[vc_row css_animation="" row_type="row" use_row_as_full_screen_section="no" type="full_width" angled_section="no" text_align="left" background_image_as_pattern="without_pattern" css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_separator type="normal" color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Miriana Fazi del 14/12/2016[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1481675494063{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
La disfatta referendaria di dicembre 2016, ha fatto dimettere Matteo Renzi, nonostante l'ampia maggioranza, all’incarico di Primo Ministro. L’esecutivo italiano, non è nuovo a turbolenze di tal genere, tanto che a seguito del governo Berlusconi si sono succeduti soltanto governi tecnici, riparatori - composti ad hoc - per traghettare la nazione fino alla successiva legislatura. Di fatto, l'insediamento del governo Monti ha posto fine a una delle più brevi crisi di governo che la storia recente vanti: soli tre giorni. Le crisi più lunghe, al contrario, sono seguite al governo Dini (1996, 127 giorni), all'Andreotti I (1972, 121), all'Andreotti V (1979, 126), fino al Prodi II (2008, 104 giorni). Nei succitati casi, tutte le crisi hanno causato lo scioglimento ante tempus delle Camere e hanno posto fine alla legislatura.
Occorre rilevare che il periodo intercorrente fra le dimissioni di un Esecutivo e l'entrata in carica del successivo permette al governo uscente di svolgere solo funzioni di “ordinaria amministrazione” (o “affari correnti”). Nei 23.845 giorni trascorsi dalla nascita della Repubblica all'ultimo giorno di “proroga” del quarto governo Berlusconi, ben 2.004 giorni sono stati gestiti da governi limitati nei loro poteri e nelle loro funzioni. In questa scheda cercheremo di evidenziare i dati statistici e politici più significativi di queste 61 crisi ministeriali, utilizzando in parte le classificazioni dello studio “L'instabilità governativa nell'Italia repubblicana” (Roma, 1992, a cura di G. Negri e L. Tentoni) e ricalcolando – aggiornandole – le cifre relative all'intero periodo e in particolare agli anni della cosiddetta “Seconda Repubblica”.

Il primo elemento significativo sta nella sostanziale continuità – nel periodo 1946-1992 – delle formule politiche a fronte di un susseguirsi di governi spesso molto simili per composizione ai precedenti (lo Spadolini II era identico, tranne che per un sottosegretario) e per i partiti che lo componevano. Talvolta, la crisi non ha portato alla sostituzione del Presidente del Consiglio. Fra il 1945 e il 1953 Alcide De Gasperi ha governato ininterrottamente per 2.808 giorni (record ineguagliato) attraversando però sette crisi ministeriali per un totale di 116 giorni. Sono rimasti al proprio posto anche Amintore Fanfani (1962, fra il suo terzo e il suo quarto governo), Aldo Moro (1964 e 1966, dal primo al terzo governo), Mariano Rumor (1969 e 1970, per i suoi primi tre governi), Giulio Andreotti (1972, fra il primo e il secondo) poi di nuovo Rumor (1974, per il quarto e quinto governo), ancora Moro (1976, quarto e quinto governo), Andreotti (1978 e 1979: terzo, quarto e quinto), Francesco Cossiga (1980, per i suoi due governi), Giovanni Spadolini (1981: il primo premier non DC della Repubblica, primo e secondo governo), Bettino Craxi (1986, fra il suo primo e il secondo governo), ancora Andreotti (1991, fra il sesto e il settimo governo), Massimo D'Alema (1999, fra il primo e il secondo), Silvio Berlusconi (2005, fra il secondo e il terzo governo).

[caption id="attachment_7149" align="aligncenter" width="1000"]copertina-per-sito Da sinistra a destra: Alcide De Gasperi, Amintore Fanfani , Aldo Moro, Mariano Rumor , Giulio Andreotti, Francesco Cossiga, Bettino Craxi.[/caption]
Ben 37 governi sui 62 che si sono alternati fino al 16 novembre 2011 si sono “concatenati”: hanno avuto, cioè, continuità nella premiership rispetto al gabinetto ministeriale precedente o successivo. Questa cifra esprime bene il “cambiamento senza rinnovamento” che spesso ha caratterizzato le crisi, originate il più delle volte non dall'esaurirsi di un ciclo politico e neppure dalla contestazione all'operato o alla figura del Presidente del Consiglio, ma da altri fattori spesso interni alla coalizione o – in certi casi – al partito di maggioranza relativa (la DC, fra il '46 e il '94). Dunque il famoso riadattamento della frase presente nel "Gattopardo" di Giuseppe Tomasi di Lampedusa sembra essere sempre attualissima: "tutto deve cambiare perché tutto resti come prima".
Il secondo elemento degno di nota – per certi versi collegato al primo – sta nel numero di dicasteri formati dai Presidenti più “longevi” al governo (31 sono stati formati dai primi cinque: De Gasperi, Andreotti, Moro, Berlusconi e Fanfani, contro i 31 governi degli altri 20 Premier; per i primi cinque l' “ordinaria amministrazione” è durata 1.094 giorni contro i 910 degli altri, soprattutto perchè Andreotti detiene il record di “proroga”: è stato per ben 454 giorni a Palazzo Chigi per il disbrigo degli affari correnti, gestendo da solo il 22,7% di tutta l'ordinaria amministrazione della storia repubblicana). Fra i più presenti a Palazzo Chigi (definizione non del tutto propria, perchè il trasferimento della presidenza al Viminale nell'attuale sede è avvenuto solo nel 1961) ben tre dei primi dieci sono personalità riconducibili alla “Seconda Repubblica” (Berlusconi, Prodi, Amato); fra i primi sei sono addirittura due (Berlusconi e Prodi). Fra i più presenti al governo in veste di Premier figurano Silvio Berlusconi (3.330, 4 governi), Alcide De Gasperi (2.808 giorni, 8), Giulio Andreotti (2.669, 7), Aldo Moro (2.277, 5), Amintore Fanfani (1.660, 6), Romano Prodi (1.608, 2), Bettino Craxi (1.351, 2), Mariano Rumor (1.098, 5), Antonio Segni (1.087, 2), Giuliano Amato (717, 2). Fra gli undici Presidenti della Repubblica (De Nicola, Einaudi, Gronchi, Segni, Saragat, Leone, Pertini, Cossiga, Scalfaro, Ciampi, Napolitano), quattro sono stati Premier, ma solo Segni per più di mille giorni. Nessuno di loro (Segni, Leone, Cossiga, Ciampi) ha guidato più di due governi (Ciampi solo uno) e, in genere, per periodi non molto lunghi.
Un terzo elemento interessante riguarda il rapporto fra la durata dei governi e i giorni di crisi. Mentre la durata media delle crisi di governo è di 32,85 giorni, quella dei dieci più duraturi è di 23,4 (in otto casi è addirittura inferiore ai 20 giorni) per il 2,6% della durata complessiva dell'Esecutivo (in carica e in ordinaria amministrazione) contro l'8,4% del periodo 1946-2011. Formare un governo “longevo” è stato spesso molto difficile. Solo 14 su 61 sono rimasti in carica almeno 18 mesi, contro i 15 che sono rimasti in carica meno di sei mesi (due sono durati addirittura rispettivamente 32 e 23 giorni).
Una differenza significativa per quanto riguarda la durata dei governi e delle crisi, può essere riscontrata dividendo la storia della Repubblica in periodi:
