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di Maurilio Ginex 09/09/2018

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Nel mondo magico esplorato da Ernesto De Martino (1908 - 1965) la crisi esistenziale, alla quale l’uomo viene continuamente esposto, rappresenta una forma di negativo che viene fronteggiata attraverso l’utilizzo del rituale magico.
Un elemento caratterizzante della crisi che invade l’uomo e lo rende inerme di fronte al negativo è rappresentato da ciò che l’antropologo napoletano, attraverso le analisi lucidissime a riguardo condotte da Pierre Janet (1859 - 1947), chiama «sentimento del vuoto».
Quest’ultimo identifica la totale perdita di rapporto positivo tra coscienza e volontà al fine di decidere per sé ciò che, su una scala di valori consolidata e collaudata, è giusto o sbagliato commettere. Nel momento in cui l’uomo si ritrova all’interno di una condizione critica, in cui non è più lui ad essere padrone di se stesso, ma diventa un’entità esterna, allora quel sentimento porta a allo sprofondamento l’uomo in quel vuoto in cui si riveste una condizione, totalmente negativa, che l’autore identifica con «l’essere-agito-da», cioè essere mosso da un’entità esterna che ti ripone in una posizione subalterna ad essa e che causa una crisi psicologica quasi irreversibile.
Su questa traccia, da cui emerge quest’orizzonte di crisi, la magia svolge un ruolo determinante, poiché ritrae quell’àncora di salvataggio in cui la finitezza dell’umanità può ancora avere speranza e giungere a un miglioramento di una determinata condizione vissuta. La spersonalizzazione e il sentimento del vuoto verso cui l’uomo si imbatte a causa di determinati e specifici traumi - come ci dimostra l’avvenimento luttuoso -, mettono in scena una serie di resistenze di cui, all’interno dell’universo magico, l’uomo si arma per fronteggiare l’orizzonte della crisi totalizzante.
Su questo livello si intrecciano l’esistenzialismo e l’analitica dell’esserci, che Martin Heidegger (1889 - 1976) ha sviluppato nel suo capolavoro Essere e tempo (1927), con ciò che è stata l’etnologia di De Martino. Il rapporto che intercorre tra i due, inizia a scorgersi a partire dall’ultima risposta di De Martino all’interno dell’antropologia, con termini mutuati dal linguaggio del filosofo tedesco. Concetti come «crisi della presenza» ricorrono all’interno delle analisi dell’orizzonte metastorico del magico Sud Italia. De Martino, nella decostruzione di questo mondo e nell’osservazione di ciò che quell’orizzonte di crisi genera, evidenzia come la vita, subalterna alla cultura egemonica che lo tratta come diversità da trascendere, sia continuamente esposta a quello che viene definito come «rischio radicale».
Per Heidegger l’esserci dell’uomo rappresenta lo «stare al mondo», o per dirla con il suo linguaggio, identifica un «essere-nel-mondo» (nota1), parlando così di esistenza, in quanto l’uomo viene gettato nel mondo con la capacità identificativa per la sua ontologia di progettare la sua vita nella realtà vissuta.
Nel momento in cui De Martino parla di presenza dell’uomo e di collaterale crisi di tale entità, si riferisce al rischio che quell’esistenza, che nel tedesco non subisce minaccia, corre continuamente. Per l’antropologo partenopeo la vita dell’individuo è continuamente esposta al rischio di una frattura della stabilità apparente: per cui il mondo magico, con le annesse categorie di interpretazione della realtà, esprime il modo più adatto per fronteggiare quella crisi che l’individuo potrebbe vivere e da cui potrebbe scaturire il crollo.
Dunque, nell’atto pratico, l’importanza del rituale (magico) risiede in questa intenzionalità, da parte del gruppo di appartenenza o della comunità, di far recuperare all’individuo la sua coscienza e la sua volontà, le quali, nell’ottica di un esistenzialismo applicato al mondo magico e a tutto ciò che comporta, devono ritrovarsi in un rapporto dialettico positivo senza complicazioni.
L’ethos , o per meglio dire il temperamento della magia, risiede in questo compito difficoltoso di protezione dell’individuo, che gettato nel mondo deve proteggere il suo Dasein (nota2) dalle minacce di «annientamento», in quanto nel suo «essere-agito-da» passa da una condizione in cui è il soggetto portante di quella presenza nel mondo a una condizione di soggetto di una non-presenza, parlando così di quell’annientamento dell’uomo stesso che non può più esprimere la sua volontà liberamente. Si viene a creare un dualismo del senso dell’Esserci, poiché diventa un punto focale d’incontro tra i due autori, ma allo stesso tempo in esso si manifestano due visioni dell’esistenza differenti. Mentre in Heidegger l’esserci è un qualcosa di garantito e certo, in cui la visione della realtà è una visione positiva; nel mondo magico di De Martino, questa condizione umana viene capovolta perché immersa profondamente nel nucleo del proprio dramma esistenziale di crisi dell’esserci e dunque di crisi della presenza. L’uomo magico è continuamente esposto al rischio della perdita del sé, l’annientamento, che rappresenta uno dei capisaldi prodotti dall’orizzonte di crisi, viene istituito dalle varie forme e tipologie di minaccia che possono spaziare dalla paura per il raccolto - che un contadino ha di fronte all’incombere di una tempesta -, fino ad arrivare a fronteggiare, per mezzo di rituali magici, entità definite esterne al sé: «L’uomo magico è esposto al rischio della labilità nelle sue solitarie peregrinazioni, allorché la solitudine, la stanchezza connessa al lungo peregrinare, la fame e la sete, l’apparizione improvvisa di animali pericolosi, il prodursi di eventi inaspettati ecc., possono mettere a dura prova la resistenza del ‘ci sono’. L’anima andrebbe facilmente ‘perduta’ se attraverso una creazione culturale e utilizzando una tradizione accreditata non fosse possibile risalire la china che si inabissa nell’annientamento della presenza».
In queste parole si sintetizza in maniera essenziale e chiara quanto sia incerto e indifeso il mondo magico, fatto di un velo di «superstizione» che funge da struttura portante per la credenza che alberga nella mente degli individui che fanno parte di quel mondo. Nella sua precarietà il mondo magico induce verso l’incertezza dell’essere, il quale durante lo svolgimento di un’attività come le «peregrinazioni solitarie» deve affrontare la realtà investendola di una serie di pericoli percepiti sotto forma di minaccia da attribuire a qualche entità soprannaturale. Sembra che nel mondo magico si evidenzi il totale divario tra uomo e natura: non vi è assolutamente un’identità tra le due cose, poiché l’uomo scorge nella natura una fonte di negatività e di rischio.
Su questo scenario si innesta quella differenza con l’analitica dell’esserci condotta da Heidegger, poiché in De Martino la realtà diventa «realtà condenda», ovvero, esposta continuamente alla negatività, all’annullamento, al male e al crollo psichico. Un realtà, quella dei contadini, in cui tutto è fonte di minaccia che può espandersi fino al diventare anche morte: «la natura in quanto minaccia è minaccia di morte, di disordine, di vuoto, di irrazionalità; il contadino in quanto agente di storia deve dare un ordine anche a questa minaccia, perché sia possibile la vita. Ed è vita riguadagnata attraverso l’assunzione della morte in cui si può dare ordine solo nella misura in cui viene inserita quale momento previsto di una dialettica di vita».
In queste parole che non sono di De Martino, ma di Lombardi Satriani (1936), riecheggia ancora Heidegger, poiché nel suo esistenzialismo prodotto da un rapporto ermeneutico con l’essere e l’esistenza, ritroviamo le situazioni limite di Karl Theodor Jaspers (1883 - 1969), le quali possono essere identificate nel mondo contadino attraverso la comprensione della dimensione metastorica che vive e attraverso la presa di coscienza della sua subalternità causata da una cultura egemonica che lo etichetta come primitivo, in quanto a cultura e religione.
L’orizzonte di crisi di fronte al quale il contadino viene esposto è totalizzante, poiché la minaccia che la natura-realtà genera può anche diventare morte. L’autoctono del mondo magico, vive una realtà labile sotto tutti i punti di vista: questa (realtà condenda) diventa un reale problema da fronteggiare con una tipologia di approccio in cui viene normalizzato il negativo del divenire e in cui si vive armandosi di tutte quelle possibilità di affrontarlo attraverso l’utilizzo dell’atto magico, qualsiasi sia l’entità di tale attività.
 
_Nota1: L’autore spiega come l’uomo è un essere-nel-mondo, in quanto ricopre la sua funzionalità esistenziale di “prendersi cura” (Besorgen) delle cose di cui necessita, dunque, cambiarle, plasmarle, manipolare, costruirle, dunque tale cura delle cose di cui ha bisogna diventa materiale puro per una progettualità del suo essere e della sua vita.
_Nota2: Il termine è stato utilizzato già in precedenza da Hegel, Jaspers, Feuerbach, ma Heidegger l’ha sviluppato in maniera più approfondita in Essere e tempo, rapportandolo al significato dell’esserci e dunque ponendolo all’interno di un’analitica dell’esistenza.
 
Per approfondimenti:
_E. De Martino, Sud e magia, Feltrinelli, Milano, 1959;
_E. De Martino, Morte e pianto rituale nel mondo antico: dal lamento pagano al pianto di Maria, Torino, Bollati Boringhieri, 1958;
_E. De Martino, Il mondo magico. Prolegomeni per una storia del magismo, Torino, Bollati Boringhieri, 1948;
_M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano, 1971;
_L. M. Lombardi-Satriani, M. Meligrana, Il ponte di San Giacomo, Sellerio Editore Palermo, 1989.
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

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di Giuseppe Baiocchi del 31/06/2018

