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di Giuseppe Baiocchi del 21/04/2018

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Dio salvi la regina, sembra proprio il caso di dirlo: il matrimonio britannico tra il duca di Sussex Henry Charles Albert David Mountbatten-Windsor (1984) e l’attrice afro-americana e ex modella statunitense Meghan Markle (1981) ha generato non poche problematiche alla Royal family. Per capire i principi di non condivisione di tale unione anglicana bisogna inizialmente possedere conoscenza dei rudimenti basici della tradizione e delle radici dell’aristocrazia (Nota 1): elementi fondamentali per non trascendere nella confusione e nel gossip generato da telecronisti e giornalisti che con grande evidenza erano sprovvisti di ogni conoscenza nella disciplina dell’istituzione monarchica.
[caption id="attachment_10260" align="aligncenter" width="1000"] Harry e Meghan Markle sono marito e moglie. Il principe e l’attrice americana hanno detto il loro “sì” davanti all’Arcivescovo di Canterbury, tra sorrisi, lacrime e tanta commozione.[/caption]
Nella tradizione aristocratica l’unione tra classi sociali diverse era pressoché proibita: la formula del matrimonio morganatico (Nota 2) fu per la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento assolutamente una grande apertura verso la borghesia. Ma nel caso di Henry l’unione avviene addirittura con una persona del ceto popolare, la quale nella sua vita ha mutato ben tre religioni: cattolica inizialmente, dopo il primo matrimonio ebraica (per via del marito) ed infine anglicana. Per i credenti della Chiesa cattolica, così come per quelli della Chiesa anglicana, nata dallo scisma degli anni trenta del Cinquecento, il Re e la famiglia reale hanno un compito fondamentale verso i propri sudditi e verso il territorio che amministrano: sono i guardiani di Dio in terra, i custodi dell’ordine e della tradizione, fonte di ispirazione verso la perfezione etico-morale e soprattutto riguardante gli usi e i costumi che la popolazione dovrebbe seguire (Nota 3). Per una serie di atteggiamenti e usi, pare evidente come questo matrimonio per etichetta e tradizione non sia stato educativo e d’ispirazione per i tanti che vogliano migliorarsi o ambire ad un uso della convenzione tradizionale. Partendo dai vestiti degli invitati, completamenti fuori luogo – soprattutto in alcuni capi sgargianti da uomo -, fino ad arrivare ai calzini dei musicisti – in particolare del solista afro-britannico Sheku Kanneh-Mason – che spiccavano decisamente dagli abiti, come fosse stato un matrimonio di un “nuovo ricco” americano.
[caption id="attachment_10261" align="aligncenter" width="1000"] Nella foto a sinistra l'ineleganza del solista afro-britannico Sheku Kanneh-Mason. A destra alcuni invitati tra selfie e tatuaggi.[/caption]

Uno degli aspetti principali della decadenza del mondo moderno occidentale si manifesta nella perdita del significato, della forza e della tradizione originaria dell'aristocrazia. Questa si è sempre posta come un valore spirituale, corrisponde a quella funzione di mediazione - uomini che sono centro o modello per le attività inferiori e, simultaneamente, supporto, preparazione e via ad una realizzazione superiore. Essa deve costituire il modo di una superiorità virile, libera, personalizzata, orientata verso l'immanente (Nota 4). Dove è finita la qualità, il dettaglio, la tradizione, la perfezione? Per i matrimoni normali vi sono già le persone normali. Non si avvertiva il bisogno di ostentare, in Inghilterra, la celebrità e l’orgoglio nero: adeguatamente rappresentati con il gospel – che si poneva a sfida del secolare canto gregoriano e completamente fuori luogo nella St. George’s Chapel del Castello di Windsor -, così come i grandi gesti plateali e proletari dell’emotivo vescovo di Chicago, Michael Curry (1953) da sempre a favore dei matrimoni omosessuali, all’interno della Chiesa anglicana. Nella sua omelia, coprendosi attraverso il concetto vuoto di “amore”, ha platealmente annunciato lo smantellamento del “vecchio mondo” con il “nuovo”: «Dobbiamo scoprire il potere dell’amore, il potere redentore dell’amore. E quando lo scopriremo, saremo in grado di trasformare questo vecchio mondo in un nuovo mondo. L’amore è l’unica via». A tale proposito non posso non citare il filosofo Massimo Cacciari: «Alla vigilia della fine dei tempi, a satana è data un'estrema opportunità per sedurre l'umanità, ed ora egli s'impegna con sincero entusiasmo e dedizione a garantire a tutti, pane quotidiano, giustizia e pace, e corona questo evento del benessere con un programma di suprema pax religiosa. Convoca a Gerusalemme un grande concilio universale, nel quale inaugura un perfetto ordine tra le religioni finalmente riconciliate. Il successo arride talmente attorno al grande benefattore, e il consenso è talmente forte, che diventa intensa e immensa genuflessione. Solo pochi non ne accettano l'autorità (...). Ed allora essi vengono cacciati dal concilio, e tornano nel deserto, e là si ritrovano dalla parte di Cristo, che il grande inquisitore satana aveva già accusato: "tu hai consegnato gli uomini ad un insopportabile libertà!" E mentre a Gerusalemme risuona l'inno al benefattore, al supremo Re, nel deserto, questo misero resto di umanità, si prepara paradossalmente ed angosciosamente, nel nome del Cristo che li ha destinati ad essere liberi, si prepara all'ultima grande libertà di ogni uomo, a quell'insopportabile grazia di decidere in solitudine ed in libertà, l'evento dell'ascolto e della preghiera. Ascolto e preghiera, sono soltanto scelta che fiorisce dalla libertà dell'uomo». Verso il discorso propriamente razziale bisogna soffermarsi per capire la vera entità del razzismo aristocratico, il quale non si pone – come il pensiero progressista, ci ha insegnato – in uno stato di superiorità con l’altro, ma di riservatezza e conservazione. Ecco perché tale matrimonio è un tentativo di formalizzare l’irrealizzabile, inteso in concetti filosofici e di protocollo. Tradizionalmente, nelle nobiltà sta anzitutto in risalto il valore riconosciuto dal sangue e la subordinazione della persona rispetto ad una casata e ad un principio. Il singolo qui non vale individualisticamente o «umanisticamente», bensì in relazione al suo sangue, alle sue origini e alla sua famiglia di cui deve tenere alto il nome, l'onore, la fede. Un ugual risalto viene dato alla ereditarietà e al principio di escludere gli incroci contaminatori. Le differenze col razzismo qui sono evidentissime. Per millenni il razzismo è stato in atto nella nobiltà gentilizia di ogni popolo, ed anzi nella sua forma più alta, perché si è mantenuto aderente all'idea di tradizione ed ha evitato di materializzarsi in una specie di zoologismo. Prima che il concetto di razza si generalizzasse, come secondo le vedute attuali, «aver della razza» è stato sempre sinonimo di aristocrazia. Le qualità di razza sempre significarono qualità di élite, riferentisi non a doti di genialità, di cultura o di intellettualità, ma essenzialmente di carattere e di stile di vita. Esse si opponevano alle qualità dell'uomo comune perché apparivano, in buona misura, innate: le qualità di razza si hanno o non si hanno, non si possono creare, costruire, improvvisare o imparare. L'aristocratico, a questa stregua, è l'esatta antitesi del parvenu, dell'arrivato, dell'uomo che «si fa», che è divenuto quello che «non era». All'ideale borghese della «cultura» e del «progresso» si oppone quello aristocratico e conservatore della tradizione e del sangue. Questo è un punto fondamentale e l'unico vero superamento dei surrogati borghesi e protestantici dell'aristocrazia.

[caption id="attachment_10264" align="aligncenter" width="1000"] Nel dipinto: Sir Thomas Lawrence, "Sir Charles Stewart, III marchese di Londonderry" (particolare) - 1814.[/caption]
La cerimonia tradizionale della conservazione della famiglia nobiliare e dei rami cadetti deve avere il valore di un'azione reale, oggettiva, efficace, per quanto spirituale, e non si deve ridurre per nulla a una mera «cerimonia» più o meno teatrale, come è divenuta con questo matrimonio, innescando contemporaneamente anche la decadenza delle caste sacerdotali. Ciò premesso, l'importanza dei riti tradizionali di consacrazione dei nobili, sta nel fatto che essi ci dicono che nell'antica idea dei capi era compreso molto più che non un potere semplicemente materiale, temporale, politico. Il rito riveste un Re di «spirito santo»: solo allora egli è veramente Re. Allora egli ha le chiavi del regno dei cieli. Si può ricordare, che nell'antichità spessissimo si considerò nel Re il vero artefice della vittoria o della disfatta del suo popolo; inoltre, sin a tempi abbastanza recenti, i soldati e i capi non combattevano per la «patria», la «nazione» e il restante bagaglio della moderna ideologia plebea, ma per il loro Re. Da questa spiegazione molto semplice possiamo dedurre come l’aristocrazia britannica abbia mutato la sua politica, avviandola verso una monarchia che non “guida” il popolo, ma che le vuole essere “amico”, vuole “proletarizzarsi” per avere più clamore e amore. In parole povere vuole aumentare il proprio business economico di fatturato, anteponendo le leggi del mercato ai valori della tradizione e dell’integrità di una casa reale. Dunque tutto diventa possibile: il matrimonio con una divorziata, popolana e di colore, un vescovo americano pro-gay in una delle chiese più importanti della storia inglese, ex calciatori tatuati invitati (in passato le condotte di vita, aprivano o chiudevano porte, oggi no), la madre della sposa con il piercing e tante, tantissime anomalie, che i giornalisti di tutto il mondo – servi del sistema globale – hanno esaltato a modello e innovazione dell’istituto monarchico, non conoscendo praticamente nulla di esso. L’unico che sembra reggere in Inghilterra la fede e la tradizione rimane il principe di Galles Charles Philip Arthur George Mountbatten-Windsor (1948), uscito distrutto mediaticamente con la popolare, anch’essa amata dal popolo per la sua stravaganza e impudenza, Diana Frances Spencer. Anch’egli ha dovuto tacere per non alimentare polemiche, accompagnando all’altare una persona che avrà visto cinque, sei volte nella vita. Il principe Charles non ama l’architettura moderna, ritenendola un involucro senza anima, ama la campagna inglese, retaggio di una monarchia feudale ancora viva e indossa abiti sartoriali proseguendo la tradizione dei Windsor legati all’eleganza. Anche tale prerogativa sembra venire meno con il primogenito William che ama acquistare abiti commerciali da Zara o altre marche di rilievo, per poi venderle all’asta. Appare chiaro il rovesciamento di tutti i valori del bello, del giusto e della sopravvivenza di tutto ciò che è autentico, vero, sudato, personalizzato. La globalizzazione ha toccato anche l’aristocrazia britannica, lì dove era più forte: nell’eleganza.
[caption id="attachment_10262" align="aligncenter" width="1000"] Due foto a confronto: il prinpicino George, figlio di William e una foto d'infanzia del principe Charles.[/caption]
Chi ha avuto modo di seguire la diretta del matrimonio su un noto programma televisivo, avrà notato la presenza ingiustificata di John Peter Sloan, un sedicente scrittore inglese che vive in Italia e possiamo pensare ospite della trasmissione solo perché nato sull’isola di Albione. Ebbene Sloan si congratulava con gli sposi per aver dato il via alla rivoluzione all’interno delle convenzioni inglesi. Henry (Harry, come viene chiamato) in passato si è espresso sempre liberamente, a differenza della Regina: il sedicente scrittore e cittadino britannico sicuramente è all’oscuro della costituzione inglese che impone alla regina un silenzio e un rigido protocollo; inoltre non si può mettere sullo stesso piano di lettura un principe, il sesto per il trono, e la Regina regnante. Questa è la profondità del principale palinsesto nazionale in Italia. La prima vera spallata al sistema aristocratico, oltre alla Rivoluzione Francese, la diede anche Luigi Filippo di Borbone-Orléans, il quale nel 1814 si proclamava Re dei francesi “per volontà di Dio e della nazione”, inserendo sullo stesso piano Dio e l’uomo. Non più dunque per diritto divino: che l'uomo non sia sempre all'altezza del principio dell’ascesi della potenza, non importa, la sua funzione resta sempre imprescrivibile ed intangibile, poiché non è all'uomo, ma al Re che si obbedisce e la sua persona vale essenzialmente come un supporto a che si desti quella capacità di dedizione superindividuale, quell'orgoglio nel servire, quella prontezza all'azione e al sacrificio attivo, che vanno a costituire una via di elevazione e di dignificazione per il singolo e, nello stesso tempo, la forza più potente per tener insieme la compagine di organismo politico. La retorica giacobina mise in primo piano, non più il Sovrano, ma la «Patria», la «Nazione», il «Popolo». È in tal senso che si realizzarono le prime fasi del franamento collettivistico che, secondo una inesorabile concatenazione, dovevano condurre per gradi dal ciclo delle grandi monarchie europee, sino al socialismo, comunismo e bolscevismo. Il ricorso a simili entità, in effetti, non è che un fenomeno regressivo: patria e nazione non sono nulla più di un dato naturalistico elementare, e nella loro verità non vanno cercate in basso, nella sostanza promiscua del demos, del popolo, ma in alto, ove ciò che è diffuso in una stirpe si raccoglie, si personalizza, viene ad atto; non alla base, ma al vertice della piramide. E come anticamente poté dirsi: «Dove è l'Imperatore è Roma». Gli antichi simboli, rappresentanti la «regalità divina» in tutte le grandi civiltà tradizionali, sono diventati insegne della demagogia grazie al socialismo e al comunismo, ideologie che hanno dato nuova vita all'ideale promiscuo del meticciato: il «sole trionfale» dell’antichità è divenuto il «sole dell'avvenire» dell'utopia socialista; il rosso «imperiale» è stato rubato dalla bandiera rossa del marxismo; lo stesso segno occulto del «microcosmo», uomo dominatore «composto da tutti i poteri», cioè la stella a cinque punte, è divenuto l'emblema di satana, della «civiltà proletaria» bolscevica, associandosi ai rozzi segni di falce e martello. Tutti ciò dovrebbe parlare chiare parole a chi voglia cogliere il senso vero della storia; non quello fittizio, supposto dall'ideologia plebeo-giacobina del «progresso», che è venuta insensibilmente a dominare in tutti i trivii della «cultura moderna. Perché con l’idealismo e con la sostituzione dell’uomo a Dio, il primo vuole ambire alla sua volontà di potenza assoluta: vuole che il Re o presidente della Repubblica (come in Italia) sia un amico, vuole candidare persone impreparate a governare, solo perché sono giovani, si arroga il diritto di criticare tutto e tutti, senza possederne meriti speciali o pregi particolari; insomma in poche parole tutto può essere concesso e tutto ciò che è stravagante e alternativo è visto con bontà e massima apertura al cambiamento. Ma dove ci sta portando ciò? All’annientamento spirituale e umano della nostra identità di europei e poi di italiani. Ma tutto ciò, oggi, che cosa è, se non un curioso ragionamento? A questo titolo dunque la prendano coloro, che non possono capirne di più.
 