1) L'Assemblea Costituente (1946-1948). Caratterizzata da governi – almeno inizialmente – di grande coalizione, ha avuto Esecutivi di scarsa durata (media 170 giorni compresa l'ordinaria amministrazione) ma crisi brevi (media 10,5 giorni).
2) Primo centrismo (1948-1953). E' il quinquennio degasperiano, della formula DC più alleati minori (PRI, PLI, PSDI). I governi durano di più (627 giorni) e le crisi sono ancora brevi (14 giorni).
3) Secondo centrismo (1953-1960). La formula politica (DC più alleati minori: PRI e PSDI, ma anche PLI e monarchici) è stabile ma va logorandosi: governi e premier si alternano più spesso. La durata media diminuisce a 302 giorni dei quali 14 di crisi.
4) Transizione (1960-1962). Sono i governi della crisi centrista e della transizione verso il centrosinistra. Se il governo Tambroni è uno dei più brevi (116 giorni più 7 di crisi), il terzo governo Fanfani è più duraturo (556 più 19 di crisi), perchè è la vera e propria prova generale del centrosinistra.
5) Primo centrosinistra (1962-1968). E' l'esordio dell'alleanza fra DC, PSI, PRI e PSDI, che segna l'avvio di un nuovo ciclo dopo quello centrista (1948-1960). Ogni governo dura in media 434,4 giorni più 29,6 per gli affari correnti (in tutto: 464 giorni). In questo periodo Moro vara l'Esecutivo che resterà a lungo (fino ai tempi di Craxi) il più longevo della storia repubblicana: 833 giorni (più 19 di crisi) fra il 1966 e il 1968.
6) Secondo centrosinistra (1968-1972). E' una fase di declino del quadripartito, durante la quale la durata media dei governi scende sotto i 200 giorni e quella delle crisi sale verso quota 50.
7) Transizione (1972-1976). Fra il ritorno del centrismo e la preparazione di una nuova stagione (il “compromesso storico” fra DC e PCI) si susseguono cinque governi che restano in carica 297 giorni, 43 dei quali in “proroga”.
[caption id="attachment_7150" align="aligncenter" width="1280"] Enrico Berlinguer segretario del partito comunista italiano e un giovanissimo comunista a suo fianco: Massimo D'alema. Segue Achille Occhetto.[/caption]
8) Solidarietà nazionale (1976-1979). E' la stagione in cui il PCI sostiene di nuovo un governo (trent'anni dopo essere uscito dalla maggioranza con DC e PSI). Al governo si susseguono due monocolori DC: il primo vede PCI, PSI, PSDI, PLI e PRI astenersi (“la non sfiducia”), poi ('78) votare a favore (tranne il PLI). E' una stagione segnata da gravi crisi sociali ed economiche e dal terrorismo (il rapimento di Moro). I governi durano mediamente 367 giorni – più che nel recente passato – ma le crisi sono lunghe (76 giorni).
9) Transizione (1979-1981). Fallito il compromesso storico, si riparte dall'accordo fra DC e PSI, in vista di una nuova stagione (il “pentapartito”). In 594 giorni si susseguono tre governi (durata media: 198 giorni) durante i quali ben 70 sono occupati dalle crisi (consultazioni, trattative fra i partiti) .
10) Pentapartito (1981-1991). E' una lunga stagione durante la quale DC, PSI, PRI, PLI e PSDI governano insieme. Si inaugura un'alternanza alla guida del governo. Dal 1983 al 1991 fra DC e PSI, ma già nel 1981-1982 il leader repubblicano Spadolini è premier, dopo 46 anni di governi a guida DC. Fra il 1981 e il 1987 la durata media dei governi “è di 440 giorni, se si escludono i ministeri pre-elettorali presieduti da Fanfani” mentre “negli anni 1987-1991 la media scende a 414 (Goria, De Mita, Andreotti VI)” (Negri, Tentoni, cit.). I giorni di crisi, che fra l'83 e l'87 sono 57, scendono a 44 nella legislatura successiva (1987-'92). Fra il 1983 e il 1986 Craxi resta al governo per 1092 giorni (compresi 33 di crisi) battendo il record di Moro.
11) Transizione (1991-1994). Col settimo governo Andreotti si consuma la fine del pentapartito: il PRI rifiuta di parteciparvi; nella successiva legislatura (1992-1994) il sistema è travolto da Tangentopoli. Si susseguono due brevi governi: il primo di Giuliano Amato e quello del tecnico Ciampi. Si tratta di Esecutivi che restano mediamente in carica per un anno. La crisi del governo Amato dura appena sette giorni.
[caption id="attachment_7151" align="aligncenter" width="1000"] Il procuratore Antonio di Pietro durante una delle ultime udienze del processo Enimont, 1994.[/caption]
12) Seconda Repubblica (1994-2011). E' caratterizzata dall'alternarsi al governo di due coalizioni, una di centrodestra guidata da Berlusconi e una di centrosinistra guidata da Prodi (e da altri leader che assumono la presidenza del Consiglio, nel periodo 1998-2001). Mentre i governi della “Prima Repubblica” (1946-'94) restavano in carica circa 342 giorni, 33 dei quali in proroga, nella Seconda è aumentata la durata media (625,7 tranne il governo Monti) anche se le crisi sono solo un po’ meno lunghe (30,5 giorni). A onor del vero, va detto che la cosiddetta “Seconda Repubblica” ha avuto due legislature brevi (1994-'1996 e 2006-2008).
La percentuale dei giorni di crisi su quelli totali di governo è del 20,6% (crisi del governo Berlusconi I e del governo Dini) nel 1994-1996 e del 14,4% nel 2006-2008 (crisi del governo Prodi II).
Le due legislature portate a compimento, però, una dal centrosinistra (1996-2001) e una dal centrodestra (2001-2006) fanno registrare alte durate medie dei governi (rispettivamente 462 e 901) e mediamente solo 8,5 giorni di crisi per ogni Esecutivo (nel decennio '96-2006 meno dell'1,5%). Anche il governo Prodi II, che caratterizza l'intera XV legislatura (è la prima volta che ad una legislatura corrisponde un solo Esecutivo) resta in carica per 618 giorni nella pienezza delle funzioni e 104 per l'ordinaria amministrazione. La stabilità della Seconda Repubblica è confermata dall'esiguo numero dei governi (undici fra il '94 e il 2011 contro i 51 dei 48 anni precedenti). Il governo più lungo (anche dell'intera storia repubblicana) è il Berlusconi II (1412 giorni, dei quali 2 di crisi).
[caption id="attachment_7152" align="aligncenter" width="1000"] Governo Berlusconi 2011 - Photo Mauro Scrobogna[/caption]
Un'ultima notazione: se nel periodo iniziale (1946-1948) e in quello finale (1992-1994) della “Prima Repubblica” le crisi sono state di rapida soluzione - in media rispettivamente 11 giorni e 16 giorni -, con lo stabilizzarsi del sistema politico sono diventate sempre più lunghe, con l’eccezione della legislatura corrente. Nella prima e nella quarta legislatura della “Seconda” ('94-'96 e 2006-'08) le crisi sono state più lunghe, mentre nella seconda, nella terza (1996-2006, con una stabilità di formula più o meno pari a quella di centrismo, centrosinistra e pentapartito ma anche con leadership e coalizioni più forti) e nella quinta (2008-2011, governo Berlusconi, poi governo “tecnico” con Monti) le crisi sono state brevissime.
Ora - tornando alle dimissioni di Matteo Renzi - è arrivato il tempo del Governo Gentiloni: quanto durera? Riuscirà a governare il tempo sufficiente per operare gli obiettivi che si è posto?
 