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L’evento fondatore dell’epoca contemporanea, sia stato esso storico o mitico, fausto o infausto, è certamente la rivoluzione francese. L’evento consiste nello storico passaggio dalla Tradizione alla Modernità, mediante il quale la bassa borghesia e i banchieri si sarebbero sottratti alla condizione di sottomissione per diventare indipendenti, liberi e sovrani.
Questo processo storico, compiutosi nel 1789, ha avuto pieno successo, grazie al lavorìo propagandistico degli intellettuali, degli opinionisti e degli storici compiacenti del nuovo sistema di potere; diffusosi tra le stampe giornalistiche e giunto fino a noi nella letteratura e nella scuola statale, con il consenso tacito di alcuni ambienti cattolici conformisti che hanno fatto permeare in sinu Ecclesiae una concezione della storia e della società subordinata a quella rivoluzionaria.
[caption id="attachment_10456" align="aligncenter" width="1000"] Louis-Charles-Auguste Couder, Inaugurazione degli Stati Generali, 5 maggio 1789, olio su tela, 400 x 715 cm, Versailles, Musée national du château et des Trianons - 1839.[/caption]
Sarà proprio da tale istanza che la Rivoluzione Francese, equivarrà alla Rivoluzione per eccellenza, perché ha applicato le rivoluzioni precedenti e ha preparato quelle successive contenendole in una camera stagna dei futuri errori ed orrori.
Come affermava il politologo italiano Augusto Del Noce (1910 – 1989) «Rivoluzione è la parola-chiave per intendere la nostra epoca»: una parola magica, capace di giustificare o santificare alcune porzioni della storia dell’uomo, che è stata ripresa anche dall’epoca post-moderna; infatti, la dissoluzione del sistema comunista-sovietico e la parallela costruzione del sistema socialista dell’Unione Europea sono state presentate come gli eventi epocali che riconcilieranno le due anime antagoniste della rivoluzione, ossia la liberté e l’égalité, nella fraternité, e imporranno un modello politico “inclusivo e solidale” che garantirà un “nuovo ordine mondiale” e darà inizio ad una nuova storiografia, capace di realizzare quella unificazione del globo, detta “repubblica universale”.
Solo recentemente il mito rivoluzionario ha cominciato a incrinarsi: nel 1989, alle stanche celebrazioni ufficiali del secondo bicentenario del 1789, si opposero vivaci e moderne anti-celebrazioni che riaprirono la diatriba dialettica, mai sopita, su antiche questioni considerate risolte e vetuste divisioni credute superate. Alcuni intellettuali avviarono una risoluzione pacifica per sedare le polemiche montanti, asserendo come nell’epoca post-moderna doveva necessariamente avvenire quella riconciliazione tra la Tradizione e la Rivoluzione. I progressisti, figli di un nichilismo mai superato, auspicavano un’unione all’insegna diabolica dell’amore, tra Cristianesimo e laicismo, vandeani e giacobini, Maistre e Volteire. Tale manovra fu pubblicata nel 1989, dal Centro culturale Lepanto, il quale criticò con giustezza anche la posizione conciliatrice del cardinale Paul Poipard, allora presidente del Pontificio Consiglio della Cultura.
Questa manovra, difatti, in apparenza esecutrice di moderazione, possedeva lo scopo ben poco edificante di bloccare sul nascere il movimento anti-rivoluzionario, per non farlo divenire una coscienza popolare. Se attuiamo un realismo storico, oggi si ammette con franchezza che la rivoluzione giacobina, pur promettendo libertà, eguaglianza e fratellanza, in realtà produsse successivamente schiavitù, oppressione e odi. La presa della Bastiglia, festeggiata nella Francia Repubblicana ogni anno, pur pretendendosi popolare e democratica, in realtà fu opera di una setta militante che s’impose con l’inganno, la seduzione e la violenza.
Tuttavia ancora la storiografia ufficiale pretende che tali scomode verità restino confinate nel campo teorico e in ristretti ambienti intellettuali. Lo stesso storico Marco Tangheroni (1946 – 2004) affermava nel suo saggio Cristianità, modernità, rivoluzione come «sotto il profilo storiografico la revisione è in atto, ma deve restare, secondo la cultura dominante, circoscritta a una innocua cerchia di accademici»: difatti la scuola e i media continuano a ripetere le solide falsità, per mantenere il popolo nella menzogna ideologica e impedirgli di alzare il velo della verità storica. Tale revisione critica ha portato alla riscoperta di alcuni autori contro-rivoluzionari dell’epoca, tra i quali inquadriamo in una figura centrale e di spicco Joseph de Maistre (1753 – 1821).
Tale pensatore subì, già con il romanzo del 1880 di Gustave Flaubert (1821 – 1880) Bouvard et Pécuchet (1880), una pesante satira che gli procurò prima una damnatio famae e una volta defunto una damnatio memoriae. Oggi, di contro, appare come un vero e proprio storico dell’avvenire: non solo seppe valutare le negatività rivoluzionarie, prevedendone i tragici postumi che ancor oggi tormentano la società odierna, ma riuscì mirabilmente ad intuire le condizioni basilari della sua terapia. Non meraviglia dunque che, fin dal contestato bicentenario del 1789, per riprendere il celebre storico Jacques Solé (1932 – 2016) «molti ritrovano […] gli accenti di un Joseph de Maistre che si erge contro Satana», riaffermando con forza, l’inconciliabilità tra due civiltà e culture in opposizione polare: quella antropocentrica della Rivoluzione e quella teocentrica della Tradizione. Ma chi era veramente de Maistre? A darcene breve descrizione è il poeta, scrittore e politico francese Alphonse Marie Louis de Prat de Lamartine (1790 – 1869): «Era un uomo di alta statura, con una bella e virile figura militare, con una fronte alta e scoperta, su cui ondeggiavano, come i resti di una corona, solo alcune ciocche di capelli argentati. Il suo occhio era vivo, puro, franco. La sua bocca aveva l'espressione abituale di fine umorismo che caratterizzava tutta la famiglia: possedeva nei suoi atteggiamenti la dignità del suo rango, del suo pensiero, della sua età».
[caption id="attachment_10457" align="aligncenter" width="1000"] Memoriale a Joseph e Xavier de Maistre, presso il castello di Chambery, Francia.[/caption]
Alla vigilia degli atti rivoluzionari, Joseph de Maistre era un magistrato e senatore sabaudo giunto all’età di 36 anni senza aver fatto nulla di rilevante, era bene inserito in una società europea che godeva di mezzo secolo di pace e stava incoscientemente scivolando verso l’apostasia generale, senza curarsi dei segnali inequivocabili che avrebbero trascinato nel baratro la Francia, e successivamente l’Europa tutta, nel grande ciclone dei nazionalismi.
Basti pensare che, nel 1787, uno studioso dell’Università di Pavia riteneva che non bisognasse più temere l’insorgere di “disordinate rivoluzioni”, perché la “repubblica delle lettere” aveva ormai neutralizzato quel fanatismo responsabile dei secolari conflitti religiosi e politici. Tesi completamente distante da quanto storicamente avvenne: lo stesso Pio VII, nel suo Panegirico, asseriva come la rivoluzione traeva «le estreme conseguenze della depravazione e della dissoluzione […] instaurando una tirannia quale non si era mai vista in tutto il corso della storia […] spazzando via, per quanto le fu possibile, l’intera struttura delle istituzioni cristiane […] provocando il più brutto voltafaccia dello spirito umano che fu dato di sperimentare da quando sorse il Cristianesimo».
Tale trauma sociale ed etico, risvegliò l’opinione pubblica europea, costringendola a rivedere le proprie idee e a fare scelte drammatiche dividendosi in tre settori ideologici: un primo campo era nella posizione contro-rivoluzionaria, che valutò il fenomeno diabolico, come fattore da combattere in quanto perverso; un secondo fronte accademico era stanziato nella posizione progressista, la quale valutò la rivoluzione come divina, dunque da favorire in quanto provvidenziale; infine quella ibrida del conservatorismo, posizione moderata e neutralista che valutò il 1789 come atto meramente umano, dunque da accettare, come un fatto compiuto. Tale divisione tripartita, come afferma anche il professor Guido Vignelli (1954), è sopravvissuta fino ad oggi, anche se sembra non innescare più le vivaci polemiche di antico periodo.
De Maistre tra il 1789 e il 1790, influenzato dall’illuminismo massonico, prese la posizione della tendenza transigente alla rivoluzione, ovvero, considerò questa come un male necessario da tollerare, illudendosi che potesse fungere come strumento per riformare l’Ancien Régime adeguandolo alle nuove esigenze sociali e abolendone l’assolutismo e le ingerenze nella vita ecclesiastica; tale movimento di pensiero puntava anche verso una riconciliazione del Direttorio con la Monarchia, illudendosi che la caduta del giacobinismo avrebbe ridotto la Rivoluzione ad una pacifica e graduale riforma. D’altronde come affermava lo stesso Julius Evola (1898 – 1974) nel suo celebre saggio Le sacre radici del potere: «quei Re assolutistici e nemici dell'aristocrazia feudale, […] si scavarono letteralmente la propria fossa. Centralizzando, disossando e disarticolando lo Stato, sostituendo una superstruttura burocratico-statale a forme virili e dirette di autorità, di responsabilità e di parziale, personale sovranità, essi crearono il vuoto intorno a sé, perché la vana aristocrazia cortigiana di palazzo nulla più poteva significare e quella militare era ormai priva di rapporti diretti con il paese. Distrutta la struttura differenziata che faceva da medium fra la nazione e il sovrano, restò appunto la nazione disossata, cioè la nazione come massa, staccata dal sovrano e dalla sua sovranità. Con un sol colpo, la rivoluzione spazzò facilmente quella superstruttura e mise il potere fra le mani della pura massa. L'assolutismo aristocratico prepara dunque le vie alla demagogia e al collettivismo. Lungi dall'avere carattere di vero dominio, esso trova il suo equivalente solo nelle antiche tirannidi popolari e nel tribunato della plebe, forme parimenti collettivistiche».
Successivamente quando de Maistre capì che il dramma, si stava trasformando in tragedia, egli mutò opinione, passando alla teoria intransigente, la quale condannava la rivoluzione fin dal suo inizio, denunciandone gli errori intellettuali e i vizi morali che l’avevano favorita, smentendone le iniziali promesse libertarie e prevedendone il rapido sviluppo in senso anticristiano, totalitario e terroristico. Fra questi primi scrittori contro-rivoluzionari spiccarono molti sacerdoti, come i gesuiti Augustin Barruel (1741 - 1820), Pierre de Cloriviére (1735 - 1820), Francismo Gustà (1744 - 1816), Sebastiano d’Ayala (1744 - 1817), Giovanni Marchetti (1753 - 1829), Gianvincenzo Bolgeni (1733 - 1811), Luigi Mozzi de Capitani (1746 - 1813) e Lorenzo Ignazio Thjulen (1746 - 1833); a loro possiamo aggiungere l’olivetano Michele Augusti, il francescano Filippo di Rimella, l’eudista Jean-Francois Lefranc (beatificato come vittima del Terrore), mons. Adeodato Turchi vescovo di Parma e il canonico Bonaventure Proyart; fra i laici spiccò Audainel, pseudonimo del conte Louis d’Antraigues.
Successivamente la Francia rivoluzionaria invase ed annetté la Savoia e Joseph de Maistre rimanendo fedele al proprio sovrano, fuggi a Losanna nella neutrale Svizzera. Qui il conte frequentò l’ambiente degli esuli sfuggiti alla rivoluzione, soccorrendoli materialmente e proteggendoli diplomaticamente; ma ben presto si accorse che doveva “illuminarli” spiritualmente per liberarli da quell’illusorio progetto riconciliatore che li traviava in sterili manovre impedendo la restaurazione dell’ordine cristiano.
Fu così che in pieno clima rivoluzionario il conte de Maistre pubblicò come opera anonima la sua fatica letteraria di maggior caratura: Considerazioni sulla Francia. Il libro in controvertenza rispetto ai focolai europei, ebbe un incredibile fama e successo: ne furono stampate ben quattro edizioni in Svizzera, nella stessa Francia e in Inghilterra. Diventò presto il testo fondamentale dei contro-rivoluzionari, dai visconti Louis-Gabriel-Ambroise de Bonald (1754 – 1840) e François-René de Chateaubriand (1778 – 1848), passando per Alphonse Marie Louis de Prat de Lamartine (1790 – 1869), fino ad arrivare all’esule sovrano Luigi XVIII che lo elogiò, dopo aver letto il saggio.
[caption id="attachment_10460" align="aligncenter" width="1000"] Statua di Alphonse Marie Louis de Prat de Lamartine dello scultore Paul Niclause, nell'omonima piazza nel 16°arrondissement di Parigi.[/caption]
Lo stesso generale giacobino Napoleone Bonaparte (1769 – 1821) dopo averlo letto, proclamò la sua pericolosità, bandendo l’opera dal territorio francese: de Maistre, senza rendersene conto, divenne il manifesto politico della sperata restaurazione, facendo compiere al movimento contro-rivoluzionario un salto di qualità culturale ed ideologico-religioso fondamentale per il proseguo degli eventi storici.
