[vc_row css_animation="" row_type="row" use_row_as_full_screen_section="no" type="full_width" angled_section="no" text_align="left" background_image_as_pattern="without_pattern" css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_separator type="normal" color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Giuseppe Baiocchi 26/12/2017[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1514307834789{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]

Jean d'Ormesson (1925 – 2017) è recentemente scomparso esaudendo anche un suo ultimo desiderio «Non ho paura di morire. Mi dispiacerebbe solo che a pronunciare la mia orazione funebre fosse François Hollande». Lo scrittore francese entrato a soli 48 anni presso la prestigiosa Académie française il 18 ottobre 1973, è stato un personaggio amato anche dallo stesso premier Macron che durante i funerali di Stato ha espresso il suo pensiero sul grande lascito di d’Ormesson: «una chiarezza che ci mancherà […] antidoto ai giorni grigi».

[caption id="attachment_9728" align="aligncenter" width="1000"] 08-12-2017, si sono celebrati i funerali di Stato presso la Cour d'honneur des Invalides a Parigi dello scrittore francese Jean d'Ormesson.[/caption]
Le parole di Macron sono di sincerità, oltre il ruolo istituzionale ricoperto, poiché nonostante la diversità politica, lo scrittore aveva oltrepassato la divisione ideologica, aprendo dialoghi con molti amici di sinistra tra i quali Jean-Luc Mélenchon. In Italia l’evento è passato in sordina, quasi la letteratura francese e quindi europea, non fosse fatto rilevante di interesse pubblico.
Così la mattina di venerdì otto dicembre 2017, presso la Cour d'honneur des Invalides, la pioggia si ferma improvvisamente: le nuvole si dissipano e il cielo è nuovamente di quel blu brillante, come se non potrebbe essere altrimenti, per onorare l'ex direttore generale del «Figaro», uno dei più grandi scrittori popolari francesi, di stampo conservatore.
Accanto alla famiglia si trovano una trentina di deputati, quarantacinque accademici dell'Istituto di Francia, il segretario perpetuo del Quai Conti, Hélène Carrère d'Encausse, diversi membri del governo, due ex Presidenti della Repubblica (Nicolas Sarkozy e François Hollande), un ex primo ministro (Francois Fillon) e il Cancelliere dell'Institut de France Gabriel de Broglie.
Dietro di loro, quasi centocinquanta persone sono venute a salutare lo scrittore, con la cerimonia aperta al pubblico così come lo era, in luglio, quella in onore di Simone Veil. Quasi tutti avranno letto il suo capolavoro letterario: Au plaisir de Dieu (A Dio piacendo). La sua ascendenza verso l’elemento aristocratico gli proviene dall’essere figlio di un diplomatico discendente dalla nobiltà di toga - quella al servizio del re, nei ranghi dell’amministrazione. Tale situazione famigliare gli aveva fatto vivere la sua infanzia in Baviera, proprio mentre montava la marea nazionalsocialista. Ricordava di aver ricevuto il primo e ultimo schiaffo da suo padre quando da bambino, trascinato dall’entusiasmo della folla, aveva applaudito un drappello di giovani tedeschi in divisa paramilitare che marciavano cantando sotto una bandiera con la svastica. Il romanzo che lo lancerà verso la grande letteratura è la storia di una famiglia dell’alta aristocrazia francese, dal XIX secolo alla stagione del terrorismo, che alterna, sapientemente, sacro e profano, dramma e pochade, danza e passo marziale.
La prosa di D’Ormesson è signorile e cristallina: la traduzione le rende giustizia, come raramente accade in questo genere di operazioni. I principi di Plessis-Lez-Vaudreuil sono dei Buddenbrook luminosi e solari, che vestono organza e tulle, eppure la storia che filtra dalle pagine del romanzo secondo una scelta tangenziale che sa di verismo, è quella drammatica di due guerre mondiali: di morti, di vittime, di carnefici.
Ciò nonostante, in una sorta di immutabilità genetica, in cui tutto pare cambiare tranne che il carattere di famiglia, il racconto rimane come sospeso in un’Arcadia campagnola ed elegante, tra tazze di tea e conversazioni all’ombra di piante secolari. Perfino quando sembra che tutto sia rovinato, con la vendita del castello e il definitivo ingresso della famiglia principesca nella modernità borghese, rimane viva nel lettore la sensazione che nulla sia finito: che i principi rimangano tali a tempo indeterminato, fino ad un loro ciclico e prevedibile ritorno alle antiche glorie, iniziate con le crociate.
[caption id="attachment_9732" align="aligncenter" width="1000"] "Au Plaisir de Dieu" è una scritta che si trova anche presso la Cappella di San Giovanni Eolo a Roma in Porta Latina (Appia Antica). Qui, i pagani tentarono di uccidere San Giovanni Apostolo, ma il Santo uscì indenne dalla prova. Su questa cappella, appare l'incisione "Au Plaisir de Dieu" da cui il titolo del libro. Jean d'Ormesson amava Roma, insieme a tutti i suoi misteri.[/caption]
Il giovane rampollo ribelle, che compie attentati in nome della rivoluzione, firmerà i propri volantini di rivendicazione con «Au plaisir du peuple», che altro non è se non un contorto e mimetizzato atto d’amore verso il proprio millenario blasone. Un libro di lieve lettura, che imporrà al lettore considerazioni tutt’altro che superficiali. Dal libro era stato anche tratto uno sceneggiato televisivo in sei puntate, diretto da Robert Mazoyer, che aveva raggiunto astronomici picchi di ascolto, accrescendo ulteriormente la popolarità dell’autore.
Un uomo brillante e malizioso, volutamente seducente dietro i suoi maliziosi occhi azzurri, tutti i suoi libri erano nelle liste dei best-seller: un raro privilegio, dalla casa editrice Gallimard, la quale aveva introdotto lo scrittore nella prestigiosa collezione La Bibliothèque de la Pléiade. Un onore riservato a lui e al ceco Milan Kundera.
 
D’Ormesson sapeva anche essere progressista: altra sua impresa fu la sua personalissima battaglia per accogliere la prima donna, Marguerite Yourcenar, all’Académie française, nel 1980; fu indiscutibilmente un uomo di destra, il quale aveva raccolto le confidenze del presidente socialista François Mitterrand pochi minuti prima che lasciasse l’Eliseo, al successore Jacques Chirac, nel 1995. Anzi addirittura più tardi, nel 2012, aveva impersonato proprio Mitterrand nel film La cuoca del presidente di Christian Vincent.
Soprannominato «Jean d’O», era legato ai suoi romanzi best-seller amati dal pubblico e in genere apprezzati anche dalla critica. Dopo alcuni libri ben riusciti, ma non di grande risonanza, era giunto al successo vero e proprio nel 1971 con La gloria dell’impero (1973), in cui narrava le vicende di un’immaginaria grande potenza dell’antichità, collocata alcuni secoli prima della nascita di Cristo: «il mio editore Julliard era morto, allora ho portato il manoscritto a Grasset, dove mi hanno detto: “I tuoi libri precedenti erano anche divertenti, ma questo è noioso, illeggibile”. Allora ho riprovato da Gallimard, e ho venduto trecentomila copie».
Successivamente conseguì gli studi all’École normale superieure, poi l’approdo all’Unesco: per l’esattezza al Consiglio internazionale della filosofia e delle scienze umane (Cipsh la sigla francese), dove d’Ormesson era rimasto per quarant’anni, ricoprendo anche la carica di presidente e coltivando amicizie illustri.
Aveva anche un particolare rapporto con l’Italia, dove aveva abitato per brevissimo tempo. Spesso nei fine settimana aveva l’irresistibile attrazione verso la nostra penisola: partiva da Parigi in auto con qualche amico il venerdì sera, raggiungendo all’alba la Liguria e successivamente arrivava a Roma in tempo per pranzare a piazza Navona, per poi ripartire la domenica pomeriggio per tornare in Francia e assolvere i suoi impegni lavorativi.
[caption id="attachment_9733" align="aligncenter" width="1000"] Jean d'Ormesson in divisa dell'Académie française. Il celebre «abito verde», la marsina con ricami che indossano gli accademici, con il bicorno, il mantello e la spada, nelle occasioni di sedute solenni sotto la Cupola, è stato disegnato sotto il Consolato. È segno distintivo di tutti i membri dell'Istituto di Francia. L'elezione all'Accademia francese è spesso considerata dall'opinione pubblica, come suprema consacrazione del successo. Pertanto il loro rango nel cerimoniale della Repubblica riflette la loro autorità morale che è ben radicata negli usi e nelle loro tradizioni.[/caption]
Oltre allo scrittore il letterato fu anche giornalista dalla penna finissima: «dirigere un giornale mi sembrava il colmo della felicità» asseriva, nonostante aveva avuto contrasti forti con il direttore del Figaro Pierre Brisson. Di quest’ultimo in gioventù scrisse: «c’è comunque una giustizia a questo mondo, non si può essere direttore di ‘le Figaro’ e avere pure del talento”. Il bello è che 15 anni dopo sono diventato direttore di “le Figaro”».
D’Ormesson faticò per via delle troppe incombenze amministrative che un giornalista deve assolvere, ma riconosceva in questo mestiere – oggi sempre più svilito – una piena dignità, pur rimarcandone la distanza da uomo di lettere, dovuta soprattutto al mistero del tempo. Difatti secondo lo scrittore «Il giornalismo è interamente dalla parte del tempo che passa e la letteratura è interamente dalla parte del tempo che dura. La parola d’ordine del giornalismo è l’urgenza. La preoccupazione della letteratura è l’essenziale».
Solo alla fine degli anni settanta, dopo essersi dimesso dal Figaro, scelse la strada definitiva dello scrittore, mantenendo il solo ruolo di editorialista. Ne era scaturita una fitta produzione di libri, tutti premiati dall’interesse del pubblico. Anche in età molto tarda l’autore teneva un’intensa corrispondenza con i lettori. Non è un caso che la sua unica figlia, Heloise, abbia intrapreso l’attività di editrice.
Nel conferirgli la Legion d’Onore, Hollande, il più impopolare presidente francese della Quinta Repubblica, non nascose l’invidia: «Nel corso di tutta la sua vita lei è riuscito a farsi amare. Come ci è riuscito? Forse grazie allo spirito acuto? All’eleganza? Allo sguardo vivo? Al talento di scrittore? I suoi libri suscitano sempre complimenti, anche tra coloro che non li leggono. Lei è popolare tra gli uomini, le donne, celebre in Francia e non sconosciuto all’estero... Mi sono interrogato su questo mistero: perché questo dono divino? Perché a lei? E perché Dio è così selettivo?».
La risposta può venirci dall’ultimo scritto rilasciato al «Corriere della Sera», nel 2014: «Molti hanno la fede. Io ho solo la speranza. Spero che Dio esista, perché sennò la vita sarebbe solo una farsa crudele. Ma ammiro gli atei che fanno del bene al prossimo, senza aspettarsi una ricompensa ultraterrena. A destra di Dio, per me, siederà un ateo che non crede a nulla […]. Malgrado tutto, direi che questa vita è stata bella».
 
Per approfondimenti:
_Jean d'Ormesson, A Dio piacendo, Edizioni Super Beat, 2016;
_Jean d'Ormesson, Malgrado tutto direi che questa vita è stata bella, Edizioni Neri Pozza, 2016;
_Jean d'Ormesson, Un giorno me ne andrò senza aver detto tutto, Edizioni Clichy, 2014.
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Un autore che rappresenta forse un “mito nel mito asburgico” è l’autore viennese Alexander Lernet-Holenia (1897 – 1976). Già la sua nascita è avvolta in un mistero che lo stesso autore non svelerà mai, in quanto potrebbe essere il figlio illegittimo dell’arciduca Karl Stephan d’Asburgo-Lorena, grande ammiraglio della marina imperial-regia. Il padre fu l’ufficiale di marina Alexander Lernet, nome di origine francese, il quale sposò la baronessa Sidonie Holenia già incinta dello scrittore. La stessa madre aveva origini alto-borghesi, di derivazione spagnola, poiché nel corso di qualche secolo scomparve la tilde sopra la n: Holeñia de Alma, dovrebbe essere il suo nome originario.
Queste semplici informazioni biografiche sono fondamentali per capire la letteratura mitteleuropea dello scrittore, il quale possedeva una penna molto vivace e disinvolta, attraverso la quale tentò di dare un nuovo volto al filone della finis Austriae.
[caption id="attachment_9671" align="aligncenter" width="1000"] Alexander Marie Norbert Lernet (Vienna, 21 ottobre 1897 – Vienna, 3 luglio 1976), è stato uno scrittore, drammaturgo, traduttore, poeta, saggista e sceneggiatore austriaco fra i più importanti, nel suo paese, del XX secolo.[/caption]
Dopo la separazione dei genitori, acquisirà il doppio cognome che lo contraddistinse per il suo futuro successo letterario. Portato per gli studi, ben presto di iscrive alla Facoltà viennese di Scienze del diritto nel 1915. Giovanissimo, con lo scoppio del conflitto, si arruola presso il 9º Reggimento Dragoni, che verrà stanziato sul fronte orientale e attraverso il quale maturerà diverse sue future opere.
Negli anni venti si afferma, attraverso alcune raccolte di poesie e drammi teatrali, come intellettuale di successo e nel 1928 si trasferisce a Sankt Wolfgang im Salzkammergut dove la madre possiedeva una lussuosa residenza in riva al lago Wolfgangsee. A St. Wolfgang lo scrittore diverrà amico fraterno di Leo Perutz (1882 – 1957) con il quale intraprese un importante sodalizio artistico. Lernet-Holenia è considerato tutt’oggi come uno dei migliori allievi del più importante e significativo padre del genere storico-fantastico.
Gli anni trenta saranno anni floridi di produzione letteraria: nel 1934 scriverà il suo romanzo più importante Die Standarte (Lo stendardo), attraverso il quale si descrive la dissoluzione dell’Impero Austro-Ungarico. In una Vienna ancora provata dall’uscita del conflitto mondiale, determinata dalla presenza di molti ex soldati mutilati che sopravvivono tra stenti e povertà, si sviluppa a ritroso la struggente storia dell’alfiere Menis. Se da una parte l’opera è fondamentale per capire ed apprendere le cause dello sfaldamento dell’Imperiale e regio esercito austroungarico, dall’altra Lernet-Holenia non riesce pienamente a far comprendere al pubblico le motivazioni intime della crisi dell’impero, relegando spesso la débâcle ad una tragica fatalità non bene enunciata. Il processo storico in Lernet-Holenia – a differenza di altri autori – sembra effettuare il suo corso, senza troppe preoccupazioni e senza resistenza spirituale da parte dei protagonisti. All’interno del romanzo storico-sentimentale - che vede protagonisti l’alfiere Menis e la dama di corte Teresa nella splendida cornice del Konak, il palazzo reale di Belgrado – emerge un’idiosincrasia verso gli Asburgo, in specificato modo nei confronti dell’ultimo Imperatore Karl I, che sembra (poi storicamente non sarà così) abdicare il fedele giuramento d’onore verso gli stendardi che le truppe avevano protetto a costo di numerose vite. Forse tale atteggiamento proviene proprio dalla frustrazione di Lernet-Holenia nei confronti della famiglia reale, rea di non aver riconosciuto mai la sua nascita.
[caption id="attachment_9665" align="aligncenter" width="1000"] Un fotogramma della pellicola di Ottokar Runze del 1977, Die Standarte con l'attore britannico Simon Ward (1941 – 2012) nei panni del protagonista Menis.[/caption]
Il romanzo vedrà poeticamente la fine proprio con la distruzione dello Stendardo, il quale segna sì la fine materiale e fisica della monarchia, ma non ne conclude la spiritualità che rimane intimamente viva ed eterna, in quanto il vessillo è salvato dalla cattura nemica.
Da questo celebre romanzo, il regista Ottokar Runze produrrà nel 1977 l’omonimo film che riscosse un buon successo di pubblico in Austria, con un giovanissimo Simon Ward nei panni dell'alfiere Menis.
Dalle sue esperienze belliche nel 1936 scriverà l’onirico romanzo Der Baron Bagge (Il Barone Bagge) attraverso il quale possiamo iniziare a intravvedére l’elemento della morte e del sogno, unite dalle note storiche di una cavalleria che nel nuovo formato bellico non aveva più senso di esistere.
Il romanzo è suddivisibile in due parti antitetiche e speculari, come nella nostra esistenza lo sono la vita e la morte. La storia, che vede nel tenente Bagge il suo assoluto protagonista, conosce una pausa ritmica che non attiene solo alla narrazione, ma che coinvolge lo stesso spazio e tempo, elementi che troveranno uno scopo, sempre labile, solamente nel finale. Imperante è la compenetrazione tra le due dimensioni, sì che non è possibile scinderle. Sogno e realtà acquisiscono la stessa consistenza, sono specchio di se stesse.
Questo evento si correla in maniera strettissima alla natura umana, espressa in termini di ambiguità, come il binomio vita-morte, che per l’autore sono concetti relativi. La stravaganza narrativa è paradossale e semplicissima poiché tocca la psiche umana in riferimento al concepire soggettivamente la propria e l’altrui vita: siamo abituati a chiamare morte ciò che per altri è vita, e siamo soliti chiamare sogno ciò che per altri è realtà. Questa evasione dalla vita reale è parte attiva della tradizione letteraria viennese, all’interno della quale l’atmosfera spesso è surrealistica.
Il libro, intriso degli spiriti cavallereschi già scomparsi ai tempi della stesura del romanzo, restituisce quell’atmosfera decadente e aristocratica che caratterizza proprio il suo sguardo sul mondo. Una realtà spazzata via, come la morte dei valori divini che l’uomo aveva tramandato da secoli: la lealtà, il valore, l’onore, il crollo di tutto ciò in cui quest’uomo aveva creduto, viene annientato nel 1918 appena due anni dopo lo svolgersi del “barone Bagge” lasciando posto allo spirito della nuova epoca. In questa stretta relazione la morte, di molti camerati del protagonista, segna indirettamente la fine degli ideali, una conclusione che Lernet-Holenia - come il tenente Bagge - non accetterà mai razionalmente la propria conclusione.
Difatti la tragica scoperta che il personaggio compie, viene realizzata - con il suo risveglio -, dopo una brutta ferita. Tutto il romanzo è un viaggio-sogno nel mondo dei morti. Poco prima del suo risveglio l’avvenimento viene descritto in maniera epocale e bellissima: "Ed ecco mostrarsi all’improvviso sulla strada davanti a noi un gran bagliore metallico, e avvicinandomi mi resi conto che veniva da un ponte che scavalcava il fiume in quel punto. Un fragore formidabile, come di cascate di vetro alte fino al cielo, e un vapore iridescente come d’acque bollenti veniva su dall’abisso. Ma il ponte stesso era rivestito di lamiere di metallo che rilucevano come oro. Sì, era proprio oro quello di cui il ponte era coperto. “Volete, volete passare il ponte?” urlai nel fragore delle cascate. “Si”, risposero tutti, e le loro voci rimbombarono come un coro di campane. Ma io no, io non vengo con voi, non voglio passare dall’altra parte, non voglio, dev’essere tutto un sogno, ma io voglio svegliarmi – e mi svegliai".
La riflessione del suo stato di pre-morte che coglie Bagge, è metaforicamente un risveglio nella nuova epoca post-imperiale dove è impossibile sentirsi a proprio agio.
Dopo aver effettuato diversi viaggi oltre-oceano, nel 1939 al suo ritorno verrà arruolato nella Wehrmacht in vista della mobilitazione che precederà l’invasione nazista della Polonia.
Nei primi giorni della campagna rimane gravemente ferito e viene rimpatriato a Berlino dove viene nominato capo della sezione della Heeresfilmstelle, l'ufficio cinematografico militare. Il lavoro presso la casa di produzione cinematografica viene retribuito molto bene e gli consente di raggiungere una relativa indipendenza economica e di dedicarsi con più impegno a quella che lui ritiene la sua vera occupazione: la letteratura.
Eppure il suo rapporto con il regime – nonostante la sua tessera di partito – è difficile: l’aristocratico Lernet-Holenia è difficilmente riconducibile a schemi di partito o adunate al passo dell’oca. Come per il tedesco Ernst Jünger si avvicina molto alla figura dell’anarca, un individuo difficilmente inquadrabile in cui l’estetismo si unisce ad uno spirito di libertà.
La prima critica al regime avviene nel 1941 dove, per la frivola rivista Die Dame, viene pubblicato Mars im Widder (Marte in Ariete). La critica, magistralmente velata in una trama ironica e surreale, definisce i limiti della propaganda tedesca. Il conte Wallmoden, tenente protagonista, fa emergere tutto lo spirito mitteleuropeo, con una riflessione sul conflitto diretto verso i suoi antichi fratelli austro-ungarici.
Per quanto l’aurea di oscurità - fonte di continuo imbarazzo, che trapela nell’ufficiale - sia deprecabile, questa è infinitamente migliore di fronte all’ordine del reggimento di cui fa parte. Infatti nella nebbia artificiale del corteggiamento che Wallmoden – in mancanza di un vero scopo – effettua nei confronti della baronessa Cuba Pistohlkors, l’azione intrapresa lo fa “sentire vivo” e pienamente consapevole di essere uomo e cittadino; di contro nel rigore e nella disciplina militaresca, nel chiaro e assoluto ordine gerarchico, nel trasparente significato di simboli e parole d’ordine, la soggettività dell’individuo viene schiacciata: una chiara critica al totalitarismo in quanto tale.
Così il protagonista, richiamato tempestivamente al fronte per lo scoppio delle ostilità termina quella vita autentica, che sembra come ridotta al silenzio.
Lernet-Holenia dimostrò senza paura, una lucida coscienza del suo tempo e delle tenebre che lo avevano avvolto.
Nel racconto il viennese riporta anche, molto probabilmente, la sua ferita sul campo di battaglia che lo rilegò nelle retrovie ed anche in questo caso la letteratura ci lascia affascinati e fa riaffiorare la distanza verso un mondo con il quale non riusciva più a relazionarsi interamente: "La raffica si abbatté una decina di passi davanti a Wallmoden. Dal punto dove si era abbattuta, egli vide che un oggetto luminoso gli arrivava addosso come una freccia. Lo vide distintamente, luccicava come un raggio di mercurio. Lo colpì alla mano destra, attraverso il guanto. Wallmoden evvertì il colpo come una bastonata, e per un attimo vide tutto nero davanti agli occhi. Si tolse il guanto, la ferita perdeva molto sangue. In tutta la guerra precedente non era mai stato ferito e adesso, dopo un minuto e mezzo di combattimento già era colpito".
Se il regime non capì le sottigliezze del suo talento letterario, sicuramente non approvò il cognome del protagonista, squisitamente ebraico. Un intervento del ministero di Goebbels proibì la diffusione di quell’opera sospetta, la quale sarebbe stata pubblicata solo nel 1947. Ma, paradossalmente, fu sotto il regime hitleriano che l’autore si affrancò a livello nazionale: nel 1942, in piena guerra, dopo il successo cinematografico di Die große Liebe (Il grande amore), scriverà: "La mia situazione personale, se nulla sopraggiungerà a rovinarla, potrebbe dirsi ideale. Io vivo dei film che vengono tratti dai miei soggetti e nel frattempo posso dedicarmi per tutto il tempo che desidero alla scrittura di quel libro che potrebbe rivelarsi davvero un capolavoro".
Sempre dello stesso anno è Beide Sizilien (Due Sicilie), nel quale avviene un oscuro e angoscioso mistero sull’identità. In un’atmosfera sempre crepuscolare, pienamente mitteleuropea, ancora una volta la problematica della caduta viene solo sfiorata e mai analizzata in questo settennio di distanza dalla Grande Guerra.
L’intreccio del romanzo giallo diviene parodia di quel genere letterario, con un’atmosfera metafisica. Lernet-Holenia mette in scena la sfrangiata unità del soggetto. Non a caso i personaggi del romanzo si muovono e agiscono come marionette di un teatro filosofico, dall’amaro destino già scritto. La loro interiorità è azzerata, svuotata di significato; l’umanità diviene svanita, rappresentata dai brandelli del reggimento scomparso Due Sicilie. I personaggi si sforzano di trovare la verità di un iniziale delitto, ma saranno condotti attraverso il loro ragionamento - nell’epoca della scomparsa di Dio – alla morte.
Il suo distacco dai romanzi, il suo essere “Noblesse oblige” termine che letteralmente significa “Nobiltà obbligata” ci denota come questo autore abbia in sé l’onore e l’ònere di essere nobile di spirito - la nobiltà comporta sempre degli obblighi.
Nel secondo dopoguerra Lernet-Holenia fu uno scrittore anti-conformista, dal sapore politicamente scorretto, come sempre era stato: molti autori per affrancarsi si affiliarono a partiti politici, mentre il viennese lottava solitario contro le mode del momento. Aveva compreso benissimo la discendente parabola dell’intellettuale moderno, sempre più legato ad una opinione politica e non al valore delle sue opere. Celebre fu, nel Giugno del 1955 a Vienna, il suo discorso sarcastico ai colleghi del P.E.N. Club che gli procurarono non poche antipatie: "Cari amici! Astraendo dalla poca immortalità, cui questo o quello può aspirare, noi siamo figure veramente ridicole – diciamolo francamente! E la cosa più triste è che lo siamo per colpa nostra!"
[caption id="attachment_9666" align="aligncenter" width="1000"] Tre foto di Alexander Lernet-Holenia in tre momenti della sua vita: bambino, militare tedesco e letterato del P.E.N. Club.[/caption]
Lentamente, ma inesorabilmente Alexander Lerner-Holenia cade in disgrazia per il suo conservatorismo rétro negli anni della disdegnata socialdemocrazia.
Molto prima della sua scomparsa, un grande conterraneo come lui, approdato nel Nuovo Mondo da quello di “ieri”, ne celebrò l’irresistibile originalità: Billy Wilder, che nella commedia The Emperor Waltz (1948) a lui si ispirò immaginando il ruolo di un gentiluomo ultra-snob, che alla corte del Kaiser si faceva chiamare barone Holenia.
Singolare ai limiti della stravaganza, inclassificabile, a volte squalificato, come troppo spiazzante fuoriclasse, dagli anni Ottanta vive la sua grande, postuma riscoperta. Oggi è lampante, in tutto l’Occidente, la manifestazione abissale dell’assenza di uno “Stendardo” paragonabile a quello che l’alfiere di Lernet-Holenia, cercò disperatamente di conservare.
 