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di Sebastiano Caputo del 20/11/2016

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Mentre la Grande Guerra soffocava l'Europa, le diplomazie delle grandi potenze mondiali si spartivano il Vicino e Medio Oriente. In un risiko gigantesco quanto tragico si delegavano territori, si tracciavano nuovi confini, si cambiavano nomi, si assoggettavano colonie smembrando imperi e stati nemici. Tra questi divertissement geopolitici risalta, per la sua importanza nelle fonti future del mondo arabo-musulmano gli accordi Sykes-Picot nel marzo 1916, i quali mutilarono quella che veniva chiamata la "Grande Siria", vale a dire un territorio vasto confinante con il mar Mediterraneo a Ovest, con il deserto arabico ad Est, con l'Egitto a Sud e con l'Anatolia a Nord.
[caption id="attachment_6848" align="aligncenter" width="1013"] In questa immagine d'epoca viene rappresentata la città di Damasco in Siria, nel primo decennio del 1900.[/caption]
Dato per scontato il trionfo dell'Intesa sul debole e decantato Impero Ottomano, Francia e Regno Unito si accordarono, insieme alla Russia, per spartirlo in tre zone di influenza. In segreto venne dunque deciso il destino di milioni di arabi, desiderosi di affrancarsi dall'odiato dominio turco e unirsi in un unico regno indipendente (idea foraggiata in un primo momento dall'Intesa in chiave anti-ottomana e poi abbandonata una volta crollato il sultanato di Istanbul): Siria, Libano, la parte superiore dell'Irak e il confine meridionale turco alla Francia; tre quarti dell'Iraq, la Giordania e la Palestina all'Inghilterra.
Del famoso regno arabo indipendente nessuna traccia. E come se non bastasse, con la successiva Dichiarazione di Balfour voluta da Londra, veniva dato il via all'insediamento sionista in Palestina, che culminò nel 1948 con la creazione dello Stato di Israele. Gli accordi Sykes-Picot non presero minimamente in considerazione le aspirazioni locali, ma soprattutto la diversità etnica di quei luoghi così complessi. Così Londra e Parigi, che già si erano spartite l'Africa e l'Estremo Oriente, entrarono in possesso di questi vasti e importantissimi territori, ricchi di risorse energetiche, vere cerniere strategiche tra Asia e Europa, Mediterraneo e Oceano Indiano. Ai tavoli di versailles, una volta finita la guerra, lo sbandierato principio di autodeterminazione dei popoli, non fu applicato per le grandi potenze. Con lo strumento fittizio dei mandati la Società delle Nazioni avallava l'asservimento coloniale sancito dagli accordi del 1916.
Dovrà venire un'altra guerra mondiale per affrancare questi popoli dal dominio economico-militare anglo-francese, definitivamente esautorato con le grandi nazionalizzazioni petrolifere degli anni Sessanta, quando il socialismo arabo sembrava finalmente permettere l'unione, nel segno della laicità e della giustizia sociale, del proprio mondo, oggi nuovamente minacciato dai gruppi terroristici che giocano la loro partita proprio su questo mosaico etnico-religioso costruito a tavolino secoli fa.
Prima ancora di capire cos'è lo Stato Islamico, com'è nato e come si finanzia, è necessario approfondire la corrente religiosa che c'è dietro un gruppo che usa il terrorismo in nome dell'Islam. Ecco che all'origine del fondamentalismo troviamo il Wahabismo, un movimento di riforma religiosa nato per riaffermare quello che secondo i suoi sostenitori sarebbero "i principi primi contenuti nel Corano" (una sorta di protestantesimo all'interno del Cristianesimo che ritorna appunto al Vecchio Testamento abbandonando il Nuovo). Prende nome dal suo fondatore Muhammad ibn Abd al Wahhab (1703-1792) un predicatore nato nella città di Uyaynah nel Najd, una vasta regione della penisola arabica (odierna Arabia Saudita) che allora era suddivisa in diverse aree di influenza sotto il protettorato degli Ottomani (era il sultano di Istanbul, che si proclamava "custode dei luoghi santi", come le due città Mecca e Medina). La parte orientale era controllata dagli shaykh dei Bani Khalid e del Kuwait,  mentre nel Sud della Penisola (Yemen, Oman) e al di là delle distese desertiche del Rub al Khali, dominavano imam e sultani prevalentemente di fede scita. L'Arabia Centrale (Nejd) invece era caratterizzata dalla presenza di emirati in rapporto di alleanza o conflitto con le tribù beduine, o con le loro fazioni.
A dieci anni Muhammad ibn Abd al Wahhab aveva memorizzato tutto il Corano, e già da adolescente aveva compiuto lo hajj il pellegrinaggio canonico a La Mecca che ogni fedele musulmano che ne abbia le possibilità fisiche ed economiche deve fare almeno una volta nella vita. Il più noto dei suoi 15 trattati si chiama Kitab al Tawhid, il Libro dell'Unicità Divina, e sul quale si fonda l'intera dottrina religiosa. Dopo anni e anni di spostamenti nella regione, si recò ad al-Dyriah, vicino Riyadh, dove incontrò Muhammad ibn Saud, il fondatore della Casa reale dei Saud, quella che unificherà la penisola e la governa ancora oggi. Da lì la religione diventò uno strumento di espansione e dominazione. A partire da allora l'emirato saudita conquistò velocemente i villaggi limitrofri sia grazie alla forza militare che al sempre crescente numero di proseliti che affluivano nella capitale al richiamo del Verbo wahabita.
Muhammad ibn Saud morì nel 1765 e sotto suo figlio Abd al-Aziz il potere e la ricchezza del clan dei Saud crebbe notevolmente. Nel giro di un secolo e mezzo, pur tra alterne vicende, ed essendo stato sul punto di essere completamente cancellato dagli ottomani nella prima metà dell'ottocento, l'emirato saudita (che dal 1824 aveva per capitale Ryadh), si espanse progressivamente. Nella seconda metà del XIX secolo, tuttavia, indebolitasi in seguito a lotte interne, l'emiro lasciato il potere fu esiliato in Kuwait, per poi tornare definitivamente da trionfatore nel 1902.
[caption id="attachment_6849" align="aligncenter" width="1000"]isis Da sinistra a destra: Muhammad ibn Abd al-Wahhab, Abd al-Aziz, Abu Bakr al Baghdadi, Ayman al-Zawahiri, Osama Bin Laden.[/caption]
Nel 1913 Abd al-Aziz si lanciò alla riconquista dei territori che avevano fatto parte agli inizi del XIX secolo dell'Emirato Saudita quando era all'apice della sia potenza. Egli riuscì ad espellere gli ottomani e a conquistare La Mecca, Medina e Jedda tra il 1914 e il 1926. Il Wahabismo, da movimento di rivoluzione jihadista e di purificazione teologica, divenne un movimento di conservazione sociale, politica e ideologica nei confronti della famiglia reale saudita. E con la scoperta del petrolio - come riporta lo studioso Gilles Kepel - gli obiettivi sauditi si incentrarono nel "diffondere e divulgare il Wahabismo all'interno del mondo musulmano", riducendo quindi la "moltitudine di voci all'interno della religione" ad unico credo. Miliardi di dollari furono investiti e lo sono tuttora - in questa manifestazione cultura-religiosa del soft power. Il Daesh infatti appare come un prodotto del Wahabismo, tanto che ad al Bab, nel Governatorato di Aleppo, è stato distribuito recentemente ai miliziani dalle autorità dello Stato Islamico ed è l'unico libro libro scritto dal suo fondatore. E non è un caso che il primo numero di Dabiq - la rivista dell'Isis apparsa nel luglio del 2014 che si chiama come il luogo nel nord della Siria dove secondo i precetti della Sunna dovrà svolgersi la "battaglia finale" - aveva come titolo "The return of Khilafah" (il ritorno del Califfato). Oggi l'Arabia Saudita, il più oscurantista degli Stati islamici, è la roccaforte del sunnismo ma anche la nazione musulmana con il più antico patto con gli Stati Uniti, firmato tra Ibn Saud e Roosevelt nel 1945 , pochi giorni dopo Yalta.
Vinto il confronto con l'Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno come obiettivo di conservare il loro ruolo di superpotenza globale impedendo che qualsiasi potenza ostile domini una regione - l'Europa occidentale, l'Asia orientale, il territorio dell'ex Unione Sovietica e l'Asia sud occidentale - le cui risorse sarebbero sufficienti a generare un concorrente pari. In questo senso il Pentagono e la Casa Bianca hanno riorientato dal 1991 la propria strategia con la complicità delle cancellerie Europee che rientrano nell'Alleanza Atlantica (Nato). Da allora sono stati frammentati e demoliti con la guerra, uno dopo l'altro, gli Stati ritenuti di ostacolo al piano di dominio globale - Iraq, Jugoslavia, Afghanistan, Libia, Siria, Ucraina e altri - mentre altri ancora (tra cui l'Iran) sono nel mirino. Queste guerre, che hanno mietuto milioni di vittime, hanno disgregato intere società, creando una enorme massa di disperati, la cui frustrazione e ribellione sfociano da un lato in reale resistenza, ma dall'altra vengono recuperati dalle potenze occidentali e strumentalizzati per tutelare i propri interessi. Non è un caso che in alcune aree si combattono i gruppi terroristici e in altri ci si allea tacitamente. Come in Siria, dove a combattere il governo di Assad ci sono Jabhat Al Nusra (Fronte della Vittoria) e lo Stato Islamico (che noi chiamiamo Isis, mente i suoi nemici nel mondo arabo-musulmano e persiano lo chiamano Daesh, acronimo arabo di Al Dawla al Lslamiyya fi'Iraqwa l-Sham ovvero "Stato islamico dell'Iraq e del Levante". Tuttavia vale la pena approfondire il secondo, sicuramente più strutturato e minaccioso, e in qualche modo dominante nella galassia anti-governativa.
