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di Giuseppe Baiocchi del 03-07-2021

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I media ci bombardano di propaganda: bisogna preoccuparsi non perché siamo negli anni Trenta in Germania, ma perché siamo nel 2021 in Italia. Reclame televisive, film, cartoni animati, pubblicità, spot istituzionali per le Pari Opportunità ci impongono l’accettazione di un mondo lgbt: lo vediamo anche nei numerosissimi loghi delle ditte, che inseriscono la bandiera arcobaleno sui loro brand, lo vediamo oramai anche nello sport, in particolare negli europei di calcio 2021, dove alcune squadre hanno fatto indossare al capitano la fascia color arcobaleno.
Oggi il disegno di Legge promosso dal parlamentare del Partito Democratico Alessandro Zan, abbreviato Ddl Zan, è bloccato dalla Commissione Giustizia al Senato.
Il nome tecnico del Disegno di legge è “Misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità”. Sostanzialmente l’idea è quella di inasprire pene e sanzioni per i casi di violenza e discriminazione per motivi di genere, sesso, disabilità e orientamento sessuale. L’inasprimento delle pene e un nuovo quadro normativo servirebbero – nelle intenzioni – a tutelare maggiormente queste persone. Con il Ddl Zan si chiede l’istituzione di nuovi reati e di una giornata nazionale contro le discriminazioni. La data indicata è quella del 17 maggio. Non solo. Si chiede anche che vengano stanziati quattro milioni di euro destinati alla promozione di iniziative contro la violenza e la discriminazione.
Questo Disegno di Legge crea una vera e propria categoria, poiché crea un effetto propulsivo, moralizzatore, cerca di imporre un’ideologia. I disabili, inseriti inizialmente in questa proposta di legge, negli articoli più importanti dei media si sono per così dire “evaporati”.
In Italia esiste la Legge Mancino del 25 giugno 1993, n. 205: un atto legislativo della Repubblica Italiana che sanziona e condanna frasi, gesti, azioni e slogan aventi per scopo l’incitamento all’odio, l’incitamento alla violenza, la discriminazione e la violenza per motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali. La legge punisce anche l’utilizzo di emblemi o simboli. Dunque perché un’ulteriore legge discriminatoria proprio per gli omosessuali, che inasprisce pene, che non dovrebbero essere inasprite: se i gay sono uguali a tutte le altre persone, perché non possono rientrare all’interno della Legge Mancino? Se un violento picchia una persona ottuagenaria, perché deve prendere una pena minore, rispetto all’aver picchiato un omosessuale? L’anzianità e la fragilità dei nostri anziani ha meno dignità di quella dei gay? Proprio sull’essere contro-natura (ovvero non procreare organicamente vita) deve essere la base del nostro pensiero. Nessuno deve dileggiare, perseguitare e/o offendere un omosessuale, ma non può passare il messaggio che il non produrre vita sia una prassi normale o normalizzante, poiché non lo è. Difatti il mondo lgbt vuole dividere, in maniera organicamente errata, l’ideologia (credere nella riproduzione e nella vita) e la stessa biologia (l’atto naturale di crearla): non a caso il ddlzan è pienamente ideologico. 
Anche il Vaticano si è espresso circa il disegno di legge del Ddl Zan effettuando un intervento, basandosi sull’art.7 della Costituzione e gli articoli 1-2-3 del Concordato che rarifica i rapporti tra Stato italiano e Chiesa. Sostanzialmente in tali articoli si afferma come bisogna vivere in un rapporto di “libera chiesa in libero stato”. Ma l’art.7 afferma con esattezza come lo Stato italiano – e non viceversa – abbia voluto iniziare dei rapporti con la Città del Vaticano: dunque un riconoscimento dell’alto valore sociale che la Chiesa detiene nel nostro Paese, per i valori che esprime, per l’assistenza ai meno abbienti, per la cultura e per sfamare le anime. Essendo state stabilite regole e norme, in qualsiasi momento una delle due parti può revocare tale accordo bilaterale. Dal momento che lo Stato italiano decide di revocare il patto Stato-Chiesa, non può farlo con una legge ordinaria, ma con una costituzionale: solo in tale modo si potrebbe modificare o recedere tale intesa. Bisogna tenere presente che gli articoli 1 e 7 del Ddl Zan sono gravemente lesivi delle fondamenta sulla quale si fonda la visione della vita della Chiesa Cattolica. Di fatti se toccato, anche, da un punto di vista teologico, Gesù Cristo non poteva essere pro lgbt – come spesso ostentato durante i vari gay pride, nella totale mancanza di rispetto verso una religione maggioritaria del Paese -, per il semplice fatto che nel suo depositum fidae, scritto nel magistero della chiesa, parla di un peccato mortale molto grave dell’uomo, quello di sodomia. Inoltre se un gay pratica la sodomia, un trans ha il doppio peccato di non aver accettato la natura che Dio gli ha dato. In tutto questo movimento, vi è un elemento che rende il tutto non normale (dato che l’archetipo del mondo lgbt si basa sulla normalità): la mancata produzione della vita. Gesù proclama la vita organica tra un uomo e una donna, poiché essi creano una famiglia, procreando un figlio (TRINITÀ).
[caption id="attachment_12452" align="aligncenter" width="1000"] Il 26 giugno 2021, in via della stazione di San Pietro, a pochi metri dalla Santa Sede, è apparsa una nuova opera della "Street Artist" Laika, personaggio misterioso che imbratta le pareti delle case romane, che ritrae due guardie svizzere in atteggiamento romantico con un cuore arcobaleno sullo sfondo.[/caption]
Quando si creano dunque delle condizioni di parziale attrito, bisogna costituire una commissione paritaria che dovrà discutere sul merito delle questioni. Una legge, quella del Ddl Zan lacunosa e mal scritta: il legislatore deve descrivere la Legge, non darne la definizione culturale, poiché non deve definire che cosa è il sesso, il genere o l’orientamento sessuale (questo semmai è un compito culturale, che spetterà alle agenzie pro-lgbt). Difatti l’art.1 del Ddl Zan esibisce subito la definizione ed è per questo che il disegno di legge è pericoloso: il comma d dell’art.1 definisce che cos’è l’identità di genere “identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione”! Dunque il significato tradotto di tale espressione è la seguente: se una persona maschile si percepisce femmina, deve essere trattato da donna e dunque possiede tutti i diritti che avrebbe un essere femminile, il tutto senza aver nemmeno effettuato un percorso di transizione. In alcuni Stati esteri, dove questo disegno di legge è stato approvato, abbiamo delle esperienze interessanti, poiché tali nazionalità stanno compiendo una marcia indietro. Il Regno Unito dal 1992/93, in nomi e forme diverse, ha approvato la sostanza di questa nostra legge e stabilì il self identification, ovvero l’identificazione dichiarata della propria percezione sessuale senza affrontare eventuali esami medici. Dunque cosa è accaduto? Che nelle Chiese protestanti, alcuni monaci maschi – percependosi donne – pretendevano di recarsi nei conventi femminili delle monache; oppure nello sport uomini i quali – percependosi donne – gareggiavano nelle competizioni femminili, stravincendo le gare.
In Inghilterra una donna di 23 anni di nome Keira Bell sta intraprendendo un’azione legale contro una clinica di genere del NHS affermando che avrebbe dovuto essere contestata di più dal personale medico per la sua decisione di passare durante l’adolescenza, al sesso maschile. Così a Londra è arrivato uno stop definitivo alla riforma del Gender Recognition Act, dove veniva chiesto di ammettere il cosiddetto 'self-id' o autocertificazione di genere: in parole povere la possibilità per chiunque di decidere in totale libertà a quale genere appartenere, a prescindere dal proprio sesso biologico e senza alcun atto medico, diagnosi, perizia o sentenza (esattamente quello che il ddlzan – art.1 - vuole attuare). Il governo britannico ha recentemente ribadito che il Gender Recognition Act va benissimo così com’è, quindi che la transizione deve continuare a essere accompagnata e certificata da esperti. Altra stoccata dei britannici al ddlzan arriva sul fronte educativo: dalla fine di settembre 2020 il Dipartimento inglese per l’Educazione ha definitivamente bandito dalle scuole statali ogni formazione sulla cosiddetta identità di genere. Si è riconosciuto infatti che quella formazione rafforza, anziché demolire, gli stereotipi di genere, ed è stata dichiarata pericolosa per i minori. Le nuove linee guida stabiliscono che «non si possono rafforzare dannosi stereotipi di genere per esempio suggerendo che i bambini potrebbero appartenere a un genere diverso basandosi sulla loro personalità, sui loro interessi, sui vestiti che preferiscono indossare». In Italia rischieremmo di vedere alcune bimbe all’interno di uno spogliatoio femminile - in una data palestra -, cambiarsi insieme ad un uomo che si percepisce donna. Qualora il genitore di queste due bimbe si recherebbe a protestare con il proprietario della palestra, quest’ultimo non solo potrà rivendicare il permesso e il diritto di quell’uomo di spogliarsi davanti a due bambine, ma addirittura il genitore potrà essere accusato di omo-trans-lesbo-bi-fobia, poiché va a discriminare quell’uomo che si sente donna – che non ha fatto il percorso di transizione – che si spoglia davanti ai suoi figli. Difatti la vera differenza tra genere e sesso, sta che nel primo vi è una costruzione ideologico-mentale dell’uomo, mentre nel secondo si ha una natura organica la quale può suddividersi unicamente in maschio e femmina, non nei 58 generi “percepibili”. Dunque, possiamo tornare al richiamo del Vaticano circa l’art.7 del DDLZAN, poiché tale articolo, oltre a stabilire istituzionalmente la giornata lgbt, stabilisce anche che in tale giornata “devono essere organizzate cerimonie, incontri e altre iniziative da parte delle amministrazioni pubbliche e in particolare della scuola”: ciò vuol dire che nella scuola dovranno essere effettuati dei corsi di preparazione per la giornata dell’omotransfobia, dove i bambini vengono educati a dire che il sesso è un elemento biologico che ha poco valore al giorno d’oggi, poiché il massimo valore risiede nella scelta dell’identità di genere. L’imposizione invece di coinvolgere l’amministrazione pubblica risiede nell’obiettivo di poter poi spammare pubblicità lgbt in tutti i luoghi pubblico-istituzionali, come le ferrovie, aziende sanitarie, poste italiane, gli aeroporti, i municipi ed altre strutture di carattere istituzionale: sarà tutto consentito, poiché tutti devono essere educati all’identità di genere, compresa la stampa e i giornalisti, che perderebbero così uno dei diritti fondamentali della loro professione: la libertà di espressione in coscienza. Non si potrà più scrivere omosessuale, né femmina, ma si dovrà arrivare a scrivere “persona che mestrua”. Questo è indottrinamento ideologico, paritario alla propaganda del ministro del partito nazionalsocialista Paul Joseph Goebbels (1897 - 1945). In Italia ricordiamo tutti gli anni del 1925-26, nei quali sono state scritte le leggi fascistissime, la mistica fascista, dove non si poteva dire nulla che non fosse assolutamente in linea con quello che – ad oggi – il pensiero unico imponeva. Oggi non si vuole più usare l’olio di ricino e il manganello, ma il reato penale. Affermare, passato il ddlzan, che l’utero in affitto è pratica abominevole, comporterà una condanna dai 4 ai 6 anni, con tutte le penali aggiuntive come il ritiro del passaporto, l’impossibilità di lasciare il Paese, intercettazioni ambientali-telefoniche.
Bisogna dunque riporre al centro del dibattito la questione antropologica. Papa Benedetto XVI nel suo Caritas Veritatae, con un’argomentazione profondamente laica, affermò come la questione sociale sia radicalmente una questione antropologica. Difatti una certa cultura, in questi anni, ha lavorato per confondere, per dividere: si ricordi ad esempio la legge sulle Unioni Civili. Non a caso i padri costituenti alla nascita della Repubblica italiana, nell’art.3 scrissero come “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Oggi si è messo in dubbio l’uomo stesso, la sua definizione, poiché si è fatto piovere una serie di contaminazioni dentro un’ideologia che sta diventando sempre più pericolosa e che sarà sulle spalle delle future generazioni. Dunque con l’imposizione della legge penale (non civile) lo Stato italiano – utilizzando risorse economiche e sfruttando tutte le sue strutture – avrà il compito, secondo il ddlzan, non di orientare e mettere a confronto le persone, ma di imporre questa ideologia. Oltre la loro ideologia non vi possono essere altri pensieri, poiché o ci si adegua, oppure si va nel penale, colpendo così il pensiero dai contorni facili: “vengono colpiti gli odiatori”, ma chi sarebbero questi odiatori? Coloro che hanno un pensiero diverso da questa ideologia? Di contro tutti noi dobbiamo tornare liberi e forti interiormente e non essere schiacciati dal fango che ci verrà buttato addosso dal sistema Europa, il quale già da anni ha adottato di imporre questa politica lgbt/gender. Introdurre reati di opinione è qualcosa di terribile, in primis perché chi sarà a definire che quella frase espressa può creare discriminazione? Si lascerebbe ai giudici un’eccessiva discrezionalità in materia; inoltre vi è un articolo della Costituzione che afferma che il reato penale diviene tale per un fatto e non per un’idea. Bisogna dunque iniziare a capire cosa sarà vietato e cosa non sarà vietato: non si può rimanere sul relativismo, poiché è in gioco la libertà di espressione di ogni singolo cittadino ed anche il diritto fondamentale – garantito dalla costituzione – in cui ogni genitore, papà e mamma, ha il diritto di educare il proprio figlio. In politica il partito Democratico e il Movimento 5 Stelle, portano avanti questo disegno di Legge, addirittura proponendo anche la rimozione dell’ora di religione, sostituita dall’orientamento lgbt. Per paradosso esiste un mondo femminista che è contrario, un mondo comunista che è contrario, un mondo radicale che è contrario e c’è un mondo filosofico progressista contrario; oltre chiaramente al già citato Vaticano, il quale operando quella nota, si è fatto interprete di milioni di famiglie cattoliche italiane che sono molto preoccupate per l’educazione dei loro figli, per quello che potrà avvenire nelle scuole cattoliche private e paritarie. La metodologia utilizzata dal Vaticano è stata una nota riservata, che qualcuno ha pensato bene di fare uscire. Una nota messa per iscritto che non doveva essere pubblicata. Molte difatti sono le denunce dei genitori per quello che accadeva nelle scuole, ossia che le associazioni lgbt entravano nei plessi scolastici con la scusa della lotta al bullismo per poi fare dei veri e propri corsi di ideologia gender, dove ogni bimbo non doveva sentirsi maschio o femmina, ma poteva scegliere cosa diventare.
Cambierà anche la terminologia: non si potrà più parlare di “utero in affitto”, ma di “gestazione per altri”; come oggi non si parla più di aborto, ma di “interruzione volontaria di gravidanza”: delle belle parole come un lupo travestito da pecora. Parole che celano un imbarbarimento dei costumi della società occidentale, sempre più “barbarizzata” in nome dell’amore, termine che insieme alla “democrazia” viene sempre più abusato per ogni genere di scopo. Ma perché tutto questo? Perché l’Europa ha scelto di affidarsi alle grandi aziende del Capitale, le quali – per mero marketing – portano avanti l’ideologia lgbt, dove il ddlzan – come affermato dagli organizzatori del Pride di Milano – è solamente il primo di una serie di passaggi, come la modifica della Legge 40 per la realizzazione dell’utero in affitto, l’adozione delle coppie omosessuali e il matrimonio egualitario. Vi sono intellettuali, non a torto, che vedono anche in questa ideologia un manifestarsi del così detto uomo androgino, di una certa matrice massonica, oppure se vogliamo osservare il tutto da un lato religioso cattolico, l’incarnazione dell’anti-Cristo, della bestia, la quale ha entrambi i sessi: difatti Bafometto, uno dei diavoli che insieme a Lucifero si rivoltò contro Dio, possiede entrambi i sessi e viene adorato da diverse chiese sataniste, stesso satanismo considerato oggi dall’Europa odierna una mera religione come tutte le altre (relativismo).
Al di là di come la si ragioni, quale sembrerebbe l’obiettivo finale di questo movimento? La distruzione della famiglia tradizionale per come noi oggi la intendiamo (uomo-donna-figlio). Difatti la famiglia appare essere l’ultimo baluardo – come afferma Jacopo Coghe, portavoce di Pro Vita famiglia –, contro questa società secolarizzata, schizofrenica, che l’Europa rappresenta pienamente con il trio politico di Macron-Merkel-Draghi. Un padre e una madre sacrificano la propria vita per un figlio gratis, senza chiedere in cambio nulla: contrariamente il capitalismo preferisce avere delle persone singole, manipolabili, sradicate dalla propria tradizione, dalla propria cultura, dalla propria identità e dal proprio vissuto, poiché l’individuo viene visto come un mero consumatore (nasci-consumi-muori). Dunque bisogna in un certo modo, soprattutto, osservare al di là della siepe chiamata ddlzan, poiché la famiglia, perno anche della Chiesa Cattolica, è messa fortemente in pericolo da questa proposta di legge. Il mainstream, ovvero il pensiero prevalente diffuso dai media, segue chiaramente questa logica, poiché inserendo nel logo della propria azienda, la bandiera arcobaleno, ha una maggiore visibilità e vende di più, poiché personaggi noti al mondo dello spettacolo ne hanno fatto un vero e proprio guadagno di mercato. Certamente abbiamo degli esempi di aziende che si sono apposte a questa ideologia e sono state punite: il 2013 è stato l’anno del caso Barilla: la dichiarazione del CEO Guido Barilla durante la trasmissione radiofonica La Zanzara (“non faremo pubblicità con gli omosessuali”) scatenò un polverone mediatico che obbligò l’azienda a porre le proprie scuse. Quell’anno lo ricorderemo certamente tutti per la presa di posizione da parte di numerose aziende concorrenti a suon di hashtag #boicottabarilla corredati da immagini e spot gay friendly. Tra queste aziende, ci fu Garofalo con il celebre motto «a noi non importa con chi la fai. L’importante è che la fai al dente»! Ed in tutto questo è triste osservare come la sinistra abbia attualmente un vero e proprio scollamento dalla realtà. Il mondo progressista, invece di tornare a proteggere la fascia meno abbiente della popolazione, si sforza di inseguire dinamiche astratte, proprio per la mancanza di realtà e vicinanza allo stesso popolo, cavallo di battaglia della sinistra ai tempi di Pasolini e Berlinguer. In un Paese in cui molte famiglie non riescono ad arrivare alla fine del mese, in un periodo di pandemia, un governo non eletto propone una legge divisiva, pericolosa e sostanzialmente inutile, non avendola inserita nemmeno nella loro agenda di governo delle ultime elezioni, che il mondo progressista perse sonoramente. Siamo ancora in una democrazia?
Non sappiamo se in Italia possa ancora vigere uno stato democratico, ma sicuramente in Europa Polonia e Ungheria rappresentano ancora – tramite libere elezioni – una fiamma di speranza per l’autodeterminazione dei popoli: per questo l’Europa ha sanzionato l’Ungheria dopo le recenti leggi emanate, grazie alla maggioranza parlamentare, a Budapest. Chi non si conforma ad un pensiero unico, creato da un élite minoritaria deve essere dileggiato e oscurato. Che diritto ha l’Europa ad imporre ad uno stato la teoria Gender? Che ricordo, appunto, trattasi di teoria e non di verità assoluta. Ebbene nessuno. Un popolo deve essere libero di accettare o non accettare le proposte di una comunità, senza essere discriminata e sanzionata. Questo è il nuovo nazismo e come negli anni Trenta, nessuno se ne rendeva conto e tutti sbandieravano le bandierine con la svastica. Oggi la svastica ha cambiato colore e ha tinte arcobaleno. La politica ungherese, deve essere rispettata perché votata (a differenza nostra) dal popolo tramite libere elezioni. Se così non fosse l’Ungheria sarebbe già stata espulsa dall’Unione da tempo. Le leggi di Orban sono l’esatta nemesi di quello che l’Europa sta cercando (nel vero senso della parola) di imporre a tutti gli stati membri. Ciò è una dittatura ideologica. Non solo: di recente dodici paesi d’Europa hanno firmato un attacco nei confronti del presidente Viktor Mihály Orbán (1963) proprio per la suddetta legge citata pocanzi, uno scritto che prevede la lotta al contrasto alla pedofilia, il primato educativo dei genitori nelle scuole e che in nessuna scuola della Repubblica Ungherese debbano essere insegnate teorie che vanno contro la norma della sessualità biologica. Questa legge è stata interpretata come discriminante, in contrasto con il Trattato di Maastricht (1992) che fondò l’idea che tutti i cittadini dell’Europa sono uguali. L’Italia inizialmente non aveva firmato questa lettera, poi magicamente la venuta in Italia del presidente della Commissione Europea Ursula Gertrud von der Leyen (1958), ha “convinto” Mario Draghi ad apporre la firma sul documento, ponendo al primo Ministro Italiano – come ringraziamento – un prestigioso riconoscimento internazionale.
[caption id="attachment_12453" align="aligncenter" width="1000"] Sedici capi di Stato e di Governo dell'Unione europea, tra cui il presidente del Consiglio, Mario Draghi, hanno scritto una lettera ai vertici dell'Ue (presidenti di Consiglio europeo, Commissione e Consiglio Ue) per riaffermare il loro impegno per la difesa dei diritti Lgbti. In particolare si impegnano a "continuare a combattere la discriminazione nei confronti della comunità Lgbt, riaffermando la nostra difesa dei loro diritti fondamentali". L'iniziativa non menziona esplicitamente la legge varata di recente da Budapest, ma arriva prima del vertice Ue, dove sarà sollevato il tema. La lettera di Draghi e altri 15 leader europei parla chiaro: "Per discriminazione e odio non c'è posto nell'Ue". Quindi una vera e propria imposizione legislativa verso tutti i paesi, ma in nome di cosa? E di quale fantomatico "diritto superiore"?[/caption]
Tornando al nostro paese, non possiamo, non dobbiamo, non vogliamo accettare una legge egoistica, edonistica e relativista che pensa che attraverso una legge si possano esaudire i propri desideri. Mi piace concludere questo scritto con una grande citazione di Gilbert Keith Chesterton (1874 - 1936) dal suo capolavoro Eretici del 1905: «La grande marcia della distruzione intellettuale proseguirà. Tutto sarà negato. Tutto diventerà un credo. È una posizione ragionevole negare le pietre della strada; diventerà un dogma religioso riaffermarle. È una tesi razionale quella che ci vuole tutti immersi in un sogno; sarà una forma assennata di misticismo asserire che siamo tutti svegli. Fuochi verranno attizzati per testimoniare che due più due fa quattro. Spade saranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate. Noi ci ritroveremo a difendere non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Combatteremo per i prodigi visibili come se fossero invisibili. Guarderemo l’erba e i cieli impossibili con uno strano coraggio. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto»1.
 