Note
_Nota 1: Tradizione vien dal termine tradere, cioè trasmettere. Si presuppone, infatti, nel trasmettere una continuità, una identità del contenuto, cosa che a sua volta è inconcepibile senza un certo superamento della condizione temporale. Non si può dunque parlarse di tradizione in senso superiore dovunque il suo contenuto non si leghi a qualcosa di metafisico e di super-naturale. La tradizione può avere forme di espressione e di manifestazione varie, ma se essa non vuole trascendere nel significato di routine, trasmissione meccanica di consuetudini, abitudini e idee che si stratificano e sempre più si rendono opache e soggette alla deformazione, di là da quelle forme esteriori e di espressione della tradizione deve sussistere una vera chiara conoscenza. Qui in fondo, si ha una condizionalità reciproca: la tradizione serve da base allo spirito aristocratico così come questo serve da base alla tradizione.
_Nota 2: Prima negatività, è stata la rinuncia al matrimonio definito “Morganatico”, ovvero un’unione tra un uomo appartenente ad una famiglia reale o regnante, e una donna di rango inferiore - un casato che non è reale o regnante, o una donna che non appartiene alla nobiltà. Né la sposa né alcuno dei figli nati dal matrimonio può avere alcuna pretesa sui titoli del marito, sui suoi diritti o le sue proprietà. I figli sono considerati legittimi per tutti gli altri aspetti, e si applica la proibizione di bigamia;
_Nota 3: Ogni forma tradizionale di civiltà fu caratterizzata dalla presenza di esseri, i quali, per via della loro "divinità", cioè di una superiorità innata o acquisita rispetto alle condizioni umane e naturali, apparivano capaci di rappresentare la presenza viva ed efficace del principio metafisico in seno all'ordine temporale. Tale, secondo il senso interno della sua etimologia e il valore originario della sua funzione, era il Rex secondo l'unico concetto di una divinità regale coadiuvata da una regalità sacerdotale;
_Nota 4: Ariston dal greco καλός significa appunto “il meglio”, il tipo dell'aristòcrate risponde effettivamente allo spirito migliore della classicità, nel suo irradicarsi fortemente nel senso di dignità e di superiorità di classe, nel tendere a ciò che vive all'interno si testimoni altresì, e rigorosamente, in una forma, suggellandosi in un'armonia di corpo, di spirito e di volontà, in una tradizione di onore, di stile, di alta tenuta e di, severità sia nel gesto che negli stessi dettagli del costume e delle forme esteriori, in generale in ogni modo del sentire, del reagire, del pensare. Dal punto di vista interno, le qualità dell'aristòcrate sono simili a quelle dell'asceta: vi è un senso di superiorità rispetto a ciò che è semplice interesse al "vivere"; vi è un predominio dell'ethos sul pathos; vi è una semplificazione interiore e un disprezzo rispetto alla massa greggia delle tendenze, delle emozioni e delle sensazioni, ove sta il segreto di una calma che non è indifferenza, ma superiorità reale, di una capacità d'apertura d'animo, di squisitezza e di finezza nello stesso tempo che di azione chiara e forte, in cui si scolpisce la figura del nobile. Quell'assenza spontanea degli impulsi ciechi da cui gli uomini sono spinti come affamati alla mensa della vita; quel possesso di sé che non è una preoccupazione, ma una semplicità e quasi una seconda natura sempre presente; quella compostezza e quell'equilibrio cosciente che, appunto, conduce allo «stile».
 
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di Federico Giacomini 03/04/2018

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“Come è illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere ad una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare. Ed è questo insieme un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine della società; perché l’oggetto naturale di qualsiasi intervento della società stessa è quello di aiutare in maniera suppletiva [subsidium afferre] le membra del corpo sociale, non già distruggerle ed assorbirle”.
 
Tale principio è ordinatore ed ha carattere normativo, non è una sorta di “imperativo categorico”, ma deriva da una precisa concezione antropologica relativa alla dimensione sociale dell’uomo e alle sue ripercussioni politiche ed economiche.
Trattare il principio senza il suo fondamento sarebbe come progettare un tempio senza preoccuparsi delle colonne.
Tale fondamento è di tipo metafisico, in quanto riguarda l’uomo e le sue formazioni sociali cui il principio sarà applicato, e la questione è la coordinazione dei loro rapporti che dovrà rispettare la loro specifica natura e non “piegarla” a qualcosa di estraneo.
Si è usi racchiudere nel nome di “persona” la complessità dell’essere umano. Il problema della sua definizione è stato dibattuto a lungo in filosofia, specie per ciò che concerne la sue conseguenze nel diritto e nelle scienze.
San Tommaso d’Aquino sosteneva che “il termine persona indica quanto di più nobile c’è nell’universo, ovvero un essere sussistente di natura razionale”; a questa definizione di San Tommaso d’Aquino si può avvicinare quella di Boezio: “naturae rationalis individua substantia”. Da ambedue le definizioni emergono le nozioni di: individuo, la caratteristica e qualità di un soggetto; natura, comune a tutti gli individui; sostanza, “il modo fondamentale di essere […] ciò che esiste in sé e per sé”.
Accorpando queste tre definizioni con il termine “persona” si farà riferimento a una sostanza individualizzata di natura razionale. Nei confronti della stessa natura umana la persona è il singolo unico e irripetibile il quale ha come fondamento ultimo il possesso di un atto di essere proprio, intendendo con ciò il principio metafisico per il quale una cosa è realmente e radicalmente, il suo essere come atto di perfezione basilare. Si può asserire che anche altre sostanze individuali “sono”, ma la persona “agendo per se stessa” mostra una sussistenza superiore ed il suo atto di essere è più “proprio”.
Proprio in quanto la nozione di sostanza rimanda a quella di “persona” in quanto essere sussistente, avente l’atto di essere in sé e per sé e che non dipende da altro che non da sé, non potendo essere inglobata né assorbita, essa risulta individuo unico tra tutti. Tale fondamento metafisico della stessa si vedrà è vero fondamento del principio di sussidiarietà.
Caratteristiche dell’essere persona:
_inalienabilità. Il suo essere non si può sottrarre dalla persona stessa né assunto da altri. Secondo una definizione classica la persona è sui iuris et alteri incommunicabilis, ha una sfera di intangibilità in quanto appartiene a se stessa e non è alienabile in chiunque o qualunque cosa. Non può essere annullata né in un nulla né in un Tutto (Natura o Divinità).
_Irripetibilità. La persona è unica, nella sua singolarità, dunque irripetibile. La sua dignità “non deriva da qualcosa di astratto, ma dalla radice metafisica di questo essere sussistente che, in quanto tale, è singolare, concreto, reale, individuale” .
_Completezza. La persona è tale per sé e non in relazione a un tutto, per il fatto di essere un tutto in se stessa in quanto essere sussistente. Essa non è parte di qualcosa: “il concetto di parte è in contrasto con quello di persona”.
_Intenzionalità e relazionalità. Le quali indicano la capacità di instaurare relazioni aprendosi verso gli altri. Se essa non si auto-possedesse non si potrebbe aprire verso gli altri fino a donarsi.
_Autonomia. La persona agisce per se, né seguendo gli altri né agendo d’istinto, ma usando la razionalità che la rende autonoma nel giudizio e nella libertà di scelta.
Altra caratteristica dell’uomo è la socievolezza. Come ci hanno dimostrato filosofi del ‘900 di tradizione ebraica Martin Buber ed Emanuel Levinas, l’uomo si comprende come essere in relazione agli altri. Tra persona e società c’è una sorta di rapporto di dipendenza: si pensi alla dimensione affettiva e a dimensioni materiali. Come asseriva il filosofo francese Jaques Maritain: “la persona come tale è un tutto. Dire che la società è un tutto composto di persone, è quindi dire che la società è un tutto composto di tanti tutti”. Essa è frutto del libero auto-realizzarsi della persona avente sostanza, del suo espandersi verso gli altri, del suo comunicare. La società non ha sostanza, dunque non è al di sopra della persona.
La solita definizione di società è: “unione morale e stabile di più individui che tendono a un medesimo fine”. Come scrive Sofia Vanni Rovighi: “l’uomo non si risolve nel suo essere sociale […] La società civile […] nasce dalla necessità per l’uomo di conseguire dei fini, legati col bene essenziale della sua natura, che non potrebbe conseguire se vivesse isolato. Il fine della società è il bene comune dei suoi membri […] La società civile non è un ente fisico […] ossia non è una sostanza esistente per conto proprio, indipendentemente dagli individui che la compongono: chi esiste e chi opera è sempre e soltanto l’individuo. E questo andrebbe tenuto presente quando si sentono esaltare i poteri della società, della comunità, dello Stato. Quando lo Stato può tutto e ha tutti i diritti nei confronti dei singoli individui [significa che] uno o più individui che reggono lo Stato possono tutto, a scapito di tutti gli altri individui che non possono nulla. Che cosa è allora la società? Niente del tutto? E’ una unità di relazione; è un complesso di relazioni fra gli individui che la compongono […] E perciò la società ha una realtà: realtà di relazione”.
In questa prospettiva è chiaro che la dimensione sociale porta un notevole arricchimento alla persona, chiara è anche la distinzione tra la presenza di sostanza metafisica presente nella persona, ma assente nella società. I due termini distinti assumono diversi ruoli: strumentale quindi la società nei confronti della realtà libera e sostanziale della persona. Ugualmente la prospettiva rimane invariata, viene anzi ulteriormente rafforzata sostituendo alla società lo Stato.
“Per ciò che l’uomo è come cittadino, per ciò che ha e riceve dalla partecipazione alla comunità politica, l’uomo dipende da questa […]. Ma l’uomo non ha il suo essere uomo dallo Stato; l’uomo non si risolve nel cittadino: ha da conseguire una perfezione che va oltre i risultati raggiungibili sulla terra e per nulla al mondo può sacrificare questa sua finalità – che lo fa uomo. Il che è quanto dire che neppure per il bene dello Stato l’uomo può violare la legge morale e andar contro le conclusioni della sua coscienza”.
Per quanto concerne il contesto filosofico (anche teologico) nel quale si è sviluppato il principio di sussidiarietà, il concetto di bene comune va oltre il vago concetto di un qualcosa di dato da un’ autorità od ente superiore alla persona in nome del bene sociale.
Si veda la sintesi espressa nel Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa: “Unico e irripetibile nella sua individualità, ogni uomo è un essere aperto alla relazione con gli altri nella società. Il convivere nella rete di rapporti che lega tra loro individui, famiglie, gruppi intermedi, in relazioni di incontro, di comunicazione e di scambio, assicura al vivere una qualità migliore. Il bene comune che gli uomini ricercano e conseguono formando la comunità sociale è garanzia del bene personale, familiare e associativo”.
Secondo l’ottica espressa nel compendio il bene comune è garanzia del bene sociale e si configura in funzione dello stesso, delle associazioni, delle naturali espansioni della persona (famiglia in primis); ciò rimane il riferimento unico in quanto metafisicamente fondato. Sempre nel compendio si legge che il bene comune non deve essere visto come un fine in se, ma acquisisce autentico valore in quanto è riferimento per il raggiungimento dei fini della persona: “Una società che, a tutti i livelli, vuole rimanere al servizio dell’essere umano è quella che si propone come meta prioritaria il bene comune in quanto bene di tutti gli uomini e di tutto l’uomo […]. La responsabilità di conseguire il bene comune compete, oltre che alle singole persone, anche allo Stato, poiché il bene comune è la ragion d’essere dell’autorità politica […]. L’uomo, la famiglia, i corpi intermedi non sono in grado di pervenire da se stessi al loro pieno sviluppo; da ciò deriva la necessità di istituzioni politiche, la cui finalità è quella di rendere accessibili alle persone i beni necessari […] per condurre una vita veramente umana”.
Da tale testo sul bene comune limpidamente emerge il ruolo strumentale delle istituzioni in vista del pieno raggiungimento del singolo uomo, della famiglia e corpi intermedi, dell’ente dotato di sostanza e delle sue naturali espansioni nei confronti dello Stato.
Un altro testo a conferma dell’importanza profonda del bene comune è il Catechismo della Chiesa Cattolica: “Per bene comune si deve intendere ‘l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono ai gruppi, come ai singoli membri, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente’. Il bene comune interessa la vita di tutti. Esige la prudenza da parte di ciascuno e più ancora da parte di coloro che esercitano l’ufficio dell’autorità”.
Nel documento sono specificati tre elementi sostanziali i quali formano il bene comune: rispetto della persona; autorità; pace.
Nel nome del bene comune, i poteri pubblici sono tenuti a tutelare i diritti fondamentali dell’uomo ed hanno il dovere di permettere ai cittadini la loro completa realizzazione. Spetta all’autorità rendere accessibile ai cittadini i beni essenziali ad una vita pienamente umana: il lavoro, il vitto, il vestito, la cultura, il diritto a formare una famiglia. Il concetto di pace coincide con quello di sicurezza sociale la quale autorità deve garantire ivi compreso il diritto alla legittima difesa personale.
Come scriveva nel 1953 il filosofo domenicano A.F.Utz il contenuto del principio di sussidiarietà è il diritto del singolo di fronte allo Stato e alle formazioni maggiori. Il singolo viene considerato in quanto esponente del diritto prestatale, dallo stesso si costituiscono società e Stato. Allo stesso modo, anche i corpi intermedi e le configurazioni sociali devono determinarsi in relazione a propri diritti sui quali le entità maggiori non possono intervenire se non nel caso di una vera e reale necessità. Un diritto di ingerenza da parte dello Stato è concesso solo trattandosi di sottrarre al singolo o alla formazione minore un compito che essi non sono in grado di espletare. Il diritto del singolo e delle formazioni minori vale nella misura in cui gli stessi possono esigere l’aiuto delle formazioni maggiori e statali prima che le siano tolti i rispettivi compiti. Da qui il termine sussidiarietà (prestazione d’aiuto) il quale esprime un rapporto giuridico e non amicale. Tale rapporto contiene in sé una formula implicita secondo la quale “quanta più libertà è possibile, tanta più autorità è necessaria”.
Già l’ Enciclica Quadragesimo anno,che verrà esaminata successivamente, dimostra come la questione dell’autorità è intimamente correlata alla sussidiarietà la quale è anche un principio giuridico in base al quale viene formulata e una gerarchia di poteri. Elemento che contraddistingue il principio di sussidiarietà è il concetto di auto-responsabilità del singolo e della formazione cui appartiene, il quale influisce direttamente nel bene comune. L’autorità viene vista quindi come elemento di difesa sociale, diviene essa istituzione coercitiva quando il bene sociale non viene più assicurato dal singolo o dalla formazione minore. Sempre dal concetto che vede la persona metafisicamente superiore a società e Stato deriva tale concezione del principio di sussidiarietà.
La persona metafisicamente superiore a società e Stato. Trattandosi di un concetto di superiorità metafisica, essa non riguarda solo la persona, riguarda anche la comunità in quanto naturale espansione della stessa ed in primis la famiglia sullo Stato e sulla società nei quali viene meno l’elemento della consistenza metafisica ma, solamente come sosteneva la Vanni Rovighi, una realtà di relazione.
Secondo H.E.Hengstenberg, “la comunità è l’unione stabile e duratura di persone in un valore comune, nel quale al contempo i singoli vivono la propria realizzazione […]. Per la società sono quindi caratteristici non tanto i valori comuni convenuti […] quanto piuttosto un fine comune da realizzare. I membri della società si riuniscono con lo scopo di realizzare un fine esterno […]. La società ha un carattere organizzativo. Per la comunità, invece, l’elemento di realizzare insieme un fine esterno, non solo non è necessario, ma addirittura è di impedimento se questa ‘intenzione’ era la ragione che guidava il loro intimo incontro […]. La società è all’opposto della comunità, non metafisica. Possiamo rappresentare l’essenza della società ricorrendo a un semplice esempio. Se più uomini insieme sollevano una cassa, dal momento che questa è troppo pesante per un uomo solo, allora essi sono dipendenti l’uno dall’altro in vista del sollevamento della cassa (il successo). Ma questo successo si aggiunge come un risultato accessorio ai singoli. Non si tratta di una comune intima determinazione del loro essere (come nella procreazione), e per questo non è necessario un legame reale tra gli uomini. Essi possono essere reciprocamente indifferenti a se stessi […]. La comunità, è giustificata solo per il fatto che essa è ciò che è […]. La comunità ha un senso (interno), mentre la società ha uno scopo (esterno) […]. Lo stesso ordinamento gerarchico non necessita di essere dimostrato. Esso trova il proprio fondamento nella superiorità metafisica della comunità di fronte alla società. Nella comunità viene a compiersi la natura e la personalità dell’uomo. La società ha un senso immediato solo in quanto rende possibile, facilita, protegge ed assicura il compimento e la vita della comunità. Il fatto che il matrimonio occupi il primo posto è dato dal suo carattere di pura comunità” .
Si è quindi parlato inizialmente di un circolo il quale si viene a creare tra istituzioni, comunità e Stato. Risulta ora evidente che esso ruota, volendo trovare le sue fondamenta, attorno a concetti quali persona e mondi vitali (comunità), le quali si configurano come colonne portanti dell’arco a volta del principio di sussidiarietà.
Per approfondimenti:
_Pio XI, Enciclica Quadragesimo anno (1931), parte V n. 35, AAS 23 (1931);
_San Tommaso d’Aquino, Summa Theologicae, vol. 1;
_S. Boezio, Liber de persona duabus naturis contra Eutychen et Nestorium, ad Joannen Diaconum Ecclesiae Romanae, cap. III, PL 64, 1343;
_S. Vanni Rovighi, Elementi di filosofia, vol. 2, La Scuola, Brescia (1995);
_G.Vittadini, Che cosa è la sussidiarietà, Guerini e associati, Milano (2007);
_San Tommaso d’Aquino, Commentum in librum III Sententiarum;
_J. Maritain. La persona e il bene comune, Morcelliana, Brescia (1963);
_S.Vanni Rovighi, Elementi di filosofia, vol. 3, La Scuola, Brescia (1995);
_Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2004;
_Catechismo della Chiesa cattolica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2000;
_P.Del Debbio, Fondamenti filosofici del principio di sussidiarietà, in Che cosa è la sussidiarietà, G. Vittadini;
_H.E.Hengstemberg, Philosophische Begrundung des Subsidiaritatsprinzip, in A.F.Utz (a cura di), Das Subsidiaritatsprinzip.
 