All’interno del suo tomo, il conte suddivideva la rivoluzione francese in cinque distinte macro-caratteristiche: la prima trattava il suo carattere sovversivo, in quanto fenomeno politico, morale e culturale, poiché i giacobini minavano a sradicare le fondamenta della società; nella seconda analizzava il programma anti-cristiano della rivoluzione, la quale senza nasconderlo urlava la distruzione delle basi sociali della Chiesa cattolica; il terzo punto analizza il processo storico della rivoluzione, che appare unitario, coerente e progressivo, mosso da un dinamismo meccanico che s’impose anche contro le intenzioni dei suoi protagonisti (si veda Maximilien-François-Marie-Isidore de Robespierre, 1758 – 1794); la quarta caratteristica disvela il carattere massonico della rivoluzione, favorita da una occulta cospirazione settaria, che seppe legare forze sovversive prima divergenti, come i protestanti, gli gianseniti, i gallicani, gli illuministi, i liberali e i democratici in una comune strategia; infine una quinta analisi viene prodotta per il risultato squisitamente politico che la rivoluzione ha prodotto: ovvero l’aver riunito con sapienza plurisecolare, il soggettivismo religioso protestante e il razionalismo filosofico illuminista nel naturalismo politico liberale.
A conoscere bene la storia della religione cattolica, la Rivoluzione Francese non sembra altro che un ingranaggio di un meccanismo più complesso, che in teologia si traduce nella lotta tra bene e male, tra Chiesa divina e anti-Chiesa satanica che anima la volontà degli ultimi d’instaurare il paradiso in Terra mediante “l’assalto al cielo”, per riappropriarsi dei poteri divini “alienati” nel trascendente e «riorganizzando tutto senza Dio e senza Re».
Molte furono le nazioni soggiogate dal sogno della libertà, della fraternità e della eguaglianza: prime fra tutte l’Italia di Foscolo. De Maistre aveva compreso appieno che la Rivoluzione Francese, che come primo prodotto ebbe il bonapartismo, non si ribellava contro la Monarchia, contro la Chiesa o contro la società tradizionale, quanto contro il divino governo del mondo, contro Dio stesso, essa mirava a realizzare l’assoluto naturalismo politico, secolarizzando gli Stati e cancellando ogni traccia della società cristiana. Difatti lo stesso poeta inglese giacobino William Blake (1757 – 1827) nel 1791 esaltava la rivoluzione come un evento che, risuscitando dall’abisso infernale gli angeli ribelli, doveva «risvegliare i popoli dal sonno dogmatico di cinquemila anni» e «far saltare le dighe del caos».
L’evento del 1789, poteva essere anche uno strumento usato dalla divina Provvidenza per punire la Francia, e tramite questa l’intera Europa, vendicando le secolari colpe da loro commesse contro i diritti di Dio e della Chiesa, e allo stesso tempo offrendo una storica occasione di pentimento, riscatto e riscossa.
Come afferma lo stesso professor Guido Vignelli, «Maistre comprese che la rivoluzione francese era mossa da un originario scopo anti-religioso mal nascosto dal paravento deista. Essa sognava di realizzare l’umana felicità “tornando alla natura”, ossia a un paradiso terrestre che riteneva perduto non per colpa dell’umana malizia espressa nel Peccato Originale, bensì per colpa di un sistema sociale ingiusto basato sull’autorità economica, familiare, politica e religiosa, con le conseguenti disuguaglianze e discriminazioni».
Saranno gli anni in cui il filosofo tedesco Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770 – 1831), evolverà le teorie di Cartesio nell’idealismo hegeliano, ovvero l’uomo fondamento del reale: l’essere umano si sostituisce al Dio cristiano. Infatti l’atto storicamente più grave di tutta la rivoluzione francese è la decapitazione di Luigi XVI. Ma perché un gesto così forte? Perché uccidere un Re, che era già stato estromesso? La risposta è semplice: per estirpare il sangue aristocratico, che è scelto da Dio, perché sangue di Dio in terra. La decapitazione venne giustificata dai giacobini come la necessità di liberarsi dalla tutela del Re come padre della Patria; più tardi i socialisti vorranno liberarsi anche del padrone, i sessantottini del padre di famiglia e dall’insegnante come padre educatore, e infine gli ideologi atei, come il conte Donatien-Alphonse-François de Sade (1740 – 1814) e Herbert Marcuse (1898 – 1979), direttamente da Dio padre.
Quando si parla di rivoluzione ambivalente e progressista, alcune tesi accademiche hanno optato per l’esistenza di due “illuminismi” contrapposti, dunque di due “rivoluzioni”. Tale prima analisi disserta circa l’esistenza di un primo movimento moderato e realistico con attori principali il barone Charles-Louis de Secondat (1689 – 1755) e François-Marie Arouet (Voltaire 1694 – 1778), che insieme al famoso trattato dell’Encyclopédie (1772) avrebbe preparato il terreno alla prima rivoluzione, di stampo pragmatico-liberale in continuità con le riforme promosse dall’aristocrazia progressista durante il Regno di Luigi XVI. Il secondo “illuminismo” è, di contro, quello utopistico-fanatico culminato nel pensiero di Jean-Jacques Rousseau (1712 – 1778) che avrebbe organizzato ideologicamente la seconda “rivoluzione” totalitaria e socialista tentata tra il 1792 e il 1795, rompendo con il riformismo precedente. Tale pensiero si è affermato con il romanzo di Anatole France (1844 – 1924) Gli dèi hanno sete (1912) e con l’opera lirica di Umberto Giordano (1867 – 1948) Andrea Chénier (1896).
[caption id="attachment_10461" align="aligncenter" width="1000"] Un giacobino in azione in un fotogramma del film Un peuple et son Roi (2018) con Regia di Pierre Schoeller. Un film con Louis Garrel, Gaspard Ulliel, Adèle Haenel, Céline Sallette, Laurent Lafitte.[/caption]
Pertanto la conduzione, secondo molti autorevoli pensatori, errata di tale pensiero si instaura nell’affermare che bisognerebbe recuperare e portare a compimento la prima rivoluzione illuministica, allo scopo di risanare i danni provocati dalle estreme conseguenze della seconda, definitivamente smentita dal fallito esperimento sovietico.
Applicando un noto motto alchemico solve et coagula, la Rivoluzione universale tende a dividersi sempre in due correnti distinte, per favorire il successo della stessa strategia rivoluzionaria, che utilizza propriamente una divisione dei ruoli: da una parte la dialettica della fazione lenta e moderata, dall’altra la porzione veloce e estremistica. In tal modo la Rivoluzione può raccogliere un massimale di consensi insperato ammaliando correnti ideologiche non allineate fra loro: da un lato tranquillizza gli individui tiepidi e timorosi usando toni morbidi e contemporaneamente, eccita i fanatici usando toni duri, potendo sempre ritirarsi nella soluzione moderata qualora fallisca la soluzione militaresca. In realtà “le due fazioni opposte” colpisco sempre unite il potere, in una sorta di lingua biforcuta – che riprendendo simboli teologici, ci appare come quella del maligno -, che aggira gli ostacoli e progredisce in forma graduale, subdola e inavvertita, fino a raggiungere lo scopo finale. Non a caso la rivoluzione francese è stata esplicitata come una grande Idra con quattro teste: quella ottocentesca del bonapartismo, dove l’alta borghesia si sostituisce al clero e alla aristocrazia; le altre tre novecentesche, figlie di un nazionalismo estremizzato che si inquadrano nel fascismo, nel nazismo e nel bolscevismo.
Sarà de Maistre a svelare l’arcano nella sua opera Considerazioni sulla Francia, dove affermava che i moderati «condannano questa rivoluzione solo per non attirarsi l’universale esecrazione, ma essi l’approvano, ne apprezzano gli autori e i risultati, e di tutti i crimini da essa prodotti condannano solo quelli di cui poteva fare a meno». La critica, difatti, contro gli atti del Terrore rivoluzionario è sempre dettata da atteggiamenti deboli e moderati. Un esempio tangibile ci è dato dalla concordia tra moderati e estremisti nel Congresso massonico di Wilhelmsbad del 1782, dove fu de facto progettata la rivoluzione europea, insieme al Congresso massonico di Parigi del 1785, che preparò l’insurrezione del 1789. Quest’ultimo, ispirato dall’anarchico tedesco illuminista Johann Adam Weishaupt (1748 – 1830) e organizzato dalla loggia Les Amis Réunis, fu presieduto dal marchese Savalette de Lange (1745 – 1797) e animato da futuri protagonisti della rivoluzione, come il conte di Mirabeau Honoré Gabriel Riqueti (agente degli illuminati, 1749 – 1791), dal marchese di Condorcet Marie Jean Antoine Nicolas de Caritat (agente dei filosofi, 1743 – 1794), dall’abate Emmanuel Joseph Sieyès (agente dei gallicani, 1748 – 1836), Antoine Pierre Joseph Marie Barnave (agente dei calvinisti, 1761 – 1793) e l’architetto Nicolas Le Camus de Mézières (agente dei gianseniti, 1721 – 1789).
Questo movimento ideologico pose come prima pietra miliare l'anti-religiosità, cercando di sostituire il Cristianesimo con una religione civile e l’istituzione della Chiesa cattolica con una comunione democratica. La prima svolta si ebbe infatti nel 1792 quando Luigi XVI, dopo aver ricevuto due brevi pontifici condannanti la politica anti-cristiana, rifiutò di approvare il decreto di deportazione del clero che non aveva giurato fedeltà alla Rivoluzione, e scrivendo al vescovo di Clemont affermava di essere deciso di ristabilire il culto cattolico in Francia. Fu in tale istante che il Sovrano firmò la sua condanna, poiché i giacobini capirono che non potevano più contare sulla complicità del Re per continuare la persecuzione anti-religiosa. Eppure “i moderati” invece che rinunciare e tornare sui propri passi, appoggiarono tacitamente il Terrore, progredendo rapidamente verso la conclusione totalitaria. Ancora per riprendere Vignelli «nessuna contraddizione tra due illuminismi e due rivoluzioni […] il primo illuminismo doveva generare il secondo e la prima rivoluzione la seconda».
Così la “rivoluzione permanente” annunciata da Voltaire nella loggia massonica Les Neuf Soeurs ed inaugurata nel 1789 da Mirabeau nella Assemblea Costituente, doveva coerentemente progredire fino alla dittatura avviata nel 1792 da Robespierre con il Comitato di Salute Pubblica. Bisogna affermare con intelligenza che il Terrore giacobino non fu un incidente di percorso verso la “via del progresso”, ma fa la logica conseguenza di un progetto anticattolico nato a livello religioso col Protestantesimo, elaborato a livello filosofico dal Razionalismo, progettato a livello culturale dall’illuminismo e attuato a livello politico dal Liberalismo: Lutero, Zwingli e Calvino, dapprima tramite Cartesio, Hobbes e Bayle, poi tramite Voltaire, Diderot e Rousseau, armarono le mani di Danton, Marat e Robespierre.
Di rilevanza accademica è il dibattito sull’ideologia del conservatorismo, rispetto al suddetto discorso reazionario. Il conservatore medio, da un lato nutre simpatia per il conte de Maistre, ma parallelamente individuano nella contro-rivoluzione un mero rovesciamento della rivoluzione stessa. Intendono il movimento reazionario come speculare a quello rivoluzionario, indicando una soluzione alla problematica ideologica, attraverso una sintesi riconciliatrice. L’equivoco ideologico dei conservatori è facilmente esprimibile: la mentalità relativistica e storicistica basata sul primato del negativo, tipico della dialettica gnostica ed hegeliana, fa dipendere la verità dall’errore, il bene dal male, la giustizia dall’ingiustizia. Bisogna di contro affermare con forza che la negatività dipende sempre dal bene. Dunque non bisogna tentare mai una mediazione tra una tesi errata ed una giusta, nell’illusione di ottenere una sintesi pacificatrice; bensì bisogna opporle l’antitesi veridica rispettiva e con le sue giuste proporzioni. Per paradosso, saranno proprio le posizioni conservatoriste che de facto dipendono ideologicamente dalla rivoluzione, poiché ne creano una personale attenuazione o correzione della teoria, il che condanna tale tesi ad essere sconfitta, proprio dalla radicalità e dalla coerenza della strategia giacobina.
Sarà proprio de Maistre, nel capitolo X del suo saggio Considerazioni sulla Francia, che rispondendo a Condorcet – il quale asseriva come la controrivoluzione sia stata una “rivoluzione di senso contrario” -, asseriva come «la Contro-rivoluzione non sarà affatto una rivoluzione di segno contrario, bensì il contrario della Rivoluzione». Sarà così che il reazionario opporrà al rivoluzionario, non un suo ribaltamento di vizi e errori, ma una personale reazione basata su un’azione culturale, sociale e politica, che si ispiri alle verità e alle virtù negate dai settari.