Per approfondimenti
_Chesterton G. K., Eretici, Lindau, Torino, 2010, pp. 242-243
 
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

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di Giuseppe Baiocchi del 03-02-2021

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Mario Draghi (1947), romano, ha accettato con riserva l’incarico – concessogli dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella – per la nuova formazione del nuovo Governo per l’anno solare 2021. Al netto dell’autorevolezza del personaggio, il quale vanta un curriculum vitae forse tra i più invidiabili in circolazione, la Repubblica italiana è dalla XVI Legislatura bloccata da Governi tecnici o Governi non eletti: si guardi al Governo Monti (2011-12), al Governo Letta (2013-14), Renzi (2014-16), Gentiloni (2016-18), Conte I (2018-19) e Conte II (2019-21).
La totalità dei media italiani suonano squilli di tromba trionfali, asserendo come in questo momento di emergenza – l’Italia vive in uno Stato emergenziale dal 1946 –, la soluzione “tecnica” sembra inevitabile, scontata, “responsabile”. Come affermavano i latini De gustibus non est disputandum.
Con Mario Draghi, addirittura individuo più europeista di Giuseppe Conte, l’Italia grida presente all’Europa. Un ente, quello europeo a cui l’Italia si è affidata già da parecchio tempo ed a cui continua – per usare termini bollati come “populisti” – a versare sangue nel più tradizionale romanzo gotico di stokeriana memoria.
Ironie: Sua Eccellenza l’Arcivescovo da domani alle 12 consentirà l’esibizione al pubblico - presso il museo diocesano - della sua collezione di Draghi impagliati.
Il Paese Italia, araldo dell’Euro-zona, è costretto a finanziarsi con una moneta di cui non possiede il controllo dell’emissione (art. 128 TFUE), e che viene procurata solo ed esclusivamente sui mercati finanziari con l’emettendo di titoli di Stato a tassi d’interesse che rispondono alle logiche speculative degli “animal spirits” di keynesiana memoria. Tali trattati, oramai del datato credo liberista vietano infatti alla Banca Centrale Europea (BCE) di finanziare l’investimento pubblico acquistando direttamente titoli di Stato sulle aste primarie, cioè monetizzando la spesa degli Stati (art. 123 TFUE).
Dunque molto prima di Draghi, già l’Italia nel 1981 aveva sancito – con brindisi di europeismo antinazionale – la divisione tra il Tesoro e la Banca d’Italia, iniziando quel processo a valanga chiamato semplicemente “debito pubblico” dato dall’aumento del costo di finanziamento dello Stato.
La firma in Olanda del trattato di Maastricht (1992) ha fatto sì che l’Italia abbia consegnato la ricchezza nazionale nelle mani di mercati speculativi, trasformando il danaro in risorsa scarsa che lo Stato presentava “a prestito” dai privati: non è un caso che dal 1971 abbiamo una moneta sganciata dalla risorsa scarsa dell’oro, la quale si crea dal nulla – senza debito pubblico.
Fu proprio il nuovo eroe nazionale Draghi – per parafrasare le testate giornalistiche nazionali – che varò il celebre allentamento quantitativo, accreditando da una camera scura migliaia di miliardi di euro sul conto di riserva delle banche commerciali presso la Banca Centrale Europea.
La crisi pandemica legata al COVID19 ha semmai ulteriormente confermato che non sussiste nessun requisito geopolitico, né spirituale per una solidarietà para-nazionale che possa estrinsecarsi su scala continentale. Ciò che viene effettivamente offerto all’Italia è un Meccanismo di Stabilità a condizionali ridotta: una trappola che il nostro Paese doveva assolutamente evitare e che con Draghi diversamente attuerà (si guardi il MES).
Proprio quest’ultimo sembra la grande ghigliottina che ci aspetta tra le urla festanti dei giacobini: l’attivazione di tale meccanismo presuppone, secondo le norme del trattato che lo disciplinano, l’accettazione di un protocollo d’intesa – definito “programma di correzioni macroeconomiche” -, con cui lo Stato ricevente s’impegna al “consolidamento fiscale” e, nel caso di alto rapporto debito/PIL, alla “ristrutturazione del debito”. In traduzione corrente, tale descrizione sta ad indicare l’attuazione di grandi tagli alla spesa pubblica, alle politiche sociali, alla sanità, alle infrastrutture e ulteriori privatizzazioni, con effetti destabilizzanti sul tessuto economico e sociale. Ironico il suo soprannome: Meccanismo di instabilità.
Quello di Draghi era un profilo gradito in tutta Europa. Durante l’estate si era ingraziato i paesi indebitati dell’eurozona appoggiando la decisione del suo predecessore di effettuare acquisti straordinari per sostenere il valore dei loro titoli di stato. Allo stesso tempo, però, aveva evitato l’inimicizia dei paesi ricchi del Nord firmando insieme a Trichet le dure lettere in cui la BCE elencava le riforme e i tagli di spesa che i vari governi dovevano impegnarsi a fare per avere accesso ai programmi di acquisto straordinario. Come hanno raccontato Alessandro Speciale e Jana Randow nella loro biografia di Draghi, L’Artefice, il futuro governatore della BCE riteneva di aver capito quale fosse la ricetta del successo. Ad alcuni amici spiegò che bisognava abbracciare la linea dura tedesca, dimostrandosi allo stesso tempo sensibili verso i problemi della periferia europea. Il risultato fu che quando a novembre Draghi si insediò ufficialmente nella Eurotower di Francoforte, il popolare tabloid tedesco Bild, che sarebbe diventato poi il suo più feroce critico, gli regalò un pickelhaube, il famoso elmetto chiodato di cuoio e ottone indossato dai militari prussiani (l’elmetto era un cimelio storico e risaliva alla guerra del 1870 tra Prussia e Francia).
Dunque sembra tramontato il progetto di emissioni straordinarie di titoli, sulle aste primarie, per almeno 100 miliardi. Ovvero l’emissione dei Minibot, quei biglietti di Stato aventi corso legale (cioè ad accettazione obbligatoria) esclusivamente sul territorio nazionale per l’acquisto di beni e servizi, avrebbe comportato il più classico potere legislativo di uno Stato sovrano. Si trattava dunque dell’emissione di denaro senza debito che de facto non avrebbe violato la lettera dell’art. 128 del TFUE, poiché non si sarebbe denominato in euro avendo un corso legale solo entro i confini nazionali, e non nell’Eurozona. Insomma, biglietti di Stato, messi in circolazione dal Ministero delle Finanze e garantiti dalla Stato in attesa del ripristino della piena funzionalità della Banca d’Italia. Si avrebbero così due monete a corso legale in circolazione sullo stesso territorio nazionale, come nei primi tempi della moneta unica, fino a quando non si sarà pronti a ripudiare il corso legale dell’euro.
Sicuramente l’Europa – oramai più matrigna, che madre –, avvertendo il rischio di una deriva italiana assolutamente non contraria, ma semplicemente non allineata, con la tecnocrazia di Bruxelles, ha pensato bene di “felicitarsi ampiamente” per la scelta fatta dall’Italia di inserire il deus ex machina europeo per eccellenza Mario Draghi, antico studente dei gesuiti, come nuova guida per il Paese, per apportare il giusto “coraggio” nelle scelte obbligate che la penisola deve contrarre con l’Unione Europea. Draghi certamente è unicamente il prodotto finito di un processo: quello della perdita della Sovranità economica, prodomo di un abbattimento dello Stato nazionale, seguito da uno smarrimento culturale e sociale. Pessimismo cosmico leopardiano? Nulla affatto.
La nostra società, italiana ed europea, non è minata solo dal nostro mero dato economico, ma in egual misura da quello sociale e culturale. Viviamo in una società secolarizzata, orizzontale, piatta che persegue esattamente i principi illuministici, quindi massonici, della Rivoluzione francese e che – parafrasando il tutto in chiave contemporanea – potremo riassumere con la volontà (non immediata) di voler imporre una società multietnica, multirazziale, fondamentalmente atea e panteistica con il nuovo mito dell’uomo androgino: una società dove il femminismo è di casa e la macchina del fango sempre pronta in azione.
Tale sistema per riuscire totalmente nel suo intento – ammesso che già non abbia stravinto la sua sfida storica –, sta usando i mezzi di informazione come “propaganda Goebbels”.
Non è un caso che la piattaforma cinefila Netflix – insieme a tutte le marche di moda (tramite i cartelloni pubblicitari) – oggi proponga sotto la luce del giorno e con totale normalità, film e serie tv – di carattere storico – totalmente fantasiosi e devianti.
Se inquadrabile in tre grandi macro-filoni, i film propinati indicano innanzi tutto un elemento totalmente relativista dove – soprattutto oggi – il male non è più il male e il bene non è più il bene (si guardi Dracula o altre serie tv). Non esiste più il mito dell’eroe europeo, senza macchia, intriso di valori morali ed etici che è di insegnamento al lettore, ma si assiste ad un modesto “antieroe” un po' buono ed un po' cattivo che guida la trama degli eventi. Dunque la mistificazione tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato: tutto è relativo. Non a caso un grande scrittore britannico come Gilbert Keith Chesterton (1874 - 1936) nel suo capolavoro Ortodossia asseriva come: «Questa è anche la ragione per cui i nuovi romanzi muoiono così velocemente, mentre le vecchie fiabe durano per sempre. Nella vecchia fiaba l'eroe è un comune mortale; sono le sue avventure a essere straordinarie, e lui rimane turbato perché è ragazzo normale. Ma nel romanzo psicologico moderno l'eroe è anomalo, e l'elemento centrale della storia non è centrato. Ecco perché le avventure più sfrenate non riescono a sortire un effetto adeguato su di lui, e il libro risulta monotono. Si può creare una storia su un eroe circondato da draghi, ma non su un drago circondato da draghi. La fiaba racconta che cosa farà un uomo sano di mente in un mondo impazzito. Il sobrio romanzo realistico di oggi narra che cosa farà un uomo sostanzialmente matto in un mondo monotono».
[caption id="attachment_12370" align="aligncenter" width="1000"] Elliot Page, l'attore nominato all'Oscar meglio conosciuto per il film del 2008 “Juno”, è uscito come transgender, condividendo la notizia in un lungo post sui social media. Page, 33 anni, che è stata accreditata in ruoli cinematografici e televisivi come Ellen Page, attualmente recita nella serie di supereroi di successo di Netflix "The Umbrella Academy". Pochi istanti dopo il suo annuncio, sia il servizio di streaming che l' account Twitter dello show hanno twittato il loro supporto: “Sono così orgoglioso del nostro supereroe! TI AMIAMO ELLIOT! Non vedo l'ora di vederti tornare nella terza stagione! " ha scritto Netflix.[/caption]
Secondo punto del filone è quello del ritorno al mito pagano-barbarico, del ritorno al primitivismo, datoci da serie tv, nelle quali germani o celti, in sostanza barbari, combattono l’impero romano (fonte di inesauribile civiltà per la nostra cultura), spesso lo vincono e che ci ricordano le antiche tesi, oramai smentite, di Jean-Jacques Rousseau e del suo “mito del buon selvaggio”. Anche qui ci perviene il simbolo del tatuaggio, del piercing, della donna leader indiscussa anche in battaglia (sic!) e di quanto questa civiltà decadente possa proporci. Ultimo, ma non meno importante, l’inserimento di elementi trans-gender e multi-razziali in tutti i film storici propinati. L’obiettivo in questo caso è quello di far entrare nella memoria collettiva che il nostro continente ha avuto sempre sia gli uni, che gli altri: il che ovviamente è falso.
Con tale, raffinato, sistema di controllo e monitoraggio della cultura e della società tutta, in breve tempo le future generazioni, non ricorderanno più che il francese Arsenio Lupin è un ladro gentiluomo protagonista (e soprattutto di pelle bianca) ideato da Maurice Leblanc nel 1905, ma semplicemente diverrà il nero Assane Diop della Netflix: rivisitazione della classica storia francese del ladro gentiluomo, che purtroppo dall’abbigliamento appare poco gentiluomo e pochissimo ladro.
Questo per far comprendere semplicemente che l’obiettivo finale, che spero noi di questa generazione non ricorderemo, sarà quello di creare – seguendo i diritti utopici dell’uomo e del cittadino – una società mondializzata, all’interno della quale non vi sia più uno Stato-nazione (forma statale creata dalla stessa Rivoluzione Francese, ma oramai per gli stessi fondatori datata); non vi sia più una razza distinta con le proprie etnie sottostanti, ma un’unica razza: quella fantasiosa definita “umana” (vi è la Specie umana: piccoli rimasugli di antropologia. Per Darwin, non proveniamo forse dagli animali? Eppure non si può quasi più parlare di razze!); infine l’eliminazione (già in corso: genitore 1, genitore 2) del genere: non più dunque l’uomo e la donna, ma l’uomo androgino, il potente, ma sterile, umanoide fornito da entrambi i sessi, come uno dei diavoli sconfitto dal Principe delle Milizie Celesti San Michele Arcangelo. Non è certamente un caso che siamo prossimi all’approvazione in senato del Ddl Zan-Scalfarotto, il testo di legge che si aggiunge alla legge Mancino con alcune modifiche, quali il genere, l’orientamento sessuale e l’identità di genere e che vuole sanzionare gesti e azioni violenti di stampo omo-transfobico. Appare lampante che si tratterebbe di una legge per una parte esigua e minoritaria – non superiore allo 0,2% della popolazione – totalmente anti-costituzionale, come più di un giurista ha effettivamente proclamato. Eppure tale legge non era stata mai inserita all’interno dell’accordo di programma del Conte I, governo – come precedentemente affermato -, mai eletto dai cittadini. Possiamo dunque parlare di democrazia diretta?
Dunque tale appiattimento etnico, culturale e soprattutto consapevole è mirato propriamente al controllo delle masse. Popolazione che è oramai ai minimi storici per la lettura, per la comprensione del testo – con la scuola ridotta ad un quiz televisivo – e per la capacità di elaborazione cognitiva. Una popolazione che perde il proprio Io, non percepisce più la propria provenienza, elimina il fuoco della tradizione, si spoglia dell’elemento del sacro, è destinata a scomparire. “L’altro da me” diviene arricchimento, solo unicamente quando l’individuo è ben consapevole della propria dimensione storico-cultuale: contrariamente avviene l’esatto opposto, “l’altro” ti fagocita.
Questa sembra la nostra triste fine. Non ci saranno rivolte – per quanto romanticamente se ne parli nei caffè – e sapete perché? Perché questo sistema è sufficientemente arguto e professionale da lasciare non solo la libertà di espressione (che nel muro di gomma del web si perde e dunque diviene elemento sostanzialmente inutile), ma grazie ai “sussidi” concede in misericordia un pasto caldo a tutti: le grandi rivolte sono sempre avvenute per fame.
L’eliminazione dell’identità avviene non solo nel campo economico e in quello culturale, ma in tutte le discipline, quali l’architettura e l’arte. Non è un caso che l’architettura internazionalista, ovvero “razionale”, dell’angolo retto, dal colore bianco e dal tetto piano, sia oramai una costante che rovina i nostri paesaggi. Difatti tali architetture se traslate in altri punti terrestri del globo, apparrebbero sempre gli stessi e non darebbero nessuna identificazione di matrice tipologica, vernacolare e soprattutto di identità culturale di un popolo che nell’architettura si è sempre saputa riconoscere e far conoscere. Diviene pacifico che in un mondo ideale globalizzato, anche nell’architettura tutto deve divenire ugualitario, identico, senza più differenze materiche, metriche, stilistiche o decorative. Stesso procedimento con l’arte, dove l’astrattismo più analitico è oramai padrone della scena. Dipinti, di cui non si comprende oramai più nulla, sono sponsorizzati come grandi opere d’arte, in cui il pathos è da lungo tempo scomparso e l’unica felicità dell’acquirente è quella di leggere la didascalia del dipinto per possedere quella “felicità nozionistica” oramai di moda. Tale sottocultura si è oramai ramificata in tutti i settori disciplinari della società e tale sistema, statene certi, imploderà unicamente dal di dentro.
 
[caption id="attachment_12371" align="aligncenter" width="1000"] Nell'aprile 2019, "l'attivista per l'ambiente" Greta Thumberg,16enne, mostra in San Pietro lo slogan "Unitevi allo sciopero per il clima". E riceve la benedizione del Papa: "Vai avanti così". Le tematiche socio-politiche prendono la priorità su quelle dell'interiorità e dell'anima.[/caption]
Ultima, ma non meno importante è Santa Romana Chiesa, la quale è scesa dal ruolo divino, verticale, Santo, ultraterreno e si è fatta materia, socialità, partito. Papa Francesco incarna certamente tutta questa società, essendo un Pontefice duro nella realtà ecclesiale e sorridente ai media, un ottimo attore del sistema che ci circonda che parla solo di ambiente, migranti, politica e poco o niente di santi, miracoli, liturgia (ammesso che ne abbiamo ancora una), dottrina sociale della Chiesa. Per questo ultimo settore, quello ecclesiastico, unicamente un miracolo della provvidenza può certamente – in qualsiasi momento – rimettere le cose a posto.
La nostra società dunque appare in caratteri molto più parossistici come il capolavoro letterario mitteleuropeo di Joseph Roth “La marcia di Radetzky” (1932), nel quale le ultime generazioni non sono che un sole pallido delle precedenti: sempre peggio, sempre verso il baratro, simbolo di un’Italia sempre più “espressione geografica”, ritrovandosi con giustezza nelle parole di Klemens von Metternich (1773 - 1859). 
   
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di don Mauro Tranquillo dello 03-11-2020

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La parola chiave dell’ultimo anno del regno di Papa Francesco, apparentemente privo di grandi documenti dottrinali, è stata pronunciata dal Pontefice durante un evento che, nell’economia di questo pontificato, si potrebbe giudicare “minore”. Si tratta della 68ma Settimana liturgica nazionale, organizzata dal “Centro di azione liturgica”, presieduto dal noto Mons. Claudio Maniago (1959). Uno di quei movimenti nati poco prima del Concilio (1947) per diffondere le idee nuove del movimento liturgico in Italia.
[caption id="attachment_12277" align="aligncenter" width="1000"] Don Mauro Tranquillo, è sacerdote, della Fraternità Sacerdotale di San Pio X, ordinato dal vescovo Bernard Fellay nel 2002 a 24 anni. È un catechista con formazione tomista e risiede a Montalenghe (TO), dove svolge lezioni di catechismo.[/caption]
In questa occasione (il 24 agosto 2017 nell’aula Paolo VI) Papa Francesco ha pronunciato un discorso piuttosto banale nel contenuto, dove ribadisce le linee ormai classiche della nuova concezione della liturgia. Ne riassumiamo il contenuto perché rivelatore, prima di arrivare alla questione che ci interessa. Papa Bergoglio in primo luogo ci ricorda che i cambiamenti del rito conciliare sono “sostanziali” e non “superficiali”, esattamente come diceva Mons. Marcel François Marie Joseph Lefebvre (1905 - 91), e contrariamente alla vulgata “ratzingeriana” che parlava di “due forme dello stesso rito”. Poco oltre il Papa affermerà che non si è trattato solo di riformare i riti liturgici, ma di “rinnovare la mentalità”. Educare il popolo a sentire il soffio dello spirito, che i “profeti” hanno percepito prima del popolo stesso, è sempre stata una delle missioni del pedagogo modernista, populista per eccellenza.
Il discorso procede con uno dei concetti chiave del modernismo: i cambiamenti conciliari sono stati frutto del «bisogno», dovuto «ai disagi percepiti nella preghiera ecclesiale», che ha creato la «necessità di mettersi in moto». Come abbiamo visto e vedremo, fonte della rivelazione e voce dello Spirito Santo è sempre comunque il “bisogno” del popolo, nel quale risiede il divino, non certo dei princìpi rivelati da Dio a cui fare riferimento oggettivo. Che poi tali bisogni siano in realtà indotti da organi di influenza, dei quali il “Centro di azione liturgica” è un tipico esempio, è discorso che svela a chi giovi il modernismo nella Chiesa. Il Papa dice anche che Concilio e riforma liturgica sono «direttamente legati»: in questo senso dovrebbero restare “direttamente legati” anche il rifiuto della nuova messa e del Concilio, mentre le diaboliche operazioni del 1984 (indulto di Giovanni Paolo II) e del 2007 (motu proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI) sono riuscite a separare le due cose con un’operazione che solo dei modernisti potevano concepire. In effetti è solo vuotando di senso il rito tradizionale che lo si può far celebrare a chi accetta anche il nuovo: poiché gesti e parole dei due riti sono evidentemente in opposizione di contraddizione tra loro, una mente umana li può accettare entrambi solo se li vuota di qualsiasi significato reale, se diventano solo simboli di emozioni o di esperienze interiori, e non significativi di realtà oggettive. Con queste parole Papa Francesco ci fa capire che accettare il nuovo rito e celebrare (od assistere) al vecchio significa necessariamente accettare la dottrina del Concilio, essendo le due cose “direttamente legate”. Il vecchio rito può sussistere solo se senza significato dottrinale proprio (ecco perché è “straordinario” rispetto a un “ordinario”: è l’ordinario che detta il significato allo “straordinario”).
Il Papa prosegue ricordando i princìpi ispiratori della riforma liturgica: in primo luogo la «partecipazione del popolo». La liturgia, dice, è «per sua natura popolare, non clericale»; è azione non solo per il popolo ma del popolo, l’assemblea del quale (seguendo il Messale di Paolo VI) rende presente il sacerdozio del Cristo al pari della presenza del ministro consacrato.
Concetti chiaramente protestanti, visto che per la dottrina cattolica la liturgia è azione del Cristo tramite il sacerdote ordinato, certo in favore del popolo battezzato, che però non è attore ma unicamente passivo ricettore dei beni del culto ecclesiastico. Sappiamo come il mito della “partecipazione del popolo”, usato in un primo tempo in modo ambiguo, sia poi diventato uno dei fattori determinanti del nuovo rito, per espressa dichiarazione di Paolo VI, che riteneva tale criterio molto più importante della conservazione del patrimonio di Fede e Tradizione rappresentato dall’antica liturgia (cfr. i discorsi delle udienze del 19 e 26 novembre 1969). A questo concetto si ricollega l’idea più volte ribadita nel discorso di Papa Bergoglio per cui la liturgia è “vita”, esperienza, ha per agenti Dio e noi. Il sapore tipicamente modernista di tali affermazioni è chiaro a chiunque abbia anche solo sfogliato l’enciclica Pascendi.
Fin qui questo discorso non sarebbe stato molto diverso ai tempi di Paolo VI o di Ratzinger; quello che però ci preme sottolineare è l’uso dell’espressione che ha dato titolo e unità al nostro intervento: «possiamo affermare con sicurezza e con autorità magisteriale che la riforma liturgica è irreversibile». Di primo acchito ci viene da pensare che tali parole servano a chiudere autorevolmente la discussione sulla “riforma della riforma”, uno dei mitologici cavalli di battaglia del ratzingeriano medio, riesumata poco tempo prima di questo discorso del Papa dall’immaginazione del Card. Robert Sarah (1945), nel suo intervento al Convegno del Summorum Pontificum tenutosi a Roma il 14 settembre 2017. Lo stesso cardinale, come Prefetto della Congregazione per il Culto Divino, aveva tentato di dare un’interpretazione conservatrice al motu proprio Magnum principium del 3 settembre, con il quale il Papa aveva demandato totalmente alle conferenze episcopali la traduzione dei testi liturgici; interpretazione prontamente e pubblicamente smentita dal Papa con una lettera allo stesso Cardinale datata 22 ottobre.
[caption id="attachment_12301" align="aligncenter" width="1000"] Potere temporale: il 28-01-2017, Fra Matthew Festing (1949), già Gran Maestro dell’Ordine di Malta ha presentato le sue dimissioni al Sovrano Consiglio dell’Ordine di Malta, dopo che il Papa gli ha chiesto chiaramente di abbandonare il suo incarico. Le dimissioni di Festing sono arrivate dopo che nel dicembre dell'anno precedente l’Ordine aveva licenziato Albrecht Freiherr von Boeselager (1949), il Gran Cancelliere, con l’accusa di avere permesso la distribuzione di preservativi in paesi in via di sviluppo in Africa e in Asia da parte di una Ong che collaborava con l’Ordine. A quel punto, forse prendendo in esame la questione dei preservativi, Festing, in accordo col cardinale tradizionalista Raymond Leo Burke (1948), patrono dell’Ordine di Malta, avevano voluto l’allontanamento di Freiherr von Boeselager. Ma Papa Francesco non era mai stato d’accordo con questa decisione, anzi, pare non fosse proprio convinto della politica autorevole di Festing nell’affrontare le questioni interne all’Ordine. Per questo il Papa è intervenuto. Il Vaticano ha vinto la sua battaglia dentro l’Ordine di Malta. Ottenendo quanto voleva: le dimissioni del Gran maestro, Matthew Festing (in foto), e il reintegro del barone von Boeselager estromesso il 6 dicembre 2016.[/caption]
Sarebbe bello se effettivamente l’espressione “irreversibile” di Papa Francesco cancellasse il mito conservatore della riforma della riforma; d’altro canto non dobbiamo pensare che l’espressione preannunci una qualche ulteriore riforma del rito della messa, spauracchio agitato da quel mondo anti-bergogliano che però accetta tutte le riforme conciliari, e ha bisogno di legittimare la messa di Paolo VI creando una “nuovissima messa” da rifiutare, per ora solo nella propria immaginazione, onde distinguersi nel culto dall’attuale pontefice (del quale però condividono le premesse dottrinali).
In realtà l’aggettivo “irreversibile”, pronunciato con insolita solennità “magisteriale” (le virgolette sono d’obbligo), è la chiave di questa fase storica del modernismo, e non solo a riguardo della questione liturgica. Abbiamo attraversato diverse fasi del modernismo e del suo metodo dialettico, delle quali è stato indiscusso protagonista Joseph Ratzinger. Alla fase di rottura con la dottrina cattolica, al momento del Concilio, è succeduta una fase di sintesi, indicativamente tra la fine del pontificato di Giovanni Paolo II e quello di Benedetto XVI stesso, durante la quale è stata ricomposta (secondo la logica dei novatori) la contraddizione tra “Tradizione” e “Vaticano II”. Con un’operazione eminentemente dialettica, già più volte esaminata, si è arrivati a diffondere lo slogan della cosiddetta “ermeneutica della continuità” o delle “due forme dell’unico rito romano”. Parole che non intaccavano in nulla la vita reale della comunità ecclesiale, saldamente mossa dalle istanze più progressiste, ma che erano utili a fornire una sorta di “neo-ortodossia conciliare” alle forze refrattarie ad ulteriori cambiamenti, distogliendole dal ritorno a un paradigma veramente cattolico e tradizionale. Tale indimostrata e indimostrabile “ortodossia intermedia della continuità” sarebbe stata utile come punto di raccolta dei conservatori al momento dello scoppio della nuova fase di rottura, iniziata non con l’elezione di Papa Bergoglio, ma con quell’evento eminentemente rivoluzionario (per il modo in cui avvenne) che fu l’abdicazione di Benedetto XVI. In questa successiva ed attuale fase, il dibattito “Tradizione/Concilio” (usiamo questi termini semplificatori per pura convenzione) appare ormai chiuso, sostanzialmente evacuato, irrilevante per la vita e l’esperienza ecclesiale odierna. Chi ha problemi con il nuovo corso può rivolgersi alla rassicurante ortodossia ratzingeriana, cosa che in effetti fanno gran parte degli oppositori di Papa Francesco, dai cardinali dei dubia fino ai Socci e ai don Minutella, con tutte le sfumature intermedie. Sul discorso precedente invece non si torna più, perché i risultati di quella fase dialettica sono ormai assorbiti da tutti (nessuno infatti di questi discute le dottrine conciliari) e considerati appunto irreversibili.
Di Amoris laetitia si può discutere, il Papa ci ha già assicurati che si tratta di un testo “tomista”. Nell’operazione “continuità”, affermarla è già crearla. Probabilmente agli oppositori una decina d’anni basterà a scomparire nell’isolamento, mentre tutta la Chiesa pacificamente se non entusiasticamente ha accettato e già da decenni pratica la comunione dei divorziati conviventi. Un’operazione molto simile a quella avvenuta nella prima fase di rottura, quella del Concilio. “Irreversibile” non è una novità perché detto della dottrina o della liturgia conciliare: nessun Papa modernista, da Paolo VI a Benedetto XVI, si è mai sognato di progettare un “ritorno indietro”. Irreversibile è parola che vuole autorevolmente chiudere una fase dialettica, indica che il tempo di vita di quel precedente dibattito è semplicemente scaduto. Alla “Tradizione” si possono anche fare concessioni, proprio perché è ormai fuori tempo e quindi innocua. Adesso bisogna impegnarsi sul fronte aperto da Amoris laetitia, naturalmente tagliando fuori dal discorso ogni contatto con la dottrina preconciliare. Si potrebbe esaminare la strategia di nomine episcopali, particolarmente in Italia, atta a eliminare ogni rappresentante dell’“ortodossia conciliare” da posti importanti, del tutto simile a quella operata da Paolo VI nell’immediato post-concilio: ma finiremmo per parlare di pura politica ecclesiale, mentre vogliamo focalizzarci sul processo di mutamento dottrinale in corso.
[caption id="attachment_12296" align="aligncenter" width="1000"] Interreligiosità: Nel testo del discorso di Papa Francesco I alla comunità ebraica nella Sinagoga di Roma, andato in scena il 18-01-2016, il Pontefice Massimo afferma come "Voi siete i nostri fratelli e le nostre sorelle maggiori, nella fede", riprendendo le storiche parole pronunciate da Giovanni Paolo II, primo Papa a visitare la Sinagoga di Roma.[/caption] Per continuare il nostro esame con uno dei temi-chiave del pontificato bergogliano, da noi ampiamente commentato negli ultimi convegni, esamineremo ora il messaggio che il Papa ha rivolto ai partecipanti del XVI Congresso internazionale della Consociatio internationalis studio Iuris canonici promovendo, del 6 ottobre 2017, in occasione del centenario della promulgazione del codice piano-benedettino (1917). Per Papa Bergoglio, il lavoro di Papa Sarto sul diritto «segnò, all’indomani ormai della fine del potere temporale dei Papi, il passaggio da un diritto canonico contaminato da elementi di temporalità a un diritto canonico più conforme alla missione spirituale della Chiesa». Non c’è nemmeno da commentare l’inesattezza storica di questa affermazione; ma appare chiaramente il disprezzo per l’aspetto visibile e giuridico della Chiesa, aspetto che è la forma stessa, filosoficamente intesa, che definisce la Chiesa (non è, come sembra sempre dire Papa Francesco, una sorta di accessorio che è meglio perdere che conservare); la natura “spirituale” della missione della Chiesa viene, nella migliore tradizione gnostica, messa in contrapposizione con la sua essenza di società giuridicamente perfetta. Ma il discorso del Pontefice è molto esplicito nel seguito: il codice viene elogiato (nella visione bergogliana) per aver svolto un ruolo fondamentale “«nella emancipazione dell’istituzione ecclesiastica dal potere secolare, in coerenza col principio evangelico che impone di “dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” (cfr. Mt 22,15-22). Sotto questo profilo, il Codice ha avuto un doppio effetto: incrementare e garantire l’autonomia che della Chiesa è propria, e al tempo stesso – indirettamente – contribuire all’affermarsi di una sana laicità negli ordinamenti statali». Al di là della falsità dell’asserto, è chiaro che il Papa vuol presentare la laicità dello Stato in termini positivi, secondo il concetto tipico di Dignitatis humanae e di tutti i Papi post-conciliari, concetto condannato dal Magistero in numerosissime occasioni, e definito “manicheo” da Bonifacio VIII in Unam Sanctam, quasi che le due società non avessero un medesimo Principio da cui derivano, e l’inferiore non dovesse rispondere alla superiore. C’è un’insistenza particolare sulla revisione del ruolo del diritto nella Chiesa, «dove il dominio è della Parola e dei Sacramenti, mentre la norma giuridica ha un ruolo necessario, sì, ma di servizio».  Revisione che è legata direttamente alla dottrina del Vaticano II: Francesco parla infatti del codice del 1983, ricordando come Giovanni Paolo II lo abbia presentato come la traduzione dell’ecclesiologia conciliare in linguaggio canonistico: «L’affermazione esprime il capovolgimento che, dopo il Concilio Vaticano II, ha segnato il passaggio da un’ecclesiologia modellata sul diritto canonico a un diritto canonico conformato all’ecclesiologia. Ma la stessa affermazione indica anche l’esigenza che il diritto canonico sia sempre conforme all’ecclesiologia conciliare e si faccia strumento docile ed efficace di traduzione degli insegnamenti del Concilio Vaticano II nella vita quotidiana del popolo di Dio. Penso, ad esempio, ai due recenti Motu proprio che hanno riformato il processo canonico per le cause di nullità del matrimonio». Se da un lato si ammette che il ruolo del diritto, da costitutivo della società, è diventato accessorio (e che l’ecclesiologia conciliare non corrisponde alla precedente, anzi ne è il capovolgimento), dall’altro si ricorda che, anche in questo caso, il processo è lungi dall’essere concluso. Il richiamo alla nuova legislazione matrimoniale ci fa capire che non si può congelare nemmeno il diritto in una forma conchiusa, ma che la «traduzione degli insegnamenti del Vaticano II nella vita quotidiana del popolo di Dio» è un processo in infinito divenire, anche a livello canonico: l’influenza che deve esercitare il Concilio è «lunga nel tempo». La natura di tali insegnamenti è esplicitata dal pontefice nella conclusione del messaggio: «collegialità, sinodalità nel governo della Chiesa, valorizzazione della Chiesa particolare, responsabilità di tutti i christifideles nella missione della Chiesa, ecumenismo, misericordia e prossimità come principio pastorale primario, libertà religiosa personale, collettiva e istituzionale, laicità aperta e positiva, sana collaborazione fra la comunità ecclesiale e quella civile nelle sue diverse espressioni». Il diritto canonico è visto quindi come strumento di irreversibilità e stabilizzazione della rifondazione della Chiesa. L’ecclesiologia conciliare, con il tocco di “profetismo” bergogliano, garantisce che lo spirito “pastorale” possa continuare il suo corso riaprendo la dialettica su nuovi temi.
A questa visione va collegato il cambiamento della dottrina sulla liceità della pena di morte. Nel Discorso dell’11 ottobre 2017 ai partecipanti all’incontro promosso dal Pontificio Consiglio per la Promozione della nuova Evangelizzazione, Papa Francesco aveva annunciato la revisione del catechismo su questo punto, poi effettivamente realizzata con un rescritto della Congregazione per la dottrina della Fede ex audientia Sanctissimi del 2 agosto 2018. Il Catechismo pubblicato da Giovanni Paolo II (di cui si festeggiava il venticinquennale), pur contenendo già le innovazioni conciliari, ammetteva ancora (seppur in maniera piuttosto teorica) che l’autorità civile potesse comminare la pena capitale in casi gravissimi. Invece, la modifica al numero 2267 del citato catechismo ci informa che, contrariamente a quanto affermato in passato, «la Chiesa insegna, alla luce del Vangelo, che “la pena di morte è inammissibile perché attenta all’inviolabilità e dignità della persona”, e si impegna con determinazione per la sua abolizione in tutto il mondo». Si specifica, seguendo la dottrina conciliare e wojtyliana, che la dignità umana non si può mai perdere, nemmeno per crimini gravissimi (san Tommaso d’Aquino faceva un discorso opposto).
Per quanto gravissima sia un’alterazione della dottrina cattolica su un ennesimo punto, ci preme sottolineare da quali princìpi provenga una tale possibilità, princìpi specialmente sottolineati da Papa Francesco nel discorso qui menzionato. Da dove può venire la conoscenza di una dottrina diversa da quella tramandata? forse si sono lette le fonti della Rivelazione in modo più accurato? forse finora l’infallibilità sonnecchiava? Papa Francesco risponde enunciando la tipica dottrina modernista sull’evoluzione del dogma, pur facendo anche un appello del tutto retorico al “Vangelo”. Vediamo cosa dice il discorso citato.
[caption id="attachment_12293" align="aligncenter" width="1000"] Interreligiosità: Viaggio apostolico di Sua Santità Francesco I negli Emirati Arabi Uniti dello 03-02-2019. Nella foto il Pontefice firma il "Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune" con Imam di Al-Azhar Ahmad Al-Tayyeb (sulla destra).[/caption]  
Papa Bergoglio precisa chiaramente, a proposito del catechismo, che «non è sufficiente, [quindi,] trovare un linguaggio nuovo per dire la fede di sempre; è necessario e urgente che, dinanzi alle nuove sfide e prospettive che si aprono per l’umanità, la Chiesa possa esprimere le novità del Vangelo di Cristo che, pur racchiuse nella Parola di Dio, non sono ancora venute alla luce». Non si illuda chi vede nel nuovo corso ecclesiale un semplice mutamento di linguaggio: la fede di sempre non basta, né basta trovare un modo di esprimerla adatto all’uomo di oggi: si deve attuare un vero e proprio processo profetico, che guardi alle necessità (“sfide”) dell’uomo moderno come a una vera fonte della rivelazione divina. Francesco si fa più esplicito: «conoscere Dio, come ben sappiamo, non è in primo luogo un esercizio teorico della ragione umana, ma un desiderio inestinguibile impresso nel cuore di ogni persona. È la conoscenza che proviene dall’amore, perché si è incontrato il Figlio di Dio sulla nostra strada (cfr Lett. enc. Lumen fidei, 28)». Parole apparentemente affascinanti, ma che rivelano il pensiero modernista sulla fede: non ci sono delle verità rivelate da accettare, ma un “desiderio” del divino che è dentro l’uomo. Ovviamente tale desiderio non è legato alla rivelazione di verità esterne all’uomo (da accettare con la ragione illuminata dalla fede - e per ciò stesso immutabili), ma può essere esplicitato in tanti modi, secondo le circostanze di tempi o luoghi: così nascono le varie religioni e così sono possibili infiniti mutamenti delle dottrine, a seconda delle necessità e delle sensibilità dei tempi. Una società religiosa organizzata come la Chiesa cattolica non potrà ovviamente ignorare la mutata sensibilità, e a tempo debito dovrà fare propria l’esperienza del suo momento storico che rileggendo il Vangelo scopre “cose nuove”. Chi non lo facesse, indubbiamente resisterebbe allo “Spirito santo”, che altro non sarebbe che lo spirito del mondo e della storia. L’operazione, felicemente portata a termine per la libertà religiosa e l’ecumenismo al concilio, e per la “famiglia” al sinodo di Papa Bergoglio, è ora estesa al tema sensibile della pena di morte.
Il Papa infatti prosegue in modo anche più esplicito: «Questa problematica [della pena di morte] non può essere ridotta a un mero ricordo di insegnamento storico senza far emergere non solo il progresso nella dottrina ad opera degli ultimi Pontefici, ma anche la mutata consapevolezza del popolo cristiano, che rifiuta un atteggiamento consenziente nei confronti di una pena che lede pesantemente la dignità umana. Si deve affermare con forza che la condanna alla pena di morte è una misura disumana che umilia, in qualsiasi modo venga perseguita, la dignità personale». Qui la “mutata consapevolezza del popolo” è chiaramente presentata come una “fonte” della dottrina cattolica. E continua: «La Tradizione è una realtà viva e solo una visione parziale può pensare al “deposito della fede” come qualcosa di statico. La Parola di Dio non può essere conservata in naftalina come se si trattasse di una vecchia coperta da proteggere contro i parassiti! No. La Parola di Dio è una realtà dinamica, sempre viva, che progredisce e cresce perché è tesa verso un compimento che gli uomini non possono fermare». Chiaro il richiamo a una permanente rivelazione: non si deve trasmettere (sarebbe “conservare in naftalina”) ma progredire verso un “compimento”, in modo inarrestabile, pena il peccato contro lo Spirito santo, esplicitamente evocato poco sotto: «Non si può conservare la dottrina senza farla progredire né la si può legare a una lettura rigida e immutabile, senza umiliare l’azione dello Spirito Santo. “Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri” (Eb 1,1), “non cessa di parlare con la Sposa del suo Figlio” (Dei Verbum, 8). Questa voce siamo chiamati a fare nostra con un atteggiamento di “religioso ascolto” (ibid., 1), per permettere alla nostra esistenza ecclesiale di progredire con lo stesso entusiasmo degli inizi, verso i nuovi orizzonti che il Signore intende farci raggiungere».
Difficilmente si potrebbe sperare in un’esposizione più chiara della dottrina modernista sull’evoluzione del dogma, benché Papa Francesco ripeta più volte che «non si tratta di un cambiamento di dottrina». Chi ragiona da cattolico e pensa che la dottrina della Chiesa corrisponda a una rivelazione conclusa che va trasmessa, non potrà non vedere una contraddizione insanabile, e si dovrà chiedere se la Chiesa abbia sbagliato finora o se sbagli Papa Francesco, in ultima analisi se Cristo abbia detto che la pena di morte è lecita oppure il contrario. Il modernista invece non vedrà contraddizioni: Dio non ha rivelato una dottrina, ma sta dentro di noi, e lo spunto datoci dal “Cristo storico” (che chissà poi che ha detto: non c’erano i registratori…) ci fa vivere un’esperienza religiosa che mettiamo in comune nella Chiesa, con formule concordate tra noi. Questa è l’azione “profetica” dello “Spirito santo”, che non cessa mai, specie quando cerchiamo di rivivere “l’entusiasmo degli inizi”. Così armonizzeremo in nuove formule i nostri rinnovati bisogni e desideri, suggeritici da quello spirito della storia che è Dio stesso, e al quale non bisogna resistere (e che comunque “non si può fermare”). Esattamente la dottrina che san Pio X condannò nell’enciclica Pascendi.
Il monumento del conservatorismo, che doveva congelare la famosa ortodossia conciliare, cioè il nuovo catechismo, ha resistito circa venticinque anni. Chi ha fatto propria la dottrina conciliare e wojtyliana sulla dignità umana, difficilmente troverà dei dubia da esporre su questo punto.
Il tema dell’irreversibilità è in realtà sotteso a un altro tema chiave del pontificato bergogliano, divenuto in molti momenti l’unico tema, quello dell’accoglienza dei migranti. Innanzitutto per Papa Francesco ad essere irreversibile è il fenomeno stesso: Scalfari ci ha ricordato, in un articolo su La Repubblica del 9 luglio 2017, che per Papa Francesco il meticciato (sic) è inevitabile e deve essere favorito, perché ringiovanisce la popolazione e favorisce l’accoglienza delle razze, delle religioni, delle culture. Il 22 settembre 2017, nell’incontro con i Direttori nazionali delle Migrazioni nella Sala Clementina, il Papa ha condannato qualsiasi resistenza, anche morale, all’apporto dei migranti: «Mi preoccupa […] che le nostre comunità cattoliche in Europa non sono esenti da queste reazioni di difesa e di rigetto, giustificate da un non meglio specificato dovere morale di conservare l’integrità culturale e religiosa originaria» (quindi l’integrità religiosa non sarebbe un valore, a differenza del meticciato: questo discorso ufficialissimo è la prova che Scalfari non si è inventato nulla, visto che i concetti sono i medesimi). Non per niente Famiglia Cristiana dell’11 ottobre 2017 sottolineava il silenzio dei media vaticani sul Rosario di difesa delle frontiere organizzato in Polonia, e riportava il fastidio di Papa Francesco davanti a tale iniziativa; il 19 ottobre seguente si faceva anche eco della minaccia del Primate polacco, Mons. Polack, di sospendere il clero che avrebbe preso parte all’iniziativa (fake news poi smentita, ma che fa sempre effetto). Sempre quel 9 ottobre il quotidiano Avvenire rendeva noto al pubblico italiano che il quotidiano di Soros in Polonia, Gazeta Wyborcza, era stata una delle poche voci critiche sull’evento.
[caption id="attachment_12292" align="aligncenter" width="1000"] Il 4 ottobre 2019 Papa Francesco ha partecipato ad un atto di adorazione idolatrica della dea pagana Pachamama. Ha permesso che questo culto avesse luogo nei Giardini Vaticani, profanando così la vicinanza delle tombe dei martiri e della chiesa dell'Apostolo Pietro. Ha partecipato a questo atto di adorazione idolatrica benedicendo un’immagine lignea della Pachamama. Il 7 Ottobre, l’idolo della Pachamama è stato posto di fronte all’altare maggiore di San Pietro e poi portato in processione nella Sala del Sinodo. Papa Francesco ha recitato preghiere durante una cerimonia che ha coinvolto questa immagine e poi si è unito a questa processione. Quando le immagini in legno di questa divinità pagana sono state rimosse dalla chiesa di Santa Maria in Traspontina dove erano state collocate e successivamente furono gettate nel Tevere da alcuni cattolici oltraggiati da questa profanazione della chiesa, Papa Francesco, il 25 ottobre, si è scusato per la loro rimozione, e una nuova immagine di legno della Pachamama è stata restituita alla chiesa. In tal modo è incominciata un’ulteriore profanazione. Il 27 ottobre, nella Messa conclusiva del Sinodo, ha ricevuto una ciotola usata nel culto idolatrico della Pachamama e l’ha collocata sull’altare. Lo stesso Papa Francesco ha confermato che queste immagini in legno sono idoli pagani. Nelle sue scuse per la rimozione di questi idoli da una chiesa Cattolica, li ha chiamati specificamente Pachamama, nome di una dea della madre terra secondo una credenza religiosa pagana del Sud America. Svariate caratteristiche di queste cerimonie sono state condannate come idolatriche o sacrileghe dal cardinale Walter Brandmüller, dal cardinale Gerhard Müller, dal cardinale Jorge Urosa Savino, dall’Arcivescovo Carlo Maria Viganò, dal vescovo Athanasius Schneider, dal vescovo José Luis Azcona Hermoso, dal vescovo Rudolf Voderholzer e dal vescovo Marian Eleganti. Infine, anche il cardinale Raymond Burke ha dato la stessa interpretazione in un’intervista.[/caption]
Del resto numerosissime sarebbero le citazioni del Papa e dei vescovi sull’apporto dell’immigrazione, sull’eccellenza della società pluralista, dove è garantita l’imprescindibile libertà religiosa. Nel discorso ai partecipanti al convegno internazionale sulla libertà religiosa del 20 giugno 2014, Papa Francesco già diceva: «La libertà religiosa, recepita nelle costituzioni e nelle leggi e tradotta in comportamenti coerenti, favorisce lo sviluppo di rapporti di mutuo rispetto tra le diverse Confessioni e una loro sana collaborazione con lo Stato e la società politica, senza confusione di ruoli e senza antagonismi. Al posto del conflitto globale dei valori si rende possibile in tal modo, a partire da un nucleo di valori universalmente condivisi, una globale collaborazione in vista del bene comune». L’immigrato è per il Papa il “segno del tempo” in cui viviamo. In Evangelii gaudium esortava «i paesi a una generosa apertura, che invece di temere la distruzione dell’identità locale sia capace di creare nuove sintesi culturali». Nel discorso a Filadelfia del 26 settembre 2015 il Papa metteva in risalto il legame tra società multiculturale creata dall’immigrazione con la necessità della libertà religiosa.
Di fronte a quel massiccio segno del tempo che sono le migrazioni (inarrestabili, ovviamente), appare palese che la società cristiana non può più tornare. Masse di persone di altre fedi non possono restare soggette a uno Stato cattolico, quindi è il segno che la libertà religiosa è voluta da Dio e che il processo di fine della Christianitas è irreversibile. I fatti creano i nuovi dogmi. Non è un mero discorso di inevitabili opportunità politiche in circostanze nuove, è davvero un messaggio di quello spirito divino che si rivela nella Storia e nelle vicende dell’uomo. La società pluralista e liberale è frutto di nuove esigenze; l’ecumenismo e il diverso rapporto con le altre fedi è inevitabile; voler preservare un patrimonio religioso o culturale è resistere allo Spirito. Il fine dell’immigrazione di massa, il bene che deve portare, non è l’islamizzazione dell’Europa, ma la costruzione di una società in cui vige l’irreversibilità del laicismo. Tale inevitabilità di processi è più volte ricordata nel documento preparatorio per il Sinodo dei giovani del 2018: l’«elevata complessità» del fenomeno migratorio e il «rapido mutamento» che ne consegue sono semplicemente un «dato di fatto» (ineluttabile), non è possibile dire a priori se si tratti di un problema o di un’opportunità. Così «non va trascurato poi il fatto che molte società sono sempre più multiculturali e multireligiose. In particolare la compresenza di più tradizioni religiose rappresenta una sfida e un’opportunità: può crescere il disorientamento e la tentazione del relativismo, ma insieme aumentano le possibilità di confronto fecondo e arricchimento reciproco. Agli occhi della fede questo appare come un segno del nostro tempo, che richiede una crescita nella cultura dell’ascolto, del rispetto e del dialogo». Agli occhi della fede: le vicende umane diventano segno di ciò che ora si deve credere, di una nuova rivelazione modernisticamente intesa. La fede infatti è per il documento «dilatazione della vita»: non ci si riferisce mai a princìpi per il discernimento (che dovrebbe essere il tema del Sinodo), ma solo e sempre a fatti o ad intime esigneze. La fede così intesa sarà «luce per illuminare i rapporti sociali» e «costruire la fraternità universale» (sic). Si è già fatto notare come tutto questo coincida in modo impressionante con il piano di Soros, denunciato tra l’altro dal premier ungherese Viktor Orban all’università estiva di Tusnádfürdő il 24 luglio 2017.
Si è capito che l’irreversibilità di cui parla Francesco non è tanto quella di una situazione irreversibile, quanto di una marcia irreversibile. Tale marcia deve sfociare necessariamente verso qualcosa di ultimo. Per l’appunto, i novissimi. Ora proprio il 9 ottobre 2017 usciva su La Repubblica un nuovo resoconto dei colloqui tra Eugenio Scalfari e Bergoglio, nel quale il vecchio giornalista sosteneva quanto segue: «Papa Francesco ha abolito i luoghi dove dopo la morte le anime dovrebbero andare: inferno, purgatorio, paradiso. La tesi da lui sostenuta è che le anime dominate dal male e non pentite cessino di esistere, mentre quelle che si sono riscattate dal male saranno assunte nella beatitudine contemplando Dio». Non pare probabile che il Pontefice abbia espresso il suo pensiero esattamente nei termini indicati da Scalfari (che comunque non è mai stato smentito). Tuttavia… tuttavia moltissimi elementi ci fanno dedurre che Francesco condivida sostanzialmente il pensiero teilhardiano del Cristo cosmico, per cui tutto il mondo sarà alla fine divinizzato. Il panteismo è l’essenza del modernismo, diceva san Pio X, e l’enciclica Laudato si’ lascia ben poco adito a dubbi su questo punto (si veda la nostra conferenza a questo stesso convegno di Rimini nel 2015). Il mondo marcia dunque in modo irreversibile verso la divinizzazione, e la religione non può non evolvere in funzione di questo.
[caption id="attachment_12298" align="aligncenter" width="1000"] La Chiesa Evangelica Luterana in Italia (ELCI) esprime la sua gioia per la visita di Papa Francesco alla Christ Church della Congregazione Evangelica Luterana Roma. Qui con Jens-Martin Kruse (1969), pastore della Congregazione del Cristo romano nel suo caloroso benvenuto il 15-11-2015.[/caption]
Ma Papa Francesco ha in molte altre occasioni espresso queste sue tesi, seppure non nei termini brutali indicati da Scalfari. Nel discorso per l’udienza generale di mercoledì 11 ottobre, Papa Francesco ricordava che «al termine della nostra storia c’è Gesù misericordioso», e quindi «tutto verrà salvato. Tutto.» Sandro Magister fa notare nel suo blog che quest'ultima parola, “tutto”, nel testo distribuito ai giornalisti accreditati presso la sala stampa vaticana era evidenziata in grassetto. Anche nell’udienza del precedente 23 agosto il Papa aveva ricordato, citando a modo suo il capitolo 21 dell’Apocalisse, che Dio alla fine avrebbe accolto nella sua tenda «tutti gli uomini», omettendo però il resto del brano nel quale si parla dello stagno ardente di fuoco e zolfo destinato agli increduli e ai peccatori. Simili omissioni si ritrovano in vari commenti ai brani della Scrittura, da quello nell’Angelus del 15 ottobre sulla parabola del convito nuziale, all’Angelus dll’8 ottobre sulla parabola dei vignaioli omicidi, fino all’omelia della Pentecoste del 4 giugno, dove Francesco ha troncato le parole del Salvatore risorto sul potere di rimettere i peccati (omissione già operata al Regina coeli del 23 aprile precedente). Alcuni esempi fra mille.
Sembra dunque che la creazione di un’unica indeterminata religione, dove non contano più i dogmi e il diritto, ma lo spirito che risiede nell’insieme dell’umanità che vive la storia, senza più barriere (“muri”) di credenze religiose, sia una tappa del movimento irreversibile verso la cristificazione (o divinizzazione) del mondo materiale, che arriverà alla fine di un inevitabile processo di purificazione storica, secondo la migliore tradizione gnostica. Ridurre il problema della situazione attuale della Chiesa a qualche dibattito di punti dottrinali sarebbe miope, specie se ci si focalizza sui mutamenti formali di una sola fase dell’evoluzione dottrinale dimenticando gli altri. Prendere posizione nettamente e in modo completo è sempre più una necessità.
 
 Per approfondimenti:
_La Tradizione Cattolica, La riforma irreversibile. Psicologia e strategia per una Chiesa in uscita che non rietri più, Rimini, 28-10-2017.
 
 
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

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di Amedeo Maddaluno 19-08-2019

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È un libro potente quello di Orazio Maria Gnerre, studioso di storia del pensiero politico ormai da tempo impegnato nella ricerca di nuovi paradigmi di pensiero alternativi tanto al filone liberal-democratico occidentalista che a certo ribellismo della sinistra diritto-umanista e all’illiberalismo piccolo-borghese delle destre cosiddette “sovraniste”.
[caption id="attachment_11495" align="aligncenter" width="1000"] Orazio Maria Gnerre, Prima che il mondo fosse. Alle radici del decisionismo novecentesco - MIMESIS, Collana “Eterotropie”, 2018, Euro 10, pp.106.[/caption]
È un libro potente perché in così poche pagine riesce a restituire un affresco di ampio respiro del pensiero politico e metapolitico degli ultimi tre secoli. Scrivo degli ultimi tre secoli perché limitarsi a parlare di Novecento significherebbe non aver compreso a fondo la densità del saggio. De Maistre, Marx, Rousseau, Ortega Y Gasset, Juenger, Schmitt, Kelsen e tanti altri: i pensatori politici della modernità – intesa appunto come quella fase antropologica prima ancora che storia che inizia con il XVIII secolo della scienza, della tecnica e delle rivoluzioni politiche – sono tutti letti attraverso la filigrana del macrotema del “decisionismo”: del rapporto tra società di massa moderna e stato, diritto e polis in cui la società chiede alla polis cogente azione politica.
L’uomo moderno, l’uomo che ha abitato il pianeta negli ultimi duecentocinquanta anni, è antropologicamente – quindi spiritualmente e metapoliticamente – diverso dall’uomo che lo ha preceduto nel Rinascimento, nel Medio Evo, negli evi antichi. È per la prima volta – se escludiamo le poleis greche e la civitas romana repubblicana, fenomeni storico-politici comunque limitatissimi nel tempo e nello spazio – un “uomo società”, un uomo che è cosciente non solo del e nel rapporto con sé e con il Divino ma che è cosciente soprattutto del e nel rapporto con la complessità sociale e con i suoi prodotti – in primis la scienza, la tecnica, il capitalismo. Divenuto uomo-società, l’uomo moderno diviene quindi uomo-disagio, il disagio dell’incompletezza: è un uomo che non può e non sa più bastarsi e idealizzarsi come fece l’uomo greco o rinascimentale e che non può e non sa esaltarsi nel rapporto col Divino e il Sacro trascendente come l’uomo del Medio Evo e comunque come l’uomo della Tradizione.
Ecco il vero distillato dell’opera di Gnerre: l’uomo moderno presenta alla politica e alla polis, il proprio luogo sociale, il conto della propria insoddisfazione. Da qui l’eterno ritorno dei totalitarismi e degli autoritarismi letti – qui la vera rivoluzione copernicana insita nel pensiero dell’autore – non come errori della modernità, ma come suo sbocco naturale, come risultante dello smarrimento politico ma ancor più metapolitico e pre-politico dell’uomo moderno.
Cosa cerca quindi questo uomo della modernità, non trovandolo e volendolo quindi surrogato dal politico? Come accennavamo, il rapporto con il sé e il rapporto con il Divino: in una parola, il rapporto con il sacro, con il “Sacer” inteso come separato dalla polis, dalla civitas. L’uomo dell’agorà vive ogni giorno la nostalgia dello Spirito, la nostalgia dell’Acropoli a causa della “macchinalità” (indovinato termine che l’autore usa e ripete nel testo). Vi è nostalgia di sacro tanto nelle ideologie progressiste quanto in quelle reazionarie. La politica diviene, nel desiderio e nelle aspirazioni dell’uomo moderno, una teologia – che si scopre però sempre essere una teologia monca, secolarizzata, atea. Il sacro posticcio della modernità, il sacro surrogato, diviene quindi immancabilmente non un sacro religioso e presente, ma un sacro dell’altrove, un sacro teleologico, un sol dell’avvenire cui la politica dovrà condurci.
[caption id="attachment_11496" align="aligncenter" width="1000"] Konstantin Yuon, Nuovo Pianeta (particolare) - 1921.[/caption]
Non ha la pretesa di fornire soluzioni al disagio della modernità, Orazio Gnerre: compie già un immane lavoro intellettuale nel proporre la lettura davvero innovativa di cui parlavamo poc’anzi. Una cosa ci sentiamo di aggiungere e di chiederli, possibilmente da distillarsi in un prossimo studio: è possibile che allo smarrimento dell’uomo moderno sia succeduto l’ancor peggiore smarrimento dell’uomo postmoderno? Di un uomo che ha attraversato, sempre per causa della tecnica e del capitalismo (in una sua nuova fase), un’ulteriore rivoluzione antropologica che lo ha privato persino di quell’ultimo, imperfetto punto di riferimento e polo dialettico dell’umano – la società? Dall’uomo-società moderno all’uomo atomizzato e post-sociale post-moderno: questo è il personalissimo sospetto di chi scrive queste poche righe. Se l’uomo moderno ha perso il rapporto con il sacro, sia esso interiore o trascendente, per mantenere solo quello immanente con il sociale e il politico, all’individuo post-moderno non resta più nemmeno quella vita di relazioni, di società e di polis. Che resta quindi dell’Uomo, se lo priviamo persino dell’incontro, del confronto e dello scontro con i propri simili? L’uomo post-moderno ha persino smesso di invocare lo Stato ed il Politico. Non vorrei che la risposta sia che l’uomo post-moderno sia dunque anche post-umano, e che al disagio della modernità si sostituisca un disagio e un malessere ancora più profondo, aspro e angosciante: quello dell’assenza di ogni possibile punto di riferimento e appiglio, che produrrà mostri ancora peggiori di quelli della violenza e dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Mostri di cui non conosciamo ancora nemmeno il nome, mostri di un futuro che ci appare disperato, preda della solitudine, alienato di una nuova alienazione dopo quella dal sé, dal Divino e dal prodotto dell’opera. Una definitiva alienazione anche dal proprio simile, e quindi dall’ultimo contatto che l’uomo ha con l’umano: il volto del proprio prossimo.
 
Per approfondimenti:
_Orazio Maria Gnerre, Prima che il mondo fosse. Alle radici del decisionismo novecentesco - MIMESIS, 2018.
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

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di Giuseppe Baiocchi del 28/05/2018

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Domenica 27 Maggio si è consumata l’ultima crisi politica che attanaglia il Paese da circa sette anni: il presidente della Repubblica Sergio Mattarella (1941) ha rifiutato di prendersi la responsabilità, verso il Governo 5Stelle-Lega del trinomio Di Maio-Salvini-Conte.
Secondo il comunicato del Quirinale, la motivazione prima del Capo dello Stato è stata quella di difendere l’Italia come Paese fondatore dell’Unione europea, dove ne è protagonista. Non farlo avrebbe significato porre «in allarme gli investitori e i risparmiatori, italiani e stranieri, che hanno investito nei nostri titoli di Stato e nelle nostre aziende. L’impennata dello spread, giorno dopo giorno, aumenta il nostro debito pubblico e riduce le possibilità di spesa dello Stato per nuovi interventi sociali. Le perdite in borsa, giorno dopo giorno, bruciano risorse e risparmi delle nostre aziende e di chi vi ha investito. E configurano rischi concreti per i risparmi dei nostri concittadini e per le famiglie italiane».
La stragante comunicazione delle agenzie di stampa, hanno apostrofato l’operato di Mattarella come discutibile e non possiamo meravigliarci affatto di tali affermazioni, poiché – come recita la costituzione - «Nella risoluzione delle crisi si ritiene che il Capo dello Stato non sia giuridicamente libero nella scelta dell'incaricato, essendo vincolato al fine di individuare una personalità politica in grado di formare un governo che abbia la fiducia del Parlamento. [...] Una volta conferito l'incarico, il Presidente della Repubblica non può interferire nelle decisioni dell'incaricato, né può revocargli il mandato per motivi squisitamente politici».
Ma quale è stato l’anello di rottura del tanto decantato braccio di ferro tra Matteo Salvini (1973, leader della Lega) e Sergio Mattarella? L’uomo è il professore, già Ministro dell’industria del Governo Ciampi (1993), Paolo Savona (1936). Il Capo dello Stato ha usato nei suoi confronti parole particolarmente dure asserendo: «Ho chiesto, per quel ministero, l’indicazione di un autorevole esponente politico della maggioranza, coerente con l’accordo di programma. Un esponente che – al di là della stima e della considerazione per la persona – non sia visto come sostenitore di una linea, più volte manifestata, che potrebbe provocare, probabilmente, o, addirittura, inevitabilmente, la fuoruscita dell’Italia dall’euro. Cosa ben diversa da un atteggiamento vigoroso, nell’ambito dell’Unione europea, per cambiarla in meglio dal punto di vista italiano».
[caption id="attachment_10287" align="aligncenter" width="1000"] Sergio Mattarella (Palermo, 23 luglio 1941) è un politico, giurista e accademico italiano, 12º presidente della Repubblica Italiana dal 3 febbraio 2015.[/caption]
L’aspetto imbarazzante della vicenda risiede propriamente nelle dichiarazioni dello stesso docente, il quale dopo aver affermato un silenzio nel rispetto istituzionale, si dichiarava sereno, poiché egli voleva unicamente un’Europa diversa, più forte, più equa e mai aveva asserito circa l’uscita dell’Italia: «Un’Europa da cambiare, non da distruggere», esclamava sul sito scenarieconomici.it, qualche tempo fa. Il famoso “piano B” del capo di accusa mosso contro di lui, in realtà era unicamente un’elaborazione accademica, presentata presso un Ateneo universitario aperto a tutti. Non troppo diverso da quello che la Germania, della contestatissima Merkel, sta preparando e di cui ha dato conto la Die Welt.
Al netto delle stridenti affermazioni che cozzano con la realtà delle parole della controparte, Giuseppe Conte (1964) passerà alla storia come il premier incaricato durato solo tre giorni: «Fino all’ultimo ho creduto e mi sono impegnato perché fosse possibile», ha asserito in conferenza stampa, leggermente imbarazzato. Mattarella per superare la sua preoccupazione verso le testate estere e gli investitori esteri in Italia, aveva proposto che lo stesso Conte potesse ad interim assumere l’Economia, ma Salvini aveva risposto come «se abbiamo la catena e non possiamo mettere un Ministro che non sta simpatico a Berlino, vuol dire che quello sarebbe un ministro giusto per i tavoli europei»: la rottura era compiuta.
Così dopo il Governo Monti (2011), Governo Letta (2013), Governo Renzi (2014) e Governo Gentiloni (2016), adesso il Capo dello Stato sta pensando di inserire un nuovo Governo tecnico con la figura di Carlo Cottarelli (1954), già commisario della spending review nel Governo Letta e dimissionario del Governo Renzi per incompatibilità con l’ex-premier. Insomma il voto degli italiani non sembra avere più nessun rilievo, ma al “popolo” si sta sostituendo “l’opinione dello spread”, uno strumento economico, da sempre instabile e non calcolabile, ma non sicuramente influenzabile dal posizionamento di un essere umano all’interno di una carica, come le istituzioni ci hanno voluto affermare.
Al netto dei pro e dei contro, ad inizio giugno c'è il G7 e alla fine dello stesso mese un'importante incontro europeo sui migranti, infine ad ottobre la legge di bilancio. Con che forza arriverà l’Italia a questi prestigiosi e importanti appuntamenti? Sicuramente “non da protagonista” come invece ha affermato il Capo dello Stato, rispetto alla posizione che il nostro Paese ricoprirebbe all’interno dello scacchiere europeo, sempre più a trazione franco-tedesca.
Perché, quale Europa Mattarella ha voluto tutelare? Per citare il filosofo Federico Nicolaci: «Lo stupore con cui l'Europa scopre oggi di essere una "tecnocrazia senza radici" (Habermad 2014, p.21) e una costruzione "fondamentalmente vuota" (Judt 1996), come la crisi dei debiti sovrani e la conflittualità intra-europea che da essi si è sprigionata dimostrano chiaramente, che siamo di fronte al risultato finale di un parossistico rafforzamento dell'approccio funzionalistico e tecnocratico all'integrazione europea. Un'auto-comprensione altamente impoverita dell'Europa ha reso possibile che venissero abbracciati quegli stessi processi di spoliticizzazione che sono oggi la causa della sua disintegrazione politica e culturale. È evidente, infatti, che un'Europa unita e legittimata solo dai benefici materiali (dispensati da una "polity" sovranazionale sottratta in linea di principio, e nel caso della BCE de iure, all'influenza politica democratica) è un'Europa profondamente instabile, essenzialmente disunita: quando tali benefici si rivoltano in svantaggi, come sta accadendo con la crisi dell'Euro, nessuna "energia" rimane ad arginare le forze centrifughe e disintegranti. Un'unione dei progetti è un tempio completamente vuoto, inanimato, e nella misura in cui l'Europa pensa di sé semplicemente in termini pragmatico-funzionali, allora essa pronuncia volontariamente la propria condanna.
Superfluo ricordare la lunga genesi degli Stati europei all'interno di un'unica communitas cristiana ed imperiale, la quale si è articolata con lo sviluppo della modernità e frantumata con il trionfo dei nazionalismi […].
Quale idea europea, dunque? L'idea di un'Europa capace di una progettualità politica che non sia un mero adeguamento alle istanze poste dalle logiche autonome dell'ordoliberismo, […] che sia un progetto comune in nome di un'idea di umanità che ci definisce in virtù dell'appartenenza ad uno spazio di senso comune. Solo questa coscienza potrebbe consentire ai popoli europei, oggi quanto mai divisi da sentimenti di inimicizia e latente ostilità, di ritrovare la giusta via (diaporein!) verso la costruzione di una autentica comunità europea, capace di modellare politicamente gli eventi e le linee di tendenza della nostra contemporaneità globalizzata. […] Congedarsi coraggiosamente dal modello esistente significa rifiutare l'idea che l'Europa debba configurarsi sovranazionalmente: rifiutare il presupposto funzionalista per cui non ci sarebbe altro modo di "fare" l'Europa se non "cedendo sovranità" ad un'entità politica sovranazionale e sovrastatale. Significa, quindi, rovesciare la posizione del problema: […] come sia possibile a partire dal processo di legittimazione della sovranità a livello nazionale stabilire modelli di stabile cooperazione politica tra i popoli europei. L'idea che l'integrazione europea coincida con la cessione di sovranità ad un esecutivo sovranazionale non è solo un antiquato residuo storico e ideologico, ma è anche una colossale menzogna […] una ricchezza che va preservata, non superata in qualche artificiosa entità sovranazionale […]. I popoli europei […] decidendo di riunirsi a agire in modo coordinato e orientato ad un medesimo fine, di natura squisitamente politico-emancipativa senza bisogno di inutili mediazioni e duplicazioni istituzionali».
 
Per approfondimenti:
_Federico Nicolaci, La questione europea, 2015;
_La Repubblica anno 25, n°20 - lunedì 28-05-2018;
_Il sole 24Ore anno 154, numero 145 - lunedì 28-05-2018.
 
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di Alessia Filippazzo 11/01/2018

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Oggi la religione islamica rappresenta una delle più grandi sfide che la parte occidentale del mondo è chiamata a fronteggiare: si assiste, infatti, ad un continuo scontro tra due «Weltaschauungen» che sembrerebbero destinate ad un'eterna incomunicabilità.
Il tema del rinnovamento dell'islam è presente negli scritti degli intellettuali musulmani fin dai primi decenni del Novecento: Bennabi, al-Jabri, Hanafi, Ramadan, Abu Zayd sono solo alcuni dei pensatori impegnati in quest'opera di ripensamento della religione islamica, che offrono spunti e riflessioni interessanti e assolutamente attuali. Mohammed Arkoun (nota 1), pensatore di origine algerina che ha trascorso gran parte della sua vita in Francia, riveste un ruolo particolarmente importante nella costruzione di un dialogo tra religione islamica e mondo occidentale: rispetto a molti degli altri pensatori islamici, egli sembra essere meno influenzato dal mito del progresso e della modernità che l'Occidente rappresenta per quelle popolazioni che hanno subìto il colonialismo.
[caption id="attachment_9761" align="aligncenter" width="1000"] Mohammed Arkoun (Taourirt-Mimoun, 1º febbraio 1928 – Parigi, 14 settembre 2010) è stato un islamista e filosofo berbero con cittadinanza algerina. È stato uno dei più qualificati studiosi dell'Islam. In oltre 30 anni di carriera di ricerca, è stato un intelligente critico delle tensioni legate ai processi di modernizzazione del mondo islamico, oltre che un coraggioso intellettuale, teso a sostenere e a difendere il riformismo e l'umanesimo islamico. Disegno di Mohamed Taa'eb[/caption]
Molti degli intellettuali islamici, infatti, tendono ad utilizzare gli strumenti concettuali occidentali, senza sottoporli a giudizio critico preventivo. Arkoun è riuscito a nutrirsi di cultura occidentale, pur mantenendo un proprio sguardo critico e attento sia nei confronti dell'Occidente sia nei riguardi della religione islamica, intuendo così la necessità di un duplice ripensamento che, attraverso un «lavoro di autocritica» , chiami le parti in causa a ridefinire il proprio rapporto con l'altro.
I testi di Arkoun abbondano di analisi filosofiche, storiche, sociologiche e antropologiche, ma sono caratterizzati da una forte asistematicità. Egli è stato un pensatore che non ha mai mirato alla sistematica elaborazione scritta delle tematiche che propone e pertanto, a prima vista, si ha l'impressione che nei suoi testi manchi una coerente struttura filosofica di riferimento. Le ragioni di questa asistematicità dipendono dal compito che egli, in quanto intellettuale arabo, assegna a se stesso. Non bisogna dimenticare, infatti, che le tematiche di cui tratta l'autore nascono principalmente non da un'esigenza intellettuale, ma dai problemi concreti vissuti dalle società islamiche da cui egli proviene.
L'autore assegna ai suoi testi una primaria funzione pedagogica, visto che, nell'analizzare le «posizione e funzioni dell'intellettuale», sostiene che il compito specifico del pensatore sia quello di essere un «ricercatore-insegnante-pensatore»: alla funzione interpretativa del ricercatore del pensiero, il quale tiene insieme la «tensione tra ragione religiosa e ragione filosofica», si aggiunge quella pedagogica, che deve fare i conti con la «forte tensione educativa tra i due campi, religioso e intellettuale».
Per queste ragioni, l'asistematicità di Arkoun è da imputare alla sua volontà di suscitare l'interesse sia di un pubblico più vasto, musulmano e non, sia degli studiosi delle numerose discipline occidentali (sociologia, antropologia, storiografia ecc.) che egli continuamente chiama in causa. È riuscito in parte nel suo intento: nei paesi francofoni i suoi testi sono letti e studiati dai sociologi interessati alla presenza islamica in Europa, oggetto di molte e accese discussioni soprattutto in Francia e in Belgio.
Ripensare l'islam, oggi più che mai, è un compito arduo e necessario. Assolvere ad esso significa decostruire – senza distruggere – un insieme di concettualizzazioni che tendono a reiterare una certa visione di tale fenomeno religioso, dentro e fuori lo spazio definito e caratterizzato dalla religione islamica. Tale è l'obiettivo di Arkoun, il cui richiamo alla necessità di un ripensamento dell'islam nasce dal fatto che, a suo dire, non esistono studi adeguati, completi e organici sia a livello contenutistico sia, primariamente, a livello metodologico. Egli, nutritosi di cultura occidentale della quale ha apprezzato gran parte dei presupposti e dei risultati criticamente costruiti, sottolinea però l'incapacità degli studiosi europei di rapportarsi senza pregiudizi con una cultura “altra”. Nei paesi caratterizzati dalla religione islamica, d'altra parte, sono quasi del tutto assenti quelle condizioni sociali, economiche e politiche che possano dare spazio ad un autonomo processo di riattivazione delle feconde componenti interne alla stessa religione islamica.
Il ripensamento dell'islam, dunque, ancor prima di aver compiuto il suo primo passo, si trova a scontrarsi con dei pregiudizi, per superare i quali sarà necessario sviluppare preliminarmente un metodo efficace per non ricadere negli errori di sempre. Arkoun sceglie la storiografia come strumento del ripensamento.
Perché la storia?
Arkoun afferma chiaramente che il suo obiettivo ultimo è quello di studiare «le condizioni di possibilità di una ricomposizione […] dello spazio mediterraneo al di là delle fratture, dei sistemi teologici d'esclusione reciproca delle comunità». Egli, in linea – ma solo in parte – con la teoria del clash of civilizations di S. P. Huntington , oppone le grandi civiltà che si affacciano sulle due rive del Mediterraneo: quella islamico-orientale e quella cristiano-euro-occidentale . La frattura tra i due soggetti culturali, che in passato hanno condiviso lo stesso spazio, può essere risanata solo tramite un «lavoro di autocritica» condotto da ciascuna cultura all'interno della propria tradizione attraverso un'«archeologia decostruttiva». Si tratta, insomma, di un lavoro retrospettivo di sé sul sé, capace di «aprire tutti i documenti sottratti all'investigazione degli storici» , per guardare alla «storia dei sistemi di pensiero e di rappresentazioni».
[caption id="attachment_9762" align="aligncenter" width="1000"] Samuel Phillips Huntington (New York, 18 aprile 1927 – Martha's Vineyard, 24 dicembre 2008) è stato un politologo statunitense. Uno dei massimi esperti di politica estera, consigliere dell'amministrazione americana ai tempi di Jimmy Carter, direttore degli Studi strategici e internazionali di Harvard, fondatore di Foreign Policy e autore di una ventina di saggi che hanno fatto la storia della geopolitica degli ultimi vent'anni. È noto per la sua analisi delle relazioni tra governo civile e potere militare, i suoi studi sui colpi di Stato e le sue tesi sugli attori principali del ventunesimo secolo: le civiltà che tendono a sostituire gli Stati-nazione.[/caption]
Ripensare la religione islamica significa, così, riscriverne la storia, di certo non per alterarne il passato, ma al fine di ricostruire un futuro: «La prospettiva della mia analisi è prospettica» , confessa Arkoun. Il valore del «lavoro storico di sé sul sé tramite il quale ogni gruppo, ogni nazione produce la sua identità» si misura in relazione ai «cambiamenti di fondo significativi riguardanti la rigidità sistemica delle rappresentazioni di sé e dell'altro».
Lo spazio mediterraneo diventa in tal senso il luogo emblematico di quel conflitto di civiltà che vede l'opporsi di Islam e Occidente e, al contempo, il luogo in cui la riconciliazione tra le due polarizzazioni diventa possibile. La condizione di possibilità della ricomposizione, infatti, Arkoun la ritrova nella presenza di un «Racconto di fondazione comune» alle tre religioni monoteiste, radicate nello spazio mediterraneo fin dal Medioevo. Egli sostiene che la modernità occidentale non ha affatto sostituito l'antico racconto di fondazione, ma che si è limitata a camuffarlo, aggiungendo ad esso nuovi strumenti di ricerca scientifica e mantenendo le speranze escatologiche della salvezza eterna travestite sotto il concetto di progresso. L'analisi del «fatto religioso nelle sue realizzazioni antiche e nelle sue manifestazioni attuali» dev'essere, dunque, innalzata al rango di degno oggetto di studio tanto nell'analisi interna ad ogni cultura, quanto nella ricerca di una riconciliazione tra civiltà in lotta.
Il ripensamento della religione islamica deve dunque avvenire attraverso l'analisi del fenomeno religioso di tipo monoteista, all'interno di un ambito in cui la religione venga considerata come «dimensione universale dell'esistenza umana»: il fenomeno religioso dovrà essere analizzato come processo culturale che compone e struttura un gruppo sociale. Si tratta, insomma, di fare una storia del pensiero e delle rappresentazioni religiose.
 
Per approfondimenti:
_M. Arkoun, Penser l'espace méditerranéen aujourd'hui, in Diogene 2004/2 (n. 206);
_M. Arkoun, Humanisme et islam, Vrin, Parigi, 2014, p. 141;
_M. Arkoun, La question éthique et juridique dans la pensée islamique, Vrin, Paris 2010, p. 141;
_S. P. Huntington, The Clash of Civilizations and the Remaking of World order, Simon & Schuster, New York 1996;
_M. Arkoun, Rethinking islam today, in Annals of the American Academy of Political and Social Science, Vol. 588, Islam: Enduring Myths and Changing Realities, Luglio 2003, p. 19.
 

Nota 1: Mohammed Arkoun, nato nel 1928 a Taourirt-Mimoun, in Algeria, ha condotto i suoi studi universitari tra l'Università di Algeri e la Sorbona di Parigi, dove ha concluso il corso di dottorato nel 1969. Ha insegnato come professore ordinario all'Università della Sorbona e collaborato con le università delle maggiori città europee e statunitensi. È scomparso nel 2010 a Parigi.

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di Giuseppe Baiocchi 18/10/2017

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La Repubblica federale austriaca, giovedì ha eletto il trentunenne Sebastian Kurz (Vienna 1986) Cancelliere: il più giovane leader politico in Europa.
Appartenente al partito dell'Österreichische Volkspartei - Partito Popolare Austriaco, di ispirazione cattolica e di tendenza conservatrice (fondato nel 1945 da L. Figl, J. Raab, K. Gruber, L. Weinberger) -, il giovane viennese eredita una realtà politica in decadenza: dal 1990 l’Övp subisce un calo di consensi e quando Kurz a sedici anni - dopo la maturità – viene eletto presidente della sezione giovanile del partito, si trova in un immobilismo dall’amaro sapore giallo-nero.
Nella sua rapida carriera, nel 2013, brucia un’altra importante tappa: è il ministro degli esteri più giovane d’Europa e ricopre tale ruolo con l’attuale governo uscente a guida socialdemocratica.
Abile politico e bravissimo comunicatore – anche a livello di marketing-grafico - Sebastian Kurz si è imposto sul partito di destra dello FPÖ (Freiheitliche Partei Österreichs – Partito della Libertà austriaca), adattando alcuni punti a misura del suo programma e chiudendo la porta allo SPÖ (Sozialdemokratische Partei Österreichs – Partito socialdemocratico d’Austria). Lo stesso colore sociale partitico è mutato: dal nero-giallo - dall'elegia austro-ungarica - si è passati al turchese, pantone degli Asburgo di fine ottocento.
[caption id="attachment_9546" align="aligncenter" width="1000"] Il Wunderwuzzi , il «bambino prodigio», è nato il 27 agosto 1986. Suo padre era ingegnere, la madre insegnante. Ha studiato Legge, ma ha abbandonato l’università attratto dalla politica.[/caption]
Nella Repubblica d’Austria per anni si era formata una grande coalizione che comprendeva Övp e lo SPÖ, ma il giovane Cancelliere pare escludere un nuovo rimpasto governativo, preferendo l’alleanza della destra austriaca. Ciò comporterebbe un’apertura verso l’antico gruppo geopolitico del Visegrád e un raffreddamento verso l’eurocrazia e il tecnicismo di Bruxelles.
Prima dell’entrata in Europa alcuni antichi paesi mitteleuropei, dell’Europa centro-danubiana – avevano plasmato nel 1991 - il gruppo del “Visegrád”, costituito dagli Stati della Repubblica Ceca, dell’Ungheria, della Polonia e dalla Repubblica Slovacca. Si ambiva ad un rafforzamento cooperativo per la promozione e l'integrazione unitaria verso l'Unione europea. Questo tipo di approccio fallì e si passò presto a rapporti diretti tra Bruxelles e i singoli Stati candidati. Tutti i membri del Gruppo di Visegrád sono entrati nell'Unione europea il 1º maggio 2004. La cooperazione e l'alleanza fra i quattro diversi stati proseguì comunque nei diversi campi della cultura, dell'educazione, della scienza, nonché in quello dell'economia. Nel 1999 è stato istituito il Fondo d'Investimento Internazionale di Visegrád, con sede a Bratislava, che, in accordo con la decisione dei capi di governo dei paesi membri, dal 2005 il fondo ha un budget annuale di 3 milioni di euro. Il gruppo di Visegrád riunisce quattro degli stati post-comunisti più prosperi che presentano un'economia di mercato relativamente affermata e un tasso di crescita piuttosto alto rispetto alla media europea.
Sebastian Kurz è sicuramente un politico europeo: il suo intento è modificare l’attuale assetto economico e politico di un Europa che certamente non funziona. L’ambito federalismo europeo potrebbe non essere più una lontana chimera.
Difatti il giovane Cancelliere è lontano dalle politiche di Angela Dorothea Merkel, Emmanuel Jean-Michel Frédéric Macron e Paolo Gentiloni Silveri, improntate su un centralismo economico e politico.
Non è un caso che tra i primi a congratularsi con Kurz sia stato il ministro degli Esteri ungherese Peter Szijarto, il quale durante il Consiglio europeo ha affermato: "Sono certo che vedremo più forme di cooperazione 'V4 plus Austria’ nel futuro (…). Nel gruppo Visegrad abbiamo l’accordo di restare in quattro, ma d'altra parte abbiamo questo formato ‘V4plus', nel quale cooperiamo molto da vicino e strettamente con l'Austria e sicuramente lo faremo anche nel futuro”.
[caption id="attachment_9541" align="aligncenter" width="1000"] Péter Szijjártó è un politico ungherese, ministro degli Affari Esteri e del Commercio dal 23 settembre 2014, appartenente al governo di Viktor Orban. Precedentemente è stato Vice Ministro degli Affari Esteri e del Commercio.[/caption]
Il leader dell’Övp ha presentato il suo programma in tre porzioni. La “Lista Sebastian Kurz – La nuova Övp” , come lui stesso ha voluto ribattezzare il partito, ha inserito forte rilevanza al fisco e al lavoro. “La nuova via. Per l’Austria”, titolo forte del programma, si presta allo sviluppo economico e alle tasse, con una riduzione dei contributi a carico del datore di lavoro e una riduzione delle aliquote per le fasce meno abbienti: dal 25% si passerebbe al 20%, dal 35 al 30 e dal 43 al 4%. Propone anche l’eliminazione della progressione automatica e una riduzione dei contributi a carico del datore di lavoro. Lo sgravio fiscale ammonterebbe a 11,7 miliardi di euro e verrebbe in primo luogo finanziato dall’aumento dell’occupazione e dalla crescita economica. A ciò si aggiungerebbe il contenimento della spesa pubblica: oltre al taglio dei contributi, l’Övp propone per il futuro buste paga trasparenti, con il lavoratore che può controllare quanto il datore di lavoro è tenuto a pagare al fisco.
Tema scottante è stato quello dell’immigrazione: la spesa pubblica corrente, per Kurz, non dovrà superare l’1,8% del Prodotto interno Lordo. Ciò garantirebbe un risparmio tra i 4 e i 5 miliardi di euro. Tra i punti relativi al risparmio ci sono ovviamente anche quelli che riguardano direttamente gli stranieri. Va inoltre bloccata quella determinata immigrazione, che punta esclusivamente ad usufruire dei servizi sociali austriaci. Il riferimento in questo caso non è solo ai migranti extracomunitari, ma anche a quelli di area Schengen, come i rumeni e i bulgari. Kurz si dichiara contrario alla politica dei tassi 0 attuata dalla Banca Centrale Europea e per motivi di privacy è anche contrario all’abolizione del contante.
Sulla sicurezza lo slogan dell’Övp è “aiutiamoli a casa propria”. Il programma dei popolari prevede anche quante persone possono entrare e con quale tipo di qualifica professionale. I migranti salvati in mare, verranno portati in centri di salvataggio fuori dall’Ue. Stessa metodologia è riservata per coloro che sono entrati in modo illegale nel paese.
Kurz insiste anche su una legge riguardo al diritto d’asilo europeo e un controllo più efficacie delle frontiere esterne. Nessuna concessione – dopo i gravi attentati che hanno colpito tutta Europa - è previsto per l’islam politico.
L’Övp vuole impedire che organismi religiosi e politici stranieri, possano esercitare attraverso organizzazioni o associazioni la loro influenza in Austria. A tal proposito si pensa a un inasprimento della normativa che regola le attività di queste associazioni. Per ogni figlio al di sotto dei 18 anni, il cancelliere viennese vuole far pagare 1500 euro in meno all’anno di tasse sui redditi, con la prima casa di proprietà non gravata da imposte aggiuntive. La quota di indebitamento pubblico dovrà passare dall’attuale 85% al 60%, con un meccanismo di controllo. Un taglio netto verrà dato ai funzionari pubblici. Infine, per chi deciderà di lavorare più a lungo dei 63 anni attualmente previsti, otterrà per ogni anno lavorativo aggiuntivo un aumento economico del 5,5%.
L’assegno di sussistenza per nucleo familiare non potrà superare i 1500 euro con un inasprimento sui controlli, per assicurarsi che il fruitore dell’assegno sociale segua veramente corsi di aggiornamento professionali. Se così non fosse verrà revocato l’assegno. Infine Kurz vorrebbe un sistema di aiuti di sussistenza light per gli aventi diritto d’asilo o di protezione sussidiaria: l’assegno non dovrà superare i 560 euro a testa. Del sistema sociale austriaco lo straniero potrà invece beneficiare solo dopo aver vissuto per cinque anni nel paese.
[caption id="attachment_9543" align="aligncenter" width="1000"] Kurz in compagnia con l'anziano esperto di geopolitica Henry Kissinger, nato Heinz Alfred Kissinger, politico statunitense di origine ebraico-tedesca e membro del partito Repubblicano. Di lui, da Ministro degli Esteri, ha affermato: "È un grande onore di incontrarmi nuovamente con l'ex Segretario di Stato degli Stati Uniti, per poter scambiare con lui le idee sulle sfide globali che ci attendono".[/caption]
Forte importanza ha dato alla questione della “flessibilità”: si punta su orari più flessibili e su una sorta di “monte ore” da “spendere” in modo flessibile. Kurz ha promesso un’equiparazione dei contratti nazionali per lavoratori e impiegati, con incentivi e programmi ad hoc per incrementare la formazione professionale. Ci saranno, così come scritto nel programma, semplificazioni e agevolazioni per chi vuole mettersi in proprio e aprire un’impresa.
Sull’istruzione la scelta è decisa a scolarizzare unicamente quei bambini che padroneggiano sufficientemente la lingua tedesca: corsi di recupero obbligatori sono invece previsti per i ragazzi appena arrivati e a tal fine verrà ampliato il corpo docenti. Successivamente l’obbligo di scolarizzazione non verrà più misurato in base agli anni frequentati, ma anche in base al livello di apprendimento conseguito.
Dunque ai primi urli di austro-fascismo e nazismo, bisognerebbe non solo far lavorare il giovane Cancelliere, ma soprattutto oggi l’Europa ha bisogno di risposte certe e chiare sul tema dell’Immigrazione e su quello dell’economia. Elementi che l’attuale autocrazia centralinista non è mai riuscita a dare. Il popolo austriaco ha certamente sorriso verso la spregiudicatezza di Kurz, ma parallelamente premiante è stata la chiarezza del programma, senza grandi giri di parole.
 
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di Miriana Fazi 07/10/2017

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Il lessico corrente della lingua italiana è notoriamente ricco di sinonimi e di espressioni che, plasticamente, si possono considerare di significato equipollente. Tuttavia, d’altro canto, il lessico giuridico si discosta non di poco da una simile premessa: per definizione, esso necessita di un rigore che non si presti a dare adito a interpretazioni fuorvianti delle parole e, di riflesso, delle disposizioni di legge che le suddette vanno a formare.
Un esempio particolarmente calzante di discrasia tra lessico corrente e lessico giuridico può essere fornito dai concetti di calunnia e diffamazione. Spesse volte si cede alla tentazione di considerare queste due figure giuridiche come sinonimiche e anfiboliche, cadendo spesso in errore.
Se “la calunnia è un venticello”… la diffamazione cos’è? Invero calunnia e diffamazione prestano il nome a due reati di diversa natura, che hanno ad oggetto beni giuridici altrettanto diversi e sono sorretti da finalità e regimi sanzionatori divergenti. Il reato di diffamazione ex art. 595 del codice penale, infatti, è annoverato tra i “delitti contro la persona” al Titolo XII del summentovato codice.
Il dispositivo della norma prevede che: Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a 1032 euro. Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a 2065 euro. Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a 516 euro. Se l’offesa è recata a un corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza, o ad una Autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate”.
Come si può agilmente evincere, il bene tutelato dall’articolo 595 c.p. è “la reputazione”, intesa come corollario dell’onore e come senso di dignità e rispetto che una persona suscita all’interno della comunità sociale. Qual è l’elemento oggettivo di questo reato? Ossia: qual è la condizione che deve necessariamente verificarsi, perché il reato in questione possa dirsi integrato? È necessario che si verifichi una “condotta, che si sostanzi nell’offendere la reputazione altrui dinnanzi a una molteplicità di persone ed in assenza del soggetto nei confronti del quale viene pronunciata l’espressione diffamatoria”.
Particolari problemi, però, sorgono allorquando la diffamazione avvenga a mezzo stampa, ossia tramite televisione, giornali e ogni mezzo di divulgazione aperto a un pubblico vasto e indeterminato.
Genericamente i giornalisti godono di una scriminante particolare, nota come “esercizio del diritto di cronaca”. Tale scriminante consente loro di poter esercitare la propria professione serenamente, senza temere ripercussioni dovute a quanto scritto o riportato. In qualche modo, l’esercizio del diritto di cronaca può stimarsi come un’appendice dell’articolo 21 della Costituzione, posto a presidio del diritto di libertà di espressione.
Tuttavia, la tutela del diritto di cronaca non compre indistintamente qualunque condotta del giornalista. Si pensi, per esempio, a un giornalista che, pur non esprimendosi in termini negativi e mantenendo un profilo informale, scriva un articolo marcatamente infamatorio ai danni di un determinato personaggio. Ebbene, il giornalista in questione potrà godere della scriminante sopra riportata, solo allorquando il suo articolo presenti “profili di interesse pubblico all’informazione, tali da prevalere sulla posizione soggettiva del singolo”. Inoltre sembra quasi pletorico menzionare il requisito di “veridicità dell’articolo” come elemento necessario ai fini dell’efficacia della scriminante in parola.
Ciò premesso, si può rivolgere l’attenzione ad altra sedem materiaeA latere della pittoresca visione rossiniana di calunnia come venticello (da: “Il Barbiere di Siviglia”), la dottrina prevalente inquadra quest’ultima (art 368 c.p.) come reato plurilesivo, ossia posto a tutela di una pluralità di beni giuridici. Tali interessi si possono ravvisare sia nella libertà di una persona innocente, che nel corretto funzionamento dell’amministrazione della giustizia.
La coscienza giuridica italiana è sempre stata attenta alla necessità di predisporre un reato simile, fin dai tempi dei codici preunitari e del Codice Zanardelli ( codice penale emanato nel 1889 e precedente all’attuale Codice Rocco, ndr); anche se in precedenza la calunnia era concepita come “reato contro la fede pubblica”.
Quale che sia la sua categorizzazione dogmatica, un elemento resta certo e imperituro nel corso del tempo: il regime sanzionatorio della calunnia vanta caratteri di peculiare severità, se analizzato comparativamente alle altre sanzioni, comminate per i restanti reati contro l’amministrazione della giustizia.
 
Il dispositivo della norma presenta una felice concisione, Comma uno:
Chiunque con denuncia, querela, richiesta o istanza, anche se anonima o sotto falso nome, diretta all’Autorità giudiziaria o ad altra autorità che a quella abbia obbligo di riferirne, incolpa di un reato taluno che egli sa innocente, ovvero simula a carico di lui le tracce di un reato, è punito con la reclusione da due a sei anni".
Comma due:
La pena è aumentata se si incolpa taluno di un reato per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione superiore nel massimo a dieci anni, o un’altra pena più grave.
Comma tre:
"La reclusione è da quattro a dodici anni, se dal fatto deriva una condanna alla reclusione superiore a cinque anni; è da sei a venti anni, se dal fatto deriva una condanna all’ergastolo".
Anzitutto, bisogna soffermarsi sull’analisi del fatto tipico del reato in parola.
A differenza della “simulazione del reato”, ove si denuncia un reato necessariamente inesistente, senza attribuirlo a persona determinata o facilmente e univocamente determinabile, l’articolo 368 c.p. sanziona come calunnia il comportamento di chi, esplicitamente o implicitamente, incolpa un’altra persona – pur conoscendone l’innocenza - di un reato inesistente, oppure esistente, ma commesso da altri.
Ne deriva che si possono profilare diverse forme di calunnia: quella formale (o verbale, o diretta) consiste nella falsa affermazione della commissione di un reato, mediante querela, denuncia, richiesta o istanza. Il termine “denuncia” si suole intendere in maniera generica, come “qualsiasi informazione concernente fatti criminosi”. Il rischio di tale lettura ampia, secondo alcuni, risiede nell’estensione analogica (ossia nella possibilità di ricomprendere entro il termine “denuncia” anche delle condotte "non idonee a rivestire tale qualifica”, procurando punibilità al loro fautore in maniera del tutto illiberale e anti garantistica).
D’altro canto, la forma materiale (o reale, o indiretta) si verifica allorquando sia commessa mediante la simulazione delle tracce di un reato. Le due diverse condotte sono equivalenti sul piano della punibilità e, qualora dovessero ricorrere insieme, non avrebbe luogo una pluralità di reati.
Naturalmente, in ogni caso, è da escludersi la calunnia omissiva. Qualora si volesse rendere omissivo il reato di calunnia, si porrebbe una problematica difficilmente superabile. Infatti nell’ordinamento italiano difetta un “obbligo di impedire una falsa incolpazione” e in mancanza di tale obbligo è impossibile innestare l’articolo 368 c.p. sulla valvola generale del 40 c.p., clausola che consente di trasformare i reati commissivi nei rispettivi omissivi.
L’elemento soggettivo è il dolo generico, inteso come “coscienza e volontà di di portare la falsa informazione all’autorità giudiziaria”. Naturalmente i motivi che spingono l’autore a commettere un tale delitto sono irrilevanti ai fini del dolo: tutt’al più, possono rilevare come circostanze ultronee da prendere in considerazione nella ricostruzione globale del fatto.
Per di più, la calunnia colposa ( dovuta a negligenza, imperizia, imprudenza o alla contravvenzione di leggi e regolamenti) non è punibile: manca infatti una previsione espressa a tal fine, che sarebbe invece necessaria ai sensi dell’articolo 42 comma2. Non è punibile nemmeno la calunnia sorretta da dolo eventuale (ossia la forma più lieve del dolo, quella in cui gli elementi di volontà e consapevolezza sono ridotti al minimo vigore: essa si profila come accettazione del rischio che un determinato evento dannoso si verifichi in conseguenza di una propria condotta antigiuridica).
Quanto alle forme di manifestazione del reato, si discute sull’ammissibilità del tentativo. Finora il dibattito sembra propendere per la soluzione positiva. La calunnia formale si consuma al momento in cui l’Autorità ha ricevuto o percepito la notizia del reato oggetto dell’incolpazione calunniosa. La calunnia materiale, invece, si consuma nel momento in cui le tracce simulate sono state scoperte.
È curioso, infine, valutare la percezione del reato di calunnia in ambito comparatistico.
In Germania essa è concepita come condotta a forma libera. Non esistono nel dispositivo tedesco delle aggravanti e attenuanti simili a quelle contenute nei commi 2 e 3 dell’articolo 368 e, per di più, l’ordinamento tedesco consente una maggiore estensione dell’oggetto di incolpazione. Infatti rileva perfino la commissione di un illecito disciplinare, quindi la violazione di un dovere di ufficio. Così come in Italia, invece, si suole escludere la punibilità della calunnia commessa a titolo di dolo eventuale. In Spagna figura una peculiare caratterizzazione dell’elemento soggettivo: per integrare quest’ultimo si richiedono consapevolezza della falsità e temerario disprezzo per la verità.
Inoltre la Penisola Iberica conta su uno speciale meccanismo di pregiudizialità: non è consentito procedere contro il denunciante, se non dopo la sentenza, o l’ordinanza definitiva di assoluzione, o l’archiviazione emessa dal giudice che abbia giudicato l’infrazione imputata.
Per concludere, giova riservare un ultimo sguardo al sistema francese, che classifica la calunnia tra i reati contro la persona, la ritiene commissibile con qualsiasi mezzo e consente di punire la “falsità parziale”, che si verifica quando la persona accusata ha davvero commesso il reato denunziato, ma questo è descritto dall’accusatore in modo parzialmente non veritiero.
 
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di Giuseppe Baiocchi 22/09/2017

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Chi vuole un Regno di Spagna unito all'insegna  della tradizione e dell'identità, nel rispetto di patrie e nazioni, non può che parteggiare per una paese unito. I Catalani hanno mantenuto nel corso dei secoli una volontà costante all’autogoverno, personificato in istituzioni quali la Generalitat – creata nel 1359 dalle Cervera Corts.
Il 18 Giugno del 2006 i catalani approvarono il nuovo statuto di autonomia della Catalogna con il 73,9% dei voti su una partecipazione al voto del 49,4%: in pratica due catalani su tre non votarono il progetto di Zapatero la "Spagna plurale”. Già all’epoca fu da più parti sottolineata la bassissima partecipazione invitando tutti alla riflessione. Mentre nel referendum di ratifica dello statuto del 1979 la partecipazione era stata del 59,7%, con i voti favorevoli pari all'88,1%. Sostanzialmente siamo di fronte ad una minoranza chiassosa che vuole prevaricare una maggioranza silenziosa.
[caption id="attachment_9445" align="aligncenter" width="1000"] Il 2 giugno 2014, a seguito di un colloquio privato con il sovrano, il primo ministro spagnolo Mariano Rajoy ha annunciato l'intenzione del re di abdicare in favore del figlio. Juan Carlos ha confermato la decisione, firmando l'abdicazione il 18 giugno. Il 19 giugno il padre gli ha imposto la fascia di Comandante dell'esercito di Terra, Aria e Mare. In seguito, ha giurato davanti alle Corti Generali dicendo: "Giuro di adempiere fedelmente ai miei doveri, osservare e far osservare la Costituzione e le leggi e rispettare i diritti dei cittadini e delle comunità autonome"; Felipe è stato così proclamato re di Spagna con il nome di Felipe VI e ha tenuto il suo primo discorso al Parlamento. Tornato al Palazzo reale di Madrid si è affacciato dal balcone per salutare la folla e ha assistito a una parata militare in suo onore.[/caption]
E’ bene ricordare che la Catalogna ha già una compiuta autonomia, basta leggere il suo Statuto.
• L’autogoverno della Catalunya è fondato sulla Costituzione, così come sui diritti storici del popolo catalano che, nel rispetto della Costituzione, danno origine in questo Statuto al riconoscimento della posizione unica della Generalitat. La Catalunya desidera sviluppare la sua personalità politica all’interno della struttura di uno Stato che riconosce e rispetta la diversità di identità dei popoli di Spagna;
• La tradizione civile ed associativa della Catalunya ha sottolineato sempre l'importanza della lingua e della cultura catalane, dei diritti e dei doveri, della conoscenza, della educazione, della coesione sociale, dello sviluppo sostenibile e dell'uguaglianza dei diritti, ed oggi, soprattutto, dell’uguaglianza tra donne e uomini;
• La Catalunya, attraverso lo Stato, partecipa alla costruzione del progetto politico dell'Unione Europea, i cui valori ed obiettivi condivide;
• La Catalunya, con la sua tradizione umanistica, afferma il suo impegno insieme a tutte le persone nel costruire un ordine mondiale pacifico e giusto.
Il Parlamento di Catalunya, riflettendo il sentimento e la volontà dei cittadini - ad ampia maggioranza - ha definito la Catalunya una nazione. La Costituzione spagnola, nel suo secondo articolo, riconosce la realtà nazionale di Catalunya come nazione. I poteri della Generalitat sono emanati dal popolo di Catalunya e sono esercitati in accordo con quanto stabilito dal presente Statuto e dalla Costituzione.
Il rapporto della Generalitat con lo Stato è basato sul principio di reciproca lealtà istituzionale, e regolato dal principio generale secondo cui la Generalitat è Stato, per i principi di autonomia, bilateralismo ed anche di multilateralismo.
Siamo di fronte ad una strumentalizzazione di forze nichiliste e estremiste, che sulla carta fondamentale parlano di inclusione, ma che nei fatti propugnano un nazionalismo esclusivo.
Il tentativo ben evidente di puntare a distruggere un'istituzione monarchica costituzionale, quella dei Borbone, per instaurare una repubblica in Catalogna - in una regione che non ha nulla da rivendicare -, è quantomeno evidente, basta leggere il suo statuto o carta fondamentale.
In quest'ultima si può analizzare la piena attuazione di un'autonomia a tutto campo, nel solco della fedeltà e lealtà alla Costituzione della Spagna e all’interno dello Stato, mentre una minoranza espressione di una minoranza, si sforza unicamente nella direzione di non comprendere le differenze di una vera società inclusiva, in cui conti l'amore per la Catalogna, ma anche per la Spagna e per l'Europa.
[caption id="attachment_9440" align="aligncenter" width="1000"] L'attuale costituzione spagnola si riferisce alla monarchia come "la corona di Spagna" e il titolo costituzionale del sovrano è semplicemente rey/reina de España. La legge costituzionale, però, accenna anche alla possibilità dell'uso degli altri titoli storici della monarchia iberica, senza tuttavia specificarli. Un decreto promulgato il 6 novembre 1987 dal consiglio dei ministri regola i titoli e il trattamento spettante ai membri della casa reale, e, su queste basi, il sovrano ha il diritto di usare gli altri titoli appartenenti alla corona (El titular de la corona se denominará Rey o Reina de España y podrá utilizar los demás títulos que correspondan a la Corona, así como las otras dignidades nobiliarias que pertenezcan a la Casa Real). Contrariamente a quanto si crede, la serie completa dei titoli storici, che comprende oltre venti regni, non è attualmente in uso. L'insieme dei titoli feudali venne impiegato l'ultima volta nel 1836 con Isabella II di Spagna. Inoltre è Gran maestro del Real Consiglio degli Ordini Militari.[/caption]
La Catalogna insieme al resto della Spagna costituisce una realtà sociale e storica: il catalano, con la sua lingua, è un linguaggio e fa parte della cultura iberica. Tale linguaggio dovrebbe essere usato come mezzo di comunicazione tra gli individui, non come strumento di divisione.
Esistono sempre dei distinguo, che sono l’anima della vecchia Europa, in cui hanno convissuto varie anime, perché tante patrie, ognuna con le sue peculiarità, ma all’interno di nazioni e queste a loro volta di Stati.
Occorre a questo punto fare una precisazione su cosa sia una patria o piuttosto una nazione:
_per patria si intende il complesso degli uomini che abitano il territorio nel quale ciascuno dei suoi componenti appartiene per nascita, la terra dei propri padri, lingua, cultura, storia e tradizioni accomunati da tutto un insieme di istituzioni, tradizioni, sentimenti, ideali;
_per nazione si intende un complesso di individui che hanno comunanza di origine, di lingua, di storia e che di tale unità hanno coscienza, anche indipendentemente dalla sua realizzazione in unità politica. Solitamente una comunanza basata su consanguineità, comune discendenza, sede comune, lingua, religione, costumi. La nazione si fonda su vincoli non giuridici, piuttosto naturali, morali;
_per Stato si intende il vincolo giuridico, l’elemento formale di cui patria/e e nazione/i ne sono i componenti. Esso è l'entità giuridica che possiede le strutture amministrative e politiche, che detiene potere sovrano su un determinato territorio e sui soggetti che vi appartengono.
La Catalogna ha una autonomia di fatto compiuta. Le millanterie nazionalistiche sulle affermazioni che la Spagna sottragga risorse alla Catalogna stessa o il presunto disprezzo nei confronti dei Catalani, non hanno riscontrato nessun veridicità internazionale, soprattutto dopo i tragici eventi di Barcellona. Sono gli stessi Catalani unionisti, la maggioranza a testimoniarlo. Piuttosto si può certamente biasimare la mancanza di libertà subita in Catalogna dagli unionisti, dove il discorso del nazionalismo sembra essere l'unica forma corretta per rappresentare i Catalani. L'invasione di questa politica di pensiero unico nei media ufficiali e nelle amministrazioni pubbliche locali e regionali è contraria al dovere fondamentale della neutralità e della pluralità democratica.
E’ piuttosto necessario mettere in guardia sul rischio che riguarda i rigurgiti dei sentimenti di guerra civile, della propaganda dell'argomento del nazionalismo vittimistico, che ha portato così tanta sofferenza ai suoi popoli durante il passato recente. La Carta Fondamentale di un popolo o Costituzione è lì a garantire proprio i cittadini, che ad essa si affidano per regolare i loro rapporti e ad essa fa continuo riferimento anche lo Statuto della Catalogna, anche se oggi sembra non voler rispettare il patto con essa. La certezza del diritto deve restare un valore fondante di uno Stato. Per questo in Catalogna bisognerebbe coraggiosamente difendere ciò che unisce e rigettare ciò che separa, invitando tutti gli spagnoli, catalani o meno, a mobilitarsi in difesa della coesistenza nella diversità, in una Spagna di tutti. La Catalogna è parte dell'essenza della Spagna, pertanto ricordiamo a tutti gli spagnoli che la separazione è un problema di tutti: il paese iberico senza la Catalogna non sarebbe più la Spagna.
[caption id="attachment_9441" align="aligncenter" width="1000"] Non è bastato neanche il saluto commosso del sovrano spagnolo, Felipe Juan Pablo Alfonso de Todos los Santos de Borbón y Grecia (Felipe VI), verso le vittime del brutale attentato terroristico dell'agosto 2017, per spegnere le polemiche indipendentiste catalane.[/caption]
Alla Catalogna non manca il riconoscimento della sua patria, della sua nazione. A ben vedere i nazionalisti millantano che il popolo Catalano reclama la libertà, ma la possiede già, tutelata dalla sua carta fondamentale, messa nero su bianco.
La Spagna riconosce alla Catalogna la Generalitat, un parlamento che legifera autonomamente, ha una sua polizia, la sua bandiera, il suo inno, i suoi diritti. Si può forse dire che la Catalogna non sia libera?
Invito alla lettura dello Statuto catalano. La realtà è un’altra: una classe politica anti tradizionale, anacronisticamente marxista - probabilmente sostenuta da forze di un disegno più grande che vuole colpire l’istituto monarchico e le tradizioni, di cui il popolo spagnolo è fiero custode -, vuole infliggere un colpo mortale ad un sistema che è l’ultimo baluardo contro il dilagare del relativismo più sfrenato, della società liquida e liquefatta, senza più riferimenti.
Un modello che costruirà una nuova etnia di sudditi operai, capaci solo di obbedire, perché privati anche dell’anima, della morale, delle radici cristiane, della identità e di molto altro ancora. L’autonomia è diventato solo il puntello per far breccia nelle spesse mura costruite da secoli di storia: nulla di tutto ciò è vicino alla pace e alla prosperità dei Catalani, quindi degli Spagnoli e di tutti quelli che hanno a cuore questi valori. Sì all'Autonomia no alla Secessione.
 
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di Miriana Fazi 07/08/2017

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La Camera ha approvato il disegno di legge che introduce il reato di tortura nell’ordinamento italiano con 198 voti favorevoli, 35 contrari e 104 astenuti. Il ddl – di iniziativa parlamentare e a prima firma di Luigi Manconi del Partito Democratico – era stato approvato dal Senato con lo stesso testo lo scorso 17 maggio e quindi è diventato legge. Il corpus normativo del codice penale si è ampliato con l’aggiunta dell’articolo 613- bis. Quest’ultimo disciplina il reato di tortura per la prima volta nella storia dell’ordinamento italiano, che finora è stato tacciato d’inadempienza in merito agli obblighi di incriminazione previsti da varie Convenzioni di matrice europea e internazionale.
Il testo della norma si profila come frutto di un atteggiamento compromissorio che forse, parzialmente, ha “snaturato” l’originale attitudine della disposizione in esame.
In ogni caso, mentre l’articolo 613 bis tipizza la condotta che integra reato di tortura, l’articolo 613 –ter si atteggia a coronamento della disposizione, delineando i parametri normativi dell’’ istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura.
 
Cosa dispone l’articolo 613 bis?
È prevista la reclusione da 4 a 10 anni per chi “con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa (...), se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona”. La fattispecie è aggravata - da 5 a 12 anni di reclusione - se i fatti di cui sopra “sono commessi da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio”.
N0n rilevano sul piano della punibilità le “sofferenze risultanti unicamente dall'esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti”. Alcune aggravanti sono previste allorché dai fatti anzi citati conseguano:
_una lesione personale: la pena è aumentata fino a 1/3;
_una lesione personale grave: aumento di 1/3;
_una lesione personale gravissima: aumento della metà;
_la morte quale conseguenza non voluta: 30 anni di reclusione;
_la morte quale conseguenza voluta: ergastolo.
 
Nel caso dell’istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura (art. 613-ter), si applica la reclusione da 6 mesi a 3 anni al pubblico ufficiale o incaricato di un pubblico servizio "il quale, nell'esercizio delle funzioni o del servizio, istiga in modo concretamente idoneo altro pubblico ufficiale o altro incaricato di un pubblico servizio a commettere il delitto di tortura, se l'istigazione non è accolta ovvero se l'istigazione è accolta ma il delitto non è commesso".
La disciplina di cui all’articolo 613 bis estende i propri effetti fino a recare modifica all'art. 191 c.p.p., in tema di prove illegittimamente acquisite. Il nuovo comma 2-bis stabilisce la inutilizzabilità delle dichiarazioni o delle informazioni ottenute mediante il delitto di tortura, salvo che contro le persone accusate di tale delitto e al solo fine di provarne la responsabilità penale. Ulteriori disposizioni prevedono:
_il divieto di respingimento, espulsione o estradizione di una persona verso uno Stato, quando vi siano "fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura"; a tal fine si tiene conto anche dell’esistenza, in tale Stato, di violazioni sistematiche e gravi di diritti umani;
_l'esclusione dall'immunità diplomatica agli stranieri sottoposti a procedimento penale o condannati per il reato di tortura in altro Stato o da un tribunale internazionale; in tali lo straniero è estradato verso lo Stato richiedente nel quale è in corso il procedimento penale o è stata pronunciata sentenza di condanna per il reato di tortura o, in caso di procedimento davanti ad un tribunale internazionale, verso il tribunale stesso o lo Stato individuato ai sensi dello statuto del medesimo tribunale.
Ma perché è stato necessario introdurre il reato di tortura in Italia? Dal più recente rapporto di Amnesty International emerge che 112 Paesi nel mondo praticano ancora la tortura. Molti di questi, per contrastare un simile atteggiamento- unanimemente percepito come illecito, si sono dotati di una fattispecie repressiva apposita; ma in questo composito gruppo di Paesi riformatori non figurava l’Italia. Tuttavia il bel Paese ha finito per doversi allineare a questa tendenza: un’ulteriore procrastinazione avrebbe comportato embarghi non indifferenti allo Stato, nel lungo periodo.
Il peso cruciale di questi dati si sommava alla preoccupazione general preventiva che si atteggia a scopo primigenio di ogni stato di diritto. Pertanto, a prescindere dalla radice del sistema giuridico – common law o civil law che sia - non si può contravvenire all’esigenza di rispettare il principio di tassatività e determinatezza della fattispecie penale. Essa, infatti, invade lo spazio di libertà del cittadino, incidendovi in maniera più o meno invasiva in base alla qualità della sanzione (pecuniaria o detentiva). Il reato di tortura, è stato così finalmente predisposto dal legislatore per dirimere quelle controversie aventi ad oggetto fatti di reato non altrimenti incriminabili o, comunque, incriminabili mediante misure ingiustificatamente meno severe rispetto agli standard internazionali.
Alcuni recenti fatti di cronaca, come i casi “Cucchi”, “Aldrovandi” e “G8 di Genova” hanno infine riportato in auge la diatriba sulla necessità di introdurre una fattispecie apposita.
Se ci poniamo il quesito di cosa sia il reato di tortura per l’ONU, osserviamo come la "Convenzione Onu" del 1989 definisce la tortura come “qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o di intimidire od esercitare pressioni su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione”.
La stessa Convenzione precisa che, ai fini della qualificazione del reato di tortura, l’azione deve essere posta in essere da un pubblico ufficiale “o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito”.
Come obblighi internazionali, il divieto di tortura è previsto da numerose convenzioni internazionali sui diritti umani, come la Convenzione Onu contro la tortura del 1989, la Convenzione Europea per la Prevenzione della Tortura e della pene o trattamenti crudeli, e la Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo. In particolare, la Convenzione Onu del 1989 contro la tortura obbliga gli Stati ad inserire nel proprio diritto penale interno il reato di tortura. Sono moltissimi gli Stati, che proprio al fine di conformarsi a tale obbligo, hanno previsto il reato di tortura nel codice penale e, in alcuni casi, ne hanno sancito il divieto anche a livello costituzionale.
Ora operiamo uno sguardo al diritto comparato: il reato di tortura nel resto del mondo.
 
Turchia
Nel 2016 lo Stato turco ha abolito "l'Istituzione nazionale per i diritti umani”, a seguito del tentato golpe del 15 luglio 2016.
Il leader turco Erdogan ha stretto ancor più le maglie del controllo e della repressione. Sono aumentate le segnalazioni di torture e maltrattamenti durante i periodi di custodia, nelle zone del sud-est a maggioranza curda, ma ancor di più a Istanbul e ad Ankara. Lo stato d'emergenza ha eliminato tutte le tutele per i detenuti e ha permesso pratiche precedentemente vietate: il periodo massimo di detenzione preventiva è stato portato da 5 a 30 giorni e sono state introdotte misure per impedire per 5 giorni ai fermati in custodia preventiva l'accesso a un legale e per registrare le conversazioni tra cliente e avvocato durante la detenzione e passarle ai pm. Le visite mediche sono effettuate in presenza di poliziotti e i loro esiti arbitrariamente negati agli avvocati dei detenuti. Nell'ultimo anno migliaia di persone sono state rinchiuse in centri di detenzione illegali.
 
Iran
In Iran la tortura è una tecnica impiegata per estorcere “confessioni”. I detenuti sotto l'autorità del ministero dell'Intelligence e dei Guardiani della rivoluzione sono stati regolarmente sottoposti a prolungati periodi di isolamento. Le denunce di torture sortiscono spesso effetti contrari: fanno proseguire e inasprire le torture e portano a pesanti sentenze. Secondo Amnesty International, i giudici continuano a considerare ammissibili le "confessioni" come prove a carico dell'imputato. Per chi viene arrestato spesso è ignorato il diritto ad accedere a un legale ed è negato anche l'accesso a cure mediche adeguate ai prigionieri politici. Sono in vigore pene disumani e degradanti, equiparabili a torture, quali fustigazioni, accecamenti e amputazioni.
 
 
Russia
In Russia torture e maltrattamenti sono pratica diffusa e sistematica durante la detenzione iniziale e nelle colonie penali. Sono stati denunciati recentemente uccisioni, arresti e torture di gay rinchiusi in prigioni segrete in Cecenia. Musa Mutaev, kirghiso, autore del libro Il sole verde, ha subito svariate torture e vessazioni fisiche e psicologiche prima di riuscire a fuggire nel 2004 in Norvegia e diventare scrittore. Nel suo libro racconta i sistemi di terrore usati dalle forze russe per estorcere confessioni indotte: scosse elettriche, rottura di arti, sangue.
 
Egitto
La drammatica fine di Giulio Regeni, il ricercatore italiano vittima di violenze inaudite e trovato morto in strada il 3 febbraio 2016, è lì impressa nella memoria, a triste monito delle disumane pratiche poliziesche in Egitto. Associazioni per i diritti umani hanno documentato decine di casi di decessi in custodia dovuti a tortura, maltrattamenti e mancanza di accesso a cure adeguate. Si sono praticate torture e maltrattamenti durante le fasi dell'arresto, come pure durante gli interrogatori. Molti sono stati vittime di sparizione forzata. I metodi utilizzati comprendevano duri pestaggi, scosse elettriche o costrizione a rimanere in posizioni di stress.
 
 
Israele
Amnesty International leva il dito anche contro Israele. Torture o maltrattamenti sono inflitti nell'impunità a detenuti palestinesi (minori compresi) da agenti dell'esercito, della polizia e dell'agenzia israeliana per la sicurezza (Isa), in particolare nelle fasi dell'arresto e dell'interrogatorio. Le pratiche segnalate: percosse, schiaffi, incatenamento in posizioni dolorose, privazioni del sonno, posizioni di stress e minacce.
Dal 2001 ci sono state mille denunce, ma il ministero della Giustizia, competente in materia dal 2014, non ha avviato alcuna indagine penale.
 
Palestina
In Palestina la polizia come pure le altre forze di sicurezza della Cisgiordania, la polizia di Hamas e le altre forze di sicurezza di Gaza hanno abitualmente e impunemente torturato o maltrattato detenuti, compresi minori. Tra gennaio e novembre 2016 la commissione indipendente palestinese ha ricevuto 398 denunce tra tortura e altri maltrattamenti (163 da detenuti in Cisgiordania e 235 da detenuti a Gaza) ma non sono mai state condotte indagini indipendenti.
 
 
Regno Unito
Il Regno Unito è stato uno dei più veloci nell'attuazione della Convenzione contro la tortura dell'Onu del 1984 e nel prevedere la pena più severa, la detenzione a vita. Il riferimento normativo è il Criminal Justice Act del 1988 dove, nella Parte XI, c'è un'apposita sezione dedicata alla tortura commessa da un pubblico ufficiale e comprende sia quella fisica ("grave dolore o sofferenza") che quella psicologica (è "irrilevante" se le sofferenze che consentono di definire un atto come tortura siano di tipo "fisico o mentale" o se "siano stati provocati da azioni o da omissioni").
Qualche obiezione l'hanno però suscitata i commi 4 e 5 dell'articolo 134, che escludono la presenza di reato di tortura se chi ha posto in atto la condotta idonea a provocare gravi dolori o sofferenze possa provare di averlo fatto in virtù di una legittima autorità, giustificazione o scusa. La spiegazione? I commi sono stati inseriti in ottemperanza alla parte finale dell'articolo 1 della Convenzione Onu, in cui il termine tortura "non si estende al dolore o alle sofferenze risultanti unicamente da sanzioni legittime, inerenti a tali sanzioni o da esse cagionate". Per esempio "un chirurgo che provoca sofferenze nell'esercizio legittimo della sua professione".
Un'ulteriore disposizione normativa contro la tortura è inserita nello Human Rights Act del 1998, la legge che ha recepito nell'ordinamento interno la Convezione Europea sui Diritti dell'Uomo.
 
 
Stati Uniti
Sul fronte Stati Uniti, l'ottavo emendamento della Costituzione americana proibisce di infliggere "pene crudeli e inconsuete". Non si parla esplicitamente di tortura ma, dagli anni Ottanta, la Corte Suprema americana ha stabilito che la tortura è contro la legge in base all'ottavo emendamento. In seguito agli attentati dell'11 settembre, però, nel 2003 il dipartimento di Giustizia americano dichiarò che "l'ottavo emendamento non trova applicazione" quando si tratta di ottenere "informazione di intelligence da parte di combattenti catturati". Nel 1994 il "Torture Act" (formalmente noto come Titolo 18, Parte I, Capitolo 113C del Codice statunitense) ha proibito la tortura da parte di dipendenti federali contro persone "in loro custodia o sotto il loro controllo", fuori dagli Stati Uniti. Ciò non ha impedito lo scandalo delle torture nelle prigioni militari all'estero, Guantanamo in prima fila. Solo dopo anni di polemiche, il presidente George W. Bush, nel 2007, ha firmato un ordine esecutivo per proibire alla Cia qualsiasi trattamento inumano nei confronti di prigionieri catturati nella lotta al terrorismo, impegnandosi a rispettare l'articolo 3 della Convenzione di Ginevra che vieta la tortura contro i prigionieri di guerra. Nel 2009 il presidente Barack Obama ha messo al bando l'uso della crudeltà durante gli interrogatori ovunque nel mondo. Dal 2005 è inoltre in vigore negli Usa il Detainee Treatment Act, che proibisce "pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti" del personale nelle prigioni militari.
 
 
Germania
In Germania il divieto di tortura è di fatto contenuto nella Costituzione. Non esiste una norma specifica nell'ordinamento tedesco, ma è presente una serie di articoli di legge del codice penale in cui la fattispecie della tortura è specificata in maniera molto esplicita, con pene di reclusione che possono andare da 3 ai 10 anni. L'articolo primo della Legge fondamentale della Repubblica federale sancisce che è "dovere di ogni potere statale rispettare e proteggere la dignità dell'uomo"Sempre nel testo costituzionale, al comma 1 dell'articolo 104, si afferma che le persone tratte in arresto "non possono essere sottoposte né a maltrattamenti morali, né a maltrattamenti fisici".
Non solo. Nel codice penale vi è un esplicito ancoramento agli articoli 3 e 15 della Convenzione europea per i diritti dell'uomo, in cui si afferma che nessuno individuo può essere "sottoposto alla tortura oppure a punizioni o trattamenti disumani o umilianti", nonché che queste disposizioni valgono anche "se la vita della nazioni è minacciata dalla guerra o da altra emergenza di natura pubblica".
 
 
Francia
La Francia ha ratificato nel febbraio 1986, poco più di un anno dopo la sua stipula, la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura. È all'articolo 1 della Convenzione che si possono richiamare i giudici francesi quando incorrono in un reato di tortura: questo non è infatti definito con precisione dall'ordinamento giuridico d'oltralpe. Sono i giudici che definiscono, caso per caso, gli "atti di tortura e di barbarie".
Generalmente, si tratta di azioni violente estremamente gravi, che si traducono in un oltraggio all'integrità fisica della vittima ma senza che ci fosse intenzione di uccidere. L'autore di tali atti dimostra una crudeltà estrema, che suscita l'indignazione generale. Il grado di punizione per tali atti dipende dalle conseguenze, dagli strumenti impiegati e dalle caratteristiche della vittima. Secondo il Codice penale francese, articolo 222, l'autore rischia la condanna a 15 anni di reclusione criminale; la pena può essere aumentata a 20 anni se le vittime sono bambini sotto i 15 anni, persone vulnerabili come anziani, ammalati, invalidi o donne incinte, o ancora se gli atti sono stati commessi utilizzando o minacciando l'uso di un'arma. La pena può arrivare a 30 anni se gli atti di tortura o di barbarie sono commessi su un minore di 15 anni da un parente legittimo, naturale o adottivo o da qualsiasi altra persona che ha un'autorità sul minore, o ancora se gli atti sono commessi da una banda organizzata o in modo ripetuto su un minore di 15 anni o su una persona vulnerabile o se questi atti hanno provocato una mutilazione o un'infermità permanente. Se la vittima muore, può scattare l’ergastolo.
 
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