratiche, nonché economicamente e strutturalmente coerenti con l’ecosistema in cui si trovano collocate.
Mai come oggi risultano attuali le parole di Friedrich Nietzsche il quale scrisse oltre un secolo fa : «In fondo […] si sente oggi che il lavoro come tale costituisce la migliore polizia e tiene ciascuno a freno e riesce a impedire validamente il potenziarsi della ragione, della cupidigia, del desiderio d’indipendenza. Esso logora straordinariamente una gran quantità di energia nervosa, e la sottrae al riflettere, allo scervellarsi, al sognare, al preoccuparsi, all’amare, all’odiare». (Nota 2).
 
Note:
_Nota 1: cfr. A. Caillé, Critica della ragione utilitaria, Bollati Boringhieri, Torino, pp. 63-64;
_Nota 2: cfr. F. Nietzsche, Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali, 1881.
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di Giuseppe Baiocchi 05/12/2017

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Se non arriveremo ad una società civile, nel pieno senso del temine, consapevole e intollerante verso la drammatica percentuale di giovani laureati – la più bassa in Europa -, tale sistema sarà destinato ad una inesorabile decadenza. Il nostro sistema politico nazionale, attualmente inetto nell'apprensione di tali banalità, deve percepire queste nozioni da un grande movimento di opinione pubblica. Senza questa innovazione il nostro destino - della ricerca universitaria, dell’investimento sul diritto allo studio -, in questo paese, è segnato. Già oggi è visibile: chi ha possibilità manda i figli all’estero o li trasferisce in strutture private. Sarà sempre più così se non si stabilisce che lo studio è la priorità di un paese. Si badi bene, non un amore di “sapere”, in termini così vagamente umanistici: il sapere è potere, ed è "potere" soprattutto per noi giovani: se non sappiamo, non possiamo. Potere-sapere è in realtà un unicum, ma in Italia, per riprendere Machiavelli, chi può non sa e chi sa non può.
Oggi il problema del luogo e del confine è la grande tematica europea, che spesso nel Sud Italia ha tonalità tragiche. Oggi la questione del “confine” nel nostro continente appare sempre più tradursi in termine di “barriera”, “muraglia”, “filo spinato”, “muro di ferro”. La paradossalità europea - la quale da tre millenni, abbatte confini, frontiere, al grido del motto “Sempre oltre” caro a Carlo V - consta nell’essere “Leone affamato”, per riprendere Hegel.
[caption id="attachment_9704" align="aligncenter" width="1000"] Frans Francken II, Allegoria dell'abdicazione di Carlo V.[/caption]
Ora questa Europa si muraglia, si imprigiona di fronte a processi di trasformazione epocale e globale. Quella cultura europea - la quale ha viaggiato per tre millenni, spezzando confini, trasgredendo ogni limite, non ci trasmette segnali di decadente pazzia?
Tuttavia bisogna riconoscere la problematicità della questione, non possiamo semplicemente contrapporre a chi vuole innalzare impotenti barriere, il discorso buonista dell’accoglienza che genera unicamente una sarabanda: non è con la “confusione” che ci si oppone alle muraglie. Bisogna tornare a ragionare, partendo nel rimettere ordine nelle parole che usiamo. La base e fondamento di un pensiero filosofico consiste prima di tutto nel comprendere che cosa significhino le parole. Oggi la politica afferma molti concetti, ma a vanvera, senza capire ciò che dice.
Partiamo da “limite” e “confine”: non è barriera. Il limen, in latino, è la soglia: quell’elemento della casa che si tra-duce dall’interno e dall’esterno. Il limes possiede un altro significato che crea una prima problematica al rapporto, ma sia esso soglia o limes, contiene un luogo: il confine termina con un luogo. Ma che cos’è un luogo? Aristotele nella “Fisica”, suo grande libro filosofico del IV secolo, afferma come “nessun concetto è più difficile di quello di luogo”, topos (dal greco τόπος). Questa parola che sempre crediamo di conoscere, finché non ci interroghiamo su di essa; come il “Tempo” nelle confessioni di Agostino.
Il luogo è quello spazio che noi costruiamo con il nostro movimento, l’individuo non è un primate in gabbia. Dove si trova il luogo? Dove si volge l’uomo con il proprio movimento e sguardo, questo definisce il luogo: lo spazio dove giunge il nostro sguardo; l’orizzonte mutevole è determinato dal moto umano. Il luogo non ha nulla di immobile, non può essere concepito come qualcosa di fermo, a meno di non concepirlo come una scimmia all’interno di una gabbia.