Qui è di fondamentale importanza la Dottrina sociale della Chiesa, la quale viene ripresa dal contro-rivoluzionario ed applicata ad una seria e corretta teologia della storia. Il tutto inoltre deve essere fuso con gli interessi sociali che la rivoluzione ha creato. Difatti la contro-rivoluzione – come spiega abilmente de Maistre -, non vuole negare uno specifico modo di procedere nella Rivoluzione e non mira certamente ad annullare le conquiste sociali dei moti. Operare invece una reazione consiste nell’annullare la modernità disgregatrice che la Rivoluzione stessa produce, nelle sue forme filosofiche, artistiche e architettoniche – per traslare l’argomento in una tesi più contemporanea. Attenzione, le abolizioni non devono consistere in una censura o peggio in una persecuzione, ma unicamente in un non utilizzo pratico all’interno della società.
Così il conservatore diviene incapace di valutare la Rivoluzione alla luce di una corretta teologia della storia, non risale alle cause prime né scopre i fini ultimi della crisi, non ne coglie la radice metafisica né quella satanica, dunque non conosce l’adeguata terapia. Egli acquista una visione terzoforzista, la quale si pone in mezzo tra le due ideologie, auspicando che unicamente alcuni concetti-idee come quelli della famiglia, dell’ordine e della patria, bastino a neutralizzare la libertà rivoluzionaria. Inoltre oggi sempre più il conservatorismo, si lega indissolubilmente alle teorie liberali, amiche e figlie della Rivoluzione stessa. Il conservatore essendo essenzialmente un pragmatico e un opportunista (in quanto spesso imprenditore), muove le sue tesi da interessi e timori e non da princìpi. Il conservatorismo critica la Rivoluzione francese unicamente nei suoi eccessi, come la violenza, la velocità (anche se oggi il conservatore “va di fretta”), il centralismo, il settarismo, l’estremismo e al ricorso all’inganno ideologico. Ritengono che la rivoluzione sia stata storicamente inevitabile, quindi impossibile da vincere e pericolosa da contrastare: lo afferma lo stesso visconte Alexis Henri Charles de Clérel de Tocqueville (1805 – 1859), nel suo La democrazia in America, quando asserisce come «È mia ferma opinione che la grande rivoluzione democratica sia un fatto irresistibile contro il quale non sarebbe desiderabile né saggio lottare […] perché voler arrestare il cammino della democrazia sarebbe come lottare contro Dio stesso; perciò alle nazioni non resta che adattarsi alle condizioni sociali imposte dalla Provvidenza». Il francese vive nell’ossessione di cedere per non essere sconfitto, per arrivare alla sua coscienza riconciliatrice tra le due ideologie. Bisogna capire bene come la Rivoluzione Francese nel suo complesso mira sempre nella distruzione di un qualcosa e non certamente alla sua conservazione, soprattutto all’interno della matrice etico-morale, molto cara al conservatorismo.
[caption id="attachment_10462" align="aligncenter" width="1000"] Théodore Chassériau, Ritratto di Alexis de Tocqueville (particolare).[/caption]
Così è accaduto con la pratica dell’aborto, dove il conservatore ha inizialmente tollerato l’errore, successivamente l’ha permesso e infine l’ha giustificato. Come cita de Maistre «egli accetta la liberté limitandosi a reclamarla anche per la Chiesa; accetta l’égalité preservando la proprietà, la famiglia e l’istituzione ecclesiastica (il che si dimostrerà storicamente fallimentare), accetta la fraternité, limitandosi a contenerla entro le esigenze di pubblico ordine; accetta tacitamente la démocratie rivoluzionaria, preoccupandosi unicamente di frenarne gli eccessi», ma la domanda che possiamo porci è la seguente: come poter contrattare politicamente con un estremismo? La storia è piena di esempi concreti di fallimento. La Rivoluzione Francese, secondo de Maistre, va stroncata sul nascere di questa o in mancanza di tale condizione, va sconfitta approfittando delle sue debolezze cicliche.
A questo punto, il conservatore giunge ad un bivio cruciale: se il suo fallimento lo può risvegliare dalle illusioni moderate, egli può con coraggio e dignità rompere il compromesso; di contro può accettare definitivamente la Rivoluzione non più come fatto storico, ma anche come diritto, non solo nelle sue conseguenza, ma anche nelle sue cause, giustificando il moto rivoluzionario come bene concretamente possibile. L’iniziale subordinazione passiva si trasforma in attiva collaborazione: di conseguenza il conservatore giudicherebbe il reazionario non come un concorrente strategico da neutralizzare, ma come un nemico ideologico da distruggere. Tale processo diviene atto concreto, in illustri famiglie aristocratico-conservatoriste, prima tra tutte la famiglia francese degli Ormesson, vicende narrate magistralmente nella sua decadenza dallo scrittore Jean d’Ormesson nel romanzo A Dio piacendo.
Lo scisma, se di scisma ideologico contro-rivoluzionario vogliamo parlare, si suddivise in tre porzioni distinte: vi fu una destra che rimase fedele all’originaria posizione intransigente, combattendo il Risorgimento e preparando la strada alla futura Azione Cattolica – ne ricordiamo degli esempi nel marchese Cesare d’Azeglio (1763 - 1830), nel conte Emiliano Avogadro della Motta (1798 - 1865), nel conte Clemente Solaro della Margarita (1792 - 1889), il principe Antonio Capece Minutolo di Canosa (1778 - 1838), il celebre conte Monaldo Leopardi (1776 - 1847) e da illustri sacerdoti, quali Luigi Guala (1834 - 1893), Pietro Scavini (1790 - 1869), Antonio Bresciani (1798 - 1862), Luigi Taparelli d’Azeglio (1793 - 1862), Giuseppe Baraldi (1778 - 1832), Pietro Balan (1841 - 1893) e Giacomo Margotti (1823 - 1887) -; un’altra “moderata” conservatrice e filo-risorgimentale che vide tra i suoi protagonisti Antonio Rosmini Serbati (1798 - 1855) e infine una progressista che accettò la Rivoluzione cooperando con essa – ne sono protagonisti di rilievo Félicité de Lamennais (1782 - 1854), Charles de Montalembert (1810 - 1870) , Henri Lacordaire (il giovane 1802 - 1861), Gioacchino Ventura (1792 - 1861) e Vincenzo Gioberti (1801 - 1852).
[caption id="attachment_10466" align="aligncenter" width="1000"] Tre dei protagonisti del mondo reazionario dei tre fronti: (da sinistra a destra) il conte Monaldo Leopardi (1776 - 1847), Antonio Rosmini Serbati (1798 - 1855) e Félicité de Lamennais (1782 - 1854).[/caption]
Fu da questo trittico ideologico che l’ideale Rivoluzionario ebbe storicamente la meglio producendo quello che oggi viene definito come cattolicesimo liberale e parallelamente pose le basi per la creazione del democristianesimo. L’atto di nascita della Democrazia Cristiana deve necessariamente essere cercato nella rottura tra Lamennais e de Maistre: il primo sosteneva l’imposizione di non introdurre l’atto rivoluzionario all’interno di un quadro demonologico, riducendo la Rivoluzione Francese come mero atto umano, dunque neutro e recuperabile ed a inquadrarlo addirittura come moderna incarnazione del Vangelo, operata dal Divino immanente della storia. Fu con tale processo-ideologizzante che nel XX secolo farà sostituire l’impegno sociale cristiano con l’idolatria umanitaria. Questa posizione rivoluzionaria inizialmente fu minoritaria e isolata da tutti i Papi, ma oggi è divenuta maggioritaria e viene sostenuta da autorevoli approvazioni ecclesiastiche. Ne è prova, ad esempio, le immagini rappresentanti Mosè situate nella chiesa svizzera di Martigny: Mosè scende dal monte Sinai presentando al popolo due tavole contenenti non l’antico Decalogo, ma le nuove Leggi dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino.
Il presupposto ideologico della Contro-Rivoluzione, smentisce anche il luogo comune, preso buono dalla frangia conservatorista, che vede nella reazione un’incapacità latente di costruire un futuro, impegnandosi unicamente nel rimpiangere il passato e criticare il presente: niente di più falso. Difatti se si analizza nel pieno controllo e dedizione l’opera di de Maistre, questo pone tutte le condizioni preliminari – non adottate nel Congresso di Vienna – per ricostruire lo Stato, appoggiandosi oltre che a elementi morali, culturali e sociali anche a quelli teologici. In particolare nel suo Considerazioni sulla Francia, egli mira a ri-sacralizzare la politica, poiché la fede concederà la vera forza al nuovo apparato. D’altronde tutti gli imperi, i regni e le repubbliche che hanno posto alla base il carattere religioso, sono durate secoli, gli Stati socialisti o liberali, molto meno, poiché per riprendere l’enciclica di Papa Pio IX Nostis et nobiscum «non è in potere degli uomini fondare nuove società e comunità contrastando la naturale condizione delle cose umane».
Bisogna riaffermare una vera teologia politica capace di rivendicare i diritti di Dio Creatore e Legislatore, di Cristo Redentore e della Chiesa Santificatrice, come solo fondamento e difesa dei diritti umani subordinati al bene sociale comune finalizzato alla vita eterna. Politica e religione “non possono, non devono, non vogliono” rapportarsi in forma egualitaria, poiché non sono elementi sullo stesso piano di confronto, poiché si devono porre unicamente in un ordine gerarchico: una fede che non diventa cultura, è un’entità non pienamente accolta.
Ora pensate se il pensatore di Chambéry avesse potuto osservare la nostra Unione Europea basata su una Costituzione ancor più artificiosa, pletorica e atea di quelle varate dalla Rivoluzione Francese! Riprendendo nuovamente il professor Guido Vignelli «Secondo Maistre, una società politica dura e prospera solo se la “coscienza civile” accetta e rispetta un diritto pubblico fondato su una tradizione, ossia su un “dogma nazionale” rivelante il ruolo storico affidato dalla Provvidenza a quella società, il che presuppone una “ortodossia” che esprima una concezione dell’uomo, del suo posto nel cosmo e nella storia, dei suoi doveri verso Dio».
Difatti proprio in assenza di trascendenza non possono sussistere né diritti, né doveri certi, né libertà, né veritiere responsabilità, né carità sociale, ma unicamente un arbitrio che trasla tra gli eccessi dell’anarchia e quelli del dispotismo: mali che non posso essere scongiurati da Costituzioni, trattati, “carte dei diritti” o istituzioni internazionali umanitarie che pretendono con arroganza di sostituirsi alla giustizia cristiana. Non vi è possibilità di fondare il bene comune, il diritto pubblico e l’ordine civile su un relativismo dei valori, ma unicamente e sempre su un assoluto. Ancora una volta la storia ci giunge da aiuto e supporto: l’evoluzione rivoluzionaria giacobina sfocerà nei già citati regimi totalitari, i quali inizialmente desacralizzarono la politica allo scopo di scristianizzarla, poi dovettero risacralizzarla, tentando di rifondare l’ideologia della volontà di potenza su una sorta di improbabile “religione civile” basata sul culto di nuovi idoli, quali ricordiamo l’Essere Supremo, la Ragione, la Natura e la Libertà, poi nell’ultimo stadio quest’ultime si trasformarono nel Partito, nella Classe, nella Nazione, nella Razza, nel Popolo e nell’Umanità. La politica secolarizzata che ha seguito da sempre lo Stato-Nazione liberale, lo Stato-Popolo democratico e lo Stato-Classe socialista hanno già ampliamente manifestato il proprio personale fallimento nel corso del XX secolo.
In conclusione uno dei più grandi meriti di questo riscoperto maestro della politica, della teologia e della storia, consiste nell’aver preparato quella condanna ecclesiastica del naturalismo, del liberalismo e del democratismo, formulata poi dai Papi Gregorio XVI, Pio IX, Leone XIII e San Pio X. Nonostante la crisi, la divisione interna e le persecuzioni subite, oggi la scuola contro-rivoluzionaria dimostra vitalità e incisività, appoggiandosi alla teologia agostiniana della storia, poiché se l’apostasia dell’Europa liberale è costata un secolo di rivoluzioni e successivamente due guerre mondiali, quanto costerà espiare le offese a Dio e la rovina delle anime compiute durante 70 anni di comunismo, 60 di democrativismo, 50 di crisi della Chiesa e 40 di rivoluzione sessuale? La risposta ci torna nuovamente dal buon de Maistre: «Non c'è che violenza nell'universo; ma noi siamo corrotti dalla filosofia moderna, che ci ha detto che “tutto è bene”, mentre invece il male ha tutto insozzato, e in un senso verissimo si può dire che “tutto è male”, poiché nulla sta al proprio posto. [...] Ma stiamo attenti a non perdere coraggio: non esiste castigo che non purifichi, non esiste disordine che l'amore non ritorca contro l'origine del male. È dolce, in mezzo al generale sovvertimento, presentire i piani di Dio».
 