L'Isis, che a differenza di Al Nusra ha rinnegato la sua matrice qaedista nonostante inizialmente si chiamasse Aqi (al Qaeda in Iraq), nasce bene armato e ben foraggiato dal punto di vista dei finanziamenti per opera di Abu Musab al Zarqawi, ucciso poi nel 2006 dai bombardamenti americani. Così la leadership passa nelle mani di Abu Omar al baghdadi e - dopo la sua morte, nel 2010 - ad Abu Bakr al Baghdadi (il suo vero nome è Awwad Ibrahim Ali al-Badri al-Sammarrai), un uomo misteriosamente liberato nel 2009 dalle carceri militari statunitensi in Iraq (Camp Bucca) dove era rinchiuso dal 2004 con l'accusa di terrorismo. Nel 2013, dopo un periodo di diatribe interne, il gruppo rinasce sotto la sigla Isis, vedendo nel conflitto siriano la possibilità di espandersi in quella parte del Levante che rientra nei confini del super Stato trans-nazionale del Califfato. Nel febbraio del 2014 Al Baghdadi rompe di fatto con al Zawahiri, attuale leader di Al Qaeda ed erede di Osama Bin Laden, il quale invece voleva che in Siria operasse Jabhat Al Nusra, e proclama il 29 giugno dello stesso anno lo Stato Islamico con capitale Raqqa.
[caption id="attachment_6850" align="aligncenter" width="1000"] Due mappe della situazione negli ultimi anni: a sinistra l'espansione dello Stato islamico in Siria, a destra l'espansione dello Stato islamico nel Medio-Oriente.[/caption]
Sono tante le cellule che immediatamente di uniscono al Califfato - si contano ex affiliati di al Qaeda, ex baathisti e militari dell'era Saddam - tanto che in poco tempo questo si espande fino a Mosul dove fissa il confine. Il segreto del consenso è nelle sue efficaci tecniche di propaganda, simili a quelle utilizzate nelle strutture occidentali. La rivista "Dabiq" assomiglia al "Time" come impaginazione, i video pubblicati sui loro canali sono in altissima definizione e montati con tecniche raffinate. Sono tante e dislocate in tutto il mondo le cellule connesse a questa organizzazione che all'improvviso è riuscita a ribaltare il rapporto di forza con Al Qaeda. Ma c'è un elemento ancora più interessante e tutto da analizzare. Segnalate anonimamente sui mass media siriani, circolano sul web, foto che ritraggono il repubblicano McCain insieme a Mohammad Nour, portavoce di Jabhat al Nusra. In un'altra invece, il senatore americano è ritratto in una folta riunione, in cui vengono immortalati Salem Idris, capo del Free Syrian Army - i cosidetti "ribelli moderati" e lo stesso Al Baghdadi, nella foto senza barba. Difficile dire se fosse lui veramente, ma è anche vero che gli Stati Uniti appoggiano i rivoltosi - anche di matrice terroristica - dai tempi dell'occupazione sovietica dell'Afghanistan (vedi con i "mujahidin").
[caption id="attachment_6846" align="aligncenter" width="1000"] Nella foto di sinsistra il senatore John Sidney McCain III in una riunione insieme al terrorista Abou Bakr Al Baghdadi. Nella foto di destra il senatore americano vicino al neo-nazista Oleh Tyahnybok.[/caption]
Sul leader dell'Isis, la Casa Bianca ha messo una taglia da 10 milioni di dollari e lo stesso Califfato ha messo McCain nella losta nera dei nemici, eppure non è la prima volta che il senatore repubblicano si destreggia in questi contesti. Dal 1993 è presidente dell'IRI - international Repubblican Institute, specie di ramo repubblicano della NED - un'agenzia intergovernativa, ufficialmente una Ong, creata da Ronald Reagan per estendere le attività della CIA - in collegamento coi servizi di Gran Bretagna, Canada, Australia - e "diffondere la democrazia" nel mondo. Già altre volte infatti è stato fotografato con i "ribelli" prima delle insurrezioni o colpi di Stato più o meno riusciti: in Venezuela, Haiti, kenya, per non dire alle "rivoluzioni colorate" e primavere arabe, e di recente in Ucraina.
La capitale del terrore dello Stato islamico è Raqqa, antica città ellenistica, romana e bizantina. Oggi è governata dalla frusta del Califfato di Al Baghdadi. L'urbe è una città di duecento mila abitanti, situata a 160 chilometri a Est di Aleppo e fu conquistata il 6 marzo del 2013 dai miliziani dell'Esercito Libero Siriano (Esl) che in un'offensiva coordinata con i gruppi jihadisti e salafiti di Jabhat al Nusra e Ahrar ash Sham, riuscirono a sconfiggere l'esercito regolare di Assad. Ma poco dopo ebbero la meglio i secondi che scacciarono i primi. Appena dopo la cacciata dell'Esl i salafiti affiliati ad Al Qaeda, pensavano di avere in pugno la situazione, quando nel Gennaio 2014 cadde sotto l'occupazione dei combattenti dello Stato Islamico.
Di Raqqa si sa poco, i documenti che girano sono pochi. Dal poco che è uscito fuori, la città traspare un luogo soffocante che si regge sulla Hisba, la polizia religiosa, ma anche su un Welfare primitivo che distribuisce gratuitamente cibo e bevande alla popolazione. Quest'ultimo finanziato dalla zakat, la tassa religiosa del 10% sui redditi, ma soprattutto dai saccheggi, le estorsioni, i rapimenti, la vendita del petrolio, delle armi e delle opere d'arte.
In un video girato nel centro storico e pubblicato dal quotidiano inglese Telegraph si intravede la quotidianità della capitale del Terrore. La Naem plaza, in arabo "paradiso", prima nucleo di un luogo pulsante e vivo, ora non è nient'altro che rovina spettrale decorata da bandiere nere. Le strade sono semi-deserte. La gente sembra barricata dentro casa. Eppure da altri documentari pubblicitari dal Wall Street Journal che raccolgono testimonianze,  l'atmosfera sembra diversa. Non gioiosa, ma vivace. Al-Baghdadi e i suoi, in sostanza, non mirano solo a diffondere il terrore tra la popolazione, ma desiderano fondare il loro Stato moderno sul consenso. Eppure il confine tra consenso e sottomissione è sottile. Le prime imposizioni si concretizzano sotto il velo della religione che da sincera fede è diventata un vero e proprio strumento di dominazione. Sfogliando i numeri della rivista governativa Dabiq vediamo come le autorità del Califfato avrebbero istituito tutta una serie di strutture nell'interesse del bene comune. Tuttavia accanto a questi progetti volti a migliorare la vita della popolazione, la propaganda del Califfato è martellante. Ad Esempio: si può leggere in città lo svolgimento della dawa, una sorta di attività pubblica per chiamare "l'Islam", intrattenendo la popolazione con la lettura del Corano e su corsi di memorizzazione delle Sure con l'aggiunta di eventi-divulgativi rivolti soprattutto alle donne. Le esecuzioni in pubblico sono all'ordine del giorno e servono principalmente a terrorizzare la popolazione. La polizia religiosa, Hisba, inizia a pattugliare le strade con l'incarico di segnalare ogni violazione: da come si indossa uno chador (indumento tradizionale iraniano simile ad una mantella), all'entusiasmo nelle preghiere quotidiane.
[caption id="attachment_6865" align="aligncenter" width="1000"] Nella foto di sinistra viene mostrato un componente della polizia locale dell'Hisba. Nella foto di destra alcune miliziane di al Khansa.[/caption]
Le pattuglie femminili, al Khansa, come si può vedere nelle immagini di Dabiq affiancano la polizia locale che gestisce le detenzioni degli arrestati nelle prigioni dello stato Islamico. Ad Hisba tocca il compito di monitorare la presenza di minoranze non musulmane, nel caso si tratti di yazidi, considerati "pagani", vengono uccisi o cacciati e spesso schiavizzati. I cristiani, invece, hanno l'obbligo di non professare pubblicamente la propria fede e devono pagare un imposta, chiamata "tassa di protezione" o "jizya". La brigata della polizia religiosa si occupa dell'arresto degli uomini, mentre quella femminile, composta al 90% da straniere, delle donne, che vengono catturate e obbligate ad unirsi in matrimoni combinati.  I metodi di tortura maggiormente diffusi sono le percosse, eseguite con generatori di corrente, cavi solidi e bastoni per obbligare i detenuti a piegarsi o a restare in posizioni scomode. Nelle scuole sono abolite l'arte, la musica e la filosofia ed è stato cancellato ogni riferimento alle nazioni Siria o Iraq. Inoltre nessun contatto misto può esservi tra uomini e donne con alcune interruzioni nei momenti dedicati alla preghiera. Le ordinanze del Califfo vengono emanate dall'editto del Dwan della Conoscenza, il ministero dell'educazione del Califfato. La volontà di eliminare ogni riferimento agli Stati post-coloniali deriva dal desiderio di sedimentare l'idea immaginario comune, che il Califfato è sempre esistito ed è destinato a durare.