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di Federico Giacomini 23/02/2018

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La storia del principio di sussidiarietà può essere identificata con la trama delle forme assistenziali assunte in Occidente. Anticamente infatti non esisteva un rapporto equilibrato tra l’opera di singoli e formazioni sociali da un lato e istituzioni politiche statali dall’altro. Fino dalla tarda antichità il mondo cristiano da vita ad un sistema assistenziale basato su una risposta di natura associativa, la quale traduce una pratica comunitaria diffusa, che dalla caritas evangelica, per la prima volta fa derivare uno ius hospitalis a tutti riconosciuto.
Fino dal primo Medioevo (ultimo periodo imperiale) si assiste alla realizzazione di un “sistema di carità” formato da istituzioni libere ed autogestite le quali erano sostenute da decisioni personali e volontarie di chi sceglieva di far parte di una “associazione elemosiniera” o di dedicare la propria vita al servizio ospedaliero.
Il rimando è alla antica visione positiva del povero, il quale era incarnazione del pauper Christi e della sua redenzione la quale si perpetua nelle membra sofferenti. L’azione caritativa rappresentava in un certo senso una possibilità concreta e privilegiata in un certo senso di salvare l’anima: gesto utile ai caritatevoli prima che ai beneficiari. Strutture permanenti di accoglienza chiamati xenodochia e poi hospitalia vennero fondate lungo le principali reti viarie e presso conventi, residenze episcopali, monasteri, sedi plebane (l’antica pieve, casa del popolo), in contesti nei quali i centri urbani rivestivano importanza minore. In queste sedi veniva praticato un ricovero largamente indifferenziato che era rivolto a malati cronici, anziani, invalidi e poveri.
La figura giuridica entro la quale si collocava l’intervento caritativo, con la sistemazione del diritto giustinianeo, era quella dell’opera pia. Una realtà che, pur agendo nella sfera civile, conservava in ragione della sua peculiare natura una notevole autonomia e godeva di esenzioni in quanto beni della Chiesa, garanzie e notevole autonomia. Potevano disporre di donazioni, lasciti e usare rendite o patrimoni per i loro interventi assistenziali: forme molteplici di carità familiare e personale venivano istituzionalizzate.
Dopo l’ VIII-IX secolo questo tipo di organizzazioni assistenziali si inserivano in una situazione sociale relativamente stabile: una situazione alimentare che non era insoddisfacente ed assenza di epidemie favorirono una crescita demografica, legata verso un favorevole rapporto tra le risorse e la popolazione. La successiva e straordinaria crescita delle città fu sostenuta da una rete assistenziale che si adeguò a nuove esigenze con la creazione di ospedali urbani da una parte, e un ceto borghese e mercantile che sosteneva numerose confraternite elemosiniere dall’altro. Gli ordini mendicanti protagonisti di tale azione furono i Domenicani, all’origine delle “misericordie” ed in molti borghi e città italiane i Francescani, con i “consorzi elemosinieri”. La povertà urbana trovò in molti casi efficace risposta, al di fuori di un piano complessivo delle magistrature comunali, in una prospettiva di sussidiarietà formatasi in modo spontaneo.
A partire dalla metà del XIV sec., due elementi conducono ad un primo cambiamento del sistema: peggioramento delle condizioni sanitarie e sociali con epidemie ricorrenti di peste, e sviluppo economico causa di ampia marginalità sociale.
La concezione della povertà si fa varia e nella letteratura umanistica (si veda il III capitolo riguardante l’opera di J.L.Vives), volta ad illustrare conseguenze sociali potenzialmente pericolose e caratteristiche ambivalenti della stessa, si sottolinea il bisogno di discernere le elemosine. Il contatto con idee precedenti tuttavia non venne perso, le stesse furono sempre riproposte da movimenti di riforma religiosa e furono fatte proprie nell’epoca dell’umanesimo civile con la creazione di uffici cittadini di assistenza ed in Toscana e Lombardia vennero creati gli “ospedali maggiori”.
Tale ormai indispensabile ed inedito intervento di poteri laici ed ecclesiastici consentì una maggiore specializzazione, sia sociale che medica, pure collocandosi in un processo segnato da un “disciplinamento” religioso e sociale. Una caratteristica di tale legislazione - la quale precedette in numerose città italiane, la successiva norma anglo-elisabettiana -, fu la distinzione tra poveri inabili (buoni) ed abili al lavoro (cattivi), i quali furono obbligati al lavoro in luoghi di internamento. Fu rivolta una attenzione particolare ai poveri “vergognosi”, civili e nobili decaduti.
A queste categorie furono rivolte istituzioni ormai specializzate, che nel XVI secolo si posero l’obiettivo di recludere le stesse a scopo rieducativo: vennero fondati gli “ospedali generali” in Francia, le “workhouse” in Inghilterra e Olanda, gli “alberghi dei poveri” nella penisola italiana. Con questi strumenti la popolazione cittadina marginale trovò asilo e possibilità di lavoro, mentre la “reclusione”, spesso nei suoi effetti sopravvalutata e fraintesa, non esaurì la gamma degli interventi assistenzialistici in Europa e non presentò soluzioni di continuità con le tradizioni caritative delle comunità rurali e delle città. Le riforme cattolica e protestante offrirono un grande impulso attraverso le iniziative promosse da gruppi legati a nuovi fermenti cristiani e all’umanesimo devoto. I cambiamenti attuati nel 500 - dall’Italia settentrionale alle Fiandre, dalla Baviera alla Renania e alla Francia - risposero a fini morali e spirituali più che al controllo sociale.
Accanto alla rete di ospedali urbani, consorzi elemosinieri e monti di pietà, sorsero molteplici iniziative laiche e, negli Stati cattolici sorsero nuove organizzazioni religiose e nuove confraternite rivolte all’assistenza degli orfani. In Europa si fondarono numerosi ospizi e ritiri per anziani, minori abbandonati, giovani donne, inabili, vedove, in un quadro di una sempre più viva sensibilità per i temi della famiglia e dell’infanzia. Le stesse prerogative ecclesiastiche riguardanti gli enti ospedalieri e assistenziali, affermate dal Concilio di Trento in una continuità con la tradizione del medioevo, restarono interne ad un sistema il quale riflesse posizioni largamente condivise, mentre furono sempre vive le autonomie legate alle corporazioni di mestiere, ai ceti, alle libertà locali. La prima affermazione di statualità moderna si inserì in una trama di poteri articolati e diffusi, unici in grado di occuparsi dei problemi territoriali e delle sue componenti professionali e lavorative.
[caption id="attachment_9939" align="aligncenter" width="1000"] l Concilio di Trento o Concilio Tridentino fu il XIX concilio ecumenico, ovvero una riunione di tutti i vescovi del mondo, per discutere di argomenti riguardanti la vita della Chiesa cattolica. Esso avrebbe dovuto "conciliare" cattolici e protestanti, durando ben 18 anni, dal 1545 al 1563, sotto il pontificato di tre papi. Si risolse in una serie di affermazioni tese a ribadire la dottrina cattolica che Lutero contestava. Con questo concilio venne definita la riforma della Chiesa cattolica (Controriforma) e la reazione alle dottrine del calvinismo e del luteranesimo (Riforma protestante).[/caption]
Non a caso, fra gli inizi del XVII secolo e la metà del successivo, l’Europa conobbe da una parte interventi di “ingegneria disciplinare” dell’assolutismo illuminato, ma dall’altro lo sviluppo di numerose iniziative basate sull’assistenza domiciliare e su un diretto rapporto con il povero, di perdurante ispirazione religiosa, nel solco dell’esperienza confraternale. Alle istanze di rinnovamento diffuse nei paesi riformati, fece riscontro l’opera di san Vincenzo de’Paoli e l’azione delle religiose da lui fondate al di fuori del chiostro, mentre la spiritualità di san Francesco di Sales diede un particolare impulso a una carità a sfondo sociale. Non è un caso che in quel periodo molte proposte di cambiamento giunsero da ambienti religiosi, miranti a una migliore organizzazione dei ricoveri, e più tardi, a un generale ripensamento del sistema caritativo. In tale prospettiva la scoperta del “sociale” – che portò a una sottolineatura della centralità del momento sanitario e ospedaliero, nonché dell’importanza di un associazionismo libero da vincoli di ceto – mise in discussione molte delle forme ereditate dal passato, ma non un comune riferimento ideale.
Come avvenne in Inghilterra con le “poor laws”, i tentativi di riforma si dovettero misurare con un mutamento rispetto al quale si rese necessario un intervento pubblico e i suoi caratteri di universalià e razionalizzazione. Se in Italia non si giunse a sistemi di “carità legale”, si giunse comunque ad un ingresso dello Stato e non più solo dell’autorità cittadina nel campo della beneficienza pubblica. Di fronte ad un processo sempre più rapido di crescita demografica e di modernizzazione economica, con il conseguente aumento della povertà e disgregazione dei rapporti familiari, si imposero delle decise innovazioni.
Andarono verso tale direzione molte voci di matrice illuministica, accompagnate a volte da accenti antipauperistici, anche se con Montesquieu non mancò chi sostenne una estensione più coerente dei diritti nel sociale. Tale estensione fu resa più urgente dai limiti imposti ai corpi intermedi, soprattutto in rapporto ai diritti tradizionali delle comunità, mentre gli ordini religiosi, le corporazioni e le confraternite furono colpite dalla politica delle soppressioni con ricadute ovvie sul tenore di vita di popolazioni rurali ed urbane.
Due principali caratteristiche possiamo trovare nelle legislazioni assistenziali tra la fine del 700 e gli inizi dell’800, nel tentativo, di ricreare la coesione sociale: sul piano municipale la concentrazione degli istituti che porterà ai “bureaux de bienfaisance” e in età napoleonica alle congregazioni di carità, ed in secondo luogo un intervento governativo diretto nella gestione degli enti, con nomina pubblica degli amministratori e controllo diretto dei patrimoni, vista l’inadeguatezza e la diminuzione delle rendite e dei lasciti testamentari.
Alla luce di nuovi indirizzi delle scienze sociali e mediche si crearono premesse per una nuova visione dell’ospedalizzazione, che non prevedeva più una cura indifferenziata, attraverso l’apertura di istituti per fronteggiare il problema della povertà. Aumentarono le possibilità di intervento e i governi se ne servirono ampiamente, talora con un uso selettivo e discriminante dei sussidi elemosinieri. Soprattutto in relazione a un’inedita mentalità produttivistica, case d’industria e di ricovero allargarono notevolmente la loro capacità ricettiva ma, furono utilizzate a fini del controllo territoriale e di polizia. In più di un’occasione, tuttavia, si arrivò a svolgere un’opera di assistenza immediata, sovente con il ricorso del lavoro a domicilio, nei confronti della povertà tradizionale e della nuova marginalità sociale tipica delle città europee fra il ‘700 e l’800. Incertezze teoriche si rifletterono sul piano pratico, in sostituzione delle disgregate forme di solidarietà, al dovere dello Stato di occuparsi dei bisogni non corrispose un diritto all’assistenza se non per il breve periodo del giacobinismo nella Francia rivoluzionaria.
Nel periodo della Restaurazione si cercò un diverso equilibrio, con i gruppi dirigenti che mantennero il controllo dello Stato sulle istituzioni di beneficienza, ma allo stesso tempo favorirono impostazioni paternalistiche basate su una politica sociale fatta di lavori pubblici e sussidi familiari, mutuo soccorso, ospedali e ricoveri. Tali scelte si rivelarono del resto insufficienti, in un processo di industrializzazione e modernizzazione economica, e questo non poté che riaprire spazi per l’iniziativa religiosa e privata. Le chiese tornarono in primo piano e, dopo le soppressioni del 700 e dell’età napoleonica, si registrò una diffusione di ordini religiosi, soprattutto femminili, dediti alla rieducazione, all’istruzione popolare, all’assistenza ospedaliera e privata.
A tale fenomeno di amplia portata si accompagnò sovente un associazionismo laicale che diede vita a forme di soccorso originali soprattutto verso le forme di povertà causate dall’urbanesimo come la devianza giovanile e il disagio familiare. Su tali basi si svilupparono ulteriori progetti nel campo del credito popolare, della cooperazione in agricoltura, del mutuo soccorso operaio, i quali costituirono una risposta coraggiosa ed aperta alle necessità del tempo.
Tutto l’800 conobbe dunque un incremento di opere sociali, con la fondazione di gradi istituti medici specializzati anche nel campo pedagogico, frutto di una nascente filantropia laica e di una rinnovata coscienza religiosa, unite nel tentativo di un contenimento dei costi elevati del “progresso” celebrato da tante parti. Diverse ispirazioni animarono una vasta gamma di iniziative, in un concetto di sussidiarietà costruita dal basso in grado di intervenire sulla politica.
Sul finire del secolo furono introdotte delle prime norme legislative di rilievo nel campo previdenziale, infortunistico, mutualistico-sanitario, di tutela dell’infanzia e della maternità coniugando seppur con tensioni le richieste dei movimenti di ispirazione democratico-cristiana e socialista. Con la Lettera enciclica Rerum novarum del Pontefice Leone XIII (che sarà trattata nel cap.IV) si incoraggiò tale prospettiva prendendo le difese dell’associazionismo e del particolare ruolo dei corpi intermedi.
[caption id="attachment_9941" align="aligncenter" width="1000"] Nell'immagine: miniatura sul ritratto di Papa Leone XIII (particolare). Papa Leone XIII (1810 – 1903) è stato il 256º Papa della Chiesa cattolica (dal 1878 alla morte). È ricordato nella storia dei Papi dell'epoca moderna come Pontefice che ritenne che fra i compiti della Chiesa rientrasse anche l'attività pastorale in campo socio-politico. Se con lui non si ebbe la promulgazione di ulteriori dogmi dopo quello dell'infallibilità papale solennemente proclamato dal Concilio Vaticano I, egli viene tuttavia ricordato quale Papa delle encicliche: ne scrisse ben 86, con lo scopo di superare l'isolamento nel quale la Santa Sede si era ritrovata dopo la perdita del potere temporale con l'unità d'Italia. La sua più famosa enciclica fu la Rerum Novarum con la quale si realizzò una svolta nella Chiesa cattolica, ormai pronta ad affrontare le sfide della modernità come guida spirituale internazionale. In questo senso correttamente gli fu attribuito il nome di "Papa dei lavoratori" e di "Papa sociale", infatti scrisse la prima enciclica esplicitamente sociale nella storia della Chiesa cattolica e formulò quindi i fondamenti della moderna dottrina sociale della Chiesa.[/caption]
L’evoluzione legislativa della fine del XIX secolo e dell’inizio del XX secolo costituì indubbiamente il punto d’arrivo dell’azione pubblica nel settora dell’assistenza e in molti casi gli stati si orientarono in questo senso dopo l’esempio della Germania bismarckiana. Al tempo stesso la rete degli istituti di beneficenza e delle opere pie fu ovunque posta sotto il controllo statale, come avvenne in Italia con la legge Crispi del 1890. Fu il risultato paradossale di un intervento statale di risposta alle attese sociali e che per molti aspetti le deluse, anche se l’associazionismo non perse vitalità e continuò ad esercitare un ruolo fondamentale nella risposta al bisogno.
Alla vigilia della I guerra mondiale, la formazione della società di massa, impose il passaggio ad una fase ulteriore caratterizzata da un’estensione dei servizi di assistenza ai lavoratori e alle loro famiglie. Dagli anni ’30 si accompagnò una forte crescita delle spese per i servizi sanitari e mutualistici divenuti obbligatori, mentre si delinearono i primi sistemi di welfare state in riferimento al modello inglese, su base universalistica e fondato sul diritto di cittadinanza. I movimenti politici sociali e le chiese cristiane sostennero con convinzione l’idea del welfare state, pur in una varietà di proposte ed in difesa del proprio spazio d’iniziativa.
I sistemi occidentali hanno in genere sviluppato tali premesse, raggiungendo innegabili risultati di socialità e di democrazia. Il sacrificio sovente imposto alle forme autonome di organizzazione e il peso attribuito all’azione pubblica –controllata e in molti casi direttamente esercitata da istituzioni dello stato o di altri enti territoriali- rappresentano tuttavia elementi problematici dall’inizio latenti e palesi di fronte alla più recente crisi del welfare state. Si tratta di una crisi certo dovuta a fattori esterni - di natura finanziaria, fiscale, demografica -, ma che è non di meno legata alla crescente difficoltà di rispondere a esigenze non riconducibili alla sfera economica e non affrontabili da un’autorità politica centrale e inevitabilmente lontana. Non a caso non è mai venuta meno e si è anzi sempre più affermata la necessità di lasciare spazio ai soggetti della società civile, riaffermando il valore della sussidiarietà, in rapporto alle politiche dello Stato moderno, come fondamento di un intervento efficace e come espressione della libera iniziativa delle formazioni sociali.
Per approfondimenti:
_Benedetto XVI, Lettera enciclica Deus caritas est (2005);
_Boezio S., Liber de persona duabus naturis contra Eutychen et Nestorium, ad Joannen Diaconum Ecclesiae Romanae;
_Bortoli B., I giganti del lavoro sociale, Erickson, Trento (2006);
_Catechismo della Chiesa cattolica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2000;
_Concilio Vaticano II, Costituzione pastorale Gaudium et spes (1965), AAS 58 (1966);
_Concilio Vaticano II, Dichiarazione Gravissimum educationis (1965), AAS 58 (1966);
_Dal Pra Ponticelli M., Dizionario di Servizio Sociale, Carocci Faber, Roma (2010);
_Dal Pra Ponticelli M., Pieroni G., Introduzione al Servizio Sociale, Carocci Faber, Roma 2005;
_Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica Familiaris consortio (1981), AAS 74 (1982);
_Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Centesimus annus (1991), Libreria editrice vaticana (1991);
_Giovanni XXIII, Lettera enciclica Mater et Magistra (1961), AAS 53 (1961);
_Giovanni XXIII, Lettera enciclica Pacem in terris (1963), AAS 55 (1963);
_Leone XIII, Lettera enciclica Rerum novarum (1891), AAS 23 (1890-91);
_Lombo J.A., F. Russo, Antropologia filosofica. Una introduzione;
_Magagnotti P., Il principio di sussidiarietà nella dottrina sociale della Chiesa, Edizioni Studio Domenicano, Bologna (1991);
_Maritain J.. La persona e il bene comune, Morcelliana, Brescia (1963);
_Paolo VI, Lettera apostolica Octogesima adveniens (1971), AAS 63 (1971);
_Paolo VI, Lettera enciclica Populorum progressio (1967), AAS 59 (1967);
_Pio XII, Radiomessaggio al VII congresso internazionale dei medici cattolici (1956), AAS 48 (1956);
_Pio XII, Radiomessaggio natalizio sul problema della democrazia (1944), AAS 37 (1945);
_Pio XI, Lettera enciclica Quadragesimo anno (1931), AAS 23 (1931);
_Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2004;
_Villa F., Dimensioni del Servizio Sociale, Vita e pensiero, Milano (2000);
_Vittadini G., Che cosa è la sussidiarietà, Guerini e associati, Milano (2007);
_Vives J.L., De subventione pauperum, Fabrizio Serra, Pisa-Roma (2008);
_San Tommaso d’Aquino, Commentum in librum III Sententiarum;
_San Tommaso d’Aquino, Summa Theologicae;
_Vanni Rovighi S, Elementi di filosofia, vol. 2, La Scuola, Brescia (1995);
_Vanni Rovighi S., Elementi di filosofia, vol. 3 , La Scuola, Brescia (1995);
_Utz A.F., Die geistesgeschichtlichen Grundlagen des Subsidiaritatsprinzip, in Utz A.F.(a cura di), Das Subsidiaritatsprinzip, Kerle, Heidelberg, 1953, (trad. it. In A.F.Utz (a cura di), Il principio di sussidiarietà, a cura di P.Del Debbio, trad. it. Di G.Lacchin).
 