L’uomo si è evoluto dalla scimmia, poiché dove giunge il nostro sguardo, il nostro movimento, possiamo capire l’essenza di luogo. Ancora nel riprendere Aristotele, questo affermava che il concetto di luogo ha relazione con eschaton, dell’ultimo: il nostro luogo è situato dove “all’ultimo” giunge il nostro sguardo, la punta. Difatti il termine tedesco per luogo è ort, ricorda esattamente questo concetto a livello toponimo, “il paese ultimo”, “il paese che sta in punta”: lì è il luogo!
[caption id="attachment_9705" align="aligncenter" width="1000"] Jacques Perrin interpreta il St.Te. Giovanni Drogo nel film "Il deserto dei Tartari" del 1976 di Valerio Zurlini.[/caption]
Il luogo lo costruiamo con il nostro movimento, non è un dato, è un fatto! La riflessione che dobbiamo porci, ci riconduce al quesito: che luogo vogliamo creare? Non il luogo in cui siamo stati collocati, come i primati nella gabbia di uno zoo. Fin dove vuole giungere il nostro sguardo? Fin dove possiamo muoverci? Questo è il luogo e questa deve essere l’Europa: deve affermare con chiarezza, dove vuole andare.
Vogliamo recarci sul Mediterraneo? Oppure vogliamo chiuderci? Dove vogliamo andare? Il nostro sguardo fin dove giunge? Qual è il suo ultimo? Sono due generazioni che l’Europa non comprende questo “essere luogo” ed è per questo che ha perso ogni politica mediterranea, per questo compie figure indecenti all’Est e al Sud del suo limen, ed è per tale motivazione che quando si sposta in altri continenti viaggia al seguito di altri.
Questa è la tragedia che stiamo vivendo: l’Europa non possiede uno sguardo che delinea il proprio luogo. Così se il nostro luogo non viene generato muovendo verso di esso, necessariamente alla fine vogliamo imprigionarci, rendendo il luogo mero contenitore. Se non sentiamo il movimento che opera il nostro luogo, automaticamente ci inscatoliamo: Tertium non datur!
Questo è il discorso che l’Europa deve iniziare a comprendere, partendo dal suo linguaggio. Quando affermiamo topos, esprimiamo questo dato pensiero: questo volgersi in questo movimento, dove l’individuo definisce le proprie soglie. Quando l’uomo giunge al suo ultimo diviene cum finis, confinante, tocca l’altro. Quell’orizzonte, è il limen, la soglia, ed allora si entra in relazione con l’altro da te. Questo significa distruggere il luogo? No. Questo significa non avere case? Non avere identità? Nient’affatto: significa – di contro – avere un’identità così forte, così sapiente da riuscire a svolgersi fino a quel “limite”, fino alla sua soglia, dove si entra in relazione con l’altro.
Luogo diventa nomen relationis (nome delle relazione), se svolto in questi termini. Platone amava affermare, nel Simposio, che il ruolo della filosofia è oikos, non ha casa, si muove come l’eros, ma tale affermazione non deve essere letta in chiave nomadica - anche il nomade ha la sua abitazione: il tappeto, il quale è orientato come un’abitazione e possiede disegni che ricordano il focolare domestico. Il nomade non è senza casa, si porta dietro la casa. L’uomo occidentale non può vivere senza la sua abitazione. Non opero un discorso sullo sbaraccamento della casa (la demolizione delle baracche, quelle sì), ma intendo questa proprio “sulla soglia”.
Infatti Platone parlava di “oikos sulla soglia”, ma se vi è quest’ultima deve essere presente sempre anche un’abitazione. Il luogo è proprio la casa con la sua soglia, con le sue porte e le sue finestre: lo spazio aperto per definizione è la piazza. “Open space” tanto caro agli anglofili, non può essere che “open”, lo spazio. Dunque sì alla casa, ma dove questa sarà tanto più costruita così stabilmente, da farla giungere al suo ultimo e lì entrerà in rapporto e in relazione. Questo è lo sforzo che dobbiamo fare, che deve fare l’Europa e questa idea di luogo deve nascere da quei “luoghi” che noi chiamiamo Università.
Oggi difendiamo pateticamente le nostre eredità, senza investirle nella ricerca e nella giusta ridefinizione del nostro essere europei. Siamo drammaticamente colpiti dalla mancanza di una cultura politica, che indirettamente condanna l’Europa a sopravvivere di sola moneta. E’ impossibile che il realismo politico viva di sola moneta, assolutamente impossibile, anche se fosse gestita dai migliori banchieri del mondo. Un organismo politico può vivere solamente in quella idea di luogo che ho appena descritto. Quale dramma ci aspetta se questa prospettiva non si apre? L’Europa, che dell’Occidente rimane cuore e cultura, rischia di concepirsi come una casa in cui si esclude il suo essere confine e il suo essere in relazione.