La Siria possiede un territorio ricco di petrolio e gas naturale tanto che prima del conflitto era uno dei più grandi produttori di energia del Levante. I suoi 130 pozzi di oro nero, dislocati nella parte nord-est del Paese e i giacimenti di gas per 284 miliardi di metri cubi, rendeva possibile esportare il greggio seppur con qualche flessione rispetto agli anni precedenti a causa della crescita della domanda interna. Oltre che all'ampliamento della Arab Gas Pipeline, che porta gas dall'Egitto alla Turchia passando da Giordania, Libano e Siria, il governo di Damasco aveva stretto accordi con Iran e Iraq per la costruzione di gasdotti e oleodotti con origine nell'Azerbaijan, nel Caucaso meridionale, il che avrebbe fatto della Siria il più importante corridoio energetico della regione.
Peccato però che da quando i miliziani dello Stato Islamico si sono impossessati dell'area, facendo di Raqqa la sua capitale, le cose sono cambiate radicalmente. "L'Isis ha preso il controllo della maggior parte delle infrastrutture petrolifere della Siria" sostiene Yevgeny Satanovski, presidente dell'Istituto di Medio Oriente della Russia, citato da canale Russia1. Nei documenti ottenuti recentemente e rivendicati dal Financial Times il Califfato è diventato il produttore monopolista di un'azienda gestita perfettamente grazie al contributo di ingegneri, esperti manager provenienti anche dall'Occidente. Secondo il FT la compagnia petrolifera dell'Isis è infatti capace di produrre tra i 34 mila e i 40 mila barili di greggio ogni giorno venduti all'ingrosso per cifre che vanno dai 20 ai 40 dollari al barile per un reddito percepito di almeno 1,5 milioni di dollari al giorno. Mentre Al Qaeda, la rete terroristica globale, dipendeva dalle donazioni di sponsor stranieri, l'Isis è riuscito a diventare autosufficiente sul piano economico. Pur non avendo la capacità di esportare, il suo Pil riesce a crescere grazie all'enorme mercato interno siro-iracheno.
I maggiori clienti sarebbero proprio i ribelli di Jabhat Al Nusra che combattono il governo di Damasco principalmente nella parte Ovest, nell'asse che collega Aleppo e Dara. Questo è uno dei tanti motivi che fa di loro una organizzazione subordinata al Califfato e non dei "ribelli democratici" slegati dal terrorismo internazionale. La maggior parte dei siti petroliferi e delle raffinerie controllate dallo Stato Islamico si trovano Iraq (Ajil, Allas, Qayyara ecc..), eppure anche quelle siriane garantiscono un business da centinaia di migliaia di dollari. Le principali strutture si trovano a Deir al Zor, al Omar e Al Jabsah, in provincia di Hassakeh. Da quelle parti le aree sono sorvegliate minuziosamente da Amniyat, la polizia segreta e dai miliziani che controllano i camion commerciali che si riforniscono nelle stazioni di pompaggio.
Pertanto, secondo il Financial Times, questa economia dell'oro nero non può durare per sempre. Da un lato i raid dell'aviazione russa e quelli della Coalizione internazionale guidata da Washington seguono una strategia volta a colpire questi siti, dall'altro i prezzi al ribasso potrebbero mettere pressione sui ricavi derivanti dal petrolio. Inoltre c'è il problema più grande dell'esaurimento dei vecchi giacimenti siriani legato alle ingenti quantità di carburante utilizzate per le operazioni militari che di conseguenza sottraggono beni da immettere sul mercato. I tempi dei Califfati sono lontani, l'Isis come gli amici-nemici di Al Qaeda, rischiano di non consolidare l'edificazione di una vera e propria struttura statale e amministrativa di stampo jihasista. Per quanto organizzata, siamo di fronte all'ennesima rete terroristica isolata con il resto del mondo.
Ultimo elemento, non meno importante è la "furia iconoclasta" del regime. Paolo Gentiloni e Dario Franceschini, rispettivamente ministri degli Esteri e dei Beni e delle attività culturali e del Turismo, celebravano il "successo" per il "sì" del Consiglio esecutivo dell'Unesco alla proposta italiano di istituire meccanismi per l'uso dei "caschi blu della cultura". Una task force internazionale, la quale dovrà intervenire laddove il patrimonio dell'umanità viene messo a rischio da catastrofi naturali o da attacchi terroristici. La decisione è infatti arrivata dopo i video pubblicati dallo Stato Islamico sulla distruzione dei siti archeologici come Nimrud, Hatra, Khorsabad, Palmira in Iraq e in Siria da parte dei suoi miliziani. Peccato però che gli indignati non fanno altro che rinsaldare la strategia mediatica e le casse del Califfato, invece che impedire questo scempio. In realtà dietro alla furia iconoclasta si nasconde un business da milioni di dollari. A rivelarlo è stata l'archeologa franco-libanese Joanne Farchakh intervistata dal giornalista Robert Fisk per l'Independent. "L'Isis prima vende le statue, i reperti, qualunque cosa richiesta dai compratori sul mercato internazionale - racconta al quotidiano inglese - poi prende il denaro e fa saltare in aria il tempio da cui queste cose provenivano, così da distruggere tutte le prove". Da un lato dunque le riprese possono essere vere e proprie messe in scena per nascondere questo commercio di statue, ceramiche, mosaici, bassi rilievi, monete, frontoni di pietra e affreschi; dall'altro può accadere che la demolizione avviene solo parzialmente così da non far sapere quali pezzi sono stati venduti dopo il saccheggio. La scoperta di questo traffico occulto che coinvolge lo Stato Islamico, compratori privati delle capitali del mondo dell'arte e gruppi organizzati della criminalità turca, i quali permetterebbero il transito verso l'Europa e gli Stati Uniti, è stato ampiamente documentato da diversi esperti.
Tra questi Mark Altaweel, archeologo americano di origini irachene nonché docente all'Università College di Londra, il quale in un'intervista rilasciata all'emittente televisiva "Russia Today" ha mostrato i siti di antiquariato inglesi che vendono a prezzi stratosferici resti artistici provenienti da Siria e Iraq. Altaweel è una figura molto autorevole, tanto che il quotidiano The Guardian si era fatto portare quest'estate a spasso nella regione per svolgere un'inchiesta volta a scoprire il logo di provenienza di molti oggetti sparsi nel mercato occidentale dell'antiquariato. Le sue conclusioni vanno nella stessa direzione di quelle di Joanne Farchakh che nell'intervista ha spiegato "l'Isis ha saputo imparare dai suoi errori, quando iniziò a distruggere i siti in Siria e in Iraq, arrivarono con i martelli, gli autocarri, distrussero ogni cosa più velocemente possibile e ne fecero un filmato brevissimo. Nimrud venne fatta saltare in aria in un giorno, ma il filmato che ne uscì fu di soli venti secondi. Non so quanta sia l'attenzione che si può catturare con un video così breve". Ora però che ci sono i compratori è cambiata la strategia. L'arte è un guadagno raffinato quanto quello del petrolio e delle armi.
[caption id="attachment_6858" align="aligncenter" width="1000"] Una nazione è viva quando è viva la sua cultura. Sono queste le parole che sanciscono la nascita dei Caschi blu della cultura, diventati realtà il 16 febbraio del 2016, con un accordo storico tra il Governo italiano e l’Unesco. A firmare il memorandum per la costituzione della task force italiana ‘Unite for Heritage’ a difesa del patrimonio culturale a rischio, presso l’Aula X delle Terme di Diocleziano a Roma, il direttore generale dell’Unesco, Irina Bokova, il ministro dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo, Dario Franceschini, il ministro degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale, Paolo Gentiloni, il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, il ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Stefania Giannini, e il comandante generale dell’Arma dei Carabinieri, Tullio Del Sette. A destra: un casco blu della Cultura cileno.[/caption]
Adesso infatti - spiega l'archeologa franco-libanese "l'evento viene annunciato da una grande esplosione, poi arrivano, frammentate, le sequenze dettagliate di quello che è avvenuto". Come la distruzione di Palmira dove sono state documentate prima le esecuzioni dei soldati siriani nel tempio romano, poi sono stati mostrati gli esplosivi legati attorno alle antiche colonne, ancora la decapitazione del coraggioso custode - in pensione - del tempio e soltanto alla fine la distruzione del sito. Un evento costruito ad arte sia per i media, che ormai si erano rifiutati di mandare in onda altro sangue, sia per i mercanti d'arte, perchè "più a lungo dura la devastazion, più salgono i prezzi dei reperti rubati". Insomma i "caschi blu della cultura" più che recarsi nelle aree minacciate dallo Stato Islamico dovrebbero seguire il traffico occulto che conduce nelle principali capitali occidentali.
 