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di Gabriele Rèpaci 25/01/2018

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«Una delle caratteristiche dell’èra economica secondo i suoi aspetti più squallidi e plebei è appunto questa specie di autosadismo, che consiste nel glorificare il lavoro come valore etico e dovere essenziale, e nel concepire sotto specie di lavoro qualsiasi forma di attività». Così si esprimeva Julius Evola nella sua celebre opera Gli Uomini e le Rovine (1953).
Nell’epoca moderna infatti, a differenza che nelle società antiche, il lavoro cessa di essere qualcosa che si impone semplicemente per soddisfare delle esigenze materiali per divenire fine a se stesso: una condanna a cui l’uomo è costretto per soddisfare i propri bisogni materiali - «ti guadagnerai il pane col sudore della tua fronte» è scritto nella Genesi - esso diventa un valore intrinseco.
La storia della modernità è la storia dell’imposizione del lavoro, che ha lasciato sull’intero pianeta una lunga scia di desolazioni e orrori. Ci sono voluti diversi secoli di aperta violenza su larga scala per sottomettere gli uomini al servizio incondizionato dell’idolo del lavoro.
Nell’Antichità europea, il lavoro veniva disprezzato proprio perché era considerato il luogo per eccellenza dell’assoggettamento alla necessità. Tale disprezzo lo troviamo tanto nei Greci e nei Romani quanto nei Traci, nei Lidii, nei Persiani e negli Indiani. In Grecia soprattutto esso era percepito come un’attività servile, che in quanto tale, era in antagonismo con la libertà, e quindi con la cittadinanza. Tanto è vero che in greco il termine ponos che sta ad indicare l’attività lavorativa era sinonimo di sforzo, fatica, pena e sofferenza.
Lo stesso stato d’animo vigeva a Roma. Sul lavoro, il filosofo Seneca asseriva come «è privo d’onore e non potrebbe rivestire neppure la più semplice apparenza dell’onestà», se l'attività si presentava manuale.
Cicerone aggiunge che «il salario è il prezzo di una servitù», che «niente di nobile potrà mai uscire da un negozio», che «il posto di un uomo libero non è in officina». La lingua latina distingue nettamente il labor, che evoca il lavoro penoso ed oppressivo, e l’opus, l’attività creativa. “Lavorare” (laborare) ha spesso il significato di “soffrire”: «laborare ex capite», “soffrire di mal di testa”. Viceversa la parola otium non designa affatto la pigrizia o il fatto di “non fare niente”, bensì l’attività superiore orientata verso la creazione, di cui il commercio rappresenta la negazione (negotium, “negozio”).
Quanto alla parola moderna francese travail, essa scaturisce dal termine tripalium, che in origine era uno strumento di tortura.
Pur senza volere operare un’idealizzazione del passato, il sociologo francese Alain Caillé ritiene che «l’immagine del paradiso perduto e dell’Età dell’oro forse non è esclusivamente mitica come in genere si crede»: tutte le ricerche etnografiche concordano nel dimostrare che in quel che resta delle società “selvagge” il tempo di lavoro medio non supera mai quattro ore al giorno. «La maggior parte del tempo è dedicata al sonno, al gioco, alle chiacchiere o alla celebrazione dei riti». Queste società capaci di limitare i loro bisogni, non si preoccupano affatto di accumulare: se per caso diventano più produttive, non aumentano la produzione ma il tempo dedicato agli ozi (nota 1).
Sarebbe sbagliato vedere in questa svalutazione del lavoro semplicemente il riflesso di una visione gerarchica della società e la conseguenza della “comodità”, rappresentata dall’esistenza di schiavi; essa esprime, in realtà, un concetto molto più importante: la libertà – come d’altra parte anche l’eguaglianza – non può risiedere nella sfera della necessità e che vi è autentica libertà solo nell’affrancamento da tale sfera, ovverosia al di là dell’economico.
L’idea contemporanea del lavoro ha origine con il capitalismo manifatturiero. Sino a quel momento, cioè sino al secolo XVIII, il termine “lavoro” (labour; Arbeit, travail) designava la pena dei servi e dei giornalieri, che producevano beni di consumo o servizi necessari alla vita, che dovevano essere rinnovati giorno dopo giorno, senza che nulla potesse essere dato per acquisito.
Gli artigiani, che fabbricavano oggetti durevoli, accumulabili, che gli acquirenti di regola trasmettevano ai posteri, non “lavoravano” “operavano” e nella loro “opera” potevano utilizzare il “lavoro” di uomini di fatica, chiamati a svolgere compiti grossolani. La produzione materiale non era dunque, nell’insieme, retta dalla razionalità economica.
Nessun secolo più del Novecento ha fatto del lavoro il proprio idolo. Tutti i principali partiti politici dell’epoca moderna, incluso quello nazista, sono stati partiti dei lavoratori. Socialisti e conservatori, democratici e fascisti si sono combattuti fino all’ultimo sangue, ma per quanto fossero nemici mortali hanno sacrificato le loro divergenze per concordare sulla necessità di promuovere l’ideale che “il lavoro rende liberi” che ha trovato eco nella macabra iscrizione sopra l’ingresso del lager di Auschwitz.
[caption id="attachment_9808" align="aligncenter" width="1000"] Wall Street è un film del 1987 diretto da Oliver Stone e prodotto negli Stati Uniti dalla 20th Century Fox. Nel fotogramma l'attore statunitense Michael Douglas veste i panni di Gekko[/caption]
Benché Marx nella sua Critica al Programma di Gotha (1875) avesse affermato contro Lassalle che non il lavoro, bensì la natura era la fonte di ogni ricchezza, l’ideologia marxista - così come i regimi comunisti - ha sempre esaltato il lavoro quale strumento di liberazione dell’uomo dal regno della necessità. In un breve ma illuminante articolo - elaborato su richiesta di Enrico Bignami, direttore de La Plebe - dell'ottobre 1872, Sull’autorità, Engels sostenne che la fabbrica è un fatto naturale della tecnica, non un modo specialmente borghese per razionalizzare il lavoro: di conseguenza, essa sarebbe dovuta esistere tanto in una società comunista come in quella capitalista, «indipendentemente dall’organizzazione sociale».
Nella società classista e nella società senza classi, la dimensione della necessità sarebbe stata sempre una dimensione di autorità e obbedienza, di governanti e governati. Gli esisti funesti di tale concezione furono evidenti nell’Unione Sovietica, in particolare sotto Stalin, dove Aleksej Grigor’evič Stachanov (1906 – 1907) venne celebrato quale “lavoratore modello” ed esempio per tutti gli operai sovietici.
[caption id="attachment_9809" align="aligncenter" width="1000"] Aleksej Grigor'evič Stachanov (1906 – 1977) è stato un minatore sovietico. Lavorò nelle miniere di carbone della regione di Donbass nel bacino del Donec (allora appartenente all'Unione Sovietica ed attualmente in territorio ucraino), fu eroe del lavoro socialista (1970) e membro del Partito Comunista dell'Unione Sovietica (1936).[/caption]
Il dittatore georgiano in un suo celebre discorso disse: « […] Il movimento stacanovista rappresenta l’avvenire della nostra industria, reca in sé il germe del futuro slancio culturale e tecnico della classe operaia e ci apre la sola strada per la quale possiamo raggiungere quegli alti indici produttivi indispensabili per passare dal socialismo al comunismo ed eliminare il contrasto tra lavoro intellettuale e lavoro manuale».
Il marxismo, in tutte le sue varianti, non è mai riuscito a comprendere che la fabbrica non è mai stata il regno della libertà; piuttosto è sempre stata quel regno della sopravvivenza, della “necessità”, che svuotava il mondo umano attorno a sé. Alla sua nascita si oppose l’aspra resistenza degli artigiani, delle comunità agricole e in genere di tutto un mondo più comunalistico e a misura umana.
L’obiettivo che dobbiamo porci oggi, non è dunque rinunziare a lavorare, bensì operare una modalità edificante di società differente, in cui non si viva più per produrre, ma si produca per vivere. La riduzione del carico di lavoro può tuttavia, all’interno di una società consumista come la nostra, produrre effetti nefasti.
Dato l’economicismo dominante, capita purtroppo molto spesso che il tempo non lavorativo, quando non è divorato dalle costrizioni della vita moderna (trasporti, burocrazia ecc., in breve quello che Ivan Illich ha definito lavoro fantasma), è convertito in un’attività commerciale (lavoro nero) o nel consumismo dei servizi commerciali.
L’allungamento della durata della vita in Occidente, a partire dal 1950, corrisponde a circa tre ore in più per ogni giorno, ma questo coincide più o meno con il tempo medio che un europeo passa davanti al televisore ed è pari al doppio del tempo che un francese passa al volante o su un mezzo di trasporto. Il buon uso del tempo liberato, guadagnato sul tempo di lavoro, non è così scontato in una società logorata dal produttivismo. Se sono diventate droghe non solo il consumo, ma anche il lavoro (workaholics, dicono gli americani), questa nuova libertà può essere causa di angoscia.
L’uscita dal sistema produttivistico e lavoristico non può quindi che comportare l’edificazione di un organizzazione sociale completamente diversa, in cui si devono organizzare - accanto al lavoro, il tempo libero e il gioco e in cui le relazioni fra gli esseri umani vengano prima della produzione e del consumo di inutili -, dannosi prodotti a perdere.
Ed è evidente che per fare ciò, l’attuale modo di produzione capitalistico deve essere rimpiazzato da una società ecologica fondata su relazioni non gerarchiche, su comunità decentralizzate, su eco tecnologie come l’energia solare, l’agricoltura organica e industrie a misura umana, ovvero su forme di insediamento realmente democratiche, nonché economicamente e strutturalmente coerenti con l’ecosistema in cui si trovano collocate.
Mai come oggi risultano attuali le parole di Friedrich Nietzsche il quale scrisse oltre un secolo fa : «In fondo […] si sente oggi che il lavoro come tale costituisce la migliore polizia e tiene ciascuno a freno e riesce a impedire validamente il potenziarsi della ragione, della cupidigia, del desiderio d’indipendenza. Esso logora straordinariamente una gran quantità di energia nervosa, e la sottrae al riflettere, allo scervellarsi, al sognare, al preoccuparsi, all’amare, all’odiare». (Nota 2).
 
Note:
_Nota 1: cfr. A. Caillé, Critica della ragione utilitaria, Bollati Boringhieri, Torino, pp. 63-64;
_Nota 2: cfr. F. Nietzsche, Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali, 1881.
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di Giuseppe Baiocchi 05/12/2017

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Se non arriveremo ad una società civile, nel pieno senso del temine, consapevole e intollerante verso la drammatica percentuale di giovani laureati – la più bassa in Europa -, tale sistema sarà destinato ad una inesorabile decadenza. Il nostro sistema politico nazionale, attualmente inetto nell'apprensione di tali banalità, deve percepire queste nozioni da un grande movimento di opinione pubblica. Senza questa innovazione il nostro destino - della ricerca universitaria, dell’investimento sul diritto allo studio -, in questo paese, è segnato. Già oggi è visibile: chi ha possibilità manda i figli all’estero o li trasferisce in strutture private. Sarà sempre più così se non si stabilisce che lo studio è la priorità di un paese. Si badi bene, non un amore di “sapere”, in termini così vagamente umanistici: il sapere è potere, ed è "potere" soprattutto per noi giovani: se non sappiamo, non possiamo. Potere-sapere è in realtà un unicum, ma in Italia, per riprendere Machiavelli, chi può non sa e chi sa non può.
Oggi il problema del luogo e del confine è la grande tematica europea, che spesso nel Sud Italia ha tonalità tragiche. Oggi la questione del “confine” nel nostro continente appare sempre più tradursi in termine di “barriera”, “muraglia”, “filo spinato”, “muro di ferro”. La paradossalità europea - la quale da tre millenni, abbatte confini, frontiere, al grido del motto “Sempre oltre” caro a Carlo V - consta nell’essere “Leone affamato”, per riprendere Hegel.
[caption id="attachment_9704" align="aligncenter" width="1000"] Frans Francken II, Allegoria dell'abdicazione di Carlo V.[/caption]
Ora questa Europa si muraglia, si imprigiona di fronte a processi di trasformazione epocale e globale. Quella cultura europea - la quale ha viaggiato per tre millenni, spezzando confini, trasgredendo ogni limite, non ci trasmette segnali di decadente pazzia?
Tuttavia bisogna riconoscere la problematicità della questione, non possiamo semplicemente contrapporre a chi vuole innalzare impotenti barriere, il discorso buonista dell’accoglienza che genera unicamente una sarabanda: non è con la “confusione” che ci si oppone alle muraglie. Bisogna tornare a ragionare, partendo nel rimettere ordine nelle parole che usiamo. La base e fondamento di un pensiero filosofico consiste prima di tutto nel comprendere che cosa significhino le parole. Oggi la politica afferma molti concetti, ma a vanvera, senza capire ciò che dice.
Partiamo da “limite” e “confine”: non è barriera. Il limen, in latino, è la soglia: quell’elemento della casa che si tra-duce dall’interno e dall’esterno. Il limes possiede un altro significato che crea una prima problematica al rapporto, ma sia esso soglia o limes, contiene un luogo: il confine termina con un luogo. Ma che cos’è un luogo? Aristotele nella “Fisica”, suo grande libro filosofico del IV secolo, afferma come “nessun concetto è più difficile di quello di luogo”, topos (dal greco τόπος). Questa parola che sempre crediamo di conoscere, finché non ci interroghiamo su di essa; come il “Tempo” nelle confessioni di Agostino.
Il luogo è quello spazio che noi costruiamo con il nostro movimento, l’individuo non è un primate in gabbia. Dove si trova il luogo? Dove si volge l’uomo con il proprio movimento e sguardo, questo definisce il luogo: lo spazio dove giunge il nostro sguardo; l’orizzonte mutevole è determinato dal moto umano. Il luogo non ha nulla di immobile, non può essere concepito come qualcosa di fermo, a meno di non concepirlo come una scimmia all’interno di una gabbia.
L’uomo si è evoluto dalla scimmia, poiché dove giunge il nostro sguardo, il nostro movimento, possiamo capire l’essenza di luogo. Ancora nel riprendere Aristotele, questo affermava che il concetto di luogo ha relazione con eschaton, dell’ultimo: il nostro luogo è situato dove “all’ultimo” giunge il nostro sguardo, la punta. Difatti il termine tedesco per luogo è ort, ricorda esattamente questo concetto a livello toponimo, “il paese ultimo”, “il paese che sta in punta”: lì è il luogo!
[caption id="attachment_9705" align="aligncenter" width="1000"] Jacques Perrin interpreta il St.Te. Giovanni Drogo nel film "Il deserto dei Tartari" del 1976 di Valerio Zurlini.[/caption]
Il luogo lo costruiamo con il nostro movimento, non è un dato, è un fatto! La riflessione che dobbiamo porci, ci riconduce al quesito: che luogo vogliamo creare? Non il luogo in cui siamo stati collocati, come i primati nella gabbia di uno zoo. Fin dove vuole giungere il nostro sguardo? Fin dove possiamo muoverci? Questo è il luogo e questa deve essere l’Europa: deve affermare con chiarezza, dove vuole andare.
Vogliamo recarci sul Mediterraneo? Oppure vogliamo chiuderci? Dove vogliamo andare? Il nostro sguardo fin dove giunge? Qual è il suo ultimo? Sono due generazioni che l’Europa non comprende questo “essere luogo” ed è per questo che ha perso ogni politica mediterranea, per questo compie figure indecenti all’Est e al Sud del suo limen, ed è per tale motivazione che quando si sposta in altri continenti viaggia al seguito di altri.
Questa è la tragedia che stiamo vivendo: l’Europa non possiede uno sguardo che delinea il proprio luogo. Così se il nostro luogo non viene generato muovendo verso di esso, necessariamente alla fine vogliamo imprigionarci, rendendo il luogo mero contenitore. Se non sentiamo il movimento che opera il nostro luogo, automaticamente ci inscatoliamo: Tertium non datur!
Questo è il discorso che l’Europa deve iniziare a comprendere, partendo dal suo linguaggio. Quando affermiamo topos, esprimiamo questo dato pensiero: questo volgersi in questo movimento, dove l’individuo definisce le proprie soglie. Quando l’uomo giunge al suo ultimo diviene cum finis, confinante, tocca l’altro. Quell’orizzonte, è il limen, la soglia, ed allora si entra in relazione con l’altro da te. Questo significa distruggere il luogo? No. Questo significa non avere case? Non avere identità? Nient’affatto: significa – di contro – avere un’identità così forte, così sapiente da riuscire a svolgersi fino a quel “limite”, fino alla sua soglia, dove si entra in relazione con l’altro.
Luogo diventa nomen relationis (nome delle relazione), se svolto in questi termini. Platone amava affermare, nel Simposio, che il ruolo della filosofia è oikos, non ha casa, si muove come l’eros, ma tale affermazione non deve essere letta in chiave nomadica - anche il nomade ha la sua abitazione: il tappeto, il quale è orientato come un’abitazione e possiede disegni che ricordano il focolare domestico. Il nomade non è senza casa, si porta dietro la casa. L’uomo occidentale non può vivere senza la sua abitazione. Non opero un discorso sullo sbaraccamento della casa (la demolizione delle baracche, quelle sì), ma intendo questa proprio “sulla soglia”.
Infatti Platone parlava di “oikos sulla soglia”, ma se vi è quest’ultima deve essere presente sempre anche un’abitazione. Il luogo è proprio la casa con la sua soglia, con le sue porte e le sue finestre: lo spazio aperto per definizione è la piazza. “Open space” tanto caro agli anglofili, non può essere che “open”, lo spazio. Dunque sì alla casa, ma dove questa sarà tanto più costruita così stabilmente, da farla giungere al suo ultimo e lì entrerà in rapporto e in relazione. Questo è lo sforzo che dobbiamo fare, che deve fare l’Europa e questa idea di luogo deve nascere da quei “luoghi” che noi chiamiamo Università.
Oggi difendiamo pateticamente le nostre eredità, senza investirle nella ricerca e nella giusta ridefinizione del nostro essere europei. Siamo drammaticamente colpiti dalla mancanza di una cultura politica, che indirettamente condanna l’Europa a sopravvivere di sola moneta. E’ impossibile che il realismo politico viva di sola moneta, assolutamente impossibile, anche se fosse gestita dai migliori banchieri del mondo. Un organismo politico può vivere solamente in quella idea di luogo che ho appena descritto. Quale dramma ci aspetta se questa prospettiva non si apre? L’Europa, che dell’Occidente rimane cuore e cultura, rischia di concepirsi come una casa in cui si esclude il suo essere confine e il suo essere in relazione.
Una casa che non affronta come problema strategico la relazione con l’altro, cade nella tragedia. Si è già profilata un’Europa chiusa, che non si concepisce come casa in relazione, casa soglia, spazio-confine e “fuori” di questo spazio chiuso: l’inferno. L’Occidente è accerchiato da popolazioni assolutamente proletarizzate. O affrontiamo il problema dell’altra sponda o ci arrendiamo all’assedio verso masse di proletari non occidentali, ma di individui di altra cultura, di altra civiltà: un soverchiante doppio assedio. Tali paesi denominati “del terzo mondo” vivono una situazione storica di epocale sconfitta. Nel rapporto con questa storicità, diventata tragico-drammatica, noi facciamo finta di dimenticare la storia. Dobbiamo riconoscere questa situazione psicologico-culturale.
[caption id="attachment_9714" align="aligncenter" width="1000"] Pietro Canonica, L'abisso - 1907-1909 (particolare).[/caption]
Le nostre democrazie, uscite dalla seconda guerra civile europea, promisero a queste masse un certo sviluppo economico, un diverso sviluppo sociale, una determinata scuola politica, che – in una decisa prospettiva – sarebbe stata da noi europei favorita, promossa: si era promesso questo! Abbiamo tragicamente disatteso tutti questi progetti e ciò aggrava la situazione.
Per citare il britannico Arnold Joseph Toynbee “è il fallimento degli erodiani”, ovvero di coloro che cercarono una mediazione tra civiltà romana e l’altra. Gli erodiani, all’interno delle diverse culture dell’altra sponda, sono stati sconfitti e massacrati: l’Europa assisteva cieca.
Dobbiamo fare metànoia, altrimenti l’Europa - senza un contraccolpo netto, una conversione netta (laica o religiosa), un cambiamento di mente rispetto a quello che è stata nei confronti del Mediterraneo, nei confronti dell’altra sponda e nei confronti di se stessa (poiché ha tradito il suo concetto di luogo) –, non ha futuro.
Senza tutto ciò, oggi non possiamo trovare una soluzione, poiché la situazione si è molto aggravata sul nostro territorio nazionale in chiave migranti. Il conflitto è divenuto ancor più tragico: l’Europa ha nella sua cultura, nel suo sapere e nella sua scienza, nelle sue Università, la soluzione. Tale discorso deve partire dall’Aula Magna di ogni centro Universitario europeo: l’Europa, nel medioevo, è nata in tali luoghi.
La nuova Europa, quella veramente moderna, è ripartita da questa ambizione di “luogo europeo” e “logos europeo” filosofico-scientifico. Questo principio-speranza deve trasmetterci la scintilla per ripartire, altrimenti presto o tardi saremo tutti condannati alla decadenza. I nostri muri sono destinati ad essere spazzati via, proprio perché barriere, proprio perché albergano ragioni materiali, semplicemente demografiche. Ripetiamo la storia! E’ già accaduto: riproporre il modello universitario europeo del 1100 d.C. e il 1.200 d.C.. Da lì è nata l’idea di Europa e dalle nostre Università dovrà rinascere l’Europa del domani.
 
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Un tema annuale incentrato sui due termini Crisi e Metamorfosi pare naturale per un’associazione quale DAS ANDERE, legata al nome dell’architetto viennese Adolf Loos, protagonista e contemporaneo dell'architettura mitteleuropea, e spettatore della finis Austriae. Questo momento epocale non indica però soltanto un periodo storico coincidente con lo scoppio della prima Guerra Mondiale (1914) e il crollo dell’Impero asburgico, ma è la metafora della fine di un mondo, della crisi e metamorfosi del mondo di ieri caro a Stefan Zweig: la fine venne imposta dal senso di cambiamento, dalle inquietudini e dalle perplessità che cominciavano a farsi strada dal termine dell’Ottocento e, prendendo a prestito gli studi di Aldo Giorgio Gargani sull’ambito filosofico e scientifico della Fine Austria, da un sapere senza fondamenti, da una cultura che congeda definitivamente il primato della soggettività moderna e le sue certezze.
Quell’epoca, di contro, sembra parli ancora di noi e dell’oggi, avendo molto in comune con i timori che viviamo in quest’inizio millennio. C’è indubbiamente un’analogia tra l’epoca di Wittgenstein, Heidegger, Musil o Kafka e la contemporaneità. Siamo forse ancora immersi nel temibile e atroce destino di Samsa, il protagonista de La metamorfosi, che trovandosi con le sembianze di uno scarafaggio vive l’impatto con il mondo che lo individua come un estraneo. Kafka, con Gregor Samsa, costruisce un paradigma per una società in crisi, poiché in lui confluisce l’angoscia di fronte a un mondo che ti vede scollato dagli schemi convenzionali, un “diverso” drammaticamente distante ed estromesso dalla società. Così, l’apparente naturalità del tema scelto, se messa in rapporto alla decennale crisi globale e a quella subita dal territorio Piceno, martoriato dal terremoto, diventa un dovere, un’urgenza e un bisogno riflessivo non più prorogabile.
Il concetto di crisi racchiude difatti in modo pervasivo la vita dell’individuo odierno. La crisi ha causato le innumerevoli e drammatiche storie di uomini che nell’oblio esistenziale, per mancanza di occupazione, tentennano nel perdersi o no. La crisi è il sintomo di un male collettivo, di una società con minori punti di riferimento rispetto al passato e sempre più proiettata nel calderone dell’oblio dei diritti. La crisi economico-finanziaria ha portato la società a snaturarsi dalla propria spontaneità nel condurre l’esistenza. L’economia è diventata la struttura egemonica dell’essere umano poiché è proprio in conformità a essa che oggi si contano le mancanze individuali. La crisi genera un cambiamento radicale, una metamorfosi dell’approccio stesso alla vita e bisogna percepirla come una forza agente, la quale forgia le coscienze nella loro evoluzione morale, etica, sociale, tecnica e inventiva.
Di là dal fenomeno prettamente economico, la crisi ha quindi invaso lo spirito globale, nazionale, individuale e locale. L’autenticità dell’essere è minata e diventa un coraggioso eroe chi, di fronte a una crisi normalizzata nel suo sviluppo senza soluzione, sceglie a partire da se stesso e non dall’imposizione degli stimoli esterni; è sempre lo spirito che deve cambiare, perché lo spirito veicola l’agire di una comunità tesa al miglioramento.Le tensioni economiche e politiche nazionali e continentali sono poi diventate ancor più forti in uno specifico luogo come il Piceno, colpito nel 2016 da forti terremoti. E oggi, a oltre un anno di distanza dal sisma, sono ancor più visibili i suoi effetti: dopo i danni strutturali, architettonici, abitativi e paesaggistici – fin da subito evidenti – sono pian piano emersi quelli psicologici, affettivi ed economici. Il deterioramento e la metamorfosi del tessuto sociale, spirituale ed economico, sono ormai evidenti.
Ma se provassimo ad operare lo sforzo di intendere il concetto di crisi in termini di cambiamento, si potrebbe riflettere sull’intento di concedere una valenza positiva alla questione trattata. La crisi è anche da intendersi come qualcosa che, quando si manifesta, oltre a spezzare un equilibrio precedente porta in grembo la capacità di creare un cambiamento, una metamorfosi che può imboccare due strade: l’una quella dello “sviluppo” del male collettivo che la crisi ha generato nell’immediato, dunque senza margini di miglioramento rispetto al prima, l’altra che parla di un “progresso” rispetto a una condizione precedente e di un mutamento positivo che prevede un passo avanti della civiltà.
D’altronde, l’etimologia greca e latina della parola “crisi” ci ricorda i suoi sinonimi originari, che sono scelta, decisione, giudizio e per quanto nell'uso comune abbia assunto un'accezione negativa, si può ritrovare nella parola “crisi” una sfumatura positiva in quanto momento di riflessione, valutazione, discernimento, comprensione – tutti presupposti per una possibile rinascita.
E la stessa metamorfosi – consequenziale alla crisi – è innata nel DNA dell’uomo più di quanto si pensi: è la sua prima natura. La metamorfosi è la modificazione strutturale o funzionale di un organismo vivente. In zoologia è l’insieme dei cambiamenti, talora profondi e complicati, che subiscono organismi di molti gruppi animali al termine del loro sviluppo embrionale, per raggiungere la forma dell’adulto. E il cambiamento metamorfico inteso come trasformazione di un essere o di un oggetto in un altro di natura diversa, è l’elemento tipico di racconti mitologici o di fantasia, già consacrato e chiaro in quell’enciclopedia della mitologia classica che sono Le metamorfosi di Ovidio.
Dunque, in un futuro prossimo ci attende un rinnovamento del sapere, forse della tecnica (si spera), sicuramente del tessuto urbano, economico e socio-locale; ma il mondo di ieri non va nostalgicamente rimpianto o ricostruito com’era. La crisi costringe a una revisione di programmi, ma non solo al ripiegamento; costringe a una libertà in grado di incarnare e realizzare il potere delle metamorfosi. Un “sistema critico” è un sistema in bilico tra ordine e caos, tra grandi potenzialità e crollo definitivo; più importante è non precludersi e rimanere estromessi dall’ambito delle ragioni, creazioni ed emozioni che caratterizzano l’essere umano, un artigiano del proprio avvenire, capace di unire la capacità tecnica con lo spirito .
 
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di Ramon Caiffa del 02/11/2017

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«Dio è morto: ora vogliamo che il superuomo viva». Così esclamava Nietzsche nello Zarathustra. Siamo certi che la profezia nietzschiana non si sia avverata? Siamo certi di poter ancora vivere senza tenere conto di queste considerazioni?
Viviamo in un’epoca dove l’essere umano appare sempre più “antiquato” e il suo superamento sembra essere sempre più d’attualità. È proprio l'elevazione dell'uomo sull'uomo, a costituire il sogno della contemporaneità che, grazie alle nuove scoperte tecnico-scientifiche, sogna di poter “migliorare” l'essere umano. Il sogno è quello di poter elaborare un nuovo uomo più forte e resistente, instaurando una specie di ponte tra un’umanità obsoleta, fragile, antiquata e limitata dalla morte e un nuovo essere che possa raggiungere l’immortalità. Ora, questa frase è certamente vera ma solamente in parte, perché, grazie alle tecniche, non si sogna solamente di allungare la vita - distruggendo la morte -, ma anche di modificare l’uomo, affinché possa vivere meglio nel suo ambiente.
[caption id="attachment_9594" align="aligncenter" width="1000"] Questo monumento al filosofo tedesco Friedrich Nietzsche (1844-1900) si trova in piazza Holzmarkt a Naumburg (Saale).[/caption]
Questo fattore viene messo in pratica sia attraverso la manipolazione delle nascite – dunque agendo all’origine della vita – sia intervenendo su noi stessi, nella nostra attualità – operando, dunque, sulla vita hic et nunc.
Le tecnologie, di cui oggi l’umanità dispone, permettono di dare voce al grandioso sogno della contemporaneità; sogno di cui le parole di Nietzsche sono profetiche. Possiamo finalmente sbarazzarci dell’uomo fragile e mortale, per ottenere una condizione sovra-umana, in cui l’uomo può essere finalmente “alla moda”.
Grazie alle biotecnologie, possiamo modificare non soltanto il vivente, ma anche ipotizzare e disegnare dei mondi nuovi e imprevedibili. Qual è, allora, il posto dell’uomo e, dunque, della vita, così come la conosciamo, in questi nuovi mondi?
Lo status del soggetto che abita la post-modernità è cambiato e sembra orientato verso una soggettività, detta appunto post-umana, connessa e legata alle tecnologie e alle biotecnologie, che permettono una modifica, ovvero una manipolazione del “Se”. Com’è stato sottolineato «I mondi che si squadernano davanti a noi, oggi, sono così meravigliosi, così singolari, così prodigiosi che la struttura stessa di ciò che siamo si vede rimessa in discussione». Science-fiction o realtà?
Il progetto trans-umanista è dunque quello di migliorare l’uomo. Questo progetto non è una novità assoluta. In effetti, come è stato sottolineato: «Gli uomini hanno sempre agito su se stessi e sulla specie. Per il meglio o per il peggio […] Essi si sono fatti carico della loro evoluzione attraverso le differenti tecniche. Tecniche dure, degli attrezzi, mezzi tecno-scientifici[…] tecniche dure e dolci per il governo, per il potere e la violenza, per il controllo della popolazione e della demografia».
Questa ipotesi della fine dell’umanità è una di quelle tesi spaventose e paurose. Ma, il filosofo francese Jean Michel Besnier rileva che, in questa paura, vi è un paradosso: «Perché questa prospettiva di una fine dell’umanità ci sembra spaventosa? Non l’abbiamo desiderata? Ci vogliamo decisamente moderni e, per questa ragione, nulla era più importante ai nostri occhi dell’autonomia – rapportata agli altri, alla natura, alle tradizioni o agli Dei».
Se quest’ipotesi, oggi, ci sembra più spaventosa, è solo perché l’uomo ha raggiunto una maggiore potenza tecno-scientifica, talmente incredibile, da «richiedere la coscienza di una nuova responsabilità». Grazie alle biotecnologie, l’uomo possiede una maggiore potenza su se stesso, è capace di modificarsi sempre meglio, di tendere la propria mano, e quella della scienza, sul mistero della vita.
«Ormai è, per così dire, nell’ovulo che l’uomo è minacciato […]. È anche [il pericolo] imminente e molto più grave di quello che gli fanno correre l’inquinamento atmosferico e il surriscaldamento climatico. La scienza ha poggiato il suo dito sul mistero della vita». L’uomo possiede una potenza incredibile. Può, ormai, modificare, sconvolgere, mettere fine alla vita così come la conosciamo. Può operare, sempre meglio, su qualsiasi aspetto della vita: la nascita, la vita propriamente detta, o la morte. Tutto sembra possibile: controllo delle nascite e planning programmato delle stesse, gestazione “per altri” e mamme “surrogato”, passando per la fecondazione in vitro».
Questa strumentalizzazione della nostra discendenza è strutturalmente collegata ad un certo tentativo di strumentalizzazione di sé poiché, agendo sulla nostra discendenza, cerchiamo un beneficio per noi stessi. Sono tali, ad esempio, le azioni dei dottori-scienziati che cercano a mettere in pratica il clonaggio terapeutico oppure a continuare la ricerca sugli embrioni; cercando così di “creare” degli individui più forti e resistenti all’ambiente.
Possiamo sottolineare un doppio paradosso: mentre agiamo su noi stessi, operiamo sulla nostra discendenza e, agendo su di essa, si opera verso la discendenza, la quale indirettamente ci procura i mezzi per agire sul nostro essere.
Queste manipolazioni “faustiane”, frutto dell’egoismo degli uomini, si allargano a tutte le sfere della vita: dal trattamento del corpo – al fine di cercare la bellezza e la giovinezza eterna – al controllo della morte – morte programmata o eutanasia – passando per i metodi di riproduzione – concezione programmata e planning delle nascite, interruzione delle gravidanze e aborti terapeutici, procreazione assistita, etc.
Lo sconvolgimento della vita umana è dunque al centro del dibattito contemporaneo.
In questo scenario, nel quale l’uomo corre il rischio di scomparire, la sfida che occorre affrontare riguarda la sua definizione; chi è l’uomo?
Secondo Ollivier Dyens: «[…] Queste nuove sfere del reale ci obbligano su ciò che vuol dire essere umano. Questa riflessione è la sfida più importante della nostra epoca». Dunque la sfida è lanciata e per confrontarsi con questa realtà, l’uomo deve assolutamente definirsi. Ascoltando le parole di Tugdual Derville, l'uomo: «Deve comprendere la sua identità per acconsentire a essa e, in questo modo, umanizzarsi di più. Questo presuppone la resistenza alle nuove sirene scientiste. Perché la loro canzone, divenuta assordante, annuncia una ridefinizione dell’uomo». Definire l’uomo, affinché possa confrontarsi alle nuove tecnologie, è necessario, perché, come dice P. Kemp, il problema non è solo quello della qualità della vita che desideriamo realizzare, ma soprattutto del come. «Parliamo, oggi, di lavorare per una vita migliore, diciamo che si tratta di migliorare la qualità della vita. Ma come vogliamo raggiungere questa vita migliore, questa nuova qualità della vita?».
Per fare ciò, analizzeremo la fonte della vita umana, ovvero la nascita, e vedremo come la teoria trans-umanista arrivi a sconvolgerla. Definire l’uomo vuol dire schematizzare le differenti tappe della vita, così come si presenta, nella sua sacralità e fragilità. In effetti, se si dice che essa è da difendere, vuol dire che si riconosce, in essa, implicitamente o meno, una certa sacralità e fragilità.
Ancora Jean-Michel Besnier insiste: «Da dove deriva che questa volontà di oltrepassare la condizione naturale, grazie alle nuove tecnologie, s’interpreta, ancora oggi, come un peccato contro la natura umana, come un gesto di trasgressione? Senza dubbio è perché riconosciamo alla natura un carattere di sacralità […]».
[caption id="attachment_9599" align="aligncenter" width="1000"] Jean-Michel Besnier, è nato il 5 aprile 1950 a Caen, ed è un filosofo francese contemporaneo. Professore emerito di filosofia presso l'Università della Sorbona a Parigi, dove ha creato e gestito il "Comitato di redazione e gestione della conoscenza digitalizzata". E 'membro del Consiglio Scientifico dell'Istituto di Studi Avanzati in Scienze e Tecnologie (IHEST) 3, il consiglio di amministrazione di Murs (Movimento universale per la responsabilità scientifica) e del Comitato della ricerca scientifica e tecnica di letteratura al Centro Nazionale del Libro (CNL). Il suo insegnamento e la supervisione delle tesi di dottorato sotto la sua direzione si concentrano sulla filosofia della tecnologia. E 'stato direttore scientifico del settore della Scienza e della Società del Ministero dell'Istruzione e della Ricerca nel 2008, fino ad aprile 2011. La sua attuale ricerca si concentra sull'impatto filosofico ed etico della scienza e della tecnologia sulle rappresentazioni individuali e collettive e gli immaginari.[/caption]
Occorre difendere l’uomo e la vita, dunque, contro quelle forze destrutturanti derivanti dalle nuove biotecnologie: questo sarà il nostro compito. Occorrerà, partire dal principio.
Alla base vi è la vita. Più precisamente, nelle fondamenta di questo mistero inestinguibile, c’è un evento particolare: la nascita. La difesa della vita passa, in primis, dalla salvaguardia e dall’elogio di quell’evento particolare che è il parto. L'essere umano nato da una donna, deve necessariamente porre la tutela della maternità che è, oggi, sempre più minacciata. Il professor Derville Tugdual mira a precisare: «Che siamo uomini o donne, abbiamo tutti soggiornato a lungo nel corpo di un altro. Questo fatto incontestabile è ormai contestato. La maternità è minacciata».
Il problema che tormenta la contemporaneità è, così sembra, la natura non democratica della maternità. Unicamente l'essere femminile può dare alla luce un figlio. Questa verità è vista, dai fautori del post-umano, come un irritante privilegio. Essi, infatti, sognano di poter finalmente dare anche all’uomo questa prerogativa femminile. Tale scopo è, o vorrebbe essere, compiuto tramite quella che chiameremo la decostruzione del sesso che, sottolineiamolo, è ciò che si cerca di fare promuovendo le teorie gender.
«Maschio e femmina li creò» (Gn. 1, 27). Quest’evidenza è divenuta, ormai, contestata e contestabile. Non vogliamo, qui, prendere una posizione netta contro queste teorie, ovvero contro quelle persone che risentono un forte disagio psichico a causa del loro sesso biologico, ma sottolineare che, in questa nuova colonizzazione del pensiero, anche i fautori delle suddette teorie gender devono arrendersi all’evidenza: solo le donne, e unicamente loro, possono partorire. Prendiamo, ad esempio, il caso di una donna che ha deciso di “cambiare” il proprio sesso, per diventare uomo. Ora, questa donna, anche se divenuta uomo, può, nel caso conservi il suo utero, avere un bambino, provando così, attraverso la procreazione, il suo status femminile.
Ancoira Derville Tugdual ci spiega come: «In materia di procreazione, il corpo non sa mentire: né la comparsa artificiale della barba […], né l’asportazione volontaria dei seni potrà fare di una partoriente un uomo». Il sesso biologico non sa mentire: lo status civile è sempre secondario. Controllo delle nascite, mamme “in affitto”, legame e aggroviglio della carne alle macchine: il sogno post umano è all’opera.
Non viviamo in un mondo controllato dalle macchine, anche se quest’ultimo è controllato e, in gran parte, creato da esse. Ciò vuol dire che le macchine, prodotte, dalla tecnica degli uomini, non soltanto possono mantenere in vita un bimbo, nato prematuramente, ma anche di generarlo; sono le sfide cui ci sottopone la fecondazione in vitro o la programmazione delle nascite. Ma ecco il paradosso: generare è peculiarità dell’umano.
Ancora Ollivier Dyens afferma come: «Ogni giorno, dovunque in Occidente, le macchine ci proteggono dal freddo della canicola, dalla fame, dalla sofferenza e dalla malattia. Ma, soprattutto, ogni giorno, ovunque in Occidente, delle macchine autorizzano la nascita di bimbi straordinari e partoriscono letteralmente […]» e prosegue asserendo che la società sta scivolando verso un mondo che non è, certo, dominato dalle macchine ma che è creato sempre di più a sua immagine e somiglianza: «l’uomo, la donna, il bambino di questa era sono umani per la loro relazione alle macchine».
Le macchine che generano il nostro mondo non sono né dei robot né dei grandi automi, ma sono nientemeno che le scoperte tecno-scientifiche applicate alla vita. Si dovrà, dunque, parlare della procreazione assistita e della conseguenza di questa pratica sulla vita.
Con questo termine, ci riferiamo, generalmente, a un insieme di pratiche, cliniche e tecniche, grazie alle quali l’uomo può intervenire sulla procreazione e, dunque, sulla nascita; esse comprendono un ampio ventaglio di possibilità: fecondazione in vitro, bambini-provetta, dono dei gameti, inseminazione artificiale, madri “surrogato”.
La potenza tecnica degli uomini può, al giorno d’oggi, ottenere molteplici risultati, anche nel campo biomedico e della procreazione. Tuttavia, quando l’atto tecnico si sostituisce in toto al dono coniugale, la nostra riflessione deve mobilitarsi. Le sfide che la procreazione medicalmente assistita ci sottopone sono molteplici: in primis il significato delle maternità si trova  mutato nel suo significato, secondariamente essa concerne la relazione madre-figlio e, infine, la relazione coniugale strictu sensu.
Innanzitutto occorre enunciare una definizione. La gestazione per altri – o ciò che volgarmente chiamiamo “mamme surrogato” o “mamme in affitto” – è una pratica medica che permette alle coppie, che non possono averne, di avere figli, ricorrendo a un terzo elemento, esterno alla coppia: la cosiddetta mamma “in affitto”. Ella ha il compito di portare e partorire il bambino di una coppia, che ha fornito il materiale genetico.
Ora questa pratica solleva delle domande e degli interrogativi.
Per cominciare, essa annulla quel significato intimo della maternità, che abbiamo cercato di enunciare, espandendola su tre o addirittura più persone. In genere, la genitrice e la coppia che vuole il bambino. Questo fatto sconvolge la maternità, perché si fonda sulla negazione di essa. La maternità non è semplicemente una relazione biologica, ma istituisce un legame ontologico tra i due poli della relazione; ivi madre-figlio. Riflettiamo ancora.
[caption id="attachment_9601" align="aligncenter" width="1000"] Tugdual Derville è una personalità francese del mondo associativo noto per la sua implicazione nell'accoglienza dei bambini in situazione di handicap, nella lotta contro l'eutanasia, contro l'aborto e contro il matrimonio e l'adozione da parte delle coppie dello stesso il sesso. È il delegato generale dell'associazione Alliance VITA, portavoce di La Manif per tutti e co-iniziatore del Courant pour un Ecologie Humaine.[/caption]
Che cosa significa desiderare un figlio? E cosa vuol dire per una donna, o un padre, avere un bimbo? Essa implica un’apertura all’Essere; un’apertura generosa dell’uomo ad un altro “io”. Ma, questo significa che lo scopo della maternità, o della paternità, non è la produzione di bambini perché, in effetti, l’uomo non è un prodotto. Ora, in base a quanto detto prima, capiamo perché la maternità non può, in nessun caso, essere né una produzione, né uno scambio di qualsiasi tipo; in effetti, c’è sempre qualcosa che eccede, di sovrabbondante.
Il professor Derville afferma come nel dono della vita, la maternità resta un mistero, perché non può, in nessun caso, ridursi a uno scambio di natura materiale: a un do ut des. «La mamma surrogato anche se ha deciso, intellettualmente, di non “investirsi”, è dotata di un cuore di madre».
La relazione di una madre a suo figlio è, dunque, più profonda di quello che non si creda. La maternità non può ridursi ad una relazione “carnale”, ma c’è, in essa, un qualcosa di più profondo; il legame che la nuova madre instaura con suo figlio e che non può essere ridotta ad una semplice relazione biologica, sanguigna o carnale, ma implica un legame misterioso che non può essere concettualizzato.
All’interno di queste pratiche, possiamo rintracciare, dunque, una duplice riduzione. In primis, vi è una “sottomissione della donna” e, in seguito, una riduzione della maternità, come avvenimento.
In effetti, esse sfruttano il corpo della donna, che non solo è prestato a terzi, ma è ridotto a un semplice mezzo per raggiungere un fine; per soddisfare i desideri di qualcun altro. La decostruzione dell’essere umano è qui duplice: da un lato, abbiamo, certo, la riduzione del corpo femminile a una sorta di merce, ma dall’altro, ancora peggio, la riduzione del nuovo nato, del bambino a prodotto. In effetti, cosa viene ad essere il bambino frutto di queste pratiche? Nient’altro che un prodotto; oggetto del nostro desiderio e che può essere, sotto pagamento, ordinato e scelto. Come ogni prodotto, poi, ci sono i prodotti ben riusciti, e che rispondono pienamente ai desideri dei compratori-genitori, e quelli mal riusciti o imperfetti: i bambini malati o portatori di handicap. Essi sarebbero, solo, degli errori di cui sarebbe meglio non parlare.
Tuttavia, di fronte alla richiesta legittima, di un padre, che si rifiuta di avere un bimbo malformato e che chiede alla donna portatrice di abortire, può avvenire che la donna si rifiuti. Perché? Non è forse l’emblema di ciò che abbiamo detto in precedenza, ovvero che il legame madre-figlio è più forte di ogni tecnica?
In effetti, questo dimostra non solo che il legame affettivo è molto più forte di quello tecnico, ma, soprattutto, che la maternità non può ridursi a una pratica di commercio. Diremmo allora che questa riduzione della «ricchezza della maternità biologica» è una trasgressione. Ma se questa trasgressione è uno sconvolgimento della vita è perché si ha la tendenza a negare quella complessità che caratterizza l’umano, assumendone dei tratti caricaturali.
Ora, pretendendo d’imitare il reale, la tecnologia si sforza di negarne la complessità, cancellando il mistero dell’imprevedibilità. E' lo stesso Derville a ricordarcelo: «quando si tratta di ridisegnare la vita, ne facciamo una caricatura!».
In effetti, dal momento che la tecnica si trova incapace a riprodurre ogni sfera della vita umana, la quale è troppo complessa e articolata, e che vuole comunque riprodurla, si trova costretta a semplificarne gli avvenimenti. È così, però, che quello che si chiamava vita, diventa, ipso facto, un’altra cosa, perché la complessità è caratteristica primaria della vita.
In effetti, come abbiamo affermato, la maternità è ridotta ad una semplice relazione “esteriore”, che nega il surplus della gioia proprio alla relazione madre-figlio; un surplus che la tecno-scienza, pretendendo d’imitare il reale, non riconosce.
In questo contesto, la procreazione è vista, sempre più spesso, come “produzione” di bambini ed è per questo che queste pratiche ci invitano a riflettere meglio sullo statuto del matrimonio, ovvero sulla relazione coniugale. Che cosa diviene la relazione coniugale all’epoca della tecno-scienza? In questo contesto, essa non è più il luogo dell’accoglienza, ma della produzione volontaria. Occorrerà spiegare meglio questo passaggio.
La relazione tra i coniugi è una di quelle relazioni che, nel mondo dominato dalla tecnica, ha subito il peso di ciò che abbiamo chiamato riduzione. In effetti, oggi, pensiamo che essa sia il luogo della creazione, quando invece è il luogo della procreazione. Qual è la differenza?
Con il termine di creazione, ci riferiamo a un atto d’invenzione o di produzione. Per questo motivo diciamo che scopo della tecnica è inventare o creare strumenti e prodotti. Ma, come abbiamo affermato, un bambino non può essere in alcun modo il risultato di una produzione e, dunque, a fortiori, nemmeno di una creazione.
Procreare significa donare la vita, essere aperti ad essa e accettare il dono gratuito di una nuova vita. Ora, ciò che ci urge sottolineare è che se la tecnica ci illude di poter creare la vita, e il bimbo in particolare, è la vita stessa che ci ricorda quest’impossibilità: né la madre, né il padre creano il bambino, ma accolgono una vita che non solo non hanno prodotto, ma che possono alle volte nemmeno avere desiderato.
L’amore è dunque, apertura alla vita; al dono gratuito e, ipso facto, la procreazione è l’atto attraverso il quale questo amore si offre e si dona.
Per concludere, ci piace citare le pacate parole pronunciate da Giovanni Paolo II, in cui si afferma che il rischio, sempre più elevato, è che le tecnologie possano arrivare a sostituire la maternità o la paternità:
«[esse sono] sostitutive della vera paternità e maternità e, ipso facto, nocive per la dignità sia dei genitori, che dei figli. [l’atto coniugale] non può essere sostituito da un semplice intervento tecnologico […]».
 