Una casa che non affronta come problema strategico la relazione con l’altro, cade nella tragedia. Si è già profilata un’Europa chiusa, che non si concepisce come casa in relazione, casa soglia, spazio-confine e “fuori” di questo spazio chiuso: l’inferno. L’Occidente è accerchiato da popolazioni assolutamente proletarizzate. O affrontiamo il problema dell’altra sponda o ci arrendiamo all’assedio verso masse di proletari non occidentali, ma di individui di altra cultura, di altra civiltà: un soverchiante doppio assedio. Tali paesi denominati “del terzo mondo” vivono una situazione storica di epocale sconfitta. Nel rapporto con questa storicità, diventata tragico-drammatica, noi facciamo finta di dimenticare la storia. Dobbiamo riconoscere questa situazione psicologico-culturale.
[caption id="attachment_9714" align="aligncenter" width="1000"] Pietro Canonica, L'abisso - 1907-1909 (particolare).[/caption]
Le nostre democrazie, uscite dalla seconda guerra civile europea, promisero a queste masse un certo sviluppo economico, un diverso sviluppo sociale, una determinata scuola politica, che – in una decisa prospettiva – sarebbe stata da noi europei favorita, promossa: si era promesso questo! Abbiamo tragicamente disatteso tutti questi progetti e ciò aggrava la situazione.
Per citare il britannico Arnold Joseph Toynbee “è il fallimento degli erodiani”, ovvero di coloro che cercarono una mediazione tra civiltà romana e l’altra. Gli erodiani, all’interno delle diverse culture dell’altra sponda, sono stati sconfitti e massacrati: l’Europa assisteva cieca.
Dobbiamo fare metànoia, altrimenti l’Europa - senza un contraccolpo netto, una conversione netta (laica o religiosa), un cambiamento di mente rispetto a quello che è stata nei confronti del Mediterraneo, nei confronti dell’altra sponda e nei confronti di se stessa (poiché ha tradito il suo concetto di luogo) –, non ha futuro.
Senza tutto ciò, oggi non possiamo trovare una soluzione, poiché la situazione si è molto aggravata sul nostro territorio nazionale in chiave migranti. Il conflitto è divenuto ancor più tragico: l’Europa ha nella sua cultura, nel suo sapere e nella sua scienza, nelle sue Università, la soluzione. Tale discorso deve partire dall’Aula Magna di ogni centro Universitario europeo: l’Europa, nel medioevo, è nata in tali luoghi.
La nuova Europa, quella veramente moderna, è ripartita da questa ambizione di “luogo europeo” e “logos europeo” filosofico-scientifico. Questo principio-speranza deve trasmetterci la scintilla per ripartire, altrimenti presto o tardi saremo tutti condannati alla decadenza. I nostri muri sono destinati ad essere spazzati via, proprio perché barriere, proprio perché albergano ragioni materiali, semplicemente demografiche. Ripetiamo la storia! E’ già accaduto: riproporre il modello universitario europeo del 1100 d.C. e il 1.200 d.C.. Da lì è nata l’idea di Europa e dalle nostre Università dovrà rinascere l’Europa del domani.
 
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Un tema annuale incentrato sui due termini Crisi e Metamorfosi pare naturale per un’associazione quale DAS ANDERE, legata al nome dell’architetto viennese Adolf Loos, protagonista e contemporaneo dell'architettura mitteleuropea, e spettatore della finis Austriae. Questo momento epocale non indica però soltanto un periodo storico coincidente con lo scoppio della prima Guerra Mondiale (1914) e il crollo dell’Impero asburgico, ma è la metafora della fine di un mondo, della crisi e metamorfosi del mondo di ieri caro a Stefan Zweig: la fine venne imposta dal senso di cambiamento, dalle inquietudini e dalle perplessità che cominciavano a farsi strada dal termine dell’Ottocento e, prendendo a prestito gli studi di Aldo Giorgio Gargani sull’ambito filosofico e scientifico della Fine Austria, da un sapere senza fondamenti, da una cultura che congeda definitivamente il primato della soggettività moderna e le sue certezze.
Quell’epoca, di contro, sembra parli ancora di noi e dell’oggi, avendo molto in comune con i timori che viviamo in quest’inizio millennio. C’è indubbiamente un’analogia tra l’epoca di Wittgenstein, Heidegger, Musil o Kafka e la contemporaneità. Siamo forse ancora immersi nel temibile e atroce destino di Samsa, il protagonista de La metamorfosi, che trovandosi con le sembianze di uno scarafaggio vive l’impatto con il mondo che lo individua come un estraneo. Kafka, con Gregor Samsa, costruisce un paradigma per una società in crisi, poiché in lui confluisce l’angoscia di fronte a un mondo che ti vede scollato dagli schemi convenzionali, un “diverso” drammaticamente distante ed estromesso dalla società. Così, l’apparente naturalità del tema scelto, se messa in rapporto alla decennale crisi globale e a quella subita dal territorio Piceno, martoriato dal terremoto, diventa un dovere, un’urgenza e un bisogno riflessivo non più prorogabile.