Per approfondimenti:
_Alexander Lernet-Holenia, Il barone Bagge, Piccola biblioteca Adelphi, Milano, 1982;
_Alexander Lernet-Holenia, Lo stendardo, Edizioni Adelphi, Milano, 1989;
_Alexander Lernet-Holenia, Marte in ariete, Edizioni Adelphi, Milano, 1983;
_Alexander Lernet-Holenia, Due Sicilie, Edizioni Adelphi, Milano, 2017;
_Anacleto Verrecchia, Rapsodia viennese: luoghi e personaggi celebri della capitale danubiana, Donzelli editore, Roma, 2003;
_Roman Roček, Die neun Leben des Alexander Lernet-Holenia: Eine Biographie, Böhlau Wien, 1997;
 
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Con Hugo von Hofmannsthal (1874-1929) introduciamo un personaggio che ha rappresentato una delle vere essenze di quest’epoca, poiché diversi tratti caratteristici della sua personalità sono pilastri fondativi della società asburgica.
[caption id="attachment_9641" align="aligncenter" width="1000"] Nella foto: Hugo von Hofmannsthal in divisa da Ulano nel 1897.[/caption]
Considerato oggi al pari di Shakespeare o Goethe, Hofmannsthal con grande acume vive e assimila i valori della sua epoca e del suo ceto sociale: quell’alta borghesia, che sconfina nella piccola aristocrazia. Difatti il nonno Isaak Hofmann, grazie ad una fiorente attività tessile di rilievo imperiale, nel 1827 veniva nobilitato con il titolo di barone von Hofmannsthal e come distintivo araldico selezionò uno stemma a due campi con la foglia di gelso del baco da seta (per rappresentare la sua attività commerciale) e parallelamente le Tavole della Legge mosaica (rappresentanti le sue origini religiose).
La famiglia del poeta è un chiaro esempio della assimilazione ebraica, all’interno dell’Impero Austro-Ungarico, in specificato modo dell’obbiettivo della borghesia di elevarsi a ceto aristocratico attraverso il commercio e la cultura. Sarà proprio il matrimonio cristiano tra il nonno e la nonna Petronilla Ordioni nel 1839, nella Milano asburgica, a sancire quell’assimilazione sociale e culturale.
Figlio del direttore di banca viennese Hugo Hofmann von Hofmannsthal e della madre austriaca Anna Fohleutner, nelle discipline scolastiche il giovanissimo Hofmannsthal, presentava tratti di genio assoluto: la sua preparazione, lo aveva elevato al di sopra della media degli studenti, scatenando in lui una superbia, che per tutta la vita cercò di reprimere.
Intelligente e bello, il giovane studente si rese ben presto consapevole delle sue qualità intellettive e fisiche, le quali venivano supportate da quel titolo nobiliare che, in una scuola borghese, conferiva senza alcun dubbio un modello da seguire.
Se operiamo una piccola riflessione il Theresianum oppure il Kalksburger Adels-Internat dei Gesuiti, avrebbero senza alcun dubbio trascurato quel piccolo “edler von”, in quanto era la base della aristocrazia, insieme al “ritter von”.
Tale situazione portò lo studente modello ad un isolamento pacato e mai sopra le righe, poiché si trattava – come per Mozart – di un bimbo prodigio, il quale nella sua precocità:
"Nulla vuole né può ormai avere in comune con i compagni, ancora infantili (...) era senza dubbio sommerso dai problemi, compresi quelli del figlio unico, in cui il concentrato di attenzioni pedagogiche e affettive favorisce il narcisismo". 
Il talento artistico – in una società ricoperta dall’orpello che sostituiva il vero valore – fu solo una componente subordinata alla grande genialità hofmannsthaliana, che basava tutta la sua attività su tre concetti fondamentali: la vita, il sogno e la morte. Difatti se da un lato lo scrittore austriaco ricercava l’estetismo edonistico, nel contempo possedeva profondo senso morale. Dirà: "Entro il limite più angusto, entro il compito più particolare v’è maggior libertà che non nel regno sconfinato dell’Utopia, che lo spirito moderno si immagina arena di quella libertà".
Il ragazzo in piena conflittualità con questo stato di cose, troverà nell’elemento onirico, in specificato modo nel sogno, la sua personale soluzione: la fiaba immersa nel sogno, influenza la realtà, la quale si presenta solitaria e possiede caratteristiche oniriche, che rimangono unica consolazione della sua solitudine . La stessa immagine imperiale era situata al centro della sua fantasia e cardine della sua poesia. Questa sua diversità renderà Hofmannsthal un “bambino prodigio” che “vedeva prodigi” .
Una volta maturata la comprensione onirica disvelante della poesia, divenne vero poeta. Così la prima volta che si presentò al café Griensteidl, lo scrittore Zweig descrisse: "L'apparizione del giovane Hofmannsthal è, e tuttora rimane, memorabile quale uno dei grandi miracoli di precoce compiutezza; nella letteratura mondiale non conosco, all'infuori di Keats e di Rimbaud, alcun esempio di pari impeccabilità nel dominio della lingua, né altra simile vastità si slancio ideale, né tale compenetrazione della sostanza poetica sin nell'ultima riga come in questo genio grandioso, il quale già a sedici anni e diciassette anni si è iscritto negli eterni annali della lingua tedesca con versi incancellabili e con una prosa tuttora insuperata. I suoi inizi improvvisi e la sua già compiuta perfezione segnarono un fenomeno che a malapena si ripete nell'ambito di una generazione. (...) Un liceale capace di un'arte simile, di tanta ampiezza e profondità, di così sovrana conoscenza della vita prima di viverla. (...) Hofmannsthal si presentò in calzoni corti, un po’ intimidito, e incominciò a leggere. «Dopo alcuni minuti» mi narrava Schnitzler «ci facemmo attenti e cominciammo a scambiarci sguardi stupiti, quasi atterriti. Non avevamo mai udito da un vivente versi di tale perfezione, di tale plasticità impeccabile, di tale fluidità musicale; anzi dopo Goethe non li avevano quasi ritenuti possibili. Ma ancor più mirabile di questa maestria della forma, unica e non più raggiunta da alcuni nella lingua tedesca, era la conoscenza del mondo, la quale in un ragazzo che passava la giornata sui banchi di scuola non poteva venire che da una magica intuizione». Quando Hofmannsthal finì, tutti rimasero muti. «Io» mi disse Schnitzler «avevo la sensazione di avere incontrato per la prima volta un genio nato e mai in tutta la mia vita l'ho sentita così fortemente». Chi a sedici anni cominciava così - o meglio non cominciava, ma appariva già perfetto all'inizio - doveva divenire fratello di Goethe e di Shakespeare. (...) Tutto quello che il giovane liceale scriveva era come cristallo, illuminato dall'interno, oscuro e ardente a un tempo. Il verso, la prosa si plasmavano nelle sue mani come profumata cera d'Imetto, per un miracolo irriproducibile, ogni sua opera aveva sempre la misura conveniente, mai una lacuna o qualcosa di troppo; si sentiva che doveva essere misteriosamente guidato per quelle vie da una forza inconscia e incomprensibile fino a terre non ancora calcate. (...) Che cosa può toccare di più esaltante a una giovane generazione che l'avere accanto a sé, in carne e ossa, il poeta puro e sublime, colui che non si sapeva concepire se non con irraggiungibile sogno o visione, nelle forme leggendarie di Hölderlin, di Keats e di Leopardi?"
Grande esempio morale, Hugo von Hofmannsthal si scontrò ben presto con il problema religioso: l’opera spirituale del corpo è la cerimonia, mentre il rito monastico si identifica con la santità, la quale è pura grazia. Il poeta riuscì così a traslare i valori morali ed etici della religione nell’autenticità dell’arte. Fu proprio l’elemento artistico a disciplinare il suo narcisismo e questa accettazione fu dettata per risolvere la personale scissione caratteriale tra l’essere esteta e l’essere morale. Fu proprio tale scelta ad isolarlo e nel contempo a renderlo “libero” e non “santo”.
Ciò rese uno strappo insanabile con la società borghese alla quale apparteneva e verso la quale tanto faticosamente la sua famiglia aveva lottato per accedere: difatti l’artista non era mai propriamente “accettato” da tale realtà, che rimaneva chiusa indissolubilmente all’interno delle proprie sicurezze morali ed etiche, non aprendosi all’altro da sé.
Per tale ragione si identificherà come un “Io senza mondo”. Anche gli amici letterati del caffè non lo compresero mai del tutto, sia per i suoi sogni estetici, sia per la sua moralità, poiché da Altenberg a Kraus il linguaggio morale non rientrava nei canoni predefiniti del loro ambiente.
Mentre la stessa Vienna – da Musil a Strauss – scherzava con la fine imminente dell’Impero, Hugo von Hofmannsthal concede una grande rilevanza alla morte.
La serietà etica della morte è per lui il terzo cardine fondamentale, ritrovato ne La Morte di Tiziano (Der Tod des Tizian 1892) e dal Folle e la morte (Der Tor und der Tod 1893) fino alla maturità con Jedermann (1911).
La morte è elemento purificatore della moralità, dove l’arte poetica è strumento rituale meramente estetico, terrestre. La morte sostituisce la poesia rilkiana, e diviene vero strumento per operare il trapasso definitivo ed avviare il processo di vera grazia all’essere umano .
La poesia hofmannsthaliana si rivolge ad un popolo immaginario, che – nella nuova società borghese – si incontra all’interno del teatro, dove il poeta e drammaturgo compie grandi scene teatrali: il rituale onirico diviene rituale di scena.
Il teatro di Hofmannsthal trovò il compromesso – per egli di difficile accettazione in quanto di forte spirito morale -, tutto viennese, tra potenza della forma e forza onirica. Ha compiuto questo sforzo per amore e ricerca della bellezza: "Davvero così potente è il sogno che si sprigiona dal teatro, davvero così potente da rendere il compromesso con quello stesso teatro legittimo e addirittura estremo al punto da poter essere imposto anche alla poesia lirica".
In questa crisi morale dell’Impero - dove l’uomo non può raggiungere la vera santità, ma sostituisce questa con la finzione e il feticcio, vivendo un isolamento indiretto prima con se stesso, poi con la comunità che lo circonda -, l’elemento della trascendenza è l’unica soluzione che conduce verso l’altro.
[caption id="attachment_9646" align="aligncenter" width="1000"] Café Griensteidl, punto di ritrovo per i membri dei Circoli viennesi, intorno al 1896.[/caption]
Non avendo un pubblico favorito, il poeta si espresse con talento anche all’interno dell’aristocrazia, altro ambiente dove Hofmannsthal aveva credito.
L’aristocrazia era il vero sole per il poeta, poiché era vista come speranza di una possibile rottura con il mondo borghese e ritroveremo i riflessi di questa condizione anche nelle sue opere, tra cui il conte Kari nell’Uomo difficile del 1921.
L’appartenenza a questa determinata classe – tralasciando il suo von – può avvenire in lui, solo mediante la trascendenza e non tramite le relazioni sociali.
Ma per l’artista-poeta la vita non svolgendosi in spazi ben delimitati, ma all’interno di quello simbolico e linguistico popolare, egli eleva il simbolo a linguaggio (e viceversa) ponendosi come vero interprete del popolo, anche se questo ignora la sua esistenza.
Popolo, dunque, personaggio da fiaba che legittima il poeta, il quale versa ad esso il suo tributo. Tale rapporto gerarchico, ci consegna nuovamente uno Hofmannsthal corporativo e impolitico, dove la Monarchia asburgica è elemento sia irreale che sacro-sociale. Difatti il poeta, una volta divenuto guida e radicatosi nella spiritalità popolare, diviene paritario all’aristocrazia e soggetto solo ed unicamente alla figura dell’Imperatore. Questa fu la strada di trascendenza poetica che Hofmannsthal condusse per affrancarsi una sua realtà sociale.
Fondamento del reale diviene l’Austria – simbolo di Franz Joseph I – valore simbolico di se stessa, all’interno della quale l’uomo deve ricercare, tramite il sogno (che apre al reale) -, il vero simbolo. Se l’individuo, per la perdita valoriale della società asburgica, dovesse ritrovarsi “senza sogni” resterebbe privo della parola, in quanto smarrirebbe il dominio simbolico del linguaggio. Questo, da solo, se viene espresso in forma discorsiva, viene ritenuto insufficiente e va ridotto al silenzio: entità capace di contemplazione e portatrice di riassimilazione linguistica. Hofmannsthal, per puro amore verso il linguaggio, con la celebre Lettera di Lord Chandos (1901), annuncerà il suo silenzio. Compito del poeta, sarà proprio ridare forma poetica al linguaggio per consegnargli una nuova voce “musicale”. Così voce poetica e musica si avvicinano, in quanto - spaziando “oltre il linguaggio”, ma “restando in esso” -, la musicalità della parola rende il linguaggio pieno di vero significato: unità e mistero si intrecciano. Vero amore per la lingua non è possibile senza ripudio della lingua .
Compito della poesia è quello di ricreare continuamente il mondo, ovvero di unire la realtà esterna (la vita) e il linguaggio, dove il simbolo si rafforza e si svela all’uomo. Sarà proprio il simbolo, generatore di ordine, che potrà riequilibrare gli aspetti umani dell’Impero su base morale: proprio il compimento ultimo del suo esserci per la morale .
Hofmannsthal aveva compreso benissimo la krisis del periodo storico e chi lo avvicina all’art pour l’art commette un errore. Tale interesse, verso la società vigente, proviene come atto eroico di salvaguardia e rafforzamento dello stile ancora salvabile. La sua segregazione mirava alla conservazione del “mondo di ieri”, non verso una genuflessione di carattere opportunistico. Un esempio ne fu il sodalizio artistico con Richard Strauss: spesso una complicità, che non arriverà mai a vera amicizia, ma che produrrà nel 1908 la conclusione del libretto per l’opera di Strauss Elettra .
In una esistenza morale senza prospettive vittoriose, il poeta viennese rappresentò il simbolo aristocratico di un’Austria in via d’estinzione: immersa in un vuoto di cui ancora non ne era divenuta simbolo.
 
Per approfondimenti:
_Hugo von Hofmannsthal, Il libro degli amici, Edizioni Adelphi, Milano, 1980;
_Hermann Broch, Hofmannsthal e il suo tempo, Piccola biblioteca Adelphi, Milano, 2010;
_Stefan Zweig, Il mondo di ieri, Mondadori Libri S.p.A., Milano, 2016.
 