Per approfondimenti:
_Sebastiano Caputo, Alle porte di Damasco, viaggio nella Siria che resiste - Edizioni Circolo Proudhon 2016
 
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Un primordiale meccanismo di di protezione dei diritti umani è stato articolato sulla scorta d’una complessa costruzione giuridica, quale fu quella ideata e prevista nella Carta ONU. A tal proposito, considerata la rilevanza della suddetta “rete protettiva”, non è d’uso far passare sotto silenzio le vicende storiche e geopolitiche, delle quali la sua elaborazione fu spettatrice. Di fatto, dietro alla Carta delle Nazioni Unite si cela un animato dibattito che ha visto schierati sui più disparati fronti i maggiori Stati firmatari, sovente in forma di coalizioni latrici d’un unico intento comune.
[caption id="attachment_6798" align="aligncenter" width="1000"] Nella foto di sinistra, la conferenza di Dumbarton Oaks dal primo agosto al sette Ottobre del 1944 presso Washington, D.C., Stati Uniti[/caption]
Il foro che prestò voce alla disquisizione fu senz’altro la Conferenza di Dumbarton Oaks, alla quale presenziarono i rappresentanti di Stati Uniti, Unione Sovietica, Gran Bretagna e Cina. Il fine astratto e unanimemente perseguito si risolveva nel delineare i profili fondamentali che – di lì a poco - sarebbero valsi ad attribuire un nuovo volto all’organizzazione in procinto d’essere creata, l’Onu, atta a rimpiazzare l’ormai acclaratamente decaduta “Società delle Nazioni”.
Nel corso delle discettazioni, tuttavia, non tardarono a presentarsi forti incongruenze tra le manifestazioni di volontà operate da uno Stato e le sue prese di posizione giuridicamente vincolanti. Le prime, munite di mero carattere programmatico, non obbligavano il Paese che le avesse rilasciate ad attenervisi strettamente senza possibilità di deroga. Per contro, le seconde, figuravano come elementi normativi lesivi del principio della piena sovranità statale. A tal proposito, il concetto di Comunità Internazionale, a quel tempo, era ancora agli albori della propria esistenza e ogni Stato, fino ad allora, era sempre stato inteso come dotato del potere di non riconoscere superiori a sé (c.d. superiorem non recognoscentes, ndr).
Tuttavia, la necessità d’istituire meccanismi di tutela giurisdizionale in seno a un’organizzazione “imparziale” fu il moto propulsore che spinse ogni Stato a limare in parte le proprie pretese autocratiche, almeno riguardo alcuni profili specifici d’interesse collettivo.
Pertanto, fin dalla Conferenza di Dumbarton Oaks, la posizione iper garantista degli Stati Uniti – cristallizzata in una proposta di disposizione sui diritti umani - si pose inizialmente in contrasto con quella di Gran Bretagna e URSS, che presentavano mozioni decisamente più caute sull’argomento.
Le prime scintille di disaccordo presero una forma meno fumosa in un secondo momento, ovvero nella Conferenza di San Francisco: entro quest’ultima si delinearono nettamente tre schieramenti di vedute antitetiche. Da un lato emergevano i Paesi Latino Americani (in special modo Brasile, Colombia, Cile, Cuba, Repubblica Dominicana, Equador, Messico, Panama, Uruguay), congiuntamente ad alcuni Stati Occidentali (Australia, Nuova Zelanda, Norvegia) e ad altri Paesi come l’India. Il primo schieramento in parola avanzò la proposta di sancire un vero e proprio obbligo internazionale ai fini del rispetto dei diritti umani.
[caption id="attachment_6797" align="aligncenter" width="1000"] San Francisco, Stati Uniti. Si svolge la Conferenza delle Nazioni Unite per l'Organizzazione Internazionale (UNCIO), la quale vide partecipi i delegati provenienti da 50 nazioni Alleate che ha avuto luogo dal 25 aprile al 26 giugno 1945. In questa conferenza i delegati riesaminarono e riscrissero gli accordi di Dumbarton Oaks. La conferenza ha portato alla creazione della Carta delle Nazioni Unite, che fu aperta alla firma dal 26 giugno.[/caption]
In seconda istanza, un altro schieramento tentò di stemperare la forza delle dichiarazioni rilasciate dal primo. I Paesi del Secondo schieramento, ossia i Paesi Occidentali, non mancarono di dirsi favorevoli al piano congegnato per lo sviluppo dei diritti umani, ma si ritraevano di fronte al carattere della sua vincolatività. Il malumore che attanagliava tali Stati era legato al rischio di un’eccessiva delega di poteri alle Nazioni Unite; delega dalla quale sarebbe inevitabilmente derivata un’espansione della sfera d’azione in seno all’ONU.
Capofila del secondo schieramento furono senz’altro gli Stati Uniti, che si opposero vigorosamente a un ampliamento dell’art.56 della Carta delle Nazioni Unite. L’effetto di tale serrata ebbe le sue ripercussioni nella formulazione del medesimo articolo, il quale venne orientato in chiave programmatica e non obbligatoria. Peraltro, gli Stati Uniti proposero l’inserimento di una “clausola di tutela della sovranità degli Stati”, contro eventuali ingerenze dell’ONU. Quest’ultima richiesta si è concretata nella stesura dell’art 2 par 7, in virtù del quale le Nazioni Unite non possono intervenire su questioni annoverabili entro il margine della competenza interna di uno Stato.
Idee ancora differenti vennero adottate nell’ambito del terzo gruppo di Stati, quelli Sovietici (Bielorussia, Cecoslovacchia e Ucraina) capeggiati dall’URSS. Costoro, pur allineandosi sul comportamento restrittivo del secondo gruppo, imperniava la propria linea dialettica sulla rivendicazione di un “diritto all’autodeterminazione dei popoli”, vieppiù fortemente avversato da parte dei Paesi Occidentali, affiancati da alcune ex potenze coloniali come il Belgio.
Benché finora si sia tentato di analizzare il nucleo essenziale delle pretese di ogni fazione, è assai arduo saper enucleare una linea concettuale comune che sappia efficacemente esprimere il concetto di “diritti umani nel 1945”. Infatti, mentre l’URSS propugnava un’esplicita menzione dei “diritti al lavoro e all’istruzione”, gli Stati Uniti si mostravano recalcitranti all’idea di tipizzare legislativamente una categoria tassonomica di diritti meritevoli di tutela, ritenendo che un inevitabile corollario di tale specificazione sarebbe stata la declassazione implicita e la subordinazione gerarchica di altri diritti parimenti rilevanti, quali - a titolo esemplificativo - erano stimati il diritto alla libertà di informazione e alla libertà religiosa.
A un’attenta analisi, persino nell’attuale versione della Carta ONU manca un catalogo che acclari quali siano i “diritti umani” tutelati di fatto, per quanto la voce “diritti umani” figuri ben sette volte nella Carta ONU medesima. Con buona approssimazione, si può ipotizzare che una così evidente lacunosità derivi dalle vedute contrapposte di USA e URSS fin dal secondo dopoguerra.
Peraltro, la riottosità generale dei Paesi a operare una delega di poteri esclusivamente appartenenti allo Stato ha ingenerato una depressione a tratti patologica, nel funzionamento dell'Assemblea Generale e dell’ECOSOC (Comitato Economico e Sociale). Le funzioni ad essi riconosciute si ascrivono entro la possibilità di “intraprendere studi” e di "indirizzare raccomandazioni agli Stati” (c.d. norme Soft law).
Ad aggravare il quadro già precario si è aggiunta l’ecumenica pretesa – in danno dell’Onu - di potersi esprimere soltanto mediante delibere di carattere generale e astratto, senza rivolgersi direttamente contro uno Stato, che si sia reso eventualmente responsabile di una violazione dei diritti umani.
Ne “I diritti umani oggi”, Antonio Cassese saluta la Dichiarazione Universale come “il frutto di più ideologie: il punto d’incontro e di raccordo di concezioni diverse dell’uomo e della società”. Di fatto, la travagliata genesi del succitato documento annovera tra le proprie fonti ideali la matrice giusnaturalistica, l’influenza dello statalismo dei paesi socialisti, il principio nazionalistico della sovranità (supportato, quest’ultimo, con largo favore da tutti gli stati).
[caption id="attachment_6799" align="aligncenter" width="1000"] Antonio Cassese (Atripalda, 31 marzo 1937 – Firenze, 22 ottobre 2011) è stato un giurista, scrittore e giudice italiano, docente universitario di Diritto Internazionale. Fra i suoi incarichi vi sono stati quello di Presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani o degradanti e di primo presidente del Tribunale Penale Internazionale per l'ex-Jugoslavia.[/caption]
La Carta ONU, per quanto densa di precetti garantistici, presentava una lacunosità rilevante e inescusabile, considerati i fini che le Nazioni Unite si erano prefissate di perseguire. Da tali manchevolezze sul piano del diritto positivo derivava un’impasse procedurale inaggirabile. Pertanto la comunità internazionale nella sua interezza aveva avvertito la necessità di emanare un nuovo documento, che sanasse i profili deficitari della Carta ONU, in vista di attribuire una maggiore effettività ai meccanismi di tutela dei diritti già debitamente e precedentemente declamati.
A tal fine, nel 1946 il Consiglio Economico e Sociale, esercitando i poteri conferitigli dall’art 68 della Carta ONU, provvide alla creazione di una “Commissione di diritti umani”, organo composto da 18 Stati, rappresentativi dei compositi schieramenti insediatisi in seno all’Assemblea Generale.
All’epoca dei dibattiti preliminari alla costituzione della Dichiarazione, i Paesi coinvolti non formulavano voci concordi sulla natura della stessa, né sulla valenza giuridica che avrebbe dovuto esserle stata accordata. Tali discrepanze prendevano le mosse da presupposti di partenza notevolmente divergenti, dai quali i Paesi medesimi facevano derivare le proprie posizioni. Dalle prime discettazioni, a tal proposito, emerse uno scenario popolato da quattro schieramenti: Paesi Occidentali, America Latina, Europa Socialista, Paesi Asiatici.
[caption id="attachment_6800" align="aligncenter" width="1200"] Anna Eleanor Roosevelt (New York, 11 ottobre 1884 – New York, 7 novembre 1962) è stata un'attivista e first lady statunitense. Qui, nel 1948, mostra la Dichiarazione dei Diritti Umani.[/caption]
La tesi occidentale era imperniata su poche pretese, ma perentorie. Tra queste, figurava la proposta di proclamare sul piano interstatuale le concezioni giusnaturalistiche, che avevano permeato e ispirato i grandi testi giuridici interni. Infatti, secondo la testimonianza di Joseph P. Lash, pare che John P. Hendrick (rappresentante del Dipartimento di Stato USA) avesse affermato che - “la politica degli Stati Uniti consisteva nel produrre una Dichiarazione, che fosse la copia in carta carbone della Dichiarazione americana d’indipendenza e della Dichiarazione americana dei diritti dell’uomo” -. Eppure, a una seconda analisi, la posizione degli occidentali sembrava viziata da alcune incongruenze: in effetti, secondo i programmi propinati, alle laute dichiarazioni di tutela non avrebbe fatto seguito una piena effettività. Questo perché si riteneva di voler proclamare a livello mondiale soltanto i diritti civili e politici, nel limite della loro connotazione sostanzialmente individualistica, che essi avevano rivestito nel Settecento e nell’Ottocento. I paesi Latino Americani e Socialisti riuscirono a temperare il rigore occidentale, orientando la sua visione in senso migliorativo. Si postulò così anche l’inserimento di una serie di diritti economici e sociali, in parte ignoti ai testi occidentali presi a riferimento.
Per quanto i paesi socialisti si fossero mostrati ben disposti alla recezione del messaggio di Roosevelt del 1941, essi miravano verso orizzonti più lontani di quelli circoscritti alla tutela della “libertà dal bisogno e dalla paura”, baluardo dei riferimenti occidentali.
L’azione dei Paesi in parola fu rilevante nella fase deliberativa, ma non spiegò i suoi effetti al momento della firma. Tali stati, infatti, si astennero dall’esprimere un voto sull’insieme della Dichiarazione, dacché gran parte degli emendamenti da essi proposti non erano stati accolti.
Per ragioni d’altra natura si astennero dal voto anche Sud Africa e Arabia Saudita. Ad ogni modo, le direttrici d’azione proposte dai Paesi Socialisti furono varie. Anzitutto questi ultimi sostennero l’inserimento - nella Dichiarazione - di diritti rilevanti, come il diritto di ribellione contro autorità oppressive; il “diritto di manifestare nelle strade” come parte della libertà di associazione; il diritto delle “minoranze nazionali” a vedersi riconosciute e tutelate; il diritto all’autodeterminazione dei popoli coloniali; il principio d’eguaglianza (che si sostanziava nel divieto di discriminazioni basate su razza, sesso, colore, lingua, religione, opinioni politiche, origini nazionali, statut et cetera). Altresì, l’attenzione dei Paesi socialisti si focalizzò sull’urgenza di dare attuazione ai diritti sanciti nella Dichiarazione con meccanismi ad hoc; affinché nessuno stato firmatario avesse potuto aggirare il loro carattere vincolante in un futuro prossimo.
Quanto alla “libertà di pensiero”, i Sovietici ritennero di volerla inibire agli apologeti del fascismo e ai suoi proseliti, tacciati d’essere flagello della libertà e dunque indegni di poterla esercitare in questo senso.
 
Per approfondimenti:
_Antonio Cassese, I diritti umani oggi - Editore Laterza
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L’Unione europea sta attraversando momenti difficili, ai quali reagisce con una serie di risposte che confondono la sua immagine agli occhi dei cittadini. Mentre il mercato unico è ancora governato dal metodo comunitario – che vede il Parlamento europeo codecidere con il Consiglio e attribuisce piena autorità di supervisione alla Corte europea di giustizia – l’unione economica e monetaria e la politica di sicurezza e difesa comune sono fondamentalmente delegate ad accordi fra Stati membri.
Fin qui, potrebbe sembrare che la consueta distinzione “politica bassa” (le questioni economiche e sociali che possono essere regolate congiuntamente) e “politica alta” (le questioni legate ai compiti fondamentali dello stato sovrano che sono regolate intergovernativamente) determini ancora questo diverso modo decisionale.
Tuttavia, anche nell’ambito della politica alta si assiste a una crescente differenziazione. L’intensificazione del metodo intergovernativo che ha caratterizzato la gestione delle crisi – al plurale, e cioè la crisi economica e finanziaria, le crisi libica, siriana e ucraina, e la crisi dei rifugiati – è stata accompagnata da significative innovazioni istituzionali specialmente nell’ambito della politica economica e monetaria (l’Eurogruppo all’interno del Consiglio, gli Euro Summit all’interno del Consiglio europeo), mentre le questioni estere sono ancora gestite esclusivamente dai ministri degli esteri nazionali e dai capi di Stato e di Governo con l’aiuto dell’alto rappresentante e del presidente della Commissione.
Queste innovazioni istituzionali hanno indotto alcuni studiosi a parlare di una “doppia costituzione” che sarebbe alla base dell’Unione; altri di un nuovo “intergovernativismo deliberativo”; altri ancora di una serie di decisioni intergovernative descritte come “fallimenti in avanti”, cioè , come decisioni emergenziali che hanno innovato istituzionalmente alcune aree di competenza dell’Ue, che hanno poi determinato altre emergenze e quindi sollecitato nuove decisioni in cicli ripetuti di risposte ad hoc e insufficienti. La domanda che anima il dibattito al momento è “In quale direzione evolverà, o dovrebbe evolvere, questa complessa architettura istituzionale”, anche in risposta alla crescente disaffezione e, ormai, aperta ostilità alle politiche europee in ambito di politica monetaria, di bilancio e dei rifugiati – per citarne solo tre questioni che hanno dominato le cronache recentemente – se non all’Unione europea nel suo complesso. Incombe su tutti questi argomenti l’interrogativo se l’Unione europea sia democratica o meno, domanda alla quale un numero crescente di cittadini europei sta rispondendo negativamente con conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti (vedi Brexit).
Che forma avrà l’Unione in futuro è ciò su cui tutti si interrogano in questi giorni. Le risposte, ovviamente, sono diverse. La posizione ufficiale delle istituzioni europee è criticata da alcuni per essere troppo simile a quanto già visto (integrazione compiuta “all’insaputa” dei cittadini e progressione verso uno Stato federale europeo) mentre è criticata da altri per essere del tutto in controtendenza con l’opinione pubblica che sembra invece reclamare la restituzione di quote crescenti di sovranità nazionale. Quanto inadeguate siano entrambe queste risposte è evidente a tutti. La questione più importante – con cui la presente generazione di studiosi deve misurarsi – è piuttosto come riformare l’Unione in modo da riconciliare il suo funzionamento con una nozione di democrazia adatta ai nostri tempi, ricordando che quello di democrazia non è un concetto statico ma che la sua forma e il suo funzionamento, e le aspettative che essa genera nei cittadini, sono cambiati nel corso del tempo in seguito a significative trasformazioni sociali, economiche e geopolitiche. La sfida attuale è ridefinire la democrazia per contesti altamente interconnessi come l’Unione europea nella quale la sovranità deve essere necessariamente condivisa e responsabile.
Dunque non discriminazione e cittadinanza dell'Unione: facciamo chiarezza, dissertando su alcuni articoli.
_Articolo 18 (ex articolo 12 del TCE)
Nel campo di applicazione dei trattati, e senza pregiudizio delle disposizioni particolari dagli stessi previste, è vietata ogni discriminazione effettuata in base alla nazionalità.
Il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria, possono stabilire regole volte a vietare tali discriminazioni.
_Articolo 19 (ex articolo 13 del TCE)
1. Fatte salve le altre disposizioni dei trattati e nell'ambito delle competenze da essi conferite all'Unione, il Consiglio, deliberando all'unanimità secondo una procedura legislativa speciale e previa approvazione del Parlamento europeo, può prendere i provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l'origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la disabilità, l'età o l'orientamento sessuale.
2. In deroga al paragrafo 1, il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria, possono adottare i principi di base delle misure di incentivazione dell'Unione, ad esclusione di qualsiasi armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri, destinate ad appoggiare le azioni degli Stati membri volte a contribuire alla realizzazione degli obiettivi di cui al paragrafo 1.
_Articolo 20 (ex articolo 17 del TCE)
1. È istituita una cittadinanza dell'Unione. È cittadino dell'Unione chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro. La cittadinanza dell'Unione si aggiunge alla cittadinanza nazionale e non la sostituisce.
2. I cittadini dell'Unione godono dei diritti e sono soggetti ai doveri previsti nei trattati. Essi hanno, tra l'altro:
a) il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri;
b) il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni del Parlamento europeo e alle elezioni comunali nello Stato membro in cui risiedono, alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato;
c) il diritto di godere, nel territorio di un paese terzo nel quale lo Stato membro di cui hanno la cittadinanza non è rappresentato, della tutela delle autorità diplomatiche e consolari di qualsiasi Stato membro, alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato;
d) il diritto di presentare petizioni al Parlamento europeo, di ricorrere al Mediatore europeo, di rivolgersi alle istituzioni e agli organi consultivi dell'Unione in una delle lingue dei trattati e di ricevere una risposta nella stessa lingua.
Tali diritti sono esercitati secondo le condizioni e i limiti definiti dai trattati e dalle misure adottate in applicazione degli stessi.
_Articolo 21 (ex articolo 18 del TCE)
1. Ogni cittadino dell'Unione ha il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, fatte salve le limitazioni e le condizioni previste dai trattati e dalle disposizioni adottate in applicazione degli stessi.
2. Quando un'azione dell'Unione risulti necessaria per raggiungere questo obiettivo e salvo che i trattati non abbiano previsto poteri di azione a tal fine, il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria, possono adottare disposizioni intese a facilitare l'esercizio dei diritti di cui al paragrafo 1.
3. Agli stessi fini enunciati al paragrafo 1 e salvo che i trattati non abbiano previsto poteri di azione a tale scopo, il Consiglio, deliberando secondo una procedura legislativa speciale, può adottare misure relative alla sicurezza sociale o alla protezione sociale. Il Consiglio delibera all'unanimità previa consultazione del Parlamento europeo.
_Articolo 22 (ex articolo 19 del TCE)
1. Ogni cittadino dell'Unione residente in uno Stato membro di cui non è cittadino ha il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali nello Stato membro in cui risiede, alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato. Tale diritto sarà esercitato con riserva delle modalità che il Consiglio adotta, deliberando all'unanimità secondo una procedura legislativa speciale e previa consultazione del Parlamento europeo; tali modalità possono comportare disposizioni derogatorie ove problemi specifici di uno Stato membro lo giustifichino.
2. Fatte salve le disposizioni dell'articolo 223, paragrafo 1, e le disposizioni adottate in applicazione di quest'ultimo, ogni cittadino dell'Unione residente in uno Stato membro di cui non è cittadino ha il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni del Parlamento europeo nello Stato membro in cui risiede, alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato. Tale diritto sarà esercitato con riserva delle modalità che il Consiglio adotta, deliberando all'unanimità secondo una procedura legislativa speciale e previa consultazione del Parlamento europeo; tali modalità possono comportare disposizioni derogatorie ove problemi specifici di uno Stato membro lo giustifichino.
_Articolo 23 (ex articolo 20 del TCE)
Ogni cittadino dell'Unione gode, nel territorio di un paese terzo nel quale lo Stato membro di cui ha la cittadinanza non è rappresentato, della tutela da parte delle autorità diplomatiche e consolari di qualsiasi Stato membro, alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato. Gli Stati membri adottano le disposizioni necessarie e avviano i negoziati internazionali richiesti per garantire detta tutela.
Il Consiglio, deliberando secondo una procedura legislativa speciale e previa consultazione del Parlamento europeo, può adottare direttive che stabiliscono le misure di coordinamento e cooperazione necessarie per facilitare tale tutela.
_Articolo 24 (ex articolo 21 del TCE)
Il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando mediante regolamenti secondo la procedura legislativa ordinaria, adottano le disposizioni relative alle procedure e alle condizioni necessarie per la presentazione di un'iniziativa dei cittadini ai sensi dell'articolo 11 del trattato sull'Unione europea, incluso il numero minimo di Stati membri da cui i cittadini che la presentano devono provenire.
Ogni cittadino dell'Unione ha il diritto di petizione dinanzi al Parlamento europeo conformemente all'articolo 227.
Ogni cittadino dell'Unione può rivolgersi al Mediatore istituito conformemente all'articolo 228.
Ogni cittadino dell'Unione può scrivere alle istituzioni o agli organi di cui al presente articolo o all'articolo 13 del trattato sull'Unione europea in una delle lingue menzionate all'articolo 55, paragrafo 1, di tale trattato e ricevere una risposta nella stessa lingua.
_Articolo 25 (ex articolo 22 del TCE)
La Commissione presenta una relazione al Parlamento europeo, al Consiglio e al Comitato economico e sociale, ogni tre anni, in merito all'applicazione delle disposizioni della presente parte. Tale relazione tiene conto dello sviluppo dell'Unione.
Su questa base, lasciando impregiudicate le altre disposizioni dei trattati, il Consiglio, deliberando all'unanimità secondo una procedura legislativa speciale e previa approvazione del Parlamento europeo, può adottare disposizioni intese a completare i diritti elencati all'articolo 20, paragrafo 2. Tali disposizioni entrano in vigore previa approvazione degli Stati membri, conformemente alle rispettive norme costituzionali.
 
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di Francesco Di Turi del 30/06/2016

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Esiste un popolo, in realtà è più un crogiolo di popoli storicamente uniti, che ha lo strano ed unico destino di essere pienamente europeo e pienamente asiatico in un sol tempo; parliamo della Russia naturalmente. Il mondo storico russo poi, ciò che ruota intorno come un cardine allo «spirito russo», certo non si limita semplicemente all’interno degli immensi confini politici dell’attuale Federazione che, già di per se stessi, costituiscono un vero e proprio continente che si estende dagli Urali alla Kamchakta sull’asse est/ovest, e dai molteplici Mari del Nord al Mar Nero e all’Asia più profonda interamente tagliata a metà su quello Nord/Sud. La sfera d’influenza russa infatti parla a tutto il mondo slavo aspirando anche, cosa tutt’altro che secondaria nella nostra nuova epoca, alla leadership politico-religiosa all’interno dell’Ortodossia, e ciò in virtù della posizione di Mosca quale terza Roma naturalmente legittimata alla guida delle autocefale e litigiosissime chiese nazionali ortodosse.
Nel corso della sua lunga storia, ma soprattutto a partire dalla svolta occidentalista fondamentale impressa da Pietro I il Grande (1682-1721), il mondo storico russo è stato un Giano bifronte assorbendo e rielaborando alla luce della propria anima tutto ciò che proveniva dall’Asia e dall’Europa. La dialettica Est-Ovest, Europa-Asia, che fonda il russo, lo pone oggi quale uno dei massimi interpreti e protagonisti del nuovo mondo storico figlio del riflusso in atto. Tuttavia oggi, la Russia, non ha semplicemente la possibilità di ripensare la propria storia in termini propositivi al fine di plasmare il suo domani ma, alla luce della crisi radicale e profonda dell’Europa che, come già detto, non riesce a fare strutturalmente altrettanto, si candida di diritto e di fatto come l’unica vera Potenza che (oltre alla Chiesa di Roma e, forse ma solo forse, alla Germania) può realmente «salvare» il mondo storico europeo dalla sua dispersione, dalla sua Selbstvernichtung.

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di Francesco Di Turi del 30/06/2016

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Così come, infatti, il neoconservatorismo USA credette di forzare bellicamente l’instaurazione della forma democratica nei territori mediorientali, allo stesso modo, ma politicamente poiché già «giardino dell’Impero», il nuovo spazio europeo ormai riunito di fatto dal venir meno dell’altro polo, fu prima consolidato con la nascita dell’Unione Europea (1993), quindi gradualmente espanso non senza essere prima preceduto dalla ben più strategicamente rilevante annessione militare alla Nato di molti paesi ex Patto di Varsavia, a cui, infine, è seguito il sempre maggiore e graduale «allargamento» alle strutture istituzionali della UE.

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di Francesco Di Turi del 30/06/2016

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Europa, uno spazio culturale che per storia e convenzione attribuiamo all’«occidente»; anzi, che questo stesso occidente fonda.
L’Europa, uno pseudo-continente che agli occhi di un cinese deve sembrare soltanto e a ragione una modesta appendice dell’Asia, sembra ormai incapace di capire e vivere gli elementi accennati in conclusione dell’ultimo articolo, in positivo e in negativo.

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di Francesco Di Turi del 30/06/2016

[/vc_column_text][vc_empty_space][vc_column_text css=".vc_custom_1470986972611{padding-top: 15px !important;}" el_class="titolos6"]Forse il fatto che più desta stupore ai nostri occhi occidentali è quello di dover riconoscere che il sistema di potere dello Stato islamico sui territori in cui opera presenta un carattere socialmente riconosciuto, giuridicamente rispettato nella sua legittimità e, soprattutto, condiviso nelle sue aspirazioni politiche, storiche ed escatologiche; ognuno di questi fattori contribuisce sia a rendere il califfato tutt’altro che inviso alle popolazioni ad esso sottomesse sia ad essere guardato con indubbia simpatia nelle sue pretese e azioni da un’alta percentuale delle popolazioni arabo-sunnite mediorientali. Dal canto suo, il sistema della propaganda occidentale offre una narrazione degli eventi mediorientali che omette di far risaltare queste componenti decisive sul consenso preferendo marcare l’altro elemento fondante di Isis, quello della violenza, delle azioni di stampo terroristico di portata globale o la sistematica pulizia religiosa e culturale dei territori ad esso soggetti. In occidente, insomma, manca una seria presa di coscienza pubblica e soprattutto politica sulla reale portata di questa minaccia che non si limiti semplicemente a liquidarla come distorsione ideologica di una religione che esercita un potere feroce – ma pur sempre valutato come residuale e provvisorio – nei confronti di una popolazione considerata esclusivamente come da esso vessata ed intimorita.

[vc_row css_animation="" row_type="row" use_row_as_full_screen_section="no" type="full_width" angled_section="no" text_align="left" background_image_as_pattern="without_pattern"][vc_column css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_separator type="normal" color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]

di Francesco Di Turi del 30/06/2016

[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1701915410659{padding-top: 45px !important;}" el_class="titolos6"]
Quando si parla di “storicità” un termine che riprendiamo da Heidegger, intendiamo nient’altro che la concentrazione attiva e sempre operante di tutte le esperienze che forgiano un determinato popolo, uno specifico individuo nella sua irripetibile unicità, o una particolare comunità religiosa. Essa è cosa diversa dalla mera «storia» di ognuno di essi. É per questo che nei contributi pubblicati si usa questo termine in alcuni contesti. Lo «storia di un popolo», infatti, così come il suo studio, è solo un passato messo a disposizione di ognuno, o per intrattenere la curiosità di qualche studioso, o perché si accresca qualche nozione e conoscenza astratta sulle vicende di quel determinato popolo. La «storicità di un popolo», al contrario, non è mai declinabile come «studio», non è qualcosa che possiamo maneggiare con le nostre mani e le nostre menti; essa è carne viva, agisce al di là di ogni volontà di manipolazione e non ha nulla a che vedere con la conoscenza, la cultura o il sapere; è, semmai, un fenomeno che sempre accompagna le individualità e le comunità. Verso di essa ciò che conta non si valuta sul piano della conoscenza bensì su quello dell’adesione o meno al senso di questa «storicità».

[vc_row css_animation="" row_type="row" use_row_as_full_screen_section="no" type="full_width" angled_section="no" text_align="left" background_image_as_pattern="without_pattern"][vc_column css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_separator type="normal" color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]

di Francesco Di Turi del 30/06/2016

[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1471003586829{padding-top: 45px !important;}" el_class="titolos6"]
Il ritorno quali tratti dominanti degli elementi identitari e, diciamo pure, tradizionali, non è un semplice fatto che riguarda alcune nazionalità o la maggior parte di esse. Quello in atto è un vero e proprio rivolgimento storico che sta riplasmando l’intero globo. Per usare un linguaggio hegeliano, oggi più che mai appropriato, diciamo che è uno snodo nella storia dello Spirito che si scrolla di dosso il vecchio mondo per crearne uno nuovo dai caratteri inediti e pur tuttavia figlio di ciò che abbandona.
Questa marea di ritorno del fattore culturale è ormai un fatto più che assodato, tanto che alcuni autorevoli studiosi di diverse discipline hanno rilevato fin dal principio questa tendenza fondamentale, collocandola storicamente, e a ragione, allo spartiacque costituito dal dissolversi della Cortina di ferro.