Per approfondimenti:
_Joseph de Maistre, Considerazioni sulla Francia, Editori Riuniti, Roma 1985;
_Joseph de Maistre, Elogio all’Inquisizione di Spagna, Il Cerchio, Rimini, 1998;
_Guido Vignelli, Radicalità e attualità di un grande Maistre, Editoriale il Giglio, Salerno, 2010;
_A.Del Noce, Lezioni sul marxismo, Giuffré, Milano, 1972;
_Centro Culturale Lepanto, numeri 86-88 del maggio 1989;
_M.Tangheroni, Cristianità, modernità, rivoluzione, Sugarco, Milano, 2009;
_J.C.Gignoux, Joseph de Maistre, prophète du passé, historien de l’avenir, Nouvelles Editions Latines, Paris, 1963;
_J.Solé, Storia critica della Rivoluzione Francese, Sansoni, Firenze, 1989;
_K.L. von Haller, Restaurazione della scienza politica, UTET, Torino, 1964;
_C.Dawson, La divisione della Cristianità occidentale, D’Ettoris, Crotone, 2009;
_Pio VI, Charitas quae, lettera apostolica del 13-04-1791;
_L.Guerci, Uno spettacolo non mai più veduto al mondo. La Rivoluzione Francese come unicità e rovesciamento degli scrittori controrivoluzionari italiani, UTET, Torino, 2008;
_Plinio Corrêa de Oliveira, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, Sugarco, Milano, 2009;
_Plinio Corrêa de Oliveira, Nobiltà ed élites tradizionali analoghe, Marzorati, Milano, 1993;
_H.Delassus, Il problema dell’ora presente, Cristianità, Piacenza, 1978;
_G. De Ruggiero, Storia del liberalismo europeo, Feltrinelli, Milano, 1962;
_D. Fisichella, Joseph de Maistre pensatore europeo, Laterza, Bari, 2008;
_C. de Tocqueville, La rivoluzione democratica in Francia, UTET, Torino, 2007;
_H. Arendt, La rivoluzione, Einaudi, Torino, 2007;
_P. Calliari, Pio Brunone Lanteri e la contro-rivoluzione, Lanteriana, Torino, 1976;
_R. de Mattei, Idealità e dottrine delle Amicizie, Biblioteca Romana, Roma, 1981;
_A. del Noce, Il cattolico comunista, Rusconi, Milano, 1981;
_Pio IX, Nostis et nobiscum, enciclica dello 08-12-1849;
_L. de Bonald, La Costituzione come esistenza, Il Settimo Sigillo, Roma, 1985.
 