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Prototipo dell’Unità d’Italia sotto il punto di vista culturale (non politico), Durante di Alighiero degli Alighieri - chiamato "Dante" - può essere considerato uno dei padri della nostra lingua: l'italiano. E' possibile risalire alla data di nascita del poeta fiorentino, nel periodo compreso tra il 14 maggio e il 13 giugno del 1265. Tuttavia, se sconosciuto è il giorno della sua nascita, certo invece è quello del battesimo: il 27 marzo 1266, Sabato Santo.
Quel giorno vennero portati al sacro fonte tutti i nati dell'anno per una solenne cerimonia collettiva. Dante venne battezzato con il nome di Durante, poi sincopato in Dante, in ricordo di un parente ghibellino. Giovanni Boccaccio raccontava che la sua nascita fu preannunciata da lusinghieri auspici.
[caption id="attachment_9379" align="aligncenter" width="1000"] Maschera mortuaria di Dante Alighieri. ©Leonardo Giannini[/caption]
Dante nacque nell'importante famiglia fiorentina degli Alighieri, legata alla corrente dei Guelfi, un'alleanza politica coinvolta in una complessa opposizione ai Ghibellini; gli stessi Guelfi si divisero poi in Guelfi Bianchi e in Guelfi Neri.
Il poeta credeva che la sua famiglia discendesse dagli antichi Romani (Inf. XV, 76), ma il parente più lontano che egli nomina è il trisavolo Cacciaguida degli Elisei (Par. XV, 135), vissuto intorno al 1100. Dal punto di vista giuridico perciò la presunta nobiltà derivatagli da questa ascendenza, già di per sé dubbia, si era comunque estinta da tempo. L’avo paterno, Bellincione, era un popolano, ed un popolano sposò la sorella di Dante.
Suo padre, Aleghiero o Alighiero di Bellincione, svolgeva la non gloriosa professione di cambiavalute, con la quale riuscì a procurare un dignitoso decoro alla numerosa famiglia. Era un guelfo ma senza ambizioni politiche: per questo i Ghibellini, dopo la battaglia di Montaperti (4 settembre 1260) non lo esiliarono come altri guelfi, giudicandolo un avversario non pericoloso. La madre di Dante era Bella (diminutivo di Gabriella) degli Abati che era un'importante famiglia ghibellina. Di lei si sa poco e Dante non ne parlò o non ne scrisse mai al riguardo.  Dante nel 1277, a dodici anni, fu concordato il suo matrimonio con Gemma, figlia di Messer Manetto Donati, che successivamente sposò all'età di vent'anni. Egli politicamente apparteneva alla fazione dei Guelfi Bianchi, che, pur trovandosi nella lotta per le investiture schierati con il Papa, contavano molte famiglie della nobiltà signorile e feudale più antica ed erano contrari ad un eccessivo aumento del potere temporale papale. Con la moglie ebbe tre figli: Jacopo, Pietro ed Antonia.
A Firenze ebbe una carriera politica di discreta importanza. Dopo l'entrata in vigore dei regolamenti (1293) di Giano della Bella (seconda metà del Sec. XIII-1311-14 ca.), che escludevano l'antica nobiltà dalla politica, permettendo ai ceti intermedi di ottenere ruoli nella Repubblica, purché iscritti a un'Arte, Dante si iscrisse a quella dei Medici e degli Speziali.
L'esatta serie dei suoi incarichi politici non è conosciuta, poiché i verbali delle assemblee sono andati perduti. Comunque, attraverso altre fonti, si è potuta ricostruire buona parte della sua attività. Fu nel Consiglio del popolo dal novembre 1295 all'aprile 1296; fu nel gruppo dei “Savi”, che rinnovarono le norme per l’elezione dei priori (dicembre 1296), cioè dei massimi rappresentanti di ciascuna Arte; dal maggio al settembre del 1296 fece parte del Consiglio dei Cento. Fu inviato talvolta nella veste di ambasciatore, come nel maggio del 1300, a San Gimignano. Lo stesso anno fu priore dal 15 giugno al 15 agosto. Nonostante l'appartenenza al partito guelfo, egli cercò sempre di osteggiare le ingerenze del suo acerrimo nemico il Pontefice Bonifacio VIII [Benedetto Caetani (nato nel 1235 ca.) 1294-1303].
Con l'arrivo del cardinale Matteo d'Acquasparta (1240-1302), inviato come paciere, almeno nominale - in realtà spedito dal Papa per ridimensionare la potenza della parte dei Guelfi Bianchi, in quel periodo in piena ascesa sui Neri -, Dante cercò, con successo, di ostacolare il suo operato. Egli stesso si recò dal Papa al fine di cercare di trovare un compromesso alla pace; ma durante il viaggio venne bloccato e condannato in contumacia.
Quale membro del Consiglio dei Cento, fu tra i promotori del discusso provvedimento che spedì agli estremi della Toscana i capi delle due fazioni. Questo non solo fu una disposizione inutile (in quanto tornarono) ma fece rischiare un colpo di Stato da parte dei Neri, che stavano per approfittare della situazione, quando i Bianchi erano senza leader, ritardando oltre misura l'inizio del loro esilio. Inoltre il provvedimento attirò sui responsabili, Dante compreso, sia l'odio della parte nemica sia la diffidenza del c. d. “amici”, e da lui stesso fu definito come l'inizio della sua rovina.
[caption id="attachment_9380" align="aligncenter" width="1000"] Giorgio Vasari, £Sei poeti toscani". Da destra: Cavalcanti, Dante, Boccaccio, Petrarca, Cino da Pistoia e Guittone d'Arezzo. Pittura a olio, del 1544, conservata presso il Minneapolis Institute of Art, Minneapolis. Considerato uno dei maggiori lirici volgari del XIII secolo, Cavalcanti fu la guida e il primo interlocutore poetico di Dante, quest'ultimo poco più giovane di lui.[/caption]
Con l'invio di Carlo di Valois (1270-1325) in Firenze, mandato dal Papa come teorico paciere, ma di fatto conquistatore, la Repubblica spedì a sua volta a Roma Dante come membro di un'ambasceria, accompagnato da Maso Minerbetti, uomo senza volontà propria, e da Corazza da Signa. Il poeta si trovava quindi a Roma, sembra trattenuto oltre misura da Bonifacio VIII, quando Carlo di Valois, al primo subbuglio cittadino prese pretesto per mettere a ferro e fuoco Firenze con un colpo di mano: il 9 novembre 1301 Cante Gabrielli da Gubbio (1260 ca.-1335 ca.) fu nominato Podestà di Firenze. Questi appartenente ai Guelfi Neri, diede inizio ad una politica di sistematica persecuzione degli esponenti politici di parte bianca ostili al Papa, e che si risolse alla fine nella loro uccisione o nell'esilio. Con due condanne successive (quella del 27 gennaio e quella del 10 marzo 1302), le quali colpirono inoltre numerosi esponenti delle famiglie dei Cerchi e soprattutto dei Gherardini di Montagliari (di cui l'amico Andrea Gherardini), il Sommo Poeta fu condannato da Cante Gabrielli, in contumacia, al rogo e alla distruzione delle case. Dante fu raggiunto dal provvedimento di esilio a Roma e non rivide mai più Firenze.
Fuoriuscito da Bologna, Dante riparò probabilmente a Pistoia, presso l'amico Cino. Poi si trasferì in Romagna, ove fu quindi ospite di diverse corti e famiglie, fra cui gli Ordelaffi, signori ghibellini di Forlì, e dove probabilmente si trovava quando l'imperatore Enrico VII di Lussemburgo (1275-1313) entrò in Italia. Qui è possibile che abbia conosciuto le opere del famoso pensatore ebreo Hillel ben Samuel (1220-1295), che era da poco morto, dopo aver trascorso a Forlì gli ultimi anni della sua vita. Dopo altre peregrinazioni, il Nostro tornò a Forlì nel 1310-1311, ed ancora nel 1316 (data incerta, quest'ultima).
Dante terminò le sue peregrinazioni in quel di Ravenna, dove trovò asilo presso la corte di Guido Novello da Polenta (1275 ca.-1333), signore della città, tuttavia i rapporti con Verona non cessarono, come testimoniato dalla sua presenza nella città veneta il 20 gennaio 1320, per discutere la “Quaestio de aqua et terra”, ultima sua opera in lingua latina.
Celeberrimi sono i versi del Canto XVII del Paradiso (58-60) in cui Cacciaguida prevede l’esilio del Poeta ed il suo peregrinare: «[…] Tu proverai sì come sa di sale/lo pane altrui, e come è duro calle/lo scendere e ’l salir per l’altrui scale […]». Il poeta morì a Ravenna il 14 settembre 1321 di ritorno da un'ambasceria a Venezia, avendo contratto la malaria in quel di Comacchio.
I funerali, in pompa magna, vennero officiati nella chiesa di San Pier Maggiore (oggi San Francesco) a Ravenna, dove, sotto un portico laterale, venne posto il primo sarcofago del Poeta. Intorno al sarcofago nel 1483 venne costruita una cella, su progetto dello scultore Pietro Lombardo (1430-1515); nel 1780, l’archietto Camillo Morigia (1743-1795), su incarico del cardinale legato Luigi Valenti Gonzaga (1725-1808), progettò il tempietto neoclassico tuttora visibile.
Senza dubbio l’idea di una Italia unita culturalmente era molto, ma molto antecedente ai Secoli XVIII e XIX. La nostra penisola era, da secoli, divisa e per nulla tenuta in considerazione. Quindi le grandi e potenti nazioni d’Europa avevano trovato un campo aperto alle loro ambizioni. La penisola italica - così veniva definita - era considerata una semplice espressione geografica e appariva come terra di conquista. Inizialmente Francia, Spagna e Austria erano venute a conquistarvi intere provincie: le due più grandi città d’Italia, Milano e Napoli, erano cadute in mano straniera. Ed i superstiti Stati Italiani, di ridotte dimensioni geografiche - avevano conservato la loro indipendenza, ma di fatto finivano con il gravitare, come satelliti, intorno ai pianeti europei. Per lunghissimi anni (più di trecento), nelle più fiorenti regioni italiane, i francesi, i tedeschi o gli spagnoli comandavano. In questa situazione, anche attraverso i secoli, si erano levate voci che incitavano gli italiani a riconquistare la libertà perduta. Voci di poeti, di storici, di politici che testimoniavano la rivolta morale della parte più nobile del paese. Ma perché l’Italia si risollevasse dalla decadenza, non bastava il richiamo di pochi spiriti eletti. Era necessario che il risveglio penetrasse profondamente nell’animo della nazione. Per acquistare la libertà, necessitava che negli animi sorgesse il desiderio e quell’esigenza di libertà e per raggiungere questa, era opportuno superare le divisioni, acquistare la coscienza di formare un’unica famiglia, affratellata in un’unica sorte. Per ottenere l’indipendenza, gli italiani dovevano apprendere quello che, nei secoli, avevano dimenticato: a lottare, a combattere, a morire per la loro causa.
Scriveva Francesco Petrarca (1304-1374) nell’Epistola “Ad Italiam”: «O nostra Italia! Salve, terra santissima cara a Dio, salve, terra ai buoni sicura, tremenda ai superbi, terra più nobile di ogni altra e più fertile e più bella, cinta dal duplice mare, famosa per le Alpi gloriose, veneranda per gloria d’armi e di sacre leggi, dimora delle Muse, ricca di tesori e di eroi, che degna d’ogni più alto favore reser concordi l’arte e la natura e fecero maestra del mondo».
Il sogno dell’Unità politico-istituzionale del territorio che va dalle Alpi alla Sicilia è stato cullato per oltre due millenni da generazioni successive di giovani e di intellettuali, convinti che, senza unità, questo territorio non avrebbe mai trovato pace e prosperità. Diviso politicamente per secoli, debole e fragile, il territorio fu facile preda degli appetiti di quelle Nazioni vicine più grandi, più forti e potenti, come lo sono state, di volta in volta fin dal Medioevo, la Germania, la Francia, la Spagna e l’Austria. Per non aver realizzato lo Stato Unitario, come abitanti della Penisola, siamo stati - come recita il nostro inno nazionale – per secoli «calpesti, derisi, perché non siam popolo, perché divisi».
[caption id="attachment_9381" align="aligncenter" width="1000"] Francesco Petrarca (Arezzo, 20 luglio 1304 – Arquà, 18/19 luglio 1374) è stato uno scrittore, poeta e filosofo italiano, considerato il fondatore dell'umanesimo e uno dei fondamenti della letteratura italiana, soprattutto grazie alla sua opera più celebre, il Canzoniere, patrocinato quale modello di eccellenza stilistica da Pietro Bembo nei primi del '500.[/caption]
Il primo “italiano” ad avere chiaro nella mente la necessità e l’utilità di utilizzare il modello dialettico dell’unità e della molteplicità sul piano politico, è stato Niccolò Machiavelli (1469-1527). E lo ha applicato a una realtà geograficamente molto più vasta che non la Penisola italiana. La molteplicità degli Stati all’interno dell’Europa, indicata come unica entità geografica e culturale, per il Segretario Fiorentino è fonte e garanzia di virtù, di libertà e di umanità della storia.
«Chi considererà adunque la parte d’Europa» – scrive l’autore del Principe -,«la troverà essere piena di repubbliche e di principati, i quali, per timore che l’uno aveva dell’altro, erano costretti a tener vivi gli ordini».
A garantire la libertà e, quindi, l’equilibrio tra i diversi Stati in Europa erano le stesse tensioni che li garantivano nella Roma repubblicana, laddove, come annota ancora il Segretario Fiorentino, «i tumulti intra i Nobili e la Plebe […] furono prima causa del tenere libera Roma» perché «le leggi che si fanno in favore della libertà, nascano dalla disunione».
Era «l’Europa esaltata dal conflitto, sale della politica». Le molteplicità di tante piccole patrie nell’unità di un’unica grande Patria: il sogno millenario degli Italiani, realizzato poi a prezzo di sacrifici e di vite donate da giovani e talvolta giovanissimi, che hanno vissuto sofferto e glorificato il Risorgimento Italiano. Era il desiderio di realizzare di nuovo l’Italia unita e pacificata dagli antichi Romani, come è testimoniato dalle parole con le quali Augusto (63 a. C. – 14 a. C.) nel suo testamento, riassunse il plebiscito del 32 a. C.: «L’Italia tutta mi giurò fedeltà, spontaneamente». Era il paese che voleva risorgere e ritornare alla sua antica grandezza e prestigio. Era la stessa Italia raccontata da Dante Alighieri, nel suo “De vulgari eloquentia” regione per regione (I, X).
I Siciliani, gli Apuli, i Calabri, i Napoletani, i Toscani, i Genovesi, i Sardi, i Romagnoli, i Lombardi, i Trevigiani, i Veneziani, tutti elencati da Dante nel suo grande libro sulla lingua volgare, pur nella loro grande diversità, con la poesia e la letteratura fiorita tra il ‘200 ed il ‘300 hanno raggiunto ciò che cercavano, una lingua «volgare, illustre, cardinale, regale e curiale», che sembra non appartenere a nessuno perché deve essere comune a tutti.
Era l’Italia che Alessandro Manzoni (1785-1873) nella poesia “Marzo 1821” dedicata a Teodoro Köerner (1791-1813), poeta e soldato della indipendenza germanica - nome caro a tutti i popoli che combatterono per difendere o per conquistare una patria -, circa sei secoli dopo Dante, auspicava «Una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor», un’Italia unita politicamente, con un solo esercito, una sola lingua nazionale, una stessa religione, una sola memoria storica, una stessa origine e identici sentimenti.
Un’Italia dove «non fia loco ove sorgan barriere tra l’Italia e l’Italia mai più». Un’Italia «che tutta si scote, dal Cenisio alla balza di Scilla». Un’Italia che ritorna al patrimonio spirituale dei suoi avi, al suo retaggio, e «il suo suolo riprende».
Nell’ode manzoniana è contenuta una fortissima carica emotiva e sentimentale verso una patria largamente vagheggiata ma mai, fino a quel momento, progettata avendo in prospettiva concrete possibilità di realizzazione. La coscienza unitaria nel tempo intercorso tra Dante e Manzoni non si appannò, non cessò di essere vigile e operativa. L’anelito a vedere l’Italia politicamente unita in un solo Stato, dopo il 1494, cioè dopo la discesa di Carlo VIII di Francia (1470-1498) nella penisola senza incontrare resistenza, era molto forte.
Machiavelli, nel cap. XXVI del Principe dal titolo eloquente “Esortazione a pigliare la Italia e liberarla dalle mani dei barbari”, fa vibrare in maniera energica il potente sentimento di italianità. Incita i Medici a compiere l’opera di unificazione della Penisola, attraverso i versi della canzone Italia mia di Petrarca: «Vertù contra furore/ prenderà l’arme; et fia ‘l combatter corto:/ ché l’antiquo valore/ ne gli italici cor’ non è anchor morto».
[caption id="attachment_9383" align="aligncenter" width="1000"] Altobello Melone (1490–1543) - Ritratto di gentiluomo, detto Cesare Borgia (particolare) Galleria dell'Accademia Carrara.[/caption]
La grandezza dell’Italia nel passato e la penosa situazione che ha sotto gli occhi portano il Sommo Poeta ad una violenta invettiva contro il nostro Paese. Nel Canto VI del Purgatorio, l’affettuoso incontro di due concittadini mantovani, i poeti Sordello da Goito (1200/1210 ca.-1269) e Virgilio (70 a. C.- 19 a. C.), suscita in Dante una amara e spietata apostrofe contro l’Italia del suo tempo, terra di tiranni, di dolore e di malcostume, simile ad una nave senza capitano nel mare in tempesta, la quale inizia con il verso: «Ahi, serva Italia, di dolore ostello, […]». Gli abitanti di una medesima città si odiano e si dilaniano e non c’è pace in nessuna zona.
L’opera dell’imperatore Giustiniano, che aveva dato adeguate leggi all’Italia, risulta inutile, perché le leggi non vengono fatte rispettare. Gli ecclesiastici, invece di dedicarsi alle cose sacre, si appropriano del potere laico, in mancanza dell’autorità politica voluta da Dio stesso per tenere a freno l’Italia, simile ad una cavalla selvaggia. E' mancante l’autorità imperiale, perché Rodolfo d’Absburgo (1218-1291) e suo figlio Alberto (1255-1308) non si interessano all’Italia, la quale viene definita il "giardino dell’Impero". Dante quindi invita il suo successore, Enrico VII di Lussemburgo, a venire ad mirare la discordia che regna nella penisola: un paese che, come una sposa abbandonata, lo attende piangendo notte e giorno. Sembra che anche Cristo l’abbia dimenticata, forse per un bene maggiore futuro. Così l’invettiva contro l’Italia si conclude con un’ironica sferzata a Firenze, la quale legifera con leggi che non durano da ottobre a novembre.
La sferzata all’Italia nasce da uno sconfinato amore dell’Alighieri per quello che proprio lui ebbe a definire “Il Bel Paese”, e ciò nel Canto XXXIII, v. 80, dell’Inferno («del bel paese là dove ‘l sì sona»).
«Che Dante non amasse l’Italia» spiega Ugo Foscolo (1778-1827) «chi mai vorrà dirlo? Anch’ei fu costretto, come qualunque altro l’ha mai veracemente amata, o mai l’amerà, a flagellarla a sangue, e mostrarle tutta la sua nudità, sì che ne senta vergogna». L’Italia (“umile”) sognata da Dante ha un modello: Camilla, la leggendaria vergine guerriera, di cui parla il Libro IX dell’Eneide di Virgilio. Camilla rievoca le amazzoni Ippolita e Pentesilea, Giuturna la sorella di Turno amata da un Dio, la saracena Clorinda, la puzella d’Orleans Santa Giovanna d’Arco (412-431). Emula di Diana, alla quale il padre la consacrò ancora in fasce, Camilla rappresenta il popolo italico che lotta per la propria libertà e Dante le rende onore nella “Divina Commedia” (Inf. I, 106-107) ricordandola come la prima martire della nostra Patria: «[…] di quella umile Italia fia salute/per cui morì la vergine Cammilla».
Ed eccoci, come dicevo poc’anzi, al Risorgimento che rappresentò, come sappiamo, il riscatto di un popolo diviso al suo interno ma profondamente unito dalla lingua, dalla tradizione, dalla cultura. Per la risoluzione di tale processo storico fu di fondamentale importanza il contributo ideologico, passionale e romantico che la letteratura e la filosofia profusero. Il primo indiscusso precursore dell’Unità d’Italia non puo’ non essere considerato il Sommo Poeta.
Dante non aveva il concetto di stato nazionale secondo i parametri che si sarebbero andati definendo nella storia moderna, dopo la tanto vituperata Rivoluzione Francese. La sua teorizzazione dell’Italia risentiva ancora dell’esperienza, mitizzata nel Medio Evo, dell’Impero Romano: la concezione sovranazionale, di stampo imperiale.
Benché gli studiosi siano molto discordi sull’argomento, in lui non è difficile cogliere il desiderio di unità nazionale. Dante idealizza l’Italia, la presenta in numerose opere e soprattutto nella Divina Commedia, con le formule più disparate, lascia presagire un certo qual immaturo desiderio di unità tra le varie componenti della Penisola.
Nell’Epistola XI, inviata ai cardinali in conclave, Dante parla di «Italia nostra» e idealizza la proposta di un idioma unitario rispondente a quattro caratteristiche: illustre, aulico, cardinale e curiale. Al riguardo il Poeta vi ritorna nel suo “De vulgari eloquentia” quando, con fare frasi da profeta dell’unità linguistica italiana, al capitolo XV sostiene l’adozione di una parlata che sia l’estrema sintesi di quelle migliori presenti nella Penisola. Egli non viene meno di accennare anche ad altri importanti aspetti che caratterizzano ed unificano il potenziale popolo italiano nei capitoli XVI, XVII e XVIII del Libro I. Il poeta non si limita a teorie fittizie che quasi vogliono esplicitare i tratti comuni degli italiani e nella Commedia è particolarmente ricorrente un modo di vagheggiare l’Italia che ha quasi sempre un sapore romantico, proprio dell’innamorato più che del patriota.
Nel canto VI del Purgatorio, come detto, l’Alighieri dice senza mezzi termini che emerge in maniera chiara e nitida una visione dell’Italia molto, ma molto a carattere ideale e certamente prematura, ma sicuramente già recante in sé tratti importanti su cui la tradizione successiva poté trovare un terreno alquanto fertile.
L’idea della nazione italiana compresa nei suoi confini geografici era di già maturata nella mente dell’abate/pensatore Gioacchino Fiore (1130 ca.-1202) definito dal Nostro «[…] il calavrese abate Giovacchino/di spirito profetico dotato» (Par. XII, vv. 140-141), che ne aveva rilevato il primato fra le nazioni essenzialmente per la presenza della Chiesa Cattolica: idea poi rilanciata da Vincenzo Gioberti (1801-1852) (una confederazione di Stati con a capo il Papa).
La “renovatio” auspicata da Fiore per l’umanità, ma soprattutto per l’Italia e fatta propria da Dante, in realtà preludeva ad un’altra rinascita bramata da tanti e tanti personaggi. Ecco che si viene creando una innovativa e primitiva forma risorgimentale legata alla cultura e all'idea patriottica della penisola -, ancora non matura, ma efficace. Per questo motivo nell’ottocento il suo culto veniva proibito da certi governi tirannici della Penisola, specialmente da quelli facenti capo all’Austria, tanto che diversi patrioti furono arrestati ed imprigionati solo perché nelle loro case possedevano ed esponevano qualche ritratto dantesco.
Quando i trentini, riuscendo a farlo accettare al regime austriaco, nell’omonima piazza davanti alla stazione ferroviaria e di fronte alle Alpi (che il divino poeta con la mano indica come confine italiano), eressero il maestoso monumento a Dante (1896), nell’iconografia che lo arricchisce posero in evidenza l’incontro già ricordato con Sordello da Goito e ciò per proclamare a gran voce che Trento è una città della terra di Dante, e quindi italiana, come dimostra anche il sovrastante mausoleo di Cesare Battisti (1875-1916) poi eretto in vista del monumento dantesco. Ecco perché la dissacrazione e denigrazione del Risorgimento offende anzitutto Dante, come offende tutti gli altri intellettuali, da Petrarca a Machiavelli, da Foscolo al Manzoni, i quali con il loro magistero morale e civile contribuirono a formare una coscienza nazionale e propiziarono un’unificazione politica.
[caption id="attachment_9387" align="aligncenter" width="1000"] Andrea Pierini, "Dante legge la Divina Commedia alla corte di Guido Novello" - 1850, dipinto a olio, Palazzo Pitti-Galleria D'Arte Moderna, Firenze.[/caption]
Gli ideali ed i valori danteschi sono quelli dell’Italia: e il poeta medesimo può essere definito come profeta dell'Unità nazionale, ricongiunta a livello politico dalla dinastia monarchica dei Savoia nel 1861.
In tutto il mondo Dante è considerato il simbolo dell’Italia e dire “Dante” significa pronunciare “Italia”. Egli indicò chiaramente i confini nazionali della nostra patria, includendovi già nel ‘300 l’Istria ed il Tirolo Meridionale. Celebri i versi nel Canto IX dell’Inferno: «[…] sì com’a Pola, presso del Carnaro/ch’Italia chiude e suoi termini bagna, […]». Intuì, interpretò ed alimentò la coscienza nazionale. Ne deplorò le divisioni interne. Portò la lingua e la letteratura italiana ad un altissimo prestigio che dura tuttora.
Giovanni Gentile (1875-1944), in un suo scritto del 1918, osservò come Dante potesse essere definito il profeta dell’Italia risorgimentale e moderna. Egli riconobbe nel Nostro non solo il Sommo Poeta, ma anche il filosofo e la divergenza con Benedetto Croce (1866-1952) fu netta. Codesta divergenza solitamente la si riconduce sul piano storico al dissidio tra fascismo ed antifascismo e sul piano filosofico al divario tra razionalismo liberale di Croce e l’irrazionalismo “mistico” di Gentile. Ma Dante non è solo l’Italia, è ovunque nel mondo, anche grazie alle quattrocento sedi della Società “Dante Alighieri”, fondata nel 1889. Il poeta è nella lingua che parliamo, è nella cadenza di buona parte degli autori contemporanei, è nelle suggestioni di innumerevoli pittori dal Botticelli al Dalì e fino al Guttuso. Egli non è attuale è anche contemporaneo nella sua personale formulazione dell’idea di Europa.
Un grande sogno che il Poeta accarezzò per anni, al quale dobbiamo legare la sua visione non solo della libertà di Firenze dalle fazioni, ma dell’Italia e poi l’illusione di un’Europa-Impero ove il monarca illuminato placasse gli odi tra i comuni, all’interno delle città, così come aveva fatto Giulio Cesare 1300 anni prima, avendo intuito che la Repubblica aveva esaurito la sua funzione ed alimentava le guerre civili.
Ed infine Dante, se con il suo “De vulgari eloquentia” ricerca (ma in latino) una lingua volgare illustre, nella “Divina Commedia”, tale linguaggio accantona ogni complesso di inferiorità verso la blasonatissima lingua latina e diviene un esperimento raffinato e popolare, accessibile ed altissimo. Nella sua opera più celebre, la Divina Commedia”, all'interno della profezia “ante eventum” (l’unica del Poema) del Veltro, Dante ci parla di un cane da caccia agile e scattante (identificato nel levriero), così chiamato in lingua mediovale - ma sostanzialmente caduto in disuso - il quale viene ricordato per via della famosa profezia iniziale nel I Canto dell'Inferno, in cui Virgilio, riferendosi alla lupa che rappresenta la cupidigia, afferma che: «Molti son li animali a cui s'ammoglia / e più saranno ancora, infin che 'l veltro / verrà, che la farà morir con doglia. / Questi non ciberà terra né peltro, / ma sapïenza, amore e virtute, / e sua nazion sarà tra feltro e feltro. / Di quella umile Italia fia salute / per cui morì la vergine Cammilla, / Eurialo e Turno e Niso di ferute. / Questi la caccerà per ogne villa / fin che l'avrà rimessa ne lo 'nferno / là onde 'nvidia prima dipartilla».
In questi versi il veltro rappresenta un'azione di riforma, evidentemente ma probabilmente promossa da Dio, che perseguiti la cupidigia nelle sue forme ristabilendo in tutto il mondo ordine e giustizia.
Il significato letterale è: la lupa - della quale si parlava nei versi precedenti e che rappresenterebbe l'avidità - si accoppia a numerosi animali (forse intesi come altri vizi), sempre di più finché il veltro arriverà, e la ucciderà con dolore. Esso non avrà bisogno né di terra né di denaro (“peltro”), ma di sapienza, amore e virtù, e la sua origine sarà umile. “Feltro” può essere inteso come panno di poco pregio, ma anche come un'indicazione geografica: tra Feltre e Montefeltro.
Il veltro sarà la salvezza (“salute”) dell’Italia, per la quale morirono Camilla, Turno, Eurialo e Niso (tutti personaggi dell’ "Eneide” virgiliana), come ho di già ricordato. Il veltro caccerà la lupa di città in città, finché la ricaccerà nell'inferno, da dove l'invidia primordiale di Lucifero (il riferimento è alla storia dell'angelo ribelle) l’aveva fatta uscire.
Molti hanno cercato un'identificazione con un personaggio reale [ad es. Cangrande della Scala (1291-1329)], Uguccione della Faggiuola (1250-1319), recentemente anche sulla base di un passo della celebre “Chanson de Roland" dove è menzionato un veltro all'interno di una visione; altri invece hanno pensato genericamente a una carica (il papa, l'imperatore), ma i versi sono volutamente oscuri ed è oggi ritenuto improbabile che Dante pensasse ad un personaggio particolare piuttosto che semplicemente all'azione di riforma in se stessa. Anche chi ha pensato di poter identificare il veltro liberatore con il Cristo nulla ha potuto di fronte all'argomento insuperabile per cui Dante avrebbe dovuto parlare di un “tornare”, e non di un “venire”. Né ha offerto migliori argomenti l'interpretazione di coloro che hanno voluto vedere nel paladino la figura di Dante, cioè il suo Poema, la “Commedia”.
Francesco Di Montresor detto “Veltro” fu cavaliere di ventura di origini franco-veronesi, accompagnato spesso da un falco ed un levriero con cui andava a caccia fu forse la figura che contribuì ad associare nell'immaginario collettivo l’iconografia del veltro con il mito europeo della Caccia Selvaggia. In ogni epoca, l’umanità ha dovuto combattere contro il c.d. “male”, che potevano essere i barbari nell’antica Roma, gli infedeli ai tempi delle Crociate, la cupidigia appunto.
Sarà venuto codesto “Veltro”. Ed ora ci sia permesso un ben modesto consiglio: ciascuno di noi abbia a consultare un’edizione, anche tascabile, della “Divina Commedia” e, rileggendola, applichi i versi alla nostra vita giornaliera, ma anche analizzi, confronti quanto l’Alighieri è attuale, e quanto egli aveva previsto, e con netto anticipo, per i secoli dopo di lui.
 