Per approfondimenti:
_Besnier, J-M. (2012). Demain les posthumains. Le futur a-t-il encore besoin de nous ? Paris : Pluriel;
_Derville, T. (2016). Le temps de l’homme. Pour une révolution de l’écologie humaine. Paris : Plon;
_Dyens, O. (2007). La condition inhumaine. Essai sur l’effroi technologique. Paris : Flammarion;
_Michaud, Y. (2006). Humain, inhumain, trop humain. Réflexion sur les biotechnologies, la vie et la conservation de soi à partir de l’œuvre de Peter Sloterdijk. Castelnau-le-Lez : Climats.
Nietzsche. F. (1883). Also sprach Zarathustra. Ein Buch für alle und keinen. Chemnitz : Verlag von Ernst Schmeitzner.
 
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

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di Davide Bartoccini 15/09/2017

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Quando capirà il mondo che nulla è sostenibile nel futuro se non si vuole cambiare davvero rotta alla base?
Viviamo costretti in un limbo di rimorso latente e perenne sotto l’indice mai pago dell’utopia del sostenibile. Dubbiosi se sia giusto acquistare quel succulento filetto di manzo argentino mentre riflettiamo sulle flatulenze che secondo alcuni sono la prima causa d’ingrandimento del Buco dell’Ozono; in delirio da stress davanti ai quattro secchielli colorati imposti dal comune per la ‘differenziata’ - con la paura di commettere lo sbaglio irrimediabile e il terrore che il portiere faccia la spia; praticamente fermi a trenta chilometri orari, in ritardo cronico su macchinine elettriche uscite direttamente da Paperopoli per andare in centro quando c’è il blocco del traffico per la ‘Domenica Ecologica’.
Siamo noi a volerlo davvero? No. È il rimorso che ci fa sentire in dovere di farlo. E la ragione è sempre la stessa: il sogno di un mondo migliore.
Riempirsi la bocca di buoni auspici e rosee prospettive è da decenni hobby preferito di tutto quell’entourage rampante, elitario, e rivoluzionario di post-capitalisti redenti con il pallino per la green economy e commercio equo e solidale che picchettano al grido di : “Salviamo il mondo riciclando le bottiglie di plastica finiscono nell’Oceano in scarpe da ginnastica per le nostre maratone ecologiche, che butteremo nella differenziata”. 
Tutto molto freak. Tutto molto bello. Tutto molto dolce.. e onanistico, e sterile, e fine a se stesso. La popolazione mondiale - che secondo il World Population Clock dello United States Census ammonta a 7,477220 miliardi - da sempre bilanciata nei grandi numeri da guerre, epidemie e stermini, vive nei falsi miti di progresso che auspicano e promettono il giorno in cui pace e prosperità regneranno indisturbate sul tutt'uno sociale, che soave e solidale, si moltiplicherà a dismisura senza tenere conto, nel futuro come nel presente, del collasso del sistema.
Una contraddizione in termini ahimè, che non tiene conto delle capacità già allo stremo di un pianeta, il quale non può più sopportare - in alcuno modo - la presenza ulteriore della piaga biblica dell'essere umano consumista: colui che più del petrolio (in esaurimento) è carburante per il capitale (sempre attivo nel soggiogare nuove tipologie di schiavi).
La mancanza di equilibrio logico nella stragrande maggioranza nell’ideale del sostenibile - estirpata pure la pigrizia figlia dell’egoismo o della disillusione dell’essere - è proprio quella del ‘numero’: come non arrivare al risultato della più prosperità tradotta in più consumismo? Quest'ultimo si materializzerebbe in più emissioni nocive, come fabbriche, allevamenti, automezzi e nella produzione di più rifiuti, i quali sono già ovunque ed infestano il mondo senza posa e senza soluzione.
Se si tiene conto di una vecchia stima fatta da Ericsson, nel mondo ci dovrebbero essere all’incirca 5 miliardi di telefoni cellulari, che negli Stati Uniti vengono sostituiti dal 44% di chi ne possiede ogni 2 anni. Quanti ne verranno gettati ogni anno nel 2050, quando secondo le stime saremo 9,7 miliardi? E quante auto verranno accese con connesse emissioni? Quante accartocciate e stipate in discariche a cielo aperto? Quanti chilogrammi di carne proveniente da allevamenti intensivi per garantire ad un nucleo familiare occidentale il fabbisogno minimo? Quante flatulenze in aumento dunque? Con che conseguenze?
Nel mondo del restyling cronico che induce il consumatore ad avere sempre l’ultima novità, ogni anno, ovunque, si getta il vecchio per il nuovo senza aver ancora trovato una soluzione adeguata allo smaltimento dei rifiuti (oltre 4 miliardi di tonnellate di rifiuti ogni anni). Nel mondo della bugia del progresso, ogni anno il 71% della popolazione mondiale continua a vivere sotto la soglia di povertà senza alcuna speranza di miglioramento a breve termine. Nel mondo reale per ogni piccola sensazionalistica crociata sulla sostenibilità del riciclo dei boiler dell’acqua o delle scarpe passate di moda sponsorizzata da una comunità di vegani molisani, il presidente di una super potenza mondiale non ratifica l’accordo sulle emissioni globali per favorire la propria industria pesante e sopperire alle richieste del consumo e ai prezzi del mercato (se non si vuole tenere conto dei paesi che producono al di fuori dei controlli e da sempre ne sono estranei).
Insomma.. Io potrei continuare per molti più caratteri di quanti ne abbia a disposizione in questa pagina: nel Mondo reale, la verità, è che la vera sostenibilità si può ottenere solo con la riduzione della popolazione. Piaccia o no ai fanatici terrorizzati per il calo demografico.
 