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di Danilo Sirianni del 01/05/2018

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Vi sono personaggi eterni le cui gesta sono capaci di far intimidire i miti più arditi, individui profondamente inattuali, figli di epoche remote e araldi dellʼavvenire, la cui storia non sarà mai riducibile alla mera biografia. A risiedere nellʼOlimpo di queste grandi personalità, nellʼepoca antica, vi è indubbiamente la grande filosofa, matematica e astronoma Ipazia di Alessandria (370 d.C. ‒ 415 d.C.).
La storia di Ipazia comincia molti secoli prima della sua nascita. La sua formazione culturale, di fatto, è da cercarsi nel passato, tra il VII e il VI secolo a.C., in quel Talete di Mileto che diede inizio al pensiero filosofico, per poi passare alle influenze delle teorie di Anassimene, Anassimandro, Ecateo, Anassagora, Pitagora, Eraclito, Democrito, Platone, Aristotele, Aristarco, Eratostene, fino a culminare nella corrente di pensiero del neoplatonismo.
[caption id="attachment_10216" align="aligncenter" width="1000"] Charles William Mitchell - La morte di Ipazia - 1885[/caption]
Prosecutrice di questi grandi pensatori, vive un presente molto complicato. Nasce poco prima che Alessandria dʼEgitto divenisse parte del nuovo Impero romano dʼOriente (395 d.C.), in un contesto socioculturale pieno di tumulti politici e religiosi perché erede dellʼeditto di Mediolanum del 313 d.C. dellʼimperatore Costantino Magno, il quale conferì pieni poteri al cristianesimo restituendo ai suoi membri tutti i beni confiscati in precedenza dai persecutori romani.
È possibile considerare la figura di Ipazia, a livello cronotopico, come il cosiddetto pesce fuor d’acqua, in primo luogo perché è una donna e la considerazione delle donne, in quel periodo, e in una certa misura anche nei tempi moderni, risente ancora dei costumi macisti che la cultura greca ha praticato fin dallʼetà arcaica. Già il poeta Esiodo, nelle Opere e i giorni, rivolgendosi al fratello Perse, non mancava di etichettare la donna come un essere malvagio dal quale bisognava prendere le dovute cautele: «Né una donna che si agghinda il deretano tʼinganni il cuore sussurrandoti carezzevoli parole e osservando la dispensa. Chi si fida di una donna si fida di un ladro» . Nella cultura greca le donne avevano pochi diritti ed erano confinate nelle mura dellʼοἶκος. La loro vita, tranne che per le sacerdotesse, era quasi completamente incentrata sul matrimonio e sullo sviluppo della prole.
Il matrimonio è il fulcro della condizione femminile. Esso conferisce alle donne delle comunità civiche un titolo basilare di riconoscimento sociale. Si tratta di un passaggio fondamentale dellʼesistenza, un imperativo al quale ogni giovane donna deve sottostare, e al quale potrà essere sottratta solo da una morte prematura. La sua educazione, sotto la guida di una madre e sotto lo sguardo, per non dire la tutela, di una città, è finalizzata a prepararla a questo passo. La parthenos, femmina senza ancora essere donna, si perfezionerà nella maternità, lo scopo dellʼunione coniugale.
Ma a Ipazia non interessavano i figli e il matrimonio, i suoi unici interessi riguardavano la scienza, la filosofia, il sapere. Ella, di fatto, faceva parte di quella inconsueta, inconsistente e scandalosa categoria di donne filosofe. Ci sono poche testimonianze di filosofe dellʼantichità, una fonte importante è Giamblico che «elenca 17 donne tra i 235 discepoli del maestro» Pitagora, la cui scuola è considerata la prima «a incoraggiare le donne a studiare filosofia».
Le donne pitagoriche più famose furono le seguenti: Timycha, moglie del crotoniate Myllias, Philtys, figlia del Crotoniate Theophiris, sorella di Byndakò, Okkelò ed Ekkelò, sorelle dei Lucani Okkelos e Okkilos, Cheilonis, figlia del Lacedemone Cheilon, la Lacedemone Kratesikleia, moglie del Lacedemone Kleanor, Theanò, moglie del Metapontino Brotinos, Myia, moglie del Crotoniate Milon, lʼArcade Lastheneia di Fliunte, Tyrsenìs di Sibari, Peisirrode di Taranto, la Lacedemone Theadusa, Boiò e Babelyka di Argo, Kleaichma, sorella del Lacone Autocharida. Esse furono in tutto diciassette. Oltre alle donne della scuola pitagorica ci sono pochissime altre donne che si possono annoverare nella storia della filosofia antica.
In epoca classica non sono molte le donne sapienti che compaiono nellʼentourage dei filosofi. Non è conosciuta nessuna discepola di Socrate, e sua moglie Santippe sicuramente non fa parte della categoria. Tra gli allievi di Platone e Speusippo, suo successore nellʼAccademia, sono stati tramandati due nomi di donne, Lasteneia di Mantinea e Assiotea di Fliunte. Questʼultima, stando a Diogene Laerzio (lʼautore delle Vite dei filosofi), si sarebbe travestita da uomo per seguire lʼinsegnamento dei suoi maestri. Non cʼè da stupirsi che non compaia nessuna donna tra i fedeli di Aristotele. In definitiva, lʼunica filosofa dellʼepoca classica alla quale viene prestata qualche attenzione [...] è Ipparchia di Maronea, compagna di Cratete il cinico. [...] Non è chiaro, infine, se si debba collocare nella categoria delle filosofe anche Leonzio, attiva nella cerchia dei discepoli di Epicuro. [...] È difficile farsi unʼidea delle competenze di queste figure, dal momento che le fonti insistono ad nauseam sulle loro storie personali e aneddotiche, trascurando invece di informarci sul loro sapere. Prima di essere filosofe, sono soprattutto donne, e la loro sophia non viene riconosciuta volentieri.
È abbastanza chiaro come Ipazia fosse alquanto svantaggiata in un mondo in cui la donna era considerata in maniera così marginale. Ma il suo genere sessuale non è lʼunico motivo per cui essa è da considerare un pesce fuor dʼacqua del suo tempo.
In secondo luogo, di fatti, coltivare la filosofia, la scienza e il pensiero libero in un periodo e in un luogo in cui le persone non dovevano più aspirare a crescere nella conoscenza, quanto, piuttosto, ad accettare la rivelazione e a coltivare la fede in un dio imposta dai patriarchi, era molto pericoloso sia per le donne che per gli uomini. Il rapporto tra sapere e fede era molto complicato, pieno di idiosincrasie, diverbi, intolleranze. Da una parte vi erano i pagani cosmopoliti che dopo secoli di attività persecutoria desideravano una pacifica convivenza tra diversi culti; dall’altra vi erano i cristiani che dopo un’era di persecuzioni e umiliazioni rispondevano negativamente, predicando la superiorità del loro culto e ordinando la sottomissione e la conversione al cristianesimo a tutti coloro che non ne facevano parte.
Già a partire dal primo secolo era possibile notare questo fortissimo contrasto. Paolo di Tarso (poi divenuto San Paolo, lʼapostolo delle genti) nella prima lettera ai corinzi scriveva: Distruggerò la sapienza dei sapienti e annullerò l’intelligenza degli intelligenti. Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto? Dov’è il sottile ragionatore di questo mondo? Dio non ha forse dimostrato stolta la sapienza del mondo? Poiché infatti, nel disegno sapiente di Dio, il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio salvare i credenti con la stoltezza della predicazione. Mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio. Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini.
Secondo le parole di San Paolo la religione e la ragione non solo sono inconciliabili, ma sono addirittura in opposizione. Il sapiente è uno stolto perché con la sua ricerca contrasta la fede incondizionata nel dio creatore. Ma San Paolo sembra non tener conto della profonda contraddizione presente in questa visione, cioè nella concezione del disegno di un dio che consegna agli uomini il libero arbitrio e, al contempo, soffoca a loro la libertà di scelta e di culto. La lettera di San Paolo, dunque, a partire dal I secolo d.C., mette in evidenza il problematico rapporto fra fede e ragione. Un secolo più avanti, in netta opposizione a San Paolo, gli “gnostici” e Tertulliano, con il suo “montanismo”, provano a dare una risposta allʼinterrogativo riguardante il rapporto fede-ragione sostenendo l’ascesi mistica e rigorosa verso la “conoscenza intellettiva” che solo alcuni eletti possono raggiungere attraverso l’otium, indispensabile a coltivare le risorse dello spirito. Ma le loro posizioni erano nettamente antievangeliche e perciò eretiche. In seguito, prima della conversione di Costantino imperatore, nel IV secolo, vennero promulgati gli Editti di Diocleziano che misero in atto la più cruenta persecuzione contro i cristiani. Poi la conversione. L’Editto di Milano di Costantino nel 313, seguitato nel 380 d.C. dall’Editto di Tessalonica con cui Teodosio il Grande elevava il cattolicesimo a religione ufficiale dellʼImpero.
Ipazia si accingeva a crescere in un mondo affetto da continui sconvolgimenti che da lì a poco avrebbero stravolto la sua intera esistenza. Ella però, durante la sua giovinezza, grazie allʼinsegnamento e alla tutela del padre Teone, detto “il divino” (in quanto discendente della Divina Gens Potitia, custode dei misteri della Sacra scienza di Eracles Invictus), riesce a condurre senza problemi unʼeducazione “da maschio”, studiando astronomia, medicina, matematica, fisica e filosofia. Il padre Teone fu uno dei pochissimi uomini dellʼantichità ad avere il potere e la lungimiranza di lasciare libera sua figlia di scegliere il proprio destino, e fu capace di accettare e incoraggiare quella scelta a prescindere dai costumi del suo tempo. Ma, molto probabilmente, non avrebbe mai immaginato che sua figlia si sarebbe appassionata agli studi così tanto da superare il suo stesso maestro. Ella fu, infatti, unʼantesignana della scienza sperimentale. Studiò e realizzò lʼastrolabio, lʼidroscopio e lʼaerometro; comprese la relatività del moto degli oggetti; teorizzò il moto ellittico dei pianeti; fu una delle promulgatrici della teoria eliocentrica introdotta da Aristarco di Samo nel III secolo a.C. e poi definitivamente confermata da Copernico nel 1543 con la pubblicazione del De revolutionibus orbium coelestium. Da un punto di vista prettamente filosofico, purtroppo, non ci sono pervenute opere autografe, sappiamo però, attraverso gli scritti del suo allievo Sinesio, che fu una grande sostenitrice del neoplatonismo, nella fattispecie si concentrava molto sulle teorie di Porfirio e Giamblico. Una mente geniale e, come tutti i geni, profondamente inattuale.
Ma Ipazia non fu soltanto una grande intellettuale, durante la maturità divenne anche un solido esempio di moralità e di sensibilità etica. Vivendo appieno il periodo di decadenza dell’Impero romano, si vedrà coinvolta attivamente in vicende che stravolgeranno la sua vita e quella dell’umanità intera. Lo storico Adriano Petta, nel suo saggio Ipazia: vita e sogni di una scienziata del IV secolo, ricostruisce gli eventi topici che segnano la breve vita della filosofa cercando di colmare alcuni vuoti biografici con elementi narrativi originali. Petta sceglie stilisticamente di far preannunciare la distruzione del Serapeo, il tempio in cui si ergeva la maestosa biblioteca di Alessandria, depositaria di tutto lo scibile umano, da un sogno premonitore. Olimpio, un filosofo e sacerdote pagano, in una fase onirica vede «il tempio distrutto e la biblioteca bruciare» . Cosa che avverrà per mano del vescovo Teofilo, che si recherà di fronte al tempio di Serapide accompagnato da una fiumana inferocita, riscattando il diritto di imporre le decisioni dell’imperatore Teodosio: L’imperatore dà il suo pieno appoggio alla nostra comunità cristiana! Egli non riconosce quella degli elleni e quella ebraica: egli si è schierato solo dalla nostra parte! […] Oggi l’imperatore rende giustizia all’unico vero Dio nostro Signore! Oggi l’imperatore ci comanda di cacciare dal tempio i pagani che si sono ribellati al suo volere!.
[caption id="attachment_10219" align="aligncenter" width="1000"] Agora (Agorà) è un film del 2009 diretto da Alejandro Amenábar, interpretato da Rachel Weisz. Il film narra in forma romanzata la vita della matematica, astronoma e filosofa greca-alessandrina Ipazia, durante l'epoca delle persecuzioni anti-pagane stabilite per legge dai Decreti teodosiani, fino alla sua morte che nel film avviene per mano di un gruppo di parabolani, nel marzo del 415.[/caption]
Il tempio viene distrutto, il centro di studi devastato, la biblioteca bruciata. Dobbiamo a Ipazia e ai suoi allievi la maggior parte dei resti dei codici e delle pergamene degli scienziati e dei pensatori antichi che ci sono oggi pervenute. Lei e suoi studenti hanno cercato di salvare il possibile rischiando la vita per lasciare ai posteri almeno le piccole briciole rimaste di quella che altrimenti sarebbe stata un’eredità culturale immensa. Nel corso della ricostruzione di Petta, Ipazia affronta i personaggi più importanti di tutto quello scorcio di storia. Si reca a Milano dal vescovo Ambrogio per cercare di convincerlo a trovare una soluzione pacifica per placare i disastri che si stanno verificando ad Alessandria ed in tutto l’Impero romano. Ipazia sosteneva che «ragione e religione possono coesistere, camminare assieme, sostenersi e rispettarsi . Ma il vescovo Ambrogio risponde negativamente, confessando di avere addirittura intenzione di distruggere e «cancellare tutto il mondo dell’idolatria pagana» . In seguito incontra Agostino d’Ippona a Cartagine, sua vecchia conoscenza, che trova totalmente cambiato. Ipazia si ricorda di Agostino come una persona legata alla cultura, difensore del sapere e della ragione, ma egli non era più quello di un tempo. Agostino si convertì al Cristianesimo sotto l’influenza di Ambrogio che lo persuase che «la verità non potrà mai essere raggiunta con la ragione … e quindi è perfettamente inutile dannarsi l’anima e cercarla» . Agostino, di fatto, arriverà ad affermare che «la lettera uccide, lo spirito invece vivifica!» . Si aprirà tra loro un acceso dibattito sul rapporto fra religione e fede che, però, servirà solo a lasciar trapelare i deliranti panegirici di una mente ormai soggiogata, non più disposta a mettere nulla di ciò che afferma minimamente in discussione. L’autore dei Soliloquia, dunque, non è disposto al dialogo se non a livello interiore, l’unico, secondo lui, che permette di mettere in contatto Dio e Anima. Infine, lʼincontro decisivo è quello con il vescovo Cirillo, nuovo vescovo di Alessandria e successore di Teofilo che, per evitare la condanna a morte per eresia della figlia del divino Teone, la intima a convertirsi immediatamente al cristianesimo. Ma Ipazia sceglie di non farlo, sceglie di lottare per i valori della libertà di pensiero, e per lʼidea che la ragione possa coesistere in pace con la fede. Ma non cʼera spazio per un compromesso del genere. Nessuno era più disposto a difendere i valori di cui Ipazia si faceva portavoce, era una presa di posizione troppo forte. Lʼunico che provò a fare qualcosa per lei fu Oreste, il prefetto di Costantinopoli, ma non poté comunque nulla contro la potenza di Cirillo che scontento delle risposte ricevute dalla filosofa incaricherà i monaci parabolani di catturarla, torturarla e ucciderla. Così, come intonerebbe il poeta rapsodo Pallada, si spegne la vita «dell’astro incontaminato della sapiente cultura». Insieme a lei muore il paganesimo, l’ellenismo, il neoplatonismo. Sarà necessario più di un millennio per mettere in discussione il “principio di autorità” e per riavere una rifioritura della ricerca intellettuale con il rinascimento e le successive rivoluzioni.
Ipazia fu un personaggio virtuoso. Il significato di virtù, nel suo caso, non è da ricercarsi nel concetto cristiano di penitenza , ma nel significato greco di ἀρετή, cioè nellʼeccellenza, nellʼessere attivamente volti al bene compiendo azioni pregevoli e di alto livello con vigore morale e intellettuale. Ella, di fatto, fu capace di fondere le proprie opere e la propria esistenza in un rigoroso unicum, diventando un integerrimo e confuciano esempio di vita sia per i suoi contemporanei che per i suoi posteri. La sua storia si estende oltre la sua ontogenesi, questʼultima, «ricapitola la filogenesi» , ma non della nostra bioevoluzione bensì di tutta la nostra cultura occidentale. Prendendo in prestito i primi due postulati di Euclide (suo grande punto di riferimento intellettuale) è possibile, per traslazione semantica, considerare la nascita e la morte di Ipazia come due punti su un piano temporale: la retta che passa da questi due punti (primo postulato) sarà la sua biografia, la sua ontogenesi; il prolungamento indefinito della retta (secondo postulato) nelle due direzioni (passato e futuro) sarà la nostra filogenesi culturale. Parlare della vita di Ipazia, delle sue scoperte nel campo della fisica e dellʼastronomia, del rapporto tra fede e ragione del suo tempo, delle condizioni sociali, politiche e religiose entro cui era immersa è, dunque, come parlare dellʼintera storia occidentale. La sua vita virtuosa, e il suo sacrificio in difesa della libertà di pensiero, non va considerata come una delle tante storie attinenti un passato remoto che non ci riguarda più, Ipazia è il nostro presente, è il nostro avvenire. La sua storia è un microcosmo che racchiude e riassume il macrocosmo della nostra intera storia e cultura occidentale, in tutte le meraviglie e in tutte le contraddizioni che da sempre ha generato e che sempre continuerà a produrre.
 