 Per approfondimenti:
_Tommaso Gallarati Scotti, "Vita di Dante" - Rizzoli, Milano 1957;
_Franco Valsecchi, "Storia del Risorgimento" - Edizioni Radiotelevisione Italiana, Torino 1955, passim;
_Giosuè Carducci, "L'opera di Dante" - Edizioni Zanichelli, Bologna 1888;
_Dante Alighieri, "La Divina Commedia", a cura di Natalino Sapegno, Riccardi - Edizioni Treccani, Roma 2005;
_Siebzehner-Vivanti, "Dizionario della Divina Commedia" - Edizioni Feltrinelli, Milano 1965.
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"Ciascuna delle varie nazioni in cui abbiamo parcellizzato il pianeta ha, per simbolo e compendio, un libro. (...) LʼItalia (e il mondo) ha scelto lʼopera di Dante, uomo energico e dogmatico, colmo di tristi e severe passioni, notoriamente meno simile allʼItalia di quanto non lo sia il dilettevole Ariosto. (...) La Spagna, persuasa dallʼEuropa, si riconosce nellʼopera di Cervantes, che certamente non ricorda né lʼInquisizione né lo stile interiettivo e retorico che siamo soliti associare a tutto ciò che è ispanico". Jorge Luis Borges
[caption id="attachment_9307" align="aligncenter" width="1000"] Don Chisciotte della Mancia (1605)  (titolo originale in lingua spagnola: El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha) è la più rilevante opera letteraria dello scrittore spagnolo Miguel de Cervantes Saavedra e una delle più importanti nella storia della letteratura mondiale. Vi si incontrano, bizzarramente mescolati, sia elementi del genere picaresco, sia del romanzo epico-cavalleresco, nello stile del Tirant lo Blanch e del Amadís de Gaula. I due protagonisti, Alonso Chisciano (o Don Chisciotte) e Sancho Panza, sono tra i più celebrati personaggi della letteratura di tutti i tempi.[/caption]
«Con la Iglesia hemos topado Sancho» è un detto popolare spagnolo attribuito erroneamente al Don Chisciotte di Cervantes. La locuzione si usa per riferirsi a quelle situazioni in cui ci si trova dinanzi a un ostacolo difficile da superare.
Il verbo topar, di fatto, significa “incorrere in” (un ostacolo, una difficoltà che impedisce di avanzare normalmente per il proprio cammino). La chiesa rappresenterebbe dunque, in senso metaforico, lʼostacolo insormontabile dinanzi al quale bisogna arrestare il proprio cammino e con cui fare i conti. Da un punto di vista storico, secondo questa interpretazione, la rappresentazione che Cervantes dà della chiesa e del mondo ecclesiastico non è affatto positiva.
Basti pensare alle varie scomuniche entro cui incappa nel 1585 per aver sequestrato derrate di proprietà ecclesiastica per rafforzare questo argomento. Ma, come ho già anticipato, questa frase è attribuita erroneamente al Don Chisciotte.
Il passo in questione si trova nel capitolo IX della Parte seconda dove, Don Chisciotte, dopo aver «camminato un duegento passi» , credendo di aver raggiunto la reggia della sua amata Dulcinea, una volta dinanzi alla mole, «comprese che quellʼedifizio non era palazzo regale ma la chiesa madre del villaggio» . In questa situazione esclamerebbe la fatidica frase. Ma nella versione originale di Cervantes troviamo «con la iglesia hemos dado, Sancho», che letteralmente significa, seguendo la traduzione consegnataci da Alfredo Giannini: «ci siamo ritrovati alla chiesa, Sancio» . Dado, dunque, non topado. Don Chisciotte si sarebbe semplicemente trovato dinanzi la chiesa di Toboso. Non la Chiesa con la “C” maiuscola, ma il particolare edificio di un particolare luogo. Questa precisazione filologica ci costringe a riformulare quellʼinterpretazione iniziale, forse un poʼ ingenua, che prevedeva un Cervantes in contrasto con il mondo ecclesiastico. Diviene doveroso, dunque, cercare in altri passi dellʼopera degli indizi storiografici che ci possano permettere di dare una esegesi più particolareggiata della questione. Innanzitutto, c'è da dire che quello degli hidalgos era un popolo che aspirava a «vivere “nobilmente”, ossia senza lavoro disonorante, al servizio del Re o della Chiesa; e che sacrifica tutto, spesso persino la vita, a questo ideale. Per un hidalgo come Don Chisciotte, la Chiesa non poteva essere vista in maniera negativa perché dava ragione della sua onorabilità. Nel capitolo XXXIX della Parte Prima, Don Chisciotte descrive la Chiesa ai suoi discepoli come il mezzo attraverso il quale si può raggiungere la ricchezza: "C'è un proverbio nella nostra Spagna, secondo me verissimo, come verissimi son tutti, essendo brevi sentenze ricavate da lunga e saggia esperienza. E quello a cui accenno dice: “O chiesa, o mare o casa reale”, come se dicesse più chiaramente: “Chi voglia contar qualcosa ed essere ricco, segua lo stato ecclesiastico; o navighi esercitando lʼarte della mercatura, ovvero entri nella corte al servigio del re”; perché si suol dire: “Meglio minuzzolo di re che favore di signore".
Senza dubbio, la Chiesa rappresentava lʼinsieme di possibilità che potevano realizzare i sogni di qualsiasi hidalgo.
[caption id="attachment_9304" align="aligncenter" width="1000"] El Toboso: Piazza di Juan Carlos I - Spagna[/caption]
Non solo, la Chiesa era detentrice di tutti i valori morali necessari per poter vivere dignitosamente la propria nobiltà, ma essa era minacciata dai mori che, in Spagna - nel periodo storico in cui scrive Cervantes - erano ormai diventati una fetta considerevole di popolazione. Nel capitolo XXXVII della Parte Prima del Don Chisciotte troviamo un passo riguardante la conversione di una mora rappresentativo del contrasto tra cristiani e Moriscos: "(...) Ditemi, signore - disse Dorotea: (...) questa signora è cristiana o Mora? Perché lʼabito e il suo silenzio ci fa pensare che sia quel che non vorremmo che fosse. (...) Mora è nel vestire e nel corpo; ma nell'anima è quanto mai cristiana, avendo vivissimo desiderio di essere tale.Quindi non è battezzata? - replicò Lucinda. Non c'è stato agio a ciò - rispose lo schiavo - da quando è partita da Algeri, sua terra e paese natale. Finora, del resto, non s'è vista in pericolo di così vicina morte da far obbligo di battezzarla senza che prima avesse conoscenza di tutte le cerimonie che ordina la nostra santa madre chiesa; ma a Dio piacerà che presto sia battezzata, col decoro che si conviene alla sua qualità, che è maggiore di quel che appare dal suo e dal mio abito".
Il fatto che Cervantes espliciti la provenienza della mora non è un caso: «tutte le diatribe antimoresche si riassumono nella dichiarazione del cardinale di Toledo: sono “veri maomettani, come quelli di Algeri”» . Gli algerini erano considerati i più resistenti alla conversione e Cervantes lo sapeva benissimo. In questo passo sembra molto polemico verso il mondo ecclesiastico, dando lʼimpressione che anche la mora più ortodossa dovesse arrendersi alla conversione, cedendo dinanzi alla morale forzata del popolo cristiano di Spagna. Per gli spagnoli dei secoli XVI‒XVII «il problema moresco è un conflitto di religioni, ossia, in senso lato, un conflitto tra civiltà; un problema, quindi,
difficile e destinato a durare» . La conversione dei mori al Cristianesimo non dipendeva dallo Stato, ma dalla Chiesa che costringeva battesimi forzati in massa . Lo Stato, i sovrani, i nobili, non potevano nulla contro le decisioni delle cariche ecclesiastiche, le quali agivano, a volte, anche contro gli ordini dei sovrani (si pensi, ad esempio, al cardinale Francisco Jiménez de Cisneros che, nel 1499, prese la decisione di convertire i mori di Granata contro il parere delle autorità locali, violando la promessa dei Re cattolici che nel 1492 avevano assicurato la libertà religiosa) . Pertanto, sembrerebbe che i nobili hidalgos non potevano far altro che accettare le decisioni della loro onorabile Chiesa, seppur, spesso, contro i loro interessi e quelli dei sovrani. Ma lo storico Fernand Braudel ci ricorda che, verso la fine del XVI secolo, i mori rifugiati in Castiglia prolificarono e si arricchirono enormemente «in un paese inondato di metalli preziosi, troppo popolato di hidalgos per i quali lavorare era un disonore» . Nella Spagna degli anni ottanta, non più la Chiesa, ma i mori divennero i ricchi capaci di garantire agli hidalgos la loro tanto agognata nobiltà. Nel 1596 «in Andalusia e nel regno di Toledo sono più di 20000 coloro che possiedono redditi superiori ai 20000 ducati» . Questa situazione divenne intollerabile per i vecchi cristiani e creò parecchi disordini. Già nel 1588 lʼinterprete della chiesa di Spagna, «il cardinale di Toledo, faceva parte del Consiglio di Stato e si faceva forte dei rapporti del commissario dellʼinquisizione di Toledo, Juan de Carillo», propose al Consiglio di Stato di deliberare contro la moltiplicazione e lʼarricchimento dei Moriscos; e così fu. Il 29 novembre il consiglio allʼunanimità diede «ordine agli Inquisitori di fare unʼinchiesta nella loro giurisdizione e di fare un censimento dei Moriscos» . La conversione col battesimo forzato non era riuscita ad ottenere lʼassimilazione dei mori e la Spagna decise, così, di espellere tutti i Moriscos dai territori cristiani . Ma Cervantes ci ricorda che i rinnegati potevano comunque tornare a patto che venissero rispettati degli obblighi prima di convertirsi alla fede cattolica: "Sei giorni stemmo in Vélez, al termine dei quali il rinnegato, informatosi di quanto gli correva obbligo di fare, andò alla città di Granada a fine di ritornare, per mezzo della Santa Inquisizione, nel santissimo grembo della Chiesa, e gli altri cristiani liberati se n'andarono ciascuno dove gli parve meglio".
Nella nota 262 del testo sopracitato possiamo approfondire il ruolo dellʼInquisizione di Toledo nei confronti dei rinnegati:
"il Rodríguez-Marín, riportandosi a documenti dell'Inquisizione di Toledo custoditi nell'Archivio Storico Nazionale, ci fa sapere che ogni rinnegato, nel rimettere piede in Ispagna, doveva, per non incorrere in gravi responsabilità come sospetto d'eresia, presentarsi subito al più vicino Tribunale del Sant'Uffizio, dimostrando innanzi tutto, con validi documenti, che da tempo aveva il fermo proposito di rientrare nella Chiesa cattolica, quindi far la sua abiura ed eseguire la penitenza che gli fosse imposta".
[caption id="attachment_9305" align="aligncenter" width="1000"] Tramonto a Mota del Cuervo in Castiglia-La Mancia - Spagna[/caption]
Per concludere, possiamo dire che in Cervantes la rappresentazione della Chiesa del mondo ecclesiastico e dellʼInquisizione è di tipo critico. A dispetto di quanto poteva sembrare allʼinizio, non è una visione del tutto negativa, ma, dalla lettura del testo, è possibile scorgere un atteggiamento spesso molto polemico e satirico da parte dellʼautore, un atteggiamento che vuole evidenziare le contraddizioni nelle quali, nel suo periodo storico, è incorsa la fonte generatrice di tutti i valori di cui si fa strenuo difensore il suo amato personaggio.
La sua esegesi, dunque, diviene un esempio potentissimo su come rapportarci anche alla nostra contemporaneità, colma di problemi di carattere religioso che invadono tragicamente tutto il Mediterraneo. Forse bisognerebbe riscrivere un nuovo capitolo del Chisciotte, con una «pagina che non sʼimpaccia di gitanerie, né di conquistadores, né di mistici, né di Filippo II, né di autodafé» .
Una Parte Terza che tenga conto, con lo stesso apporto critico, dei problemi della nostra contemporaneità. Ma, come Borges sostiene nel suo racconto Pierre Menard, autore del Chisciotte: «Comporre il Chisciotte, al principio del secolo XVII fu impresa ragionevole, forse fatale; al principio del XX, è quasi impossibile. Non invano sono passati trecento anni, carichi di fatti quanto mai complessi: tra i quali, per citarne uno solo, lo stesso Chisciotte» .
 
Per approfondimenti:
_Miguel de Cervantes Saavedra, "Don Chisciotte" - Edizioni Bur 2016;
_Jorge Luis Borges, "Finzioni" - Edizioni Einaudi, Torino 2010;
_Braudel Fernand, "Civiltà e imperi del Mediterraneo nellʼetà di Filippo II" - Edizioni Einaudi, Torino 2010.
 
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Cadono i sessant’anni della morte dello scrittore Giuseppe Tomasi di Lampedusa, avvenuta a Roma, il 23 luglio 1957. Ricordarlo è essenzialmente commentare ed analizzare il suo capolavoro “Il Gattopardo”.
Giuseppe Tomasi di Lampedusa, duca di Palma e Montechiaro, principe di Lampedusa, nacque a Palermo il 23 dicembre 1896. Partecipò alla I Guerra Mondiale come ufficiale e rimase nell’esercito fino al 1925, laureandosi nel frattempo in Giurisprudenza all’Università di Torino. Il Tomasi si ritirò, quindi, a vita privata (anche perché avverso al Fascismo), viaggiando e dimorando per lunghi periodi all’estero.
Il Tomasi divenne, quindi, saltuariamente critico di letteratura francese e di storia, negli anni 1926-27, su “Le Opere e i Giorni” (mensile culturale di Genova), ma le vicissitudini della vita interruppero codesto suo approccio professionale alle lettere. Rimase il conforto della lettura, il modo originale di smontare pezzo a pezzo, quasi come un giocattolo, gli scritti altrui. E soprattutto la ricerca, autore per autore, ed opera per opera, di una precisa collocazione biografica ed ambientale. Scrive il professor Gioacchino Lanza Tomasi, figlio adottivo del Lampedusa: «Per Lampedusa la letteratura è una sorta di diaristica cifrata, e la diaristica la sola gnoseologia; l’opera d’arte il mezzo attraverso cui una contingente esperienza umana, da individuale ed egoistica, poteva cristallizzarsi in esperienza durevole, valida oltre l’occasionalità delle circostanze».
[caption id="attachment_9165" align="aligncenter" width="1000"] Giuseppe Tomasi di Lampedusa (Palermo, 23 dicembre 1896 – Roma, 23 luglio 1957) è stato uno scrittore italiano.[/caption]
Il Tomasi compose diversi saggi ed alcuni racconti, che, però, non diede mai alle stampe. Accadde che il Nostro accompagnò il cugino Lucio Piccolo di Calanovella, poeta scoperto da Eugenio Montale, ad un convegno letterario a San Pellegrino Terme (Bergamo) nel 1954. Ritornato a Palermo, il Lampedusa, affascinato, ma forse anche spronato dai forieri incontri avuti durante tale convegno, iniziò a scrivere il suo romanzo. Egli scrisse “Il Gattopardo” nel periodo che va’ dal 1955 al 1956, quindi, negli ultimi anni di vita, e praticamente tutti i giorni. E ciò indipendentemente dal successo, che la sorte in vita gli negò. Secondo la testimonianza della vedova dell’Autore, l’opera fu scritta “dal principio alla fine, tra il ’55 ed il ‘56” e ciò in pochissimi mesi".
Ma il proposito di comporre e scrivere un romanzo storico, ambientato in Sicilia, all’epoca dello sbarco di Garibaldi a Marsala, ed imperniato sulla figura di un suo bisavo, era stato annunziato dal Nostro alla consorte almeno un venticinquennio prima. Ed “Il Gattopardo” ottenne un così vasto successo in Italia ed all’estero, da costituire uno dei singolari “casi letterari” degli ultimi decenni. Ma Giuseppe Tomasi di Lampedusa non lo poté vivere il successo, infatti morì a Roma il 23 luglio 1957. Vediamo brevemente la trama del romanzo.
L’intreccio è più che noto: Sicilia 1860, isola borbonica, turbata nei suoi torbidi sonni secolari dai «falò che le squadre dei ribelli accendevano ogni notte» stranamente simili a «quelle luci che si vedono ardere nelle camere degli ammalati gravi». E’ l’epoca del tramonto borbonico con l’instaurazione, anche nell’isola, della monarchia sabauda. Il c. d. “mondo vecchio”, che, per i siciliani, vecchio non era, declina per fare spazio al c. d. “mondo nuovo”, emerso dalle idee illuministe, materialistiche e giacobine della Rivoluzione Francese.
L’intera opera è incentrata ed intessuta intorno alla imponente figura ed alle abitudini del capo di un prestigioso casato isolano: don Fabrizio Corbèra, principe di Salina [da ravvisarsi, come si diceva poc’anzi, in un bisavo dell’Autore, Giulio Tomasi di Lampedusa (1814-1885), se non, come alcuni esegeti affermano, nell’Autore medesimo, nobile generoso figlio della sua radiosa terra siciliana].
Don Fabrizio, lirico e critico nello stesso tempo, con occhio disincantato, fuori dagli avvenimenti, li vede mutare, li vede sfuggire dal di lui controllo e, suo malgrado, è del tutto incapace di adeguarvisi. «(…) è meglio il male certo che il bene non sperimentato (…)» scrive l’autore, facendo suo, un proverbio millenario nel momento in cui il protagonista vota affermativamente per il plebiscito di annessione al Regno d’Italia, e ciò con stupore generale della gente di Donnafugata, restia a ratificare, sia per ragioni personali, sia che per fede religiosa, sia anche per aver ricevuto immensi favori dal passato regime. Questa gente effettuò un viaggio “ad limina Gattopardorum” in quanto stimava impossibile che un Principe di Salina, Pari del Regno delle Due Sicilie, potesse votare in favore di quella che la gente denominava Rivoluzione.
Don Fabrizio, dall’alto del suo palazzo segue, altresì, con benevolenza, velata da un’amara ironia (ed allo stesso tempo si accorge che sta invecchiando: il suo “fluido vitale” non c’è più), la deliziosa storia d’amore tra suo nipote Tancredi Falconeri, combattente garibaldino, ed Angelica, figlia di don Calogero Sedara, Sindaco di Donnafugata, rappresentante della “nuova gente”.
A tal proposito, particolare fu la reazione del Principe di Salina nel vedere salire le scale del suo palazzo di Donnafugata, il detto don Calogero in frac, e ciò nel corso del pranzo d’inizio della villeggiatura, nel quale il Principe era semplicemente vestito con un abito da pomeriggio. Scrive il Tomasi: «(…) Non rise invece il Principe al quale, è lecito dirlo, la notizia» (del frac di don Calogero) «fece un effetto maggiore del bollettino dello sbarco a Marsala». Praticamente don Fabrizio, massimo proprietario del feudo, si sentiva più come tale, ma fu costretto, dagli eventi della Rivoluzione, a ricevere, vestito da pomeriggio, un invitato in abito da sera.
Tutto codesto evolversi di fatti e situazioni, ben descritte e particolareggiate dal Tomasi, ha il suo epilogo nel ballo ove il protagonista, consumando un valzer con Angelica, si accorge più che mai del suo tramonto, di essere corroso da un tragico senso della morte e praticamente esce di scena. Tutta l’opera fu scritta di getto, ma la dovizia di particolari a cui l’Autore si è dedicato con paziente attenzione è segno che egli sentiva quel “mondo” più che suo.
[caption id="attachment_9166" align="aligncenter" width="1000"] Il Gattopardo è un romanzo scritto da Giuseppe Tomasi di Lampedusa, pubblicato postumo nel 1958, un anno dopo la morte dell'autore. L'autore trasse ispirazione da vicende storiche della sua famiglia, gli aristocratici Tomasi di Lampedusa, e in particolare dalla biografia del bisnonno, il principe Giulio Fabrizio Tomasi (nell'opera il principe Fabrizio Salina), vissuto durante il Risorgimento e noto anche per aver realizzato un osservatorio astronomico per le sue ricerche. Per il tema trattato è spesso considerato un romanzo storico, benché non ne soddisfi tutti i canoni.[/caption]
La figura del gesuita padre Pirrone, cappellano della Casa, il cane Benedicò, gli oggetti dell’arredamento, le figlie del principe, la tiepida e religiosa moglie, i periodi di villeggiatura (da agosto a novembre) in campagna ed a caccia in Donnafugata, con l’organista della chiesa, don Ciccio Tumeo.
Opera meditata a lungo, dunque, se pur scritta, anzi manoscritta, di getto, come si diceva poc’anzi. E’ più che lecito ritenere che la morte del Tomasi abbia impedito del tutto quel lavoro di revisione e di limatura che sarebbe valso a “Il Gattopardo” un carattere di maggior compiutezza.
Il romanzo apparve nell’autunno 1958 (dopo il rifiuto di Elio Vittorini per la Mondadori), a cura dello scrittore bolognese, ma ferrarese di adozione - città di antiche e feconde tradizioni, attraverso i secoli, di letterati, di poeti, di artisti, di politici, di giornalisti - Giorgio Bassani – al quale pervenne, a sua volta, da Elena Croce - e la compiutezza, nonché correttezza dell’edizione non venne messa in discussione fino al 1968, quando si riscontrarono centinaia di divergenze, anche cospicue, fra il manoscritto ed il testo stampato. La questione era già stata sollevata da Francesco Orlando, docente di teoria e tecnica del romanzo alla Scuola Normale di Pisa, nel suo “Ricordo di Lampedusa” (1962) (pag. 82).
Infatti, come commenta quest’ultimo, tre sono le stesure dell’opera, e precisamente: una prima stesura manoscritta e raccolta in più quaderni (1955-1956); una seconda stesura dattiloscritta da Orlando e corretta dall’Autore (1956), ed, infine, una ricopiatura autografa in otto parti del 1957, recante sul frontespizio: “Il Gattopardo (completo)”. Si è adottato la dizione “parti”, anziché capitoli, perché così volle il Tomasi nell’indice analitico. Infatti ogni sezione dell’opera è propriamente una parte, «cioè la trattazione da una angolazione diversa, ed in se stessa compiuta, della condizione siciliana», come limpidamente scrive Gioacchino Lanza Tomasi nella premessa dell’edizione dell’opera del 1969.
Infatti le otto parti in cui è composto il romanzo potrebbero tranquillamente essere a se stanti in quanto è come se ognuna iniziasse e terminasse l’illustrazione di un quadro.
Lo straordinario interesse del romanzo non sta tanto nella trama, che poi, come abbiamo visto, è la biografia del Principe di Salina, quanto piuttosto nel ricco e sottile gioco della complicata realtà interiore del protagonista, che nella finissima arte del Tomasi trova una limpida rappresentazione. Don Fabrizio - singolare temperamento, nel quale l’orgoglio e l’intellettualismo ereditati dalla madre, nobile tedesca, si scontrano in perpetuo con la sensualità e la fiacchezza ricevute in eredità dal padre – assiste inerte alla rovina del proprio ceto ed al sorgere, come si è detto poc’anzi, di una nuova classe sociale.
Il motivo della “nobiltà in sfacelo” non viene intonato a patetico rimpianto per un mondo che scompare, che viene meno, che si sfalda, così ben svolto in lirica contemplazione dell’inarrestabile fluire, perire e mutare delle cose: quel vedere andar tutto “alla deriva nei meandri” come scrive il Lampedusa “del lento fiume pragmatistico siciliano”. Peraltro la vena alquanto lirica del Tomasi trova un sapiente contrappunto in una costante venatura umoristica, la quale si ramifica per tutta l’opera, quasi elemento equilibratore ed argine all’arido ed invadente scetticismo del protagonista. Scetticismo che, quando inaridisca e non bruci entro di sé la consistenza fantastica della pagina, trova, in quel sorriso, una giustificazione ed un suo pungente limite.
Nel bisavo Giulio Tomasi di Lampedusa, alias don Fabrizio Corbèra, sembra quasi che ritroviamo il medesimo Autore, uomo aperto ai problemi ed alle complicazioni spirituali del nostro tempo, il quale nella sua realtà - alla conclusione di un ciclo storico, che è la Seconda Guerra Mondiale - crede di veder confermata la tesi del fallimento, sul piano sociale e politico del Risorgimento Italiano, che, con particolare arguzia definì «una rumorosa, romantica commedia con qualche macchiolina di sangue sulla veste buffonesca» soprattutto riguardo al sempre attuale problema del Sud d’Italia. Fallimento, d’altronde, insito nel destino d’una regione e d’una gente antichissima e di antiche tradizioni.
La continuità/immedesimazione Corbèra/Tomasi, la quale, nei momenti migliori, si risolve in un gioco di psicologici scambi e di magiche dissolvenze, direi quasi, entro cui passato e futuro vengono liricamente annullati, si infrange nel momento in cui il Tomasi di Lampedusa balza bruscamente, quasi come un anacoluto, in primo piano con polemiche digressioni. E ciò è un altro recondito aspetto de “Il Gattopardo” che ha contribuito a farlo qualificare “saggistico”.
Come quando l’Autore esprime il suo amaro giudizio sulle conseguenze di quella “nottata di vento lercio”, cioè la nottata dei risultati dell’addomesticato plebiscito, nel corso della quale nel borgo di Donnafugata era nata l’Italia, ma era stata uccisa la “buonafede” dei Siciliani, ad opera di quello «stupido annullamento della prima espressione di libertà che a questi si fosse mai presentata».
[caption id="attachment_9168" align="aligncenter" width="1000"] Il Gattopardo è un film drammatico colossal del 1963 diretto da Luchino Visconti, tratto dall'omonimo romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, vincitore della Palma d'oro come miglior film al 16º Festival di Cannes. La figura del protagonista del film, il Gattopardo, si ispira a quella del bisnonno dell'autore del libro, il Principe Giulio Fabrizio Tomasi di Lampedusa, che fu un importante astronomo e che nella finzione letteraria diventa il Principe Fabrizio di Salina, e della sua famiglia tra il 1860 e il 1910, in Sicilia (a Palermo e provincia e precisamente a Ciminna e nel feudo agrigentino di Donnafugata, ossia Palma di Montechiaro e Santa Margherita di Belice in provincia di Agrigento).[/caption]
Al momento storico (la piccola storia fatta di piccoli uomini) si avvicenda il più vasto motivo del fermo, eterno ed “indifferente” fluire del mitico tempo siciliano. Nell'ambiente, nel clima, nel medesimo “sole siciliano”, si direbbe che quella indifferenza trovi una mostruosa e drammatica ipostasi, nel senso della Trinità: «apparve l’aspetto della vera Sicilia (…) un’aridità ondulante all’infinito (…)»; «ondulazioni di un solo colore, deserte come disperazione», «Il sole narcotizzante (…) annullava le volontà singole e manteneva ogni cosa in una immobilità servile cullata in sogni violenti, in violenze che partecipavano dell’arbitrarietà dei sogni».
Codesta è una tensione costante, che trova il suo centro propulsore nella natura del protagonista, e cioè a riportare ad una sua visione interna i dati concretissimi della realtà esterna, la quale assume i riverberi e le tonalità della sostanza spirituale di don Fabrizio. E’ più spesso la realtà sensibile ad aprirsi, con le sue violente suggestioni, dei varchi fin dentro le “zone non coscienti” del protagonista, con il suggerire certe lugubri fantasie che lasciano in fondo al suo animo “un sentimento di lutto”. Ecco quindi il pessimismo dell’autore, con il tema della morte che è uno dei più fecondi delle sue ispirazioni. La coerenza fantastica del romanzo va ricercata appunto nel motivo lirico della morte, o meglio, del desolato motivo d’origine esistenziale "dell’essere per la morte”.
E qui desidero precisare che la lirica conclusione del romanzo non si ravvisa tanto nella “parte”, la settima, della morte di don Fabrizio (nel 1883, invece il bisavo del Tomasi morì nel 1885) - con quell’incontro con la donna simbolo della fredda realtà stellare e con quell’assunzione in una patria iperurania del “puro calcolo” che sembrano un’astratta e metafisica soluzione, poeticamente sterile ed arbitraria – ma bensì nella “parte ottava” che rappresenta un desolato prolungamento (fino al 1910) della terrena esistenza del Principe di Salina, il cui fluido vitale va lentamente e stancamente esaurendosi nelle tre figlie superstiti, finché tutto trova pace «in un mucchietto di polvere livida».
E’ proprio qui che poeticamente si risolve il sentimento di quella “compiaciuta attesa del nulla” che domina tutto il libro. Analizziamo, per sommi capi, la figura di don Fabrizio.
Scrive il Tomasi di Lampedusa, don Fabrizio era “immenso e fortissimo”. Egli è per parte di madre erede di un’antica dinastia tedesca. La carnagione lattea ed i capelli biondo miele, segno evidente di questa discendenza, non ne rappresentano però l’aspetto più profondo, che invece riguarda il temperamento. Autoritario ed incorruttibile, orgoglioso difensore delle tradizioni e del proprio casato ma anche aperto alla scienza e singolarmente incline alle matematiche, apprezzato astronomo ed addirittura scopritore di due piccoli pianeti (il bisavo dell’Autore era un astronomo). Il Principe deve conciliare la sua anima germanica con la sensualità superficiale ed impulsiva, la facile irritabilità ed il disfattismo fatalista che gli vengono dal padre. Don Fabrizio è ironico e pessimista “in perpetuo scontento”, osserva, come abbiamo accennato, con inquietudine ed indolenza la rovina che sta per travolgere i privilegi della sua classe e la consistenza del suo patrimonio. Egli si considera l’ultimo Gattopardo.
L’ultima personificazione dell’araldico animale che campeggia nell’azzurro stemma della sua famiglia. Dopo di lui banali logiche di mercato stravolgeranno il senso medesimo dell’aristocrazia trasformandola in un vuoto decoro, utile forse ad agevolare carriere borghesi.
Il rifiuto che il principe oppone al nobile piemontese Aimone Chevalley di Monterzuolo, giunto da Torino con l’incarico di offrirgli il laticlavio di Senatore del Regno d’Italia, non è un gesto di orgoglio, ma la disperata fedeltà alle proprie radici, alle proprie tradizioni, al carattere dei siciliani, alla propria, ormai disillusa, “decenza” morale, perché, dice il Principe: «(…) i Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti: (…) ogni intromissione di estranei sia per origine sia anche, se si tratti di Siciliani, per indipendenza di spirito, sconvolge il loro vaneggiare di raggiunta compiutezza». Dice padre Pirrone al Principe: «Senatores boni viri, senatus autem mala bestia».
La grandezza, ma anche l’originalità del romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, sta nel fatto della immensa cultura dell’Autore.
Infatti il suo leggere, il suo documentarsi quasi quotidianamente lo spinsero a rivedere gli sciapi, ma veri diari dell’avo Giuseppe (1838-1908), il quale amava annotare la giornata incorniciata da rosari (il romanzo inizia con la quotidiana recita del Santo Rosario) e pratiche di devozione.
E qui nasce il naturale raffronto fra “Il Gattopardo” e “Le confessioni di un italiano” di Ippolito Nievo, che descrivono effettivamente una civiltà al tramonto. Ma il Lampedusa, come scrive il Lanza Tomasi: «fa suonare il campanello di allarme non appena la volontà di descrivere è sostituita dalla volontà di sembrare, mentre Nievo puo’ abbandonarsi alla retorica della patria e dell’amore per interi capitoli. Letterariamente Nievo è un grande cittadino veneto e un cattivo italiano; Lampedusa stava all’erta di non esserlo mai».
In Ippolito Nievo ed in Giuseppe Tomasi di Lampedusa i loro racconti, entrambi altamente biografici, si rifanno alle impressioni ed alle annotazioni dei loro avi.
Altro raffronto con il romanzo storico lo possiamo comodamente e tranquillamente trovare ne “I Viceré” di Federico de Roberto, romanzo anch’esso che narra il trapasso dal Regno delle Due Sicilie a quello d’Italia, ponendo in risalto i problemi politici e sociali della Sicilia, raccontando le vicende di una famiglia dell’alta aristocrazia siciliana di origine spagnola (anche don Fabrizio lo era) gli Uzeda, i cui componenti, con il mutare delle generazioni e delle circostanze, continuano a distinguersi per alcune sinistre caratteristiche, come l’egoismo, la prepotenza e l’avidità.
Ma tutto ciò non c’è ne “Il Gattopardo”, ove don Fabrizio è tutt’altro che egoista, prepotente ed avido. Forse un larvato egoismo, ma misto all’invidia, lo troviamo in Concetta, la figlia maggiore di don Fabrizio, innamorata da sempre del cugino Tancredi, la quale non accetterà mai l’unione di quest’ultimo con Angelica.
La vicenda descritta ne “Il Gattopardo” può, a prima vista, far pensare che si tratti di un romanzo storico. Il Tomasi ha sicuramente tenuto presente, come abbiamo visto poc’anzi , una tradizione narrativa siciliana (la novella “Libertà” di Giovanni Verga, “I Viceré” del de Roberto e la novella “I vecchi e i giovani” di Luigi Pirandello, ispirata al fallimento risorgimentale, drammaticamente avvertito in Sicilia, dove erano vive le speranze di un profondo rinnovamento).
Ma mentre de Roberto è, senza dubbio, per codesta tematica il più significativo, indagando le motivazioni del fallimento con una complessa rappresentazione delle opposte forze in gioco, il Lampedusa presenta la vicenda risorgimentale attraverso il machiavellismo della classe dirigente, che “in extremis” si mette al servizio dei garibaldini e dei piemontesi, convinta che fosse il modo migliore perché tutto restasse com’era.
[caption id="attachment_9185" align="aligncenter" width="1000"] Il castello di Donnafugata si trova nel territorio del comune di Ragusa, a circa 15 chilometri dalla città. L'attuale costruzione, al contrario di quanto il nome possa far pensare, è una sontuosa dimora nobiliare del tardo '800. La dimora sovrastava quelli che erano i possedimenti della ricca famiglia Arezzo De Spuches. Fin dall'arrivo il castello rivela la sua sontuosità: l'edificio copre un'area di circa 2500 metri quadrati ed un'ampia facciata in stile neogotico, coronata da due torri laterali accoglie i visitatori.[/caption]
Questa rappresentazione è naturalmente ristretta, per la prospettiva da cui è descritta. Restano fuori dal romanzo molti eventi importanti (per esempio la rivolta dei contadini di Bronte del 2 agosto 1860, stroncata da Nino Bixio e descritta dal Verga). Da questo punto di vista quindi le mancanze de “Il Gattopardo” quale romanzo storico del Risorgimento in Sicilia sono evidenti. Scrive il giornalista ed uomo politico Mario Alicata: «Una cosa è cercare di comprendere come e perché si affermò nel processo storico risorgimentale una determinata soluzione politica, cioè la direzione di determinate forze politiche e sociali, un’altra cosa è credere, o far finta di credere, che ciò sia stato una sorta di presa in giro condotta dai furbi (dai potenti di ieri e di sempre) ai danni degli sciocchi (coloro che si illudono che qualche cosa di nuovo possa accadere non solo sotto il sole di Sicilia ma sotto il sole “tout court”)».
E quindi l’originalità del valore de “Il Gattopardo” va ricercata al di fuori della prospettiva del romanzo storico. Nell’avviarmi alla conclusione, mi sia concesso di citare alcuni tratti del romanzo.
L’arrivo del Principe e della sua famiglia a Donnafugata era considerata una festa per l’antico borgo. Ed è bellissimo quello che scrive il Tomasi al riguardo: «(…) perché i villici di Donnafugata non avevano nulla contro i loro tollerante signore, che così spesso dimenticava di esigere i canoni e i piccoli fitti; e poi, avvezzi a vedere il Gattopardo baffuto danzare sulla facciata del palazzo, sul frontone delle chiese, in cima alle fontane, sulle piastrelle maiolicate delle case, erano curiosi di vedere adesso l’autentico Gattopardo in pantaloni di piqué distribuire a tutti zampate amichevoli e sorridere nel volto di felino cortese. “Non c’è da dire tutto è come prima, meglio di prima anzi».
Il non riuscire ad adeguarsi alla nuova situazione da parte di don Fabrizio è limpidamente dipinto dal Tomasi nel seguente passo: «(…) le mille astuzie alle quali doveva piegarsi lui, il Gattopardo, che per tanti anni aveva spazzato via le difficoltà con un rovescio della zampa».
Ed infine, la splendida, ma amara conclusione della “parte settima”, cioè la morte del Principe di Salina: «(…) [la morte] era lei, la creatura bramata da sempre che veniva a prenderlo: strano che così giovane com’era si fosse arresa a lui; l’ora della partenza del treno doveva essere vicina. Giunta faccia a faccia con lui sollevò il velo e così, pudica ma pronta ad esser posseduta, gli apparve più bella di come mai l’avesse intravista negli spazi stellari. Il fragore del mare si placò del tutto». Ed il romanzo è tutto qui. I pensieri del Principe di Salina oscillano nel corso dell’opera tra “έρως” e “θάνατος”, amore e morte.
Nel romanzo esistono anche tratti pieni di curiosità: L’ultima “parte”, "l’ottava”, ambientata a Villa Salina nel maggio 1910, esattamente mezzo secolo dopo, la “prima parte”, con protagoniste le tre figlie sopravvissute al Principe, rimaste nubili. Fatto centrale di tale parte è la visita alla villa del Cardinale di Palermo, del quale il Tomasi scrive «(…) era davvero un sant’uomo;». Nell’affermare ciò, l’Autore si è sicuramente ispirato al suo antenato, Giuseppe Maria Tomasi (1649-1713), sacerdote dell’Ordine dei Teatini, cardinale di Santa Romana Chiesa, beatificato nel 1803, canonizzato da San Giovanni Paolo II (Karol Wojtyla, 1920-2005) il 12 ottobre 1986 e sepolto nella Chiesa romana di Sant’Andrea della Valle. Il Lampedusa nell’affermare la santità del cardinale, auspicava sicuramente la canonizzazione del suo antenato.
Tra le numerosissime recensioni al romanzo, è molto interessante quella del padre gesuita Giuseppe de Rosa sulla rivista dell’Ordine “Civiltà Cattolica” dell’aprile 1959. E’ una recensione molto ampia [ben quattordici (14) pagine] che tocca, oltre a quello morale e religioso, molti altri aspetti dell’opera. E’ un libro “bellissimo” ma che merita di «richiamare l’attenzione per i problemi umani che offre alla nostra meditazione».
Quindi il de Rosa analizzando la semplicità della trama, sviluppa il suo discorso critico partendo da una distinzione già effettuata dagli altri numerosi recensori, tra lo sfondo storico (“il tema che potremmo chiamare sociale”) e le meditazioni del protagonista (“il tema della morte”). Anche se entrambi in tutto questo don Fabrizio è “il portavoce dell’autore”. Non sappiamo nulla dei sentimenti intimi religiosi del Tomasi: «ma il Gattopardo non lo rivela un credente», ma «visibilmente un figlio della sua epoca, incredula e liberaleggiante in fatto di religione».
Infine, scrive Giorgio Bassani, nell’introduzione del romanzo del 1958: «(…) ampiezza di visione storica unita a un’acutissima percezione della realtà sociale e politica dell’Italia contemporanea, dell’Italia di adesso; delizioso senso dell’umorismo; autentica forza lirica; perfetta sempre, a tratti incantevoli, realizzazione espressiva: tutto ciò (…) fa di questo romanzo un’opera d’eccezione. Una di quelle opere, appunto, a cui si lavora o ci si prepara per tutta una vita».
Il romanzo ebbe anche la sua fortuna con il regista Luchino Visconti (1906-1976), il quale, nel 1963, ne trasse un vero ed autentico capolavoro di arte cinematografica.
Da poco la Feltrinelli ha dato alle stampe una nuova edizione del romanzo, sempre a cura di Gioacchino Lanza Tomasi, con una più ampia introduzione, una parte inedita e delle poesie attribuite a Don Fabrizio ed a Padre Pirrone.
Filo conduttore dell’opera, come abbiamo visto, è la massima di Tancredi «(…) se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi». E’, quindi, una spietata analisi del Risorgimento, accettato dall’aristocrazia siciliana nel senso di detta massima. Ed infatti come si fa a sradicare un popolo ed una terra da antiche tradizioni ed usi con superficiali avvenimenti imposti in un momento di generale turbamento? Se si vuole veramente cambiare, si deve procedere con attenzione e cautela, ed allora si avrà l’adeguamento necessario. Quindi solo chi conosce bene queste tradizioni ed usi puo’, restando dove il destino lo ha giustamente collocato, cambiare ed adeguare certi valori alla realtà (ogni riferimento alla odierna situazione italiana e del tutto “puramente casuale”).
Tutto questo ne “Il Gattopardo”, attualissimo sempre per chi voglia leggerlo o chi desideri leggerlo nuovamente, è dipinto in maniera magistrale e nulla viene meno all’intreccio ed al romanzo tanto cari a tutta la narrativa europea del secolo XIX. Le immagini offerte della Sicilia narrata sono vive, animate da uno spirito alacre e modernissimo, anche se ampiamente consapevole della problematica storica, politica e letteraria contemporanea; tutto ciò risente dei canoni e dei modelli del romanzo moderno da Proust in poi.
Se si richiede di tornare alle vere tradizioni, quindi, non è per nostalgismo, ma per attuare un vero mutamento, si deve provare questa "forza del passato" per un futuro più costruttivo e migliore. Se ciascuno di noi potesse si sforzasse di compiere codesto pensiero, la lezione de “Il Gattopardo” sarebbe ben compresa e sempre animata da uno spirito costruttivo e degno della nostra nobile indole.
Ecco la vitalità e la vivacità dell’opera, la quale oltre mezzo secolo dalla sua pubblicazione, rimane sempre un'opera educativa. Forse questo voleva intendere Giuseppe Tomasi di Lampedusa per le nuove generazioni, le quali tendono a costruire un futuro senza conoscere le tradizioni, la saggezza e la moralità di chi fu prima di noi.
 
 Per approfondimenti:
_Tomasi di Lampedua, "Il Gattopardo" - Edizioni Feltrinelli
_Maria Antonietta Ferrarolo, "Tomasi di Lampedusa e i luoghi del Gattopardo" - Edizioni Pacini
_Maria Antonietta Ferrarolo, "L'opera-orologio. Saggi sul Gattopardo" - Edizioni Pacini
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

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La rappresentazione metafisica europea del “male”, si incarna spesso in un unico personaggio letterario e cinematografico: il conte Dracula.
Nella letteratura del vecchio continente, il “Castello di Otranto” è il primo romanzo dove possiamo percepire il senso letterario gotico, ma nel “Dracula” di Bram Stoker l’inquietudine, la paura e la malvagità stessa si impersonificano all’unisono. Il conte dell’Impero Austro-Ungarico, funge da legante di tutta la trama, rendendo straordinaria la lettura.
Un vecchio alto, accuratamente sbarbato, ma con lunghi baffi bianchi, vestito di nero dalla testa ai piedi, senza una nota di colore in tutta la persona. Teneva in mano una antica lampada d’argento, la cui fiamma ardeva senza un tubo, né un globo di sorta, e proiettava lunghe, tremule ombre mentre oscillava nella corrente della porta aperta. (…) Un viso d’aquila, caratterizzato da un naso sottile e decisamente arcuato, con narici assai dilatate; una fronte alta e bombata, con capelli radi sulle tempie, ma fitti altrove. Le sopracciglia foltissime quasi si congiungevano sulla radice del naso, i peli tanto cespugliosi da sembrare arricciati. La bocca, per quello che potevo vedere sotto i grandi baffi, era ferma e di taglio crudele, con denti particolarmente bianchi e aguzzi, che gli sporgevano dalle labbra, il cui notevole colore rosso dimostrava una stupefacente vitalità in un individuo così anziano. Quanto al resto, orecchie pallide ed estremamente appuntite, il mento forte e deciso, le guance sode sebbene magre. (…) Le mani erano invece alquanto grossolane, larghe, con dita tozze. Particolarmente strano, il centro del palmo era peloso. Le unghie, sottili e belle, tagliate molto a punta”.
Così appare il male – facente parte di una razza diversa da quella dell'uomo – agli occhi del britannico Jonathan Harker, arrivato al castello del conte per risolvere una pratica per il suo studio legale, dove egli era impiegato.
[caption id="attachment_7030" align="aligncenter" width="1303"] Adattamento dell'omonimo spettacolo teatrale di Broadway del 1927, Dracula è un film del 1931 diretto da Tod Browning e da Karl Freund. E' una delle più note trasposizioni cinematografiche dell'omonimo romanzo di Bram Stoker del 1897. Nella foto Bela Lugosi interpreta il conte Dracula.[/caption]
Ma chi è il conte Dracula nell’immaginario europeo? Il vampiro può definirsi l’archetipo del male assoluto?
Seguendo un profilo storico, Vlad Dracula o Vlad Tepes governò la Valacchia nel tardo medioevo (1448) fino agli inizi del rinascimento (1476) diventando tristemente noto, come vero e proprio tiranno impalatore di uomini. Elemento non trascurabile fu la sua lotta contro l’esercito dell’impero ottomano: i turchi nel medioevo erano considerati uomini che il demonio aveva mandato sulla terra, erano l’incarnazione del male nel panorama cristiano. La Valacchia – provincia romena della Transilvania (oggi) – diviene così terra di lotta tra bene e male. Le fondi storiche sono state considerate di grande importanza per l’irlandese Bram Stoker poiché hanno conferito autorevolezza al malvagio personaggio. Difatti l’immaginario del “vampiro” era già stato toccato da John Polidori e Francis Varney.
[caption id="attachment_7032" align="aligncenter" width="1000"] La Fortezza di Poenari (rumeno: Cetatea Poenari), nota anche come Castello di Poenari, è una fortezza situata nel comune di Arefu, nel Distretto di Argeș (Romania), affacciata sulla valle scavata dal fiume Argeş. Fu eretto nel XIII secolo durante il regno di Valacchia, divenendo nel XIV secolo il castello più importante della famiglia dei Basarabidi. A distanza di pochi decenni il castello venne abbandonato e versò in rovina fino al XV secolo, quando venne recuperato e rafforzato da Vlad III di Valacchia, il personaggio storico ispiratore del mito di Dracula. A seguito della morte di Vlad III, nel 1476, il castello fu nuovamente abbandonato. Attualmente è raggiungibile salendo una scalinata di 1.480 gradini.[/caption]
La potenza di questa storia è ricercabile all’interno dell’eterna lotta tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre. Il conte-vampiro Dracula è la personificazione del male: fascinoso e ammaliante da un lato, demonio irascibile dall’altro.
Queste due distinte personalità sono inserite anche in uno scenario fiabesco con tono di orrore: Dracula può assumere forme animali richiamando la metamorfosi delle fiabe ed è assetato di sangue essendo un “nosferatu” – un non-morto. Il sangue ha un forte valore simbolico nella cultura mitteleuropea, poiché è simbolo di vita: dopo aver succhiato il sangue, egli diviene persino giovane, mentre senza non può vivere tra i morti. Riferimenti ci sono anche sotto il carattere religioso, poiché Cristo trasforma il pane in corpo e sangue del Signore e così dà la vita agli uomini: lo trasforma in sangue perché senza di questo il corpo non vive. Del resto il conte della Valacchia oserà uccidere anche un infante – strappato alla propria madre – poiché il sangue di un bambino è ancora più ricco di linfa vitale. Segue breve descrizione: “Mentre ci guardava, i suoi occhi brillavano di una luce malvagia, il viso si atteggiava a un voluttuoso sorriso (…) Con un gesto d’indifferenza, ha gettato per terra, insensibile come un demonio, il bambino che fino a quel momento aveva tenuto fortemente stretto al seno, ringhiando come farebbe un cane sul suo osso”.
Il sangue di Dracula è comunque un sangue sporco, contaminato dal male stesso. E’ per questo motivo che si userà la tecnica della trasfusione quanto questi colpirà le sue vittime: il male presente nel sangue deve essere esportato come un veleno, per guarire l’animo. Occorre aggiungere che il succhiare è elemento di vita, modalità con cui il neonato vive. Un non-morto che vive, appunto. Dracula esercita quella libertà negativa che Isaiah Berlin descrive in “quattro saggi sulla libertà”. La libertà dell’egoismo personale e della travalicazione del proprio benessere a discapito del prossimo, il quale acquisisce il ruolo di vittima, che in questo caso  - per il conte - diventa  azione di sopravvivenza.
Demoniache sono le sue azioni e le sue fattezze fisiche, come si evince dalla descrizione di uno dei protagonisti del romanzo – il professore olandese Van Helsing: “Il vampiro sempre vive, e non può morire per solo passare del tempo. (…) Può anche diventare più giovane. (…) Lui non fa ombra, lui non fa riflesso in specchio. (…) Può trasformarsi in lupo (…) lui può essere pipistrello (…) Può venire in nebbia. (…) Lui viene su raggi di luna come pulviscolo. (…) Lui può vedere nel buio. (…) Il suo potere cessa (…) quando sopraggiunge il giorno. (…) mentre può fare come vuole (…) quando ha la sua casa-terra, la sua casa-bara, la sua casa-inferno… Esistono poi cose che talmente lo disturbano, che lui non ha più potere come l’aglio (…) crocifisso”.
Tra le metamorfosi possibili la più importante è quella del pipistrello: un essere strano, perverso, poiché appartiene ai mammiferi e non alla specie degli uccelli – un animale notturno, che nella notte diviene elemento del peccato. La simbologia dell’uccello è sconfinata ed è anch’essa parte di vita. Il pene è popolarmente chiamato “uccello”: proprio perché si eleva e in quel volo che da la vita, il seme. Il pipistrello è la nemesi del volatile: è repellente e di giorno non ha vitalità, rimanendo appeso e molle all’interno della caverna. Il sangue (vita) richiama la simbologia dell’uccello-pene ed è suggestiva l’immagine del battesimo di sangue con la signora Mina attaccata al petto di Dracula in una posizione che richiama la fellatio.
L’oscurità acquisisce un ruolo fondamentale, poiché è elemento di grande fascino ponendosi a dimensione dove esercitare azioni di gruppo. Se si considera la discoteca, questa diviene – per un ragazzo – una sorta di antro, di utero in cui compiere, senza essere visti, azioni proibite o comunque misteriose. Nel buio si cerca la prostituzione, i nostri desideri perversi e proibiti. Dracula è tutto questo.
Il colore nero, gioca anch’egli un ruolo fondamentale: esso è indefinizione, buio, morte e eleganza con cui certo è bene presentarsi al giudizio divino. Difatti il pipistrello è nero, come il mantello del conte.
Una caratteristica toccata è anche quella della solitudine: il conte è un uomo solo, isolato – a volte può intenerire – come si evince all’inizio del romanzo quando prepara con cura, da solo, la cena a Jonathan Harker con estrema eleganza e nobiltà, elemento di un glorioso passato, che parallelamente si accosta allo stesso stato Austro-Ungarico, in lento declino, dove la Valacchia non è altro che una regione di confine. Nello sfondo di questo antico passato si percepisce il sangue blu di Dracula – vittima di se stesso e ancorato nelle tenebre eterne.
Van Helsing è il sacerdote del Bene, che qui - dati i tempi della “morte di Dio” - non indossa le vesti di un chierico, ma l’abito della scienza – interpretando benissimo la corrente del positivismo. Un sacerdote che miscela alla perfezione ragione e scienza insieme a strumenti sacri e magici – elementi dello spiritismo di fine ottocento. Possiamo certamente affermare che l’opera di Stoker viene permeata da queste due entità che si fronteggiano con i propri diaconi: Dracula da una parte e Van Helsing dall’altra.
Per avere un quadro generale nel 1897 – data in cui esce il romanzo – il positivismo domina l’Europa. Questa corrente di pensiero si basa sempre su fatti concreti, verificabili, e la scienza positiva era proprio la ricerca degli eventi. La possibilità di descrivere e di misurare la realtà era il primo cardine di questo movimento culturale legato a regole ben precisi e controllabili. Tutto ciò che non viene comprovato dall’esperimento e dalla scienza non poteva definirsi positivista. Da qui nascerà la sociologia con lo studio antropologico, la psicologia sperimentale del dott.Wundt, la misurazione della personalità di Cesare Lambroso. Insomma l’atmosfera europea trepida di scienza. Di contro nello stesso periodo si assiste al più grande sviluppo dello spiritismo, alla convinzione della presenza del male tra streghe e spiriti. Tuttavia tale conflitto accademico avviene pacificamente e si arriverà anche al successo dell’elettromagnetismo, dell’ipnosi e della realtà ultra-terrena – tutte operazioni a metà tra scienza e spiritualità. Lo stesso socialista Lambroso – laico – credeva negli spiriti, entità certamente non positive. Ed è nel tema spirituale che si inserisce il letterato irlandese con il suo romanzo gotico, capolavoro della letteratura moderna. I morti e il divino sono inseriti nello spiritismo, non come teorie o teologie, ma come concetto di esperienza, in forte sintonia con il positivismo.
Dracula può essere definito un romanzo psichiatrico, poiché l’attenzione rivolta sempre verso comportamenti anomali. Sovente viene usata la parola “pazzia”.
Il comportamento aberrante è uno dei temi diffusi nella società colta di fine ottocento, basti citare Robert Louis Stevenson con “lo strano caso del dott. Jekyll e del signor Hyde” del 1886. Uno dei luoghi importanti nel romanzo è il manicomio, dove è internato l’omicida Renfield – individuo sfruttato dal malvagio conte per i suoi fini.
Si saprà, successivamente nel romanzo, che il "paziente" è stato "iniziato" da Dracula che lo utilizza come fonte di sostentamento. La furia omicida della povera vittima la si deve attribuire al conte - di cui rimane vittima - quando tenterà di ribellarsi e l'unico a poter rivoltarsi al male è solo un pazzo.
[caption id="attachment_7040" align="aligncenter" width="1000"] Scena del set-cinematografico di Tod Browning nel Dracula del 1931. nella foto il manicomio fungeva anche da laboratorio di analisi e esperimenti.[/caption]
Tornando alla figura di Van Helsing, lo psichiatra olandese è anche chirurgo e dottore in scienze occulte – tentativo da parte di Stoker di sedare la contraddizione tra il positivismo e lo spiritismo.
Sempre elemento psichiatrico è il comportamento pericoloso: Dracula viene spesso descritto come un criminale e non a caso – sempre alla fine dell’ottocento – si sviluppano importanti teorie sulla criminologia.
In questo scenario già di per sé contraddittorio nella coesistenza di tendenze positive (che riducono il comportamento all’intelletto) nasce con Sigmund Freud la psicoanalisi che traslerà la contrapposizione – nel romanzo – tra biologia come scienza positiva e psicoanalisi con riferimento all’inconscio e alla spiegazione tramite il sogno. Proprio l’ipnosi – nel romanzo di Stoker – avrà un ruolo chiave: dopo il “battesimo di sangue” di Mina Harker – da parte del conte – dove grazie a questa tecnica sarà possibile  localizzare l’esatta posizione di Dracula, che porterà i protagonisti verso l'epilogo ultimo dello scontro finale.
La morte in tutto il libro è un richiamo straordinario, drammatico e di grande simbolismo. La nostra società ha spettacolarizzato la morte, conferendogli un volto estetico: cinematografo, una finzione degna della celluloide. Una morte che essendo ineliminabile, occorre accettare e si può giungere persino ad amarla, come un male minore – rispetto alla dannazione eterna del demonio. Non-morte e morte, un gioco di parole, che il romanzo continuamente ripropone e dove l’interrogativo della post-mortem si sposa con la vita religiosa che si interseca tra desiderio e tensione. Dracula è un capolavoro della simbologia anche nella cinematografia: dal primo adattamento cinematografico del romanzo di Stoker, “Nosferatu il vampiro”, film muto di Friedrich Wilhelm Murnau del 1922, al film diretto da Tod Browning nel 1931 con l’eterno attore romeno Bela Lugosi (il suo nome originario era Béla Ferenc Dezso Blaskó) il quale interpretò il ruolo che lo renderà celebre in Dracula. La celebrità arrivò anche al regista per l’utilizzo di pellicole in cui il ruolo del diverso e del mostro era stato trattato. Il film di Lugosi e Browning ha creato l’archetipo scenico del vampiro classico europeo e anche la stessa pellicola è considerata una delle versioni del romanzo di Stoker più celebri, ed è un classico del cinema horror.
[caption id="attachment_7041" align="aligncenter" width="10008"]senza-titolo-1 Locandine dei tre film: Murnau del 1922, Browning del 1931 e Coppola del 1992.[/caption]
Altro capolavoro indiscusso è il film diretto da Francis Ford Coppola del 1992 “Dracula di Bram Stoker” che ancora oggi domina la scena cinematografica del genere horror-vampiresco.
Tornando al romanzo, il finale sarà all’insegna della violenza – che per paradosso – non è applicata dal malvagio Dracula, ma da quei protagonisti “buoni” che gli danno la caccia: per tutto il romanzo, il lettore immagina il momento dello scontro finale, per poi – una volta giunto all’epilogo – rimanere di stucco, per la celerità della lotta conclusiva, la quale si consuma in poche righe. Un parallelismo finale può essere fatto proprio sull’assurdità della vita (per il conte, una non-vita) di cui spesso l’uomo è oggetto, che di colpo ci sbalza da una realtà terrena, sempre molto labile. Così avviene il trapasso: “Il coperchio ha cominciato a cedere sotto gli sforzi dei due uomini; i chiodi stridevano mentre venivano strappati, e infine il coperchio è stato rovesciato indietro. (…) Il sole stava per scomparire dietro le vette dei monti, e le ombre del gruppo di uomini si proiettavano lunghe sulla neve. E io ho visto il conte giacere nella cassa sopra la terra, una parte della quale si era sparpagliata addosso a lui, a causa della brusca caduta del carro. Era di un mortale pallore, simile all’immagine di cera, e nei suoi occhi rossi brillava l’orrido sguardo vendicativo che io conoscevo anche troppo bene. Mentre io guardavo, i suoi occhi hanno visto il sole tramontare, e il loro sguardo di odio si è trasformato in un’espressione di trionfo. Ma in quell’istante stesso, il gran coltello di Jonathan è piombato lampeggiando su di lui. Ho lanciato un urlo, nel vederlo recidergli la gola; in quel momento il coltello ricurvo del signor Morris si affondava nel cuore di Dracula. E’ stato una specie di miracolo: sotto i nostri occhi, il tempo di trarre un respiro, e l’intero corpo si è dissolto in polvere, scomparendo dalla nostra vista”.
 
Per approfondimenti:
_Bram Stoker, Dracula - Edizioni Oscar Mondadori
_Mario Praz, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica - Edizioni BUR 1966
_David Punter, Storia della letteratura del terrore - Editori Riuniti 1985
_Marinella Lörinczi, Nel dedalo del drago. Introduzione a Dracula - Edizioni Bulzoni 1992
_Clive Leatherdal, Dracula. Il romanzo e la leggenda - Edizioni Atanor 1989
 
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Il Ribelle è il singolo, l'uomo concreto che agisce nel caso concreto. Per sapere che cosa sia giusto, non gli servono teorie, né leggi escogitate da qualche giurista di partito. Il Ribelle attinge alle fonti della moralità ancora non disperse nei canali delle istituzioni. Qui, purché in lui sopravviva qualche purezza, tutto diventa semplice".
Vorrei iniziare questo articolo riprendendo il noto Trattato del Ribelle del filosofo tedesco Ernst Jünger e avvicinandolo, se possibile, all’antifascista Leone Ginzburg.
Può essere considerato un ribelle? Questa è la domanda che mi sono posto e che voglio porre raccontando questo letterato. Perché Ginzburg, nato ad Odessa nella Russia zarista (oggi Ucraina), ha nella sua ordinarietà la sua straordinarietà “molto umana”.
[caption id="attachment_6059" align="aligncenter" width="1000"] Leone Ginzburg Odessa, 4 aprile 1909 – Roma, 5 febbraio 1944. E' stato un letterato e antifascista italiano.[/caption]
Nella grande battaglia della storia e della cultura del novecento Leone è “gettato” nei reali accadimenti.
La scelta, come per Ernst Jünger, è quella di appartenere al mondo degli eroi, realtà che fa da contro-altare alla dimensione di quella normalità che il letterato si sforzava di portare avanti come un buon padre di famiglia.
Il meno eroico degli eroici non dal punto di vista dell’etica, non dal comportamento, ma dal punto di vista dello stile. Riprendendo il sopra citato Trattato del ribelle di Jünger, il suo dire NO al giuramento di fedeltà al regime che veniva richiesto ai docenti universitari, fa entrare Ginzburg come una figura intellettualmente Ribelle, perché libera di operare la propria scelta, la propria convinzione. Nel 1931 saranno solo 12 su 1225, i docenti “ribelli” di un regime, che soprattutto nel primo decennio era considerato da tutti un modello all’avanguardia come sistema politico ed era una creazione tutta italiana, la quale era stata importata in molti paesi Europei.
Basta osservare le folle, per farci capire come il consenso sia stato vero e soprattutto storico, ma mai Leone ha avuto esitazioni nel suo dissentire le teorie fasciste anche, appunto, al culmine di popolarità della rivoluzione fascista, poi sfociata in regime.
Dunque già finito il liceo avviene in Leone una opposizione naturale che per riprendere le parole di Jünger possiamo citare come “la libertà del singolo che passa al bosco”, in cui il singolo (sotto il regime) non pensa autonomamente ed eticamente, ma è totalmente disciplinato dalle logiche dell’anonimo impersonale Sì, per cui pensa come si pensa, vive come si vive, produce come si produce e cioè permeato totalmente dalla impersonalità anonima ed autoreferenziale del singolo.
Passare al bosco” allora, cioè la prima condizione per essere ribelli, significa abbandonare questo mare del conformismo e della manipolazione organizzata.
Nato da situazioni complicate e divenuto uomo sotto il regime fascista, la sua è stata una vita piena, vissuta nell’ombra, ricca di piccoli episodi cospirativi. Ha vissuto il carcere, ha vissuto il confino e durante la resistenza non ha neanche avuto modo di imbracciare un fucile: era un uomo di lettere.
E’ tra il gruppo storico degli intellettuali di area socialista e radical-liberale che collaborarono alla nascita della casa Editrice Einaudi, ma se nel gruppo dei fondatori Giulio Einaudi era l'anima imprenditoriale, si può dire che Leone Ginzburg fu, di fatto, il primo direttore editoriale della casa editrice. Vicino all'eredità gobettiana e al liberalismo radicale, Ginzburg intendeva tutte le sue attività (lo studioso, l'editore, il traduttore, il militante politico) come una missione.
[caption id="attachment_6067" align="aligncenter" width="1035"] Da sinistra a destra: Cesare Pavese, Leone Ginzburg, Franco Antonicelli e Carlo Frassinelli.[/caption]
Non era un “eroe” del nostro immaginario collettivo, ma come per Marc Bloch, “uomini comuni in circostanze non comuni” riprendendo un aforisma sui giacobini di Robert Darnton (storico statunitense della rivoluzione francese).
Fu tra i primi in Italia ad aderire al movimento "Giustizia e Libertà". Fu per questo arrestato nel 1934 in seguito alla segnalazione dello scrittore Dino Segre (membro dell’OVRA) e condannato a quattro anni di carcere.
Questo dettaglio ci lascia immaginare come il fascismo per essere un regime totalitario era abbastanza morbido rispetto alle realtà parallele portoghesi, spagnole e tedesche e deve essere contestualizzato nel suo periodo storico e non certamente oggi, nell’epoca della democrazia (“pax romana”) dove ovviamente risulta tutto enormemente deprecabile. Altro concetto non da poco è la comprensione di come sotto il fascismo era molto facile (senza prove) essere accusato da un membro che aveva la tessera, rispetto ad uno dei pochi cittadini italiani che non la possedevano.
Il ricatto era dunque usato dal regime per tenere sotto-scacco tutta una classe dirigente, ma il nostro letterato non si piega e verrà rilasciato solo nel 1936 in seguito a un'amnistia dove proseguì la sua attività letteraria e di antifascista.
Il suo spirito di ribellione pacato, ma imperturbabile ci richiama ancora ad un verso del Trattato del Ribelle del filosofo tedesco: “Chiamiamo invece Ribelle chi nel corso degli eventi si è ritrovato isolato, senza patria, per vedersi infine consegnato all'annientamento. Ma questo potrebbe essere il destino di molti, forse di tutti – perciò dobbiamo aggiungere qualcosa alla definizione: il Ribelle è deciso ad opporre resistenza, il suo intento è dare battaglia, sia pure disperata. Ribelle è dunque colui che ha un profondo, nativo rapporto con la libertà, il che si esprime oggi nell'intenzione di contrapporsi all'automatismo e nel rifiuto di trarne la conseguenza etica, che è il fatalismo”.
Nel 1938 sposò Natalia Levi (meglio nota come Natalia Ginzburg), dalla quale ebbe tre figli: Carlo divenuto noto storico, Andrea divenuto un economista, e Alessandra psicanalista di rilievo.
[caption id="attachment_6062" align="aligncenter" width="1000"] Leone Ginzburg e Natalia Levi[/caption]
Le scelte prese da Ginzburg non possono essere considerate comuni, ma il fine “comune” invece è quello di voler mettere ordine in un mondo dove la necessità dell’eroe era sempre più richiesta, di contro egli auspicava il suo vissuto in una società della pace e del benessere. Gli uomini come Leone hanno intravisto, nel massimo momento della catastrofe, un vissuto facile e lieto. Non sarà vero nello specifico per il ragionamento di quel preciso momento da parte del letterato, ma può essere vero in generale per gli uomini e le donne che hanno combattuto la guerra civile. Tutti gli schieramenti: Repubblica di Salò, Movimento Partigiano e Monarchia, tutti hanno intravisto un orizzonte roseo in quel momento tragico. Quell’orizzonte siamo noi nel bene e nel male. Viviamo in quello stesso mondo, che poi è uscito dal più grande suicidio Europeo.
La scelta che farà, sarà quella di dire sempre una serie di NO e di mantenere un enorme rigore: gli atti che segneranno la sua vita di ribelle, saranno il NO al giuramento e il NO che lui disse in Via Tasso ai nazisti che lo interrogavano, fino a farlo morire sotto le torture.
[caption id="attachment_6063" align="aligncenter" width="1065"] Ernst Junger insieme a Carl Schmitt nel 1940.[/caption]
Sandro Pertini (anche lui prigioniero) ancora ricorda quando lo incrociò nel carcere (ala a gestione tedesca) di Regina Coeli: “Guai a noi, se in futuro odieremo l’intero popolo tedesco” gli disse. Ma questa necessità di distinguere tra nazisti e tedeschi Leone Ginzburg la argomentò in alcuni numeri di “Italia Libera” giornale romano clandestino che dirigeva nella capitale e proprio a causa del quale fu arrestato nel momento proprio più duro, più aspro e più feroce della lotta. Tedeschi, appunto, non nazisti - tedeschi come il filosofo di Heidelberg che insieme alla Wehrmacht a guida prussiana partecipò all'operazione Valchiria finita male. Tenne fermo a questo discernimento intellettuale. Tutto questo non per instaurare un mondo corollato, un mondo epico, ma per installare un mondo della prosa, un mondo della normalità.
Guerra e pace, la migliore traduzione ancor oggi che si trova per il capolavoro di Tolstoj, fu scritta in confino mentre avveniva la cruenta battaglia di Stalingrado che rovesciò le sorti della guerra. Nel mentre possiamo immaginare le difficoltà di Leone nello scrivere l’introduzione, la revisione e la traduzione del testo con le vicissitudini gigantesche, ciclopiche che avvenivano in Europa.
Ginzburg distingue tra uomini della storia e uomini della vita e la lezione del letterato che proviene dal romanzo (sia attraverso i personaggi noti, che le comparse) è stato proprio quella di preparare il mondo della prosa, della quale poi si lamenterà concependo come “tempo migliore” proprio gli anni della gioventù e del dinamismo, quali: confini di polizia, interrogatori, vite stroncate, leggi razziali, bombardamenti, guerre, torture ed è forse questa la vera lezione che ci ha lasciato il novecento.
Il tema sospeso della narrativa del 900 (l’eroe) sempre ricercato dagli autori più disparati forse con Ginzburg finalmente si placa. Egli per tutto il tempo del fascismo corregge bozze e questa modalità fa sì, che si possa scorgere dietro questo personaggio un “fare pace” con il tempo nostro, che costantemente ricerca la figura del super-uomo di Friedirich Nietzsche.
L’intellettuale che rifiuta continuamente tutti i vantaggi, tutti i compromessi, tutte le comodità che il suo stato gli conferiva. Vantaggi che ancora oggi gli intellettuali posseggono ed accettano quando si trovano ad operare.
Da questo punto di vista la figura rimane strana, diversa e attraverso una temporalità che non si può conoscere arriva dritta fino al mito.
In “Storia notturna” del figlio Carlo Ginzburg si commenta come l’origine di tutti i racconti ci sia il viaggio nel mondo dei morti e se pensiamo alle circostanze della sua vita (non poteva firmare con il proprio nome per le leggi razziali del 1938) soprattutto legate al ruolo “molto velato” della gestione della casa editrice Einaudi, possiamo capire come la sua identità apparteneva ad un uomo che “è stato via”, non necessariamente nel mondo dei morti, ma come se fosse celato dalla realtà che lo accompagnava.
Leone Ginzburg non era sotto i riflettori: sia per scelta e sia per possibilità, ma rimane affascinante e ribelle per questo: il fascismo era un regime dei riflettori, un movimento totalitario che dava popolarità a tutti gli intellettuali che avevano sposato la causa, ma anche a quelli che non si opponevano (si veda Longanesi).
Il compromesso faceva vivere abbastanza nell’agio “intellettuale” gli scrittori e i giornalisti, come d'altronde oggi non è necessario fare grandissimi compromessi per rimanere “a galla”. Il nostro letterato, invece, è quello che per tutta la vita è stato Via, è straordinario perché si oppone al compromesso nell’epoca del totalitarismo. Si oppone al destino dell’uomo comune, vivendo una vita con pochi soldi, poche soddisfazioni, con pochissime capacità anche nell’agire: si pensi alla sua vita cospirativa che rispetto a quella del francese Bloch non ha paragoni. Ma nella sua modestia è straordinariamente eroico ed eticamente commuovente proprio perché ha accettato di essere in un luogo modesto, ed il fondamento della sua persona è il suo essere velato, il suo vivere nell’ombra, elemento oggi divenuto impossibile (se non a pochi grandi) nel contesto intellettuale.
Il suo non essere in vista, il suo “essere via”, tra “i morti viventi” che lo collocano storicamente fra i dissidenti del regime nel momento storico in cui il fascismo sembrava non dover finire mai (poiché Gitzburg, non è tra quelli che rompono con il fascismo negli ultimi anni) lo rendono tanto più eroico, quanto i suoi No fin dalla prima ora.
Dunque non si può che concludere questo articolo con un ultimo tratto del Trattato del Ribelle: “Il Ribelle deve possedere due qualità. Non si lascia imporre la legge da nessuna forma di potere superiore né con i mezzi della propaganda né con la forza. Il Ribelle inoltre è molto determinato a difendersi non soltanto usando tecniche e idee del suo tempo, ma anche mantenendo vivo il contatto con quei poteri che, superiori alle forze temporali, non si esauriscono mai in puro movimento”.
 
Per approfondimenti:
_Antonio Scurati, Il tempo migliore della nostra vita - Edizioni Bompiani
_Ernst Jünger, Il trattato del ribelle - Edizioni Adelphi, piccola biblioteca
_Lev Tolstoj, Guerra e pace - Edizioni Einaudi - traduzione di Leone Ginzburg
_Goetz Helmut, Il giuramento rifiutato_I docenti Universitari e il Regime Fascista - La nuova Italia Milano 2000
 
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Premessa: "Die Welt von gestern (Il mondo di ieri) del 1942, è la ricostruzione autobiografica di un'epoca, che nella consapevolezza di Zweig - fuggito in terra brasiliana, per la persecuzione nazista in Austria - è ormai prossima all'imminente catastrofe politica e morale; una catastrofe alla quale egli non sopravviverà. Riportiamo la prefazione del romanzo autobiografico, che ci descrive in un'esposizione lucidissima l'epoca del secolo breve, quel novecento capace di creare progresso e barbarie. Il libro verrà pubblicato postumo, segnando la consapevolezza della definitiva scomparsa degli antichi valori e dalla rassegnazione (siamo in pieno secondo conflitto) di fronte all'irreversibilità degli eventi, un'atmosfera autunnale che imprime all'intera opera il severo suggello della modernità". Giuseppe Baiocchi
[caption id="attachment_8832" align="aligncenter" width="1000"] Stefan Zweig (Vienna, 28 novembre 1881 – Petrópolis, 23 febbraio 1942) è stato uno scrittore, drammaturgo, giornalista, biografo e poeta austriaco naturalizzato britannico. Animato da sentimenti pacifisti e umanisti, è noto come autore di novelle e biografie. Politicamente era internazionalista, cosmopolita ed europeista, e come ebreo laico, considerava il sionismo nazionalista di Theodor Herzl un'idea errata, propugnando una pacifica assimilazione degli ebrei. Oppositore fermo dei totalitarismi, lasciò l'Europa dopo l'avvento al potere del nazionalsocialismo, rifugiandosi infine in Brasile dove si suicidò nel 1942.[/caption]
Non ho mai attribuito tanta importanza alla mia persona da sentire il desiderio di raccontare ad altri la storia della mia vita. Molte cose dovevano accadere, molti più eventi, catastrofi e prove di quanto solitamente tocchi a una singola generazione, prima che trovassi il coraggio di iniziare un libro che ha il mio io come protagonista, o per meglio dire quale centro. Lungi da me l’idea di mettermi alla ribalta, o almeno se lo faccio, è soltanto quale commentatore in una conferenza con proiezioni. L’epoca offre le immagini e io vi aggiungo le didascalie e non narrerò tanto il destino di me solo, quanto quello di tutta una generazione, della nostra inconfondibile generazione, la quale forse più di ogni altra nel corso della storia è stata gravata di eventi.
Ciascuno di noi, anche il più piccolo e trascurabile, è stato sconvolto sin nell’intimo della sua esistenza delle quasi ininterrotte scosse vulcaniche della nostra terra europea, e fra questi innumerevoli io non mi posso attribuire che un privilegio: come austriaco, come ebreo, come scrittore, quale umanista e pacifista, mi sono volta a volta trovato là dove le scosse sono erano più violente. Esse per tre volte hanno distrutto la mia casa e trasformato la mia esistenza, staccandomi da ogni passato e scagliandomi con la loro drammatica veemenza nel vuoto, in quel “dove andrò?” a me già ben noto. Ma non lo voglio deplorare, giacché appunto chi è senza patria ritrova una nuova libertà, e solo chi non è più a nulla legato non ha bisogno di avere riguardo per nulla.
[caption id="attachment_8829" align="aligncenter" width="1000"] Cartina europea satirica del 1914.[/caption]
Per questo spero almeno di rispondere a una delle condizioni essenziali di ogni onesta cronaca: sincerità spregiudicata. Io sono in verità come raramente altrui fu mai, divelto da tutte le radici, persino dalla terra che queste radici nutrivano. Sono nato nel 1881 in un grande possente Impero, nella monarchia degli Asburgo, ma non si vada a cercarla sulla carta geografica: essa è sparita senza traccia. Sono cresciuto a Vienna, metropoli supernazionale bimillenaria, e l’ho dovuta lasciare come un delinquente prima che venisse degradata a città provinciale tedesca. La mia opera letteraria nella lingua in cui fu scritta fu ridotta in cenere, e proprio nel paese dove i miei libri si erano resi amici milioni di lettori. Io ora non appartengo a nessun luogo, sono dovunque uno straniero e tutt’al più un ospite; anche la vera patria che il mio cuore si era eletto; l’Europa, è perduta per me da quando per la seconda volta, con furia suicida, si dilania in una guerra fratricida. Contro la mia volontà ho dovuto assistere alla più spaventosa sconfitta della ragione e al più selvaggio trionfo della brutalità.
Mai una generazione – non lo affermo certo con orgoglio bensì con vergogna – ha subito un siffatto regresso morale da così nobile altezza spirituale. Nel breve lasso da quando cominciò a crescermi la barba a quando prese a farsi grigia, in meno di mezzo secolo, si sono determinate più metamorfosi radicali che nel corso di dieci generazioni; e ognuno di noi sente che furono anche troppe! Il mio oggi è così differente dal mio ieri, le mie ascese e i miei crolli, che a volte mi sembra di aver vissuto non una, ma molteplici esistenze totalmente staccate e diverse. Spesso mi accade, se dico distrattamente: “La mia vita”, di domandarmi poi: “Quale vita?”. Quella antecedente alla guerra mondiale, alla Prima o alla Seconda, oppure la vita di oggi? Poi mi sorprendo a dire: “La mia casa”, e non so quale delle mie case di un tempo alludo, se a quella di Bath o a quella di Salisburgo o alla casa paterna viennese. Oppure dico: “Da noi”, e mi accorgo spaventato che non faccio più parte della gente della mia patria più che degli inglesi o degli americani, che là non sono più organicamente congiunto e che qui non sarò mai del tutto inserito; il mondo nel quale sono cresciuto, il mondo odierno e ancora il mondo posto fra questi due si scindono sempre più nel mio sentire in tre mondi del tutto dissimili.
[caption id="attachment_8830" align="aligncenter" width="1000"] Stefan Zweig (a sinistra) e Joseph Roth (a destra) nella città portuale belga di Ostenda nel 1936.[/caption]
Tutte le volte che conversando con amici più giovani rievoco episodi dell’epoca precedente la prima guerra, mi avvedo alle loro domande stupite come infinite cose, che sono ancora per me realtà naturalissima, sono già per loro o storiche o inimmaginabili. E un istinto segreto mi induce a dare loro ragione: sì, fra il nostro oggi, il nostro ieri e il nostro altroieri tutti i ponti sono crollati. Io stesso debbo stupire rievocando la quantità e la molteplicità di vita per noi compressa nel breve spazio di un’unica esistenza, sia pure incomoda e pericolosa; e tanto più mi stupisco se la paragono al modo di vivere dei miei predecessori. Che cosa hanno veduto mio padre e mio nonno? Ciascuno di essi ha vissuto un’unica volta, un’unica esistenza dal principio alla fine, senza vette e senza cadute, senza scosse né pericoli; una vita di piccole emozioni, di inavvertiti paesaggi; l’onda del tempo li ha portati con ritmo regolare, tacito e calmo, dalla culla alla tomba. Hanno vissuto sempre nello stesso paese, nella stessa città e quasi sempre persino nella stessa casa; quel che accadeva fuori nel mondo non si svolgeva in fondo che nel giornale e non batteva alla loro porta. Ai tempi loro in qualche punto del mondo si combatté bensì una qualche guerra, ma, commisurata alle dimensioni odierne, una guerricciola, che si svolgeva lontano dai confini; non si sentivano le cannonate e dopo sei mesi tutto era finito, dimenticato, ridotto foglia secca della storia mentre già riprendeva la solita monotona vita. Noi invece tutto sperimentammo senza ritorno, nulla restò del passato, nulla si ripeté; a noi toccò il privilegio di partecipare a ciò che la storia suole suddividere con parsimonia si un paese e su di un secolo. Una generazione aveva tutt’al più fatto una rivoluzione, un’altra una sommossa, la terza una guerra, la quarta aveva subito una carestia, la quinta un fallimento dello Stato, e vi erano persino dei paesi benedetti, delle generazioni fortunate, che nulla di tutto questo avevano conosciuto. Ma noi, che abbiamo oggi sessant’anni, e che de jure avremmo ancora un certo tempo da vivere, che cosa non abbiamo veduto, che cosa non abbiamo sofferto?
Abbiamo percorso da cima a fondo il catalogo di tutte le catastrofi pensabili, e non siamo giunti ancora all’ultima pagina. Per conto mio sono stato contemporaneo delle due più grandi guerre dell’umanità e le ho anzi vissute ciascuna si un fronte diverso, la prima su quello tedesco, l’altra su quello anti-tedesco. Nel periodo prebellico ho conosciuto il grado e la forma più alta della libertà individuale, per vederla poi al più basso livello cui sia scesa da secoli; sono stato festeggiato e perseguitato, libero e legato, ricco e povero. Tutti i cavalli dell’Apocalisse hanno fatto irruzione nella mia vita, carestie e rivolte, inflazione e terrore, epidemie ed emigrazione; ho visto crescere e diffondersi sotto i miei occhi le grandi ideologie delle masse, il bolscevismo, in Russia, il fascismo in Italia, il nazionalsocialismo in Germania, e anzitutto la peste peggiore, il nazionalismo che ha avvelenato la fioritura della nostra cultura europea.
Inerme e impotente, dovetti essere testimone dell’inconcepibile ricaduta dell’umanità in una barbarie che si riteneva da tempo obliata e che risorgeva invece con il suo potente e programmatico dogma dell’antiumanità. A noi fu concesso di vedere, dopo secoli e secoli, guerre senza dichiarazioni di guerra, ma con i campi di concentramento, torture, saccheggi e bombardamenti sulle città inermi, di vedere orrori che le ultime cinquanta generazioni non avevano più conosciuto e che quelle future è sperabile non più tollereranno.
D’altra parte, quasi per paradosso, nello stesso periodo in cui il nostro mondo regrediva moralmente di un millennio, ho veduto la stessa umanità raggiungere mete inconcepite nel campo tecnico e intellettuale, superando in un attimo quanto era stato fatto in milioni di anni: la conquista dell’aria con l’aeroplano, la trasmissione della parola umana nello stesso secondo per tutto il pianeta e quindi il superamento dello spazio, la disgregazione dell’atomo, la guarigione delle più subdole infermità, la quasi quotidiana attuazione insomma di quanto ieri era ancora attuabile. Mai prima d’oggi l’umanità nel suo insieme si è comportata più satanicamente e non mai d’altra parte ha compiuto opere così prossime a Dio.
Testimoniare questa nostra esistenza tutta tensione e drammatiche sorprese, mi pare un dovere, giacché, lo ripeto, ognuno fu costretto a essere testimone di quelle inaudite metamorfosi. Per la nostra generazione non ci fu modo, come per le precedenti, di esimersi, di trarsi in disparte; in grazia della nuova, organizzata contemporaneità, noi fummo sempre legati al nostro tempo. Quando bombe distruggevano le case di Shanghai, noi in Europa lo apprendevamo nelle nostre stanze prima che i feriti fossero portati fuori da quelle case. Quello che accadeva a mille miglia oltre l’oceano, ci veniva incontro, vivo, nell’immagine. Non v’era modo di difendersi da questo perenne essere informati e chiamati in causa. Non v’era paese ove rifugiarsi, non v’era pace da conquistare, sempre e dovunque la mano del destino ci afferrava per trascinarci nel suo gioco mai sazio.
Di continua bisognava subordinarci alle esigenze dello Stato, farsi preda della più stolta politica, adattarsi ai mutamenti più inauditi; eravamo sempre incatenati alla sorte comune; per quanto ci si difendesse, questa ci portava irresistibilmente co sé.
Chi dunque ha percorso, o meglio è stato rincorso e incalzato attraverso quest’epoca – ben poche pause ci furono concesse! – ha vissuto più storia di qualunque dei suoi avi. Anche oggi siamo di nuovo a una svolta, a una conclusione e a un inizio. Non senza intenzione dunque io lascio per ora che questo sguardo retrospettivo alla mia vita si chiuda con una data precisa. Quel settembre 1939 segna infatti il limite definitivo dell’epoca che ha plasmato ed educato noi sessantenni. Se però con la nostra testimonianza tramanderemo alla generazione futura anche soltanto una scheggia di verità, non avremo lavorato invano.
Ho chiara coscienza delle circostanze sfavorevolissime, e pure caratteristiche del nostro tempo, in cui tento dar forma a questi miei ricordi. Li scrivo in piena guerra, in terra straniera e senza il minimo soccorso alla mia memoria. Nella camera d’albergo non ho a disposizione né un esemplare dei miei libri, né appunti, né lettere di amici. A nessuno posso chiedere una notizia, perché in tutto il mondo la posta da paese a paese è interrotta o ostacolata dalla censura.
Viviamo separati come centinaia d’anni or sono, prima che fossero stati inventati navi a vapore, ferrovie, aeroplani. Di tutto il mio passato non ho quindi con me altro che quanto porto dietro la fronte. Il resto è in questo momento irraggiungibile o perduto. Ma la nostra generazione ha imparato a fondo l’arte preziosa di non rimpiangere il perduto, e forse la mancanza di documentazione e di particolari tornerà di vantaggio al mio libro. Considero infatti la nostra memoria un elemento che non conserva casualmente l’una cosa per perdere fortuitamente l’altra, bensì un’energia ordinatrice e saggiamente selezionatrice. Tutto quanto si dimentica della propria esistenza era già da un pezzo condannato per istinto a essere dimenticato. Solo ciò che io stesso voglio conservare può aspirare a essere conservato per gli altri. Parlate e scegliete dunque, o i miei ricordi, al posto mio, e restituite almeno un riflesso della mia vita, prima che essa scenda nel buio!
 