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di Miriana Fazi 20/05/2017

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Nel dopoguerra, il governo del nuovo stato israeliano, si trovò di fronte ad un dilemma: la Procura Federale dell’Assia chiese l’estradizione del colonnello delle Schutzstaffel (SS) Otto Adolf Eichmann; tuttavia le prospettive di un processo tedesco non si profilavano verosimili. D’altro canto, l’opinione pubblica della divisa Germania sembrava poco incline a rimarcare l’infausta responsabilità connessa alle atrocità naziste. I tempi non erano ancora maturi per un mea culpa collettivo. Si correva così il rischio di dar luogo a un processo, che avrebbe finito per spaccare il Paese e rianimare vecchi conflitti, prospettando un secondo problema, in vista di tale processo: la condanna sarebbe potuta non arrivare o mostrarsi particolarmente lieve rispetto alle aspettative del Governo Israeliano.
[caption id="attachment_8755" align="aligncenter" width="1000"] Otto Adolf Eichmann (Solingen, 19 marzo 1906 – Ramla, 31 maggio 1962) è stato un paramilitare e funzionario tedesco, considerato uno dei maggiori responsabili operativi dello sterminio degli ebrei nella Germania nazista.[/caption]
Nel 1961, la filosofa Hannah Arendt segue le centoventi sedute processuali, inviata dal settimanale statunitense New Yorker a Gerusalemme. Il tedesco Otto Adolf Eichmann, classe 1906, è stato responsabile della sezione IV-B-4, ovvero l'apparato competente sugli affari ebraici, dell'ufficio centrale per la sicurezza del Reich (RSHA), organo nato dalla fusione - voluta da Himmler - del servizio di sicurezza delle SS con la polizia di sicurezza dello stato, unita alla polizia segreta o Gestapo.
Il nazista non era mai andato oltre il grado di tenente-colonnello, ma per l'ufficio ricoperto ha svolto una funzione di grande rilievo nella politica del regime nazionalsocialista: aveva coordinato - a livello europeo - l'organizzazione dei trasferimenti degli ebrei, verso i campi di concentramento e di sterminio. Rifugiatosi nel dopoguerra in Argentina, nel maggio 1960 viene catturato dagli agenti israeliani, i quali lo scortano sotto sequestro a Gerusalemme.
Processato da un tribunale israeliano, nella sua difesa tenne a precisare che, in fondo, si era occupato "soltanto di trasporti". Fu condannato a morte mediante impiccagione e la sentenza fu eseguita il 31 maggio del 1962. Il resoconto di quel processo e le considerazioni che lo concludevano furono pubblicate sulla rivista americana e successivamente furono riunite nel 1963 nel saggio "La banalità del male" (Eichmann a Gerusalemme).
In questo scritto la Arendt analizza come le modalità del pensiero umano, possano evitare azioni malvagie. La banalità del male ha accentuato la relazione fra la facoltà di pensare, la capacità di distinguere tra giusto e sbagliato, la facoltà di giudizio e le loro implicazioni morali, compiti che sono stati estremamente significativi nel lavoro della filosofa ebrea fin dai primi scritti della fine dell'anno 1940, sul fenomeno del totalitarismo.
La prima reazione è più che sinistra: lei sostenne che "le azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, ne demoniaco ne mostruoso". La percezione dell'autrice su Eichmann, sembra essere quella di un uomo comune, caratterizzato dalla sua superficialità e mediocrità che la lasciarono stupita nel considerare il male commesso da lui, che consiste, nell'organizzare la deportazione di milioni di ebrei nei campi di concentramento.
Ciò che la Arendt scorgeva in Eichmann non era neppure stupidità ma qualcosa di completamente negativo: l'incapacità di pensare. Il tedesco ha sempre agito all'interno dei ristretti limiti permessi dalle leggi e dagli ordini. Questi atteggiamenti sono la componente fondamentale di quella che può essere vista come una cieca obbedienza. Dunque se gli alti burocrati potevano apparire dei "mostri", egli in apparenza era persona comune, normale, ma nella sua vita regolare e monotona - nell'eseguire ordini -  i suoi atti erano terribili. In questa "mostruosa normalità" della burocrazia, capace di commettere la più grande atrocità che l'umanità avesse mai visto, la Arendt rintraccia la questione della "banalità del male". La "normalità" espressione di atteggiamenti comuni ripudiati dalla società - in questo caso i programmi della Germania nazista - trova il suo elemento all'interno del comportamento del cittadino comune, il quale non riflette sul contenuto delle regole, ma applica queste in maniera incondizionata. Il nazista ha introdotto il pericolo estremo della irriflessività. Può apparire incredibile che queste atrocità commesse, non arrecavano al carnefice nessun pentimento morale o ammissione di colpa, poiché le circostanze normali della quotidianità, rendevano le operazione routine da lavoro.
Dunque le analisi delle interrelazioni fra la facoltà di pensare, la capacità di distinguere tra giusto e sbagliato, la facoltà di giudizio, e le loro implicazioni morali rappresentano il nucleo tematico dell'opera. A questo proposito la Arendt si è chiesta se la facoltà di pensare, nella sua natura e nei suoi attributi intrinseci, coinvolge la possibilità di evitare di "fare il male".
La banalità del male non è sembrato incorniciare gli standard soliti di male, come patologia di condanna ideologica di chi lo compie: in questo senso la filosofa si domanda se la dimensione del male sono una condizione necessaria di "operare il male".  Si plasmava un nuovo fenomeno del male, le cui radici non sono state ancorate negli standard filosofici, morali, religiosi tradizionali, al meno si aprirà una prospettiva nuova sul comprensione del male.
La stessa, riprende la tematica nelle prime pagine dell'introduzione de "La Vita della Mente": assistendo al processo Eichmann la Arendt disse: " mi sono sentita scioccata perché tutto questo contraddice le nostre teorie sul male".
Un accenno alle sue tesi sulla banalità sono presenti ne "Le Origini di Totalitarismo" (1951), il suo primo saggio, nel quale sosteneva che l'aumento di totalitarismo, era dovuto all'esistenza di un nuovo genere di male, il male assoluto, che, "non poteva essere a lungo spiegato e capito con malvagie ragioni di egoismo, avidità, bramosia, risentimento, sete per potere, e codardia". Nasceva un "hostis generis humani", tradotto dal latino nemico del genere umano.
Come può dunque la capacità di pensare muoversi in modo da evitare il male? Per prima cosa - secondo la Arendt - gli standard etici e morali basati sulle abitudini e sulle usanze hanno dimostrato di poter essere cambiati da un nuovo insieme di regole di comportamento dettate dall'attuale società. La filosofa si interroga sul come sia possibile che pochi individui, non aderiscano al regime malgrado ogni coercizione. A tale domanda risponde in maniera semplice: i non partecipanti, chiamati irresponsabili dalla maggioranza, sono gli unici che osano essere "giudicati da loro stessi"; e sono capaci di farlo non perché posseggano un miglior sistema di valori o perché i vecchi standard di "giusto e sbagliato" siano fermamente radicati nella loro mente e nella loro coscienza, ma perché essi si domandano fino a che punto, un individuo può vivere in pace con sé stesso, dopo aver commesso certe azioni.
[caption id="attachment_8760" align="aligncenter" width="1000"] Hannah Arendt (Hannover, 14 ottobre 1906 – New York, 4 dicembre 1975) è stata una filosofa, storica e scrittrice tedesca naturalizzata statunitense. La privazione dei diritti civili e la persecuzione subite in Germania a partire dal 1933 a causa delle sue origini ebraiche, unitamente alla sua breve carcerazione, contribuirono a far maturare in lei la decisione di emigrare. Il regime nazista le ritirò la cittadinanza nel 1937; Hannah Arendt rimase quindi apolide fino al 1951, anno in cui ottenne la cittadinanza statunitense.[/caption]
La Arendt chiaramente presuppone alla facoltà del pensare questo tipo di giudizio. Questa presupposizione non necessita di una elevata intelligenza, ma semplicemente l'abitudine di vivere insieme, e in particolare con se stessi, il ché significa, essere occupato in un dialogo silenzioso tra l'io e l'io, che da Socrate è stato chiamato "pensare".
L'incapacità di pensare non è stupidità: può essere presente negli individui più intelligenti e la malvagità non è la sua causa, ma è necessaria per causare grande male. Dunque l'uso del pensiero previene il male. Una delle questioni principali consiste nel fatto che un'intera società può sottostare ad un totale cambiamento degli standard morali, senza che i suoi cittadini emettano alcun giudizio circa ciò che sta accadendo. La Arendt sceglie Socrate come suo modello di pensatore. Una maniera per prevenire il male è come detto sopra rintracciabile nel processo del pensare. Questo pensare per Socrate provoca essenzialmente la perplessità che ha il potere di dislocare gli individui dalle loro regole di comportamento.
La capacità di pensare, ha dunque la potenzialità di mettere l'uomo di fronte ad un quadro bianco annullando il bene o il male, ma semplicemente attivando in lui la condizione per stabilire un dialogo con se stesso e permettendogli dunque di deliberare un giudizio circa tali eventi. La Arendt sta cercando di evitare l'aderire degli uomini a ogni tipo di standard morale, sociale o legale senza esercitare la loro capacità di riflettere, basata sul dialogo con se stessi, circa il significato degli avvenimenti, ovvero la manifestazione del pensiero, il quale è capace di provocare perplessità e obbliga l'uomo a riflettere e a pronunziare un giudizio.
La banalità del male che appare attraverso Eichmann, rende evidente come il fenomeno del male può mostrare la sua faccia. In un trattato scritto per un dibattito su "Eichmann a Gerusalemme" nel Collegio Hofstra nel 1964, la Arendt ha affermato che "banalità" significa "senza radici", non radicato nei "motivi cattivi" o "impulso" o forza di "tentazione".
La Arendt asserisce inoltre: "la mia opinione è che il male non è mai 'radicale', ma soltanto estremo, e che non possegga né la profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare tutto il mondo perché cresce in superficie come un fungo. Esso sfida come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, andare a radici, ed nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua "banalità"... solo il bene ha profondità e può essere integrale."
Tornando al processo, archiviata l’ipotesi di matrice tedesca, venne considerata una seconda opzione per avviare il procedimento. Si pensò quindi alla convocazione di un tribunale internazionale ad hoc, che presupponesse l’utilizzo del c.d. Codice di Norimberga (un insieme di principi giuridici scritti e utilizzati per la prima volta nel 1945, ndr).
Un simile approccio, tuttavia, avrebbe comportato la violazione del principio di retroattività della norma penale sostanziale. Un ipotetico tertium genus da considerare, invece, sarebbe stato un processo tutto israeliano.
Al di là dei problemi, sorti dopo l’operazione del Mossad, si poneva una questione squisitamente giuridica: qual era la norma da applicare? Le possibilità facevano capo a tre modelli alternativi. In primo luogo si considerò un rito penale ordinario, che concedesse di processare Eichmann per omicidio plurimo. Tale ipotesi non fu accolta con favore, giacché sembrava svilire la carica simbolica e politica che quel processo sembrava essere destinato ad assumere.
Si considerò un’alternativa incentrata sul modello processuale italiano, mediante l’audizione di un Tribunale Militare. Eppure un impedimento intrinseco alla fattispecie impedì di procedere in tal guisa. Eichmann non era un militare: facendo parte delle SS, era considerato un paramilitare. Peraltro il concorso in omicidio - capo d’imputazione riferito ad Eichmann, era alquanto difficile da provare nel novero dei sei milioni di omicidi commessi.
Di fatto soltanto in un’occasione emerse la partecipazione diretta di Eichmann all’uccisione di un ebreo: si trattava di un ragazzino, sequestrato da Eichmann e ucciso da questi a bastonate, in concorso con la propria guardia del corpo. Pertanto, al fine di evitare un tortuoso processo penale ordinario, si decise di procedere ad una soluzione ibrida, destinata a diventare un precedente giuridico rivoluzionario.
Il paradosso consisteva nel fattore, che uno dei maggiori responsabili dei crimini nazisti della questione ebraica, infine sfociata nella "soluzione finale" rischiasse di avere una pena lieve, per i crimini contro l'umanità commessi.
Si decise di celebrare il processo a Gerusalemme, davanti ad un tribunale ordinario, ma applicando i capi d’ imputazione ricavati dall’esperienza del processo di Norimberga.
Il Parlamento d’Israele aveva infatti recepito i principi giuridici fondamentali, coniati per il processo di Norimberga con un’apposita legge ordinaria: “La legge sulla punizione dei Nazisti e dei loro collaboratori” del 1950.
La normativa introduceva il reato di “crimini contro il popolo ebraico”, una chiara interpretazione estensiva dei “crimini contro l’umanità” previsti dal Codice di Norimberga.
Tale disciplina adottata dal Tribunale distrettuale di Gerusalemme, costituì una potente arma contro la difesa di Eichmann. La legge infatti prevedeva un forte inasprimento delle pene e una fattispecie abbastanza aperta e idonea a condannare qualunque nazista, che fosse stato dotato di un incarico di responsabilità.
Di fatto, sul solco di tali premesse, Eichmann venne condannato dalla propria inappuntabile precisione. Avendo egli annotato ogni operazione con pedanteria maniacale, venne accertata la sua responsabilità solo in ordine all’eliminazione degli ebrei.
[caption id="attachment_8757" align="aligncenter" width="1000"] Col grado di SS-Obersturmbannführer era responsabile di una sezione del RSHA; esperto di questioni ebraiche, nel corso della cosiddetta soluzione finale organizzò il traffico ferroviario per il trasporto degli ebrei ai vari campi di concentramento. Criminale di guerra, sfuggito al processo di Norimberga, si rifugiò in Argentina, ma venne poi catturato dal Mossad, processato e condannato a morte in Israele per genocidio e crimini contro l'umanità.[/caption]
Per questa ragione Eichmann, pur volendo, non avrebbe potuto addurre a propria scusante il fatto di essere un criminale di guerra ordinario. L’ultimo barlume di speranza per Eichmann sarebbe potuto provenire dal fronte del diritto internazionale. Questo perché L’Argentina contestò aspramente l’operazione illegale condotta da Mossad.
Il Tribunale Internazionale delle Nazioni Unite, l’organismo arbitrale specializzato nella risoluzione delle controversie fra gli stati, riconobbe un risarcimento all’Argentina, ma allo stesso tempo decise di non ingerirsi nel Processo di Gerusalemme.
Eichmann venne quindi processato e condannato a morte in tempi relativamente brevi. Il processo in quanto tale, fu di risonanza mondiale, ma la questione giuridica che sorreggeva la sua impalcatura non venne risolta definitivamente con voci assonanti sul piano dottrinale.
Si creò in questo modo un precedente giuridico, che finì per riaprire vexatae questiones mai sopite: era legittima la deroga al principio di irretroattività della legge penale? Molti giuristi blasonati del calibro di Kelsen risposero negativamente. Anzitutto, in base al rilievo che all’epoca dei fatti non esisteva lo Stato di Israele, né di riflesso il Codice penale di Israele, in base al quale il nazista venne alfine condannato.
Secondo altra parte dei commentatori, in caso di gross violations di simile portata sarebbe stata legittima anche una deroga al principio di irretroattività della legge penale. La questione resta teoreticamente ancora aperta e irrisolta. Ai posteri l’ardua sentenza, dunque, con la consapevolezza che “il processo del secolo” si è consumato anche su un terreno di battaglie giuridiche, di cavilli e codici.
 
Per approfondimenti:
_Hannah Arendt, La banalità del male - Edizioni Feltrinelli
_Deborah E. Lipstadt, Il processo Eichmann - Edizioni Einaudi
 
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di Davide Bartoccini 14/05/2017

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«Caro Ferrari, lo metta sulle sue macchine da corsa. Le porterà fortuna». E’ il 17 giugno del 1923 , Enzo Ferrari ha 25 anni, è un giovane squattrinato con un passato infelice, ma ha appena vinto la prima competizione della sua vita: il Gran Premio del Circuito del Savio volando su di un’Alfa Romeno Rltf che porta il numero 28.
La contessa Paolina de Biancoli, assiste alla gara e ne rimane entusiasta, nota un’affinità, prova un nostalgico senso materno e gli porge un “cavallino rampante” nero dipinto su un pezzo di tela.
[caption id="attachment_8696" align="aligncenter" width="1000"] Enzo Anselmo Ferrari (Modena, 20 febbraio 1898 – Modena, 14 agosto 1988) è stato un imprenditore, dirigente sportivo e pilota automobilistico italiano, fondatore della omonima casa automobilistica, la cui sezione sportiva, la Scuderia Ferrari, conquistò in Formula 1, con lui ancora in vita, 9 campionati del mondo piloti e 8 campionati del mondo costruttori.[/caption]
La tela proviene da uno SPAD S.XIII, un biplano da caccia, quello ch’era di suo figlio, Francesco Baracca, l’asso degli assi. Lo aveva fatto dipingere sulla fusoliera alla sua quinta vittoria, quando divenne asso nel 1916 durante la Grande Guerra, volando per la 91^ Squadriglia, detta “Squadriglia degli Assi”, dove erano stati riuniti tutti i migliori piloti del Regio Esercito.
Francesco Baracca è stato il più importante pilota italiano del primo Novecento. Aviatore abile e coraggioso, idolo delle folle e sogno di moltissime donne, Baracca divenne presto un mito: "Quando volo, soprattutto quando sto duellando con il nemico, la mia mente è vuota, libera, non pensa. Agisco d'istinto, rovescio l'aereo, lo faccio scivolare d'ala, lo metto in vite, lo richiamo".
A Pinerolo, dal 1909 al 1910, Francesco Baracca frequenta la scuola di cavalleria presso il 2° Reggimento “Piemonte Reale” fondato nel 1692 dal duca di Savoia col motto “Venustus et Audax”. Si tratta di uno dei più prestigiosi reparti dell’esercito italiano e come stemma araldico porta il cavallino rampante argenteo su campo rosso, guardante a sinistra e con la coda abbassata. Francesco Baracca sceglie di adottare, apportando delle varianti, lo stesso stemma del “Piemonte Cavalleria” quale emblema personale per rivendicare le personali origini militari e l'amore per i cavalli. Il cavallino non appare sui primi aerei pilotati dall’Asso degli assi, ma solo a partire dal 1917 quando viene costituita la 91^ Squadriglia Aeroplani, reparto che avrà in dotazione i più recenti caccia forniti dall’alleato francese: il Nieuport 17 ed alcuni SPAD VII e XIII.
Sul lato destro della fusoliera di questi velivoli i piloti usano applicare le loro insegne personali e Baracca adotta come proprio questo cavallino rampante mutandolo da argenteo in nero per farlo spiccare maggiormente rispetto al colore della fusoliera. E’ ormai provato che il cavallino è sempre stato nero, però guardante verso destra, come è testimoniato da un pannello multistrato dipinto, esistente nelle collezioni, sicuramente antecedente la morte di Baracca.
Rientrato in Italia nel luglio del 1915, esegue voli di pattugliamento ed ottiene la prima vittoria il 7 aprile 1916 ai comandi di un Nieuport con il quale abbatte un Aviatik austriaco. Per le sue azioni di guerra, riceve una medaglia di bronzo, tre d’argento, la croce di cavaliere dell’ordine militare di Savoia, la croce di cavaliere ufficiale della Corona Belga, ed infine la medaglia d’oro, con la quale viene premiato per l’abbattimento del trentesimo aereo nemico sul monte Kaberlaba, sull’altopiano di Asiago.
[caption id="attachment_8702" align="aligncenter" width="1000"] Francesco Baracca (Lugo, 9 maggio 1888 – Nervesa della Battaglia, 19 giugno 1918) è stato il principale asso dell'aviazione italiana e medaglia d'oro al valor militare nella prima guerra mondiale, durante la quale gli vengono attribuite trentaquattro vittorie aeree.[/caption]
Purtroppo, il 19 giugno del 1918, rimase ucciso durante una missione di mitragliamento a bassa quota delle trincee austro-ungariche nei pressi di Montello, lungo la linea del Piave, forse da un cecchino, forse da se stesso, con un colpo di rivoltella alla tempia, come era abitudine dei piloti da caccia per non morire bruciati nei loro aerei una volta abbattuti. Aveva 30 anni.
Tornando al giovane Ferrari, questi accettò, anche non sapendo ancora bene come impiegare il cimelio. A quel tempo correva come gentleman-driver, e guidava le Alfa Romeo, che uno stemma già lo avevano.
Questo non lo dissuase però. L’anno seguente fondò una società con lo scopo di comperare automobili da competizioni Alfa, modificarle e competervi nel calendario nazionale delle gare sportive. Il 9 luglio del 1932 il cavallino rampante trovò nuovamente il suo posto, sfrecciando alla 24 ore di Spa-Francorchamps su un fondo giallo – colore modificato dall’originale bianco in onore della sua città natale: Modena. Ferrari fonderà su di esso il suo emblema.
La conoscenza dei telai automobilistici e il suo sconfinato amore per le auto da corsa porteranno alla nascita la ”Scuderia Ferrari” solo nel 1947 – ormai spostasi a Maranello per paura dei bombardamenti – dando inizio ad una leggenda dell’automobilismo.
La scuderia competé al Gran Premio di Monaco nel 1950 e al primo Gran Premio di F1 l’anno seguente. Il resto è storia che conoscerete meglio di me.
Riguardo all’origine dello stemma, che Baracca scelse, e che oggi grazie a Ferrari tutto il mondo conosce e ci invidia, ci sono due ipotesi. La prima che sia una stilizzazione dello stemma del 2′ Reggimento Cavalleria “Piemonte Reale”, al quale Baracca apparteneva. A quel tempo infatti i primi aviatori, come i primi carristi, erano inquadrati nella cavalleria. La seconda invece sarebbe riconducibile alla cavalleria nella pura accezione del virtuosismo del termine. I primi aviatori divenivano assi al quinto avversario abbattuto, e come segno di rispetto per onorare l’avversario dipingevano l’insegna dell’ultimo sul proprio aereo. L’ultimo avversario di Baracca fu un Albratros B.II e le origini di Stoccarda del suo pilota avrebbero motivato l’utilizzo del simbolo della città: la giumenta. Questo ricondurrebbe anche alle iniziali presenti sotto il cavallino S. F. Stuttgart Ferrari.
Come molti grandi legati a doppio filo dalla storia, Francesco Baracca ed Enzo Ferrari non si sono mai conosciuti. Chissà se avrebbero legato. Eppure qualcosa in comune lo avevano: con le macchine inventate dall’uomo “volavano” forte, abbastanza forte da rendere tutta la nazione, che in tempi non sospetti si chiamava patria, fiera di loro, per sempre.
 
 Note: si ringrazia il giornale online "Storie di Guerra"
 
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