Per approfondimenti:
_BERNARD, N., Donne e società nella Grecia antica, Roma, Carocci, 2011;
_ESIODO: S. RIZZO (a cura di), Esiodo. Le opere e giorni, Milano, BUR, 2016;
_GIAMBLICO: M. GIANGIULIO (a cura di), La vita pitagorica, Milano, BUR, 2001;
_MUSTI D., Storia Greca. Linee di sviluppo dallʼetà micenea allʼetà romana, Roma-Bari, Laterza, 2006;
_PETTA A. e COLAVITO A., Ipazia: vita e sogni di una scienziata del IV secolo, Roma, La lepre, 2010.
 
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di Liliane Jessica Tami del 26/03/2018

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Il filosofo francese Jean-François Lyotard, nel suo saggio «La condizione post-moderna» affermava che la nuova società libera e post-moderna - sorta dalle macerie della seconda guerra mondiale -, grazie alla fluidità del capitalismo, alle nuove tecnologie e all’abbattimento di ogni gerarchia, è estranea alle certezze ed alla coerenza. Tale posizione, agli antipodi del rigore severo e neoclassico che ha caratterizzato gli albori della filosofia occidentale e il Rinascimento italiano, ha creato quella scissione tra forma e sostanza che oggi tanto sembra degradare le masse.
[caption id="attachment_10122" align="aligncenter" width="1000"] Jean-François Lyotard (1924 – 1998) è stato un filosofo francese, generalmente associato al post-strutturalismo e conosciuto soprattutto per la sua teoria della postmodernità. Fu assistente alla Sorbona, professore all'università di Paris-Vincennes e insegnò anche in alcuni atenei statunitensi.[/caption]
Dopo l’epoca triviale medioevale, la buona educazione etico-spirituale dell'uomo è stata fondamentale per redimerlo dallo stato di caotica bestialità in cui per secoli s’era inabissato. Nell'epoca post-moderna, in cui il decostruito, l’informe e il vizioso sono assurti a stati normali dell’essere, la coerenza greca - tale per cui un’anima buona dovesse dimorare in un corpo bello - sembra essersi smarrita. Andando a ritroso, il monsignor fiorentino Giovanni della Casa si preoccupò di redimere gli animi dalla perdizione, stilando l’indice dei libri proibiti, e i corpi dalla bestialità, pubblicando il celebre libello sul buon costume, Il Galateo.
Paradossalmente oggi il mondo necessiterebbe propriamente di personaggi influenti in grado di censurare il degrado televisivo-letterario che corrompe gli animi; così come di un salubre ritorno all’uso delle buone maniere, del ben vestire e del ben parlare. Come Giovanni della Casa, nel suo fanatismo cattolico, si impegnò a purificare molti presunti eretici sul rogo e a condannare coloro che si comportavano da zotici e bifolchi, oggigiorno non dovremmo esitare a «gettare tra le fiamme» di una pacata censura, tutti coloro che sfruttano e utilizzano i mass-media propugnando valori immorali e contro-natura.
Dagli scritti di Giovanni della Casa, e in particolare dalle sue Rime, s’evince ch’egli abbia sempre vissuto idealizzando un’età dell’oro oramai smarrita per sempre. Da giovane non conobbe mai una donna in grado di farlo innamorare perché idealizzò eccessivamente la figura femminile, e da anziano visse la spiritualità in modo estremamente politico e violento perché desideroso di far coincidere la sua idea di società perfetta con la realtà circostante. Della Casa, uomo molto rigido, inflessibile e severo, si preoccupò parecchio della buona educazione dei suoi nipoti e in particolare di Annibale Rucellai, suo favorito.
Traendo spunto dal suo impegno svolto in qualità di zio ed educatore scrisse, in prosa e nella forma d’un dialogo platonico tra un anziano (sé stesso in versione analfabeta) ed un giovane a volte un po’ lento a capire il testo intitolato “Trattato di Messer Giovanni Della Casa, il quale sotto la persona d'un vecchio idiota ammaestrante un suo giovanetto, si ragiona de' modi che si debbono o tenere o schifare nella comune conversazione, cognominato Galateo overo de' costumi”.
[caption id="attachment_10123" align="aligncenter" width="1000"] Giovanni Della Casa, nato il 28 giugno 1503 al Mugello , figlio di Pandolfo e Lisabetta Giovanfrancesco Tornabuoi, si è sempre definito fiorentino. Fin da giovane venne introdotto negli ambienti più raffinati della Firenze rinascimentale e strinse ottimi rapporti, oltre che di parentela, con la famiglia Rucellai, la quale ebbe un ruolo fondamentale nel finanziare i grandi artisti della pregevole città. All’età di 21 anni si trasferisce a Bologna per seguirvi gli studi di legge, ma la sua grande passione resterà per tutta la vita la poesia. Frequentò il circolo letterario di Girolamo Casio de’Medici si appassionò di greco e latino seguendo le lezioni di retorica e poetica. Frequentò il sodalizio culturale dei Vignaiuoli, in cui personaggi illustri, come la sorella di Baldassarre Castiglione, si dilettavano a vergare verso satirici e divertenti.[/caption]
L’opera, il cui lungo titolo è sintetizzato con “Galateo”, venne scritta tra il 1550 e il 1555, periodo in cui il Della Casa divenne padre di Quirinetto. Probabilmente desiderava che suo figlio, fatto educare dalla famiglia Quirini, crescesse bene e in modo morale seguendo le regole ivi descritte, a differenza dei suoi nipoti che a parer suo sembravano dei bifolchi. Questo libro è nato grazie alle conversazioni sulla buona educazione avute dall’autore con Galeazzo (in latino Galateo) Florimonte, vescovo di Sessa. In quegli anni Giovanni Della Casa iniziava a patire i primi tormenti della gota e si rifugiò presso la badia dei conti di Collalto, a Nervesa, nel trevigiano, i quali appartenevano a quella raffinata cerchia di nobili e colti, amanti del buon costume del ben vestire, tanto graditi a Della Casa in quanto contrapposti alla rozzezza medievale che ancora non s’era riusciti ad estirpare dalle masse.
Il fatto che ad impartire le lezioni di buon costume al giovane sia un illetterato, è fondamentale: Giovanni Della Casa intende così mostrare che il buon comportamento è accessibile a chiunque, a prescindere dalla classe sociale e dalla ricchezza. Per ottenere un miglioramento dell’intera società non serve avere pochi nobili eruditi e ben educati, bensì è necessario provvedere alla diffusione delle buone usanze anche presso gli strati più disagiati della popolazione.
Quest’opera è infatti ben diversa dal libro di Baldassarre Castiglione dal titolo Il cortigiano, pubblicato nel 1528, in cui offre consigli su come, mediante il ben parlare, si possa entrare a far parte della cerchia degli amici intimi del principe. Della Casa non vuole insegnare a sedurre l’interlocutore e compiacere gli astanti medianti giochi ingegnosi di parole e conversazioni amabili, bensì desidera che il lettore possa interiorizzare i precetti della buona educazione divenendo un cittadino, e un uomo, migliore e più buono. Il libro è suddiviso in 30 piccoli capitoli, ognuno dei quali tratta di un tema differente, sempre inerente il corretto comportarsi in società. Mediante una trasposizione delle tesi architettoniche vitruviane nell’ambito comportamentale, Della Casa asserisce che la bellezza, la grazia e la proporzione si ritrovano non solo nei corpi e nella natura, ma in ogni favellare e operare umano. Avendo studiato retorica latina e stilistica poetica, l’autore ha molto a cuore il ben parlare, sia per ciò che riguarda i toni, che devono essere dolci e pacati, che ciò che riguarda le parole, che non devono essere né rozze né sconce.
[caption id="attachment_10125" align="aligncenter" width="1000"] In seguito a questo periodo giocoso e dionisiaco, in cui produsse le sue prime opere letterarie, pentito della sua condotta amorosa eccessivamente lasciva, Giovanni della Casa si avvicinò al clero e, nel 1934, all’età di 31 anni, venne eletto Chierico della Camera apostolica da papa Paolo III. In quegli anni pubblicò anche un libricino, dal titolo An uxor sit ducenda, in cui s’interroga se s’abbia da prender moglie o meno. Giunto alla conclusione d’esser nato sfortunato in amore decise di guadagnarsi, mediante l’impegno religioso e letterario, fortuna sociale. Ben presto entrò nelle grazie della famiglia Fernese e presto assurse alle maggiori cariche ecclesiastiche: divenne tesoriere vaticano e, nel 1544, venne mandato a Venezia in veste di Nunzio pontificio. Iniziò un’assidua lotta contro le eresie e contro la riforma protestante che stava sconvolgendo l’Europa. Ben presto il ruolo religioso divenne anche politico, e si impegnò a promuovere l’alleanza della repubblica di Venezia col Re di Francia contro agli spagnoli e Carlo V, ma ebbe scarsi successi. Di fatto, nelle sue poesie, la spiritualità appare pagana e neoclassica, ossia in contrapposizione al suo personaggio politico e sociale. Se ne può evincere che la sua adesione al clero sia stata un atto politico e razionale anziché una scelta mossa da genuini sentimenti religiosi e irrazionali nei confronti di dogmi del monoteismo biblico. In quegli anni si inaugurò anche il concilio di Trento, per arginare l’eresia dilagante, e Della Casa si adoperò per far mettere sul rogo molti presunti eretici, la cui accusa principale era quella di nuocere al buon funzionamento della società con le loro teorie. Non li fece bruciare per la fede che nutrivano nel loro intimo, bensì per lo squilibrio sociale che andavano creando.[/caption]
In più capitoli ribadisce che il parlare debba essere sottoposto a un buon uso, giacché è inutile sapersi tenere bene a tavola se si adopera il turpiloquio o se ci si mostra eccessivamente verbosi impedendo agli altri di esprimersi. Gli interlocutori, infatti, annoverano tra loro i troppo verbosi, i pomposi, i vacui e i troppo silenziosi. Al fine di evitare questi eccessi, o queste mancanze, è fondamentale esercitare la virtù del discernimento, che permette di scovare il giusto mezzo aristotelico, ossia la virtù dell’equilibrio tra le parti. Nel settimo paragrafo si concentra invece sulla questione del ben vestire, e celebre è l’inizio che recita “Ben vestito dèe andar ciascuno, secondo sua conditione e secondo sua età, perciò che, altrimenti facendo, pare che egli sprezzi la gente”.
Fondamentale, infatti, è la cura dell’abito, adeguata all’età, al contesto e alla condizione di chi lo porta, al fine di mostrare rispetto nei confronti del prossimo. Sia l’eccessivo sfarzo che l’eccessiva trascuratezza vengono infatti condannati, così come lo spogliarsi in pubblico o l’allacciarsi le calze in mezzo alle altre persone. Nel capitolo 26 il Della Casa dice che gli uomini differiscono dagli animali proprio per via della loro capacità di riconoscere il bello e la giusta misura, quindi è proprio affinando il gusto e la sensibilità che l’individuo riesce ad elevarsi allontanandosi il più possibile dallo stadio bestiale. Il trattato si chiude con le norme per stare a tavola e con la condanna dell'intemperanza nel bere, divenute poi la base della buona creanza di un’Europa finalmente liberata dallo stato di rozzezza, disordine, immoralità, eccessiva libertà e diseducazione. Non resta che augurarsi che anche questa attuale Europa fatiscente, iperconsumistica, rozza e capitalista possa essere rieducata in fretta!
 
Per approfondimenti:
_Giovanni della Casa, Rime, Bur edizioni, 1993, Milano;
_Giovanni Della Casa, Galateo, edizioni Einaudi, 2006.
 