Per approfondimenti:
_ Stefan Zweig, Il mondo di ieri - Edizioni Oscar Mondadori
 

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Sei anni di fatiche, dubbi e emozioni sono il quantitativo temporale che Lev Tolstoj ha impiegato per scrivere il suo maggiore capolavoro: Guerra e pace – dal 1863 al 1869 con la pubblicazione solo nel 1878.  Si può già capire il romanzo di Guerra e pace da questa definizione dello stesso scrittore del 31 ottobre 1910.
Dio è quell'infinito Tutto, di cui l'uomo diviene consapevole d'essere una parte finita. Esiste veramente soltanto Dio. L'uomo è una Sua manifestazione nella materia, nel tempo e nello spazio. Quanto più il manifestarsi di Dio nell'uomo (la vita) si unisce alle manifestazioni (alle vite) di altri esseri, tanto più egli esiste. L'unione di questa sua vita con le vite di altri esseri si attua mediante l'amore. Dio non è amore, ma quanto più grande è l'amore, tanto più l'uomo manifesta Dio, e tanto più esiste veramente”.
Nella disastrosa campagna russa di Sebastopoli, attraverso cui l’autore assiste alla disfatta delle truppe russe, nel conte Lev Nikolaevič Tolstoj si attiva un desiderio di riscatto storico e patriottico: offrire alla madre patria attraverso Guerra e pace una vittoria che sostituisse l’umiliante sconfitta nella guerra di Crimea (conflitto combattuto dal 4 ottobre 1853 al 1º febbraio 1856 fra l'Impero russo da un lato e un'alleanza composta da Impero ottomano, Francia, Regno Unito e Regno di Sardegna dall'altro) sforzandosi di far emergere il carattere popolare della lotta contro Napoleone. Inizialmente fu aspramente criticato in patria, soprattutto dagli stessi veterani-sopravvissuti della Guerra d’Oriente, i quali condanneranno il romanzo
La grandezza di Tolstoj è descrivere “l’uomo nel tempo” da qui la sua definizione “ogni uomo - di ieri, di oggi, di domani - valga un altro uomo”.
Siamo di fronte ad un romanzo che descrive una trama e dei personaggi, ma solitamente nei romanzi di Lev Tolstoj avviene un evento nuovo che ha del miracoloso: all’interno di queste storie che egli non inventa, poiché riscrive eventi della tradizione russa zarista, lo scrittore compie una operazione straordinaria sui personaggi, i quali vengono trasformati in archetipi e le storie in racconti universali. Dunque lo scrittore russo riesce ad organizzare tutta una serie di trame e personaggi all’interno del suo romanzo, che sono correlati con elementi fondamentali della psiche dell’animo umano.
Così quando narra dei tre protagonisti principali del romanzo, ovvero Pierre Bezuchov, Nataša Rostova e Andrej Bolkonskij noi non siamo solo di fronte a dei personaggi, ma a figure fondamentali che rappresentano l’uomo in quanto tale.
Il conte Pierre Bezuchov è un individuo che potremmo definire forse il più “umano” di tutti. Pierre incarna totalmente l’uomo con tutti i suoi pregi e i suoi difetti, il suo essere determinato per alcuni frangenti e il suo essere incerto per altri – spesso nel romanzo si coprirà, agli occhi del lettore, di ridicolo – ma rimane il vero vincitore morale del libro. Pierre, insegue “lo scopo della vita” o “la verità assoluta” perdendosi per quasi tutto il romanzo (sempre a fin di bene) in una vita sopra le righe con compagnie “poco raccomandabili” e successivamente, dopo un matrimonio forzato, cercherà questa certezza nella massoneria russa, senza però trovare mai il senso di appagamento spirituale. Dopo essere stato preso prigioniero dei francesi nella conquista di Mosca, patirà le pene della prigionia e in questo periodo durissimo in cui sfiorò la morte, avviene in lui quel cambiamento intimo che aveva sempre ricercato inutilmente per tutta la sua esistenza.
Questo scopo della vita tanto cercato non esisteva più per lui, (…) E questa assenza di scopo gli dava quella piena, lieta coscienza di libertà che in quel momento formava la sua felicità. Egli non poteva avere uno scopo perché ora aveva la fede, - non la fede in certe regole, parole o pensieri, ma la fede in un Dio vivo, di cui si ha la sensazione continua. Prima egli Lo cercava negli scopi che si proponeva. (…) In prigionia aveva appreso che Dio era più grande, infinito e incomprensibile in Karatàjev che nell’Architetto dell’Universo riconosciuto dai massoni. Provava il sentimento dell’uomo che ha trovato sotto i piedi ciò che cercava, mentre aguzzava la vista per scoprirlo lontano da sé”.
Dunque Pierre si lascia andare allo spirito destinale di un essere che ci permea, ci nutre, ci crea e ci consuma. Non si può comprendere o definire un elemento che ci include, sarebbe impossibile. Bezuchov avendo vissuto le asprezze del conflitto, afferra il concetto e inizia finalmente a vivere in armonia con l’essere. Riprendendo un pensiero heideggeriano sull’essere, possiamo porci la domanda: che cosa è l’essere? “si manifesta attraverso l’ente, ma non è l’ente perché l’essere è niente”. Dunque l’essere (per semplificare Dio) è l’Uni-cum attraverso il quale noi uomini siamo gettati nell’esistenza e attraverso cui tutto ci sfugge. Questo, Pierre lo avverte fin dal primo attimo e dunque è alla costante ricerca materiale di un elemento, invece, spirituale che si deve scoprire solo alla ricerca della chiarezza interiore e non della certezza esteriore. Proprio qui è situata la grande operazione di Lev Tolstoj. Portare il romanzo russo ad un livello di racconto magistrale per contenuti e espressività, tanto da coprire tutte le gamme della possibile espressività umana e nello stesso tempo, creare un romanzo universale che ci riguarda tutti come uomini.
Si prenda la paura della morte: anche questa mirabilmente descritta. Una situazione che non arreca invidia al miglior Franz Kafka.
In sogno si vide disteso nella medesima camera dove realmente giaceva, ma non ferito, bensí sano. Molte persone insignificanti, indifferenti apparivano davanti al principe Andréj. Egli parlava con loro, discuteva di cose inutili. Esse si preparavano ad andare in qualche posto. (...) Dopo poco, inavvertitamente, tutte queste persone cominciavano a sparire e tutto cedeva il posto a una sola quistione: come chiudere la porta. Si alzava e andava verso la porta per spingere il chiavistello e chiuderla. Dal riuscire o non riuscire a chiuder la porta dipendeva tutto. Egli andava, si affrettava, ma le sue gambe non si muovevano, ed egli sapeva che non sarebbe riuscito a chiudere la porta, ma pure tendeva disperatamente tutte le sue forze. E una tormentosa paura lo assaliva. E questa paura era la paura della morte: dietro alla porta stava quella cosa. Mentre egli si trascinava impotente, malsicuro verso la porta, questa cosa tremenda stava già dall'altra parte e premeva e spingeva. Qualcosa di non umano - la morte - spingeva la porta, e bisognava trattenerla. Egli si aggrappava alla porta, tendeva le ultime forze: chiuderla ormai era impossibile - almeno avesse potuto trattenerla! Ma le sue forze erano deboli, impacciate, e, spinta da quella cosa orribile, la porta si apriva e di nuovo si richiudeva. Ancora una volta quella cosa spingeva fuori. Gli ultimi sovrumani sforzi erano vani, e i due battenti si aprivano senza rumore. Quella cosa entra, ed è la morte. E il principe Andrèj morí".
[caption id="" align="aligncenter" width="1000"] Girata in Russia, Lettonia e Lituania (anche nei luoghi originari del libro), la serie kolossal BBC si è composta di 8 episodi da 60′ ciascuno, diretti da Tom Harper e sceneggiati da Andrew Davies. Stellare il cast, composto da Paul Dano, Lily James e James Norton nei ruoli dei protagonisti (rispettivamente Pierre Bezuchov, Nataša Rostova e Andrej Bolkonskij).[/caption]

Ma come accade tutto ciò? Solitamente nei racconti di Tolstoj noi abbiamo una vicenda esterna, difatti in Guerra e pace siamo al centro delle guerre napoleoniche. Allora lo scrittore con impareggiabile maestria pone l’obiettivo all’interno degli stati d’animo dei tre protagonisti principali che attraverso le loro storie mirabilmente intrecciate danno la vera chiave di lettura agli eventi. Il grande scrittore russo apre “queste polveriere” che tengono fermo l’animo umano e ci proietta dentro noi stessi, dove esistono delle forze inimmaginabili che se vengono scatenate, fuoriescono e possono far arrivare l’uomo al suo limite estremo. Così noi ci accorgiamo di essere nella stessa posizione di gioia o tristezza dei protagonisti. Siamo di fronte a quella che potrebbe essere denominata come una storia esteriore, una storia politica: Napoleone invade la Madre Russia zarista e punta dritto su Mosca. Per raccontare questa storia che avviene nel 1812, quasi cinquanta anni prima dello scritto, lo scrittore ha bisogno di elementi psichici affinché la storia sia fondamentalmente politica perché Tolstoj vuole narrarci come e perché Bonaparte e il suo esercito imbattibile si sia sciolto nella conquista dello spazio sterminato che è la Russia. Questa riflessione epocale è correlata alla apocalisse che consegue il sanguinoso pareggio della battaglia campale di Borodino che suona forte come una sconfitta, dalla quale la Grande Armée napoleonica non si riprenderà più: dopo le sue splendide vittorie ottenute sia contro gli austriaci, che contro i prussiani e inizialmente contro i russi, l'esercito francese si spezza nello spirito. Osservando il lato storico, della vicenda narrata, si evince il senso patriottico di Tolstoj. Solamente a tratti lo scrittore russo si sofferma, generalmente all’inizio di ogni libro, sulla situazione militare e politica vista dagli occhi di un freddo storico. Nel romanzo appare spesso la figura di Napoleone Bonaparte e quella di Michail Illarionovič Kutuzov. Siamo di fronte all’eroe europeo e all’anti-eroe: Tolstoj cercherà infine di rovesciare anche questo luogo comune. Il primo è descritto come un tiranno, un egocentrico e una persona egoista e fortunata; il secondo viene descritto per tutto il romanzo come una persona poco stimata dai russi, molto schiva, ma con un animo nobile che antepone sempre gli interessi della nazione ai suoi. Nel finale l’autore (dopo la disfatta napoleonica) si prende la sua rivincita su tutto e tutti esplicitando la descrizione di Kutuzov e smentendo la concezione di Eroe europeo:

Le sue azioni - tutte, senza la minima eccezione - sono dirette ad un medesimo triplice scopo:
1) tendere tutte le forza per combattere i francesi;
2) vincerli;
3) scacciarli dalla Russia, alleviando, per quanto era possibile, le sofferenze del popolo e dell'esercito.
Lui, quel lento Kutúzov, il cui motto è "pazienza e tempo", il nemico delle azioni decisive, (…) Solo, durante tutto il tempo della ritirata si ostina a non dar battaglie ormai inutili, a non cominciare una nuova guerra, a non varcare le frontiere della Russia. (...) La fonte di questa straordinaria capacità di penetrare il significato degli avvenimenti consisteva in quello spirito nazionale che egli portava in sé in tutta la sua purezza e la sua forza. Soltanto perchè aveva riconosciuto in lui questo spirito, il popolo fu costretto, per vie cosí strane, contro la volontà dello Zar, a scegliere questo vecchio in disgrazia come rappresentante della guerra nazionale. E soltanto questo spirito lo pose a quella superiore altezza umana dalla quale egli, essendo comandante in capo, diresse tutta la sua forza non a uccidere e annientare degli uomini, ma a salvarli e a risparmiarli.
Questa figura semplice, modesta e perciò veramente grande non poteva esser plasmata nella forma menzognera dell'eroe europeo, preteso guidatore di uomini, che la storia ha inventato. Non può esistere grand'uomo per il suo cameriere, perché il cameriere ha un suo particolare concetto della grandezza".
[caption id="attachment_6299" align="aligncenter" width="1000"] Aleksey Danilovich Kivshenko. Il consiglio militare in Fili nel 1812. Dipinto del 1882, Olio su tela, 64 x 117 cm[/caption]
Sempre emozionante sono i brevi tratti del romanzo, dove si descrive il generale còrso, ma per Napoleone la situazione è capovolta: non assistiamo alla sua situazione politica, ma alla sua crisi interiore. E’ una crisi che più tardi la psicanalisi avrebbe chiamato narcisistica, vale a dire la perdita da parte del soggetto del controllo sulla realtà: dall’illusione che il mondo dipenda dal nostro principio di piacere alla consapevolezza terribile che il mondo risponde al principio di realtà. La realtà è sempre più dura, rispetto a quella che noi ci siamo costruiti e questa ha sempre a che fare con qualcosa di diverso, rispetto a quella che è il nostro semplice volere. Ed ecco, allora, la grandezza di questo romanzo che unisce la politica con la psicologia e il sentimentalismo, rendendolo eterno per la sua multidisciplinarietà.
Riporto uno stralcio del libro terzo, capitolo XXXVIII – volume secondo dell’Edizione Einaudi, la migliore delle traduzioni, di Leone Ginzburg che riguarda la figura di Bonaparte:
E non soltanto in quell'ora e in quel giorno furono ottenebrate la mente e la coscienza di quell'uomo, che più duramente di ogni altro, che avesse partecipato a quell'azione, portava il peso di quanto avveniva; ma mai, sino alla fine della sua vita, egli riuscì a intendere né il bene, né la bellezza, né la verità, né il significato dei propri atti, troppo contrari al bene e al vero, troppo lontani da ogni sentimento umano perché egli ne potesse intendere il significato. Egli non poteva sconfessare i suoi atti, esaltati da mezzo mondo, e perciò doveva rinunziare al vero, al bene e a tutto quello che è umano”.
[caption id="attachment_6306" align="aligncenter" width="1000"]History enthusiasts take part in a re-enactment of the Battle of Austerlitz to mark its 207th anniversary near the city of Brno, Czech Republic, Saturday, Dec. 1, 2012. The Battle of Austerlitz is widely considered to be Napoleon's greatest victory, as he destroyed the troops of the Third Coalition made up of Russian and Austrian forces, giving France a glorious victory and prompting other changes in the European diplomatic area. (AP Photo/Petr David Josek) Paul Delaroche. Ritratto di Napoleone a Fontainebleau nel 1814 (particolare), olio su tela.[/caption]
Per riavvicinarmi alla frase iniziale dello stesso Tolstoj dobbiamo riprendere il vero conoscitore del romanzo, quel Leone Ginzburg che differenziava i personaggi storici dai personaggi umani, infatti quest’ultimi amano, soffrono, sbagliano, si ricredono – in una sola parola vivono. Nel momento che questi tentano di divenire “storici” e cercano di dominare non più la loro vita, ma quella della nazione o di altri uomini, magari legandosi a qualche massoneria o credendosi ormai all’apice della carriera militare, falliscono sempre. I personaggi storici come lo Zar Alessandro I o Napoleone Bonaparte, invece, sono condannati a recitare una parte che non è raccontata da loro stessi, anche se tutti tentano di viverla.
Dunque i racconti delle grandi battaglie come quella di Austerlitz o di Borodino appartengono al mondo che egli definisce “storico” mentre al mondo della “pace” con le sue frivolezze e i suoi stati di gioia e di ansia appartiene al mondo della vita, al mondo umano: poiché tutto il mondo degli uomini si riduce ad un unicum creato da Dio stesso e solo quando l’uomo si lascia andare e vive veramente, come l’esserci del possibile, allora nei romanzi di Tolstoj - proprio l’uomo acquisisce valore e senso in questo mondo troppo grande.
In conclusione il personaggio incontrato da Pierre, durante la sua prigionia, più di tutti incarna il pensiero collante di tutto il romanzo: la ricerca di Dio e dell’Uni-cum, poiché questo contadino strappato alla terra e dato alle armi non è altro che la rappresentazione di Dio. Dal capitolo XIII, libro quarto, volume secondo dell’Edizioni Einaudi:
"Platòn Karatájev rimase per sempre nell'animo di Pierre come il ricordo più forte e più caro e come la personificazione di quanto c'è di russo, di buono e di rotondo. (…) Platòn Karatájev doveva avere oltre cinquant'anni, a giudicare dai suoi racconti delle campagne alle quali aveva partecipato da soldato, molto tempo prima. Egli stesso non sapeva e nessuno avrebbe potuto precisare quanti anni avesse. (…) Il suo viso, malgrado le piccole rughe rotonde, aveva un'espressione d'innocenza e di giovinezza; la voce era simpatica e melodiosa. Ma la principale particolarità dei suoi discorsi erano la franchezza e la praticità. Le sue forze fisiche e la sua prontezza erano tali che, nei primi tempi della sua prigionia, pareva che non capisse che cosa fosse stanchezza o malattia. (...) Egli sapeva far tutto, non molto bene, ma neppure male. Cucinava, faceva il pane, cuciva, faceva il falegname, faceva il calzolaio. Era sempre occupato e solo di notte si permetteva di chiacchierare, cosa che gli piaceva molto, e di cantare. (...) Fatto prigioniero ed essendogli cresciuta la barba, si vedeva che aveva rigettato a sé ogni elemento estraneo, soldatesco, acquisito, e involontariamente era tornato al suo antico carattere campagnuolo, popolare. (...) Gli piaceva ascoltare le fiabe che un soldato raccontava la sera (sempre le stesse), ma più di tutto gli piaceva ascoltare racconti della vita vera. (...) Karatájev non aveva nessun' affezione, nessun' amicizia, nessun amore, secondo il modo che aveva Pierre d'intendere questi sentimenti; ma amava tutti e viveva in rapporti affettuosi con tutto ciò a cui la vita lo avvicinava, e specialmente con l'uomo: non con un dato uomo, ma con tutti gli uomini che erano davanti ai suoi occhi. Amava il suo botolo, amava i compagni, amava i francesi, amava Pierre che era suo vicino; ma Pierre sentiva che Karatájev malgrado tutta la sua affettuosa tenerezza per lui (con la quale involontariamente rendeva omaggio alla vita spirituale di Pierre), non si sarebbe afflitto neppur un momento se avessero dovuto separarsi. E Pierre cominciava a provare lo stesso sentimento per Karatájev. (...) Ma la sua vita, com'egli stesso la riguardava, non aveva senso in quanto vita isolata. Aveva un senso soltanto come particella di un tutto, che egli sentiva di continuo. Le sue parole e i suoi atti sgorgavano da lui con la stessa regolarità, necessitá e immediatezza con cui il profumo emana dal fiore. Egli non poteva capire né il valore né il senso di un azione o di una parola prese isolatamente".
 
Per approfondimenti:
_Guerra e Pace, Edizioni Einaudi 2014
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