Il concetto di crisi racchiude difatti in modo pervasivo la vita dell’individuo odierno. La crisi ha causato le innumerevoli e drammatiche storie di uomini che nell’oblio esistenziale, per mancanza di occupazione, tentennano nel perdersi o no. La crisi è il sintomo di un male collettivo, di una società con minori punti di riferimento rispetto al passato e sempre più proiettata nel calderone dell’oblio dei diritti. La crisi economico-finanziaria ha portato la società a snaturarsi dalla propria spontaneità nel condurre l’esistenza. L’economia è diventata la struttura egemonica dell’essere umano poiché è proprio in conformità a essa che oggi si contano le mancanze individuali. La crisi genera un cambiamento radicale, una metamorfosi dell’approccio stesso alla vita e bisogna percepirla come una forza agente, la quale forgia le coscienze nella loro evoluzione morale, etica, sociale, tecnica e inventiva.
Di là dal fenomeno prettamente economico, la crisi ha quindi invaso lo spirito globale, nazionale, individuale e locale. L’autenticità dell’essere è minata e diventa un coraggioso eroe chi, di fronte a una crisi normalizzata nel suo sviluppo senza soluzione, sceglie a partire da se stesso e non dall’imposizione degli stimoli esterni; è sempre lo spirito che deve cambiare, perché lo spirito veicola l’agire di una comunità tesa al miglioramento.Le tensioni economiche e politiche nazionali e continentali sono poi diventate ancor più forti in uno specifico luogo come il Piceno, colpito nel 2016 da forti terremoti. E oggi, a oltre un anno di distanza dal sisma, sono ancor più visibili i suoi effetti: dopo i danni strutturali, architettonici, abitativi e paesaggistici – fin da subito evidenti – sono pian piano emersi quelli psicologici, affettivi ed economici. Il deterioramento e la metamorfosi del tessuto sociale, spirituale ed economico, sono ormai evidenti.
Ma se provassimo ad operare lo sforzo di intendere il concetto di crisi in termini di cambiamento, si potrebbe riflettere sull’intento di concedere una valenza positiva alla questione trattata. La crisi è anche da intendersi come qualcosa che, quando si manifesta, oltre a spezzare un equilibrio precedente porta in grembo la capacità di creare un cambiamento, una metamorfosi che può imboccare due strade: l’una quella dello “sviluppo” del male collettivo che la crisi ha generato nell’immediato, dunque senza margini di miglioramento rispetto al prima, l’altra che parla di un “progresso” rispetto a una condizione precedente e di un mutamento positivo che prevede un passo avanti della civiltà.
D’altronde, l’etimologia greca e latina della parola “crisi” ci ricorda i suoi sinonimi originari, che sono scelta, decisione, giudizio e per quanto nell'uso comune abbia assunto un'accezione negativa, si può ritrovare nella parola “crisi” una sfumatura positiva in quanto momento di riflessione, valutazione, discernimento, comprensione – tutti presupposti per una possibile rinascita.
E la stessa metamorfosi – consequenziale alla crisi – è innata nel DNA dell’uomo più di quanto si pensi: è la sua prima natura. La metamorfosi è la modificazione strutturale o funzionale di un organismo vivente. In zoologia è l’insieme dei cambiamenti, talora profondi e complicati, che subiscono organismi di molti gruppi animali al termine del loro sviluppo embrionale, per raggiungere la forma dell’adulto. E il cambiamento metamorfico inteso come trasformazione di un essere o di un oggetto in un altro di natura diversa, è l’elemento tipico di racconti mitologici o di fantasia, già consacrato e chiaro in quell’enciclopedia della mitologia classica che sono Le metamorfosi di Ovidio.
Dunque, in un futuro prossimo ci attende un rinnovamento del sapere, forse della tecnica (si spera), sicuramente del tessuto urbano, economico e socio-locale; ma il mondo di ieri non va nostalgicamente rimpianto o ricostruito com’era. La crisi costringe a una revisione di programmi, ma non solo al ripiegamento; costringe a una libertà in grado di incarnare e realizzare il potere delle metamorfosi. Un “sistema critico” è un sistema in bilico tra ordine e caos, tra grandi potenzialità e crollo definitivo; più importante è non precludersi e rimanere estromessi dall’ambito delle ragioni, creazioni ed emozioni che caratterizzano l’essere umano, un artigiano del proprio avvenire, capace di unire la capacità tecnica con lo spirito .
 
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