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di Maurilio Ginex 15/03/2018

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Con il termine Gestalt si è voluto intendere, negli studi della psicologia, una scuola che basasse il suo operato sul rapporto percettivo tra l’individuo e la realtà circostante. Tale termine, rappresentante il participio passato di Von Auge Gestellt, che letteralmente significa “posizionato di fronte agli occhi”, sta ad indicare tutto ciò che percepiamo attraverso gli occhi della realtà che ci circonda. Quando menzioniamo la Gestaltpsychologie, dunque, ci riferiamo alla “psicologia della forma”, la disciplina che studia la realtà attraverso le forme con cui essa si manifesta.
La Gestaltpsychologie nasce a Berlino come scuola di pensiero che vede nella percezione della realtà non solo la somma di tutti i dati sensoriali ma, allo stesso tempo, anche una tipologia di approccio che permetta di captare la totalità degli oggetti dati alla nostra vista. Nell’approccio della Gestalt si istituisce un concetto di percezione che permette all’individuo di “intuire” nell’immediato qualcosa in più rispetto alla totalità delle parti della forma del corpo percepito; di fatto, il motto che contraddistingue tale scuola psicologica recita: «Il tutto è più della somma delle singole parti», sottolineando il procedere non riduzionistico della percezione visiva.
Sulla scia di questa dovuta introduzione sulla base teorica della psicologia della forma si identificano quelle caratteristiche dentro le quali si incastra la concezione della percezione che ha abbracciato la parte preponderante della filosofia di Maurice Merleau-Ponty, punto focale che caratterizzerà lo svolgimento di questo lavoro.
La filosofia di Merleau-Ponty rappresenta un approccio che è stato oggetto di innumerevoli interpretazioni e definizioni. Alcuni lo hanno definito “strutturalista” per via dell’utilizzo che fece del concetto di “struttura”; altri lo hanno definito “fenomenologo”, perché identificato come il degno erede francese della scuola fenomenologica husserliana; ma nel suo operato si scorge, in realtà, un importantissimo innesto tra le due correnti.
La tematica che attraversa tutta l’opera merleau-pontyana è il rapporto che l’autore ha voluto sviscerare tra l’organismo (inteso come il corpo dell’individuo), e l’ambiente che lo circonda (inteso come il mondo a cui lʼorganismo è legato). Tale rapporto viene inteso, dunque, come il rapporto che intercorre tra coscienza e natura, tra soggetto che percepisce e mondo percepito. In questo innesto tra coscienza soggettiva e mondo oggettivo percepito, Merleau-Ponty inserisce una determinata e circoscritta tipologia di esperienza che del mondo si fa, ovvero quella della percezione. Quest’ultima rappresenta una esperienza pre-discorsiva , nel senso che, in virtù del fatto che vi è un corpo vivente (Leib) che percepisce, la percezione diventa quel meccanismo che mette in rapporto immediato la coscienza con il mondo, precedendo ogni forma di oggettivazione scientifica. All’interno dell’immenso orizzonte della percezione, il corpo, come possiamo apprendere, viene istituito come il mezzo principale attraverso cui si dipana il mio punto di vista sul mondo di cui faccio parte. Il corpo in Merleau-Ponty, al fine dello sviluppo del suo concetto di percezione, occupa uno spazio immenso.
In Fenomenologia della percezione (1945), l’autore dedica una parte cospicua al corpo e vedendolo come il mezzo attraverso cui si istituisce il rapporto originario con la realtà, scrive:
il corpo proprio è nel mondo come il cuore nell’organismo: mantiene continuamente in vita lo spettacolo visibile, lo anima e lo alimenta internamente, forma con esso un sistema. Quando cammino nel mio appartamento, i diversi aspetti sotto i quali esso mi si offre non potrebbero apparirmi come i profili di una medesima cosa, se io non sapessi che ciascuno di essi rappresenta l’appartamento visto da qui o da lì, se non avessi coscienza del mio proprio movimento, e del mio corpo come identico attraverso le fasi di questo movimento.
È il corpo a mantenere lo spettacolo visibile, nel senso che è in esso che si identifica quell’ampio processo di percezione attraverso cui il soggetto dà senso alle cose della realtà. Ed è esattamente nel corpo che si incarna la base di ogni sapere: la percezione. Quest’ultima rappresenta la base materiale, in quanto corporea, della conoscenza. Come l’autore dice «la teoria dello schema corporeo è implicitamente una teoria della percezione» , poiché è attraverso esso che si istituisce il potere conoscitivo del mondo percettivo. Il corpo è lo strumento attraverso cui noi siamo al mondo, attraverso cui noi percepiamo il mondo e lo conosciamo. In Merleau-Ponty esso rappresenta la sintesi tra soggettività ed oggettività, acquisendo la caratteristica di ente “ambiguo”, poiché è in esso che si identifica l’unità indistinta dei due poli intesi come soggetto e oggetto. Il corpo, inteso per esempio come una mano che tocca, rappresenta sia il soggetto che sente toccando, sia l’oggetto sentito che viene toccato. Nella percezione del mondo attraverso il corpo noi ritroviamo noi stessi in quanto prendiamo coscienza della nostra esistenza nel mondo attraverso la presa di coscienza materiale e fisica della corporeità.
Ma riprendendo così contatto con il corpo e con il mondo, ritroveremo anche noi stessi, giacché, se si percepisce con il proprio corpo, il corpo è un io naturale e come il soggetto della percezione.
Ogni sensazione che l’oggetto esterno genera nel nostro corpo, come se fosse per l’appunto un io naturale, trova una sua specifica localizzazione corporea attraverso i sensi che ricevono l’impulso e generano il riflesso. La percezione, inoltre, nell’essenza di ciò che, come ci spiega lo stesso autore, non è il prodotto della somma di elementi isolati che costituiscono l’oggetto percepito, altrimenti diverrebbe una tipologia di percezione analitica, diversa da una tipologia prettamente spontanea e pre-discorsiva che ci permette, sempre e irreversibilmente attraverso il nostro corpo, di far luce sulla totalità di un oggetto da percepire. Tale totalità, si identifica con il concetto di “struttura” che in Merleau-ponty è determinante. Essa rappresenta un concetto attraverso il quale si può rientrare all’interno della tematica dell’ambiguità. Significa che la struttura, nell’oggetto percepito, risulta ambigua perché ha due valenze: lʼuna risiede nel contenuto materiale dell’oggetto per mezzo di un’analisi scientifica, qualsiasi sia la sua entità; l’altra risiede nella sfera trascendentale, dunque, nel parlare di tale struttura nell’oggetto percepito si parla di una rete di significazioni conoscitive, all’interno di un’unità di senso che attraverso la percezione sarà chiarificata.
In questa funzione chiarificatrice della percezione bisogna tener conto dell’importanza che riveste il “sentire”, perché è nel sentire che si incarna l’intenzionalità conoscitiva verso il mondo che percepiamo. È proprio questo concetto che l’autore vuole evidenziare: «Il sentire è quella comunicazione vitale con il mondo che ce lo rende presente come luogo familiare della nostra vita» . Nel sentire, la percezione porta l’individuo all’oggetto, ne scannerizza la struttura totale, perché nel sentire vi è una maniera diretta di essere afferrati da parte dell’oggetto . Ma nel sentire si interseca anche l’esercizio dell’intelligenza. Qui si istituisce la complessità del processo di percezione, definita da Merleau-ponty come “infrastruttura istintiva”, sulla quale si impiantano, per mezzo dell’intelligenza, altre “sovrastrutture” che rappresentano infine il vero e proprio legame tra coscienza e realtà circostante.
[caption id="attachment_10057" align="aligncenter" width="1000"] Maurice Merleau-Ponty (1908 – 1961) è stato un filosofo francese, esponente di primo piano della fenomenologia francese del Novecento.[/caption]
In questo legame si apre la via verso la verità tracciata dall’atto percettivo, nel quale il corpo rende l’intenzionalità (intesa come “predisposizione” verso l’oggetto da analizzare dopo averlo percepito) un qualcosa di motorio. Nella caratteristica motoria di tale intenzionalità si identifica il soggetto incarnato nel corpo, che tramite la percezione coglie la struttura del percepito come forma. Tale forma è «l’apparizione stessa del mondo e non la sua condizione di possibilità» . Dunque in essa, che si identifica come l’aspetto effettivo del mondo circostante, si dipana il senso della coscienza percettiva in cui interiore ed esteriore si uniscono, intendendo allo stesso tempo il soggetto e l’oggetto (cioè mondo circostante).
Merleau-Ponty nel lavoro di spiegazione del suo approccio fenomenologico alla realtà è riuscito a segnare un percorso complesso e articolato in cui l’individuo, come abbiamo potuto comprendere, entra in contatto con la struttura delle cose per mezzo della percezione. Su questo aspetto della struttura si dipana l’influsso della psicologia della Gestalt, di cui avevamo analizzato alcuni aspetti in principio del discorso descritto. Nel motto della Gestalt, «il tutto è più della somma delle singole parti», si identifica il concetto merleau-pontyano di struttura, intesa come un tutto che ha una forma, per mezzo della definizione caratteristica che l’autore dà della percezione. Quest’ultima è percezione di quel tutto al quale alludiamo, non è assolutamente una somma riduzionistica di elementi isolati.
La mia percezione non è una somma di dati visivi tattili o uditivi: io percepisco in modo indiviso con il mio essere totale, colgo una struttura unica della cosa, un’unica maniera di esistere che parla contemporaneamente a tutti i miei sensi.
Quindi, attraverso questo processo multiforme, la percezione muove l’intenzionalità esplicativa in funzione della conoscenza dell’oggetto attraverso la sensazione che si ha della struttura che lo costituisce.
Maurice Merleau-Ponty ha reso caratteristica una tipologia di approccio fenomenologico alla realtà, istituendo nel suo concetto di percezione un nuovo modo per conoscere il mondo circostante. Il suo importante contributo alla storia del pensiero filosofico è stato il prodotto della sua formazione fenomenologica di impronta husserliana che ha abbracciato nel suo lavoro altre discipline come la psicologia di Whertheimer o Koffka e la linguistica di De Saussure. Molteplici sono gli influssi nella sua ricerca del senso attraverso l’atto percettivo, molteplici a tal punto da trovar lecita l’intenzione di definirlo o un fenomenologo o uno strutturalista per via dell’utilizzo che fa del concetto di struttura, ma allo stesso tempo sembrerebbe restrittivo il cercare di definire un autore come questo solo in un modo o in un altro. In realtà, come affermato in precedenza, Merleau-ponty ha trovato il modo per applicare su un unico concetto, la percezione, un impianto sia fenomenologico, sia strutturalista, sia psicologico, sia linguistico, così da non poter essere circoscritto all’interno di un’unica corrente. Nello studio dei testi di Merleau-Ponty si possono ritrovare spunti gnoseologici volti allo studio delle discipline filosofiche e, soprattutto, è possibile ritrovare il senso di queste discipline, oggi intese come un lusso poiché non rientrano nelle logiche del mercato del lavoro odierno. Nel filosofo si manifesta il processo di apertura delle menti e dei cuori verso l’importanza del pensiero attivo. analizzando e indagando in maniera originale il mondo che ci circonda, tra strutturalismo e fenomenologia.
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di Danilo Serra 28/02/2018

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«Perché non avete il coraggio di fare veramente di voi stessi, completamente e in ogni caso, il centro, la cosa fondamentale?» Max Stirner, L’unico e la sua proprietà.

“L’unico e la sua proprietà” (Der Einzige und sein Eigentum) è l’opera capitale di Johann Kaspar Schmidt, meglio noto come Max Stirner (dal tedesco ‘stirn’, ovverosia ‘fronte alta’), pubblicata in una prima edizione nell’ottobre del 1844 presso l’editore Wigand di Lipsia. Nel testo, l’autore si scaglia polemicamente contro ogni posizione filosofico-teologica che pretende di descrivere oggettivamente l’essere umano comprendendone le esigenze e i più naturali bisogni. La sua è anzitutto una reazione allo hegelismo e una critica serrata a taluni concetti che, a parer suo, non hanno permesso all’uomo di riconoscersi e, anzi, hanno annientato progressivamente la sua individualità - la sua unicità - a favore di scopi più ‘alti’ e nobili: Dio, stato, patria, famiglia, umanità.
[caption id="attachment_10014" align="aligncenter" width="1000"] Johann Heinrich Wilhelm Tischbein, La lunga ombra 1805.[/caption]
Nell’apparato teorico elaborato da Stirner nelle quasi quattrocento pagine che compongo “L’unico e la sua proprietà”, l’uomo non è più concepito come oggetto di una rappresentazione, dal momento che per sua stessa natura è «indicibile». Egli è l’«Unico» (‘Einzige’ in tedesco) e, in quanto tale, ha nell’unicità il suo tratto distintivo. Questo non basta a definirlo; l’Unico infatti sfugge alle più argute definizioni, è indefinibile e, proprio perché indefinito, non ha bisogno di essere ‘etichettato’, determinato, definito. Nella definizione, ciò che è definito viene compreso, determinato, afferrato, diventa suo oggetto. La cosa definita è oggettivata, si fa etichetta e, in certo senso, si esaurisce nella definizione. La cosa è definita poiché ha acquisito una nomina, è stata nominata. La nomina esiste in quanto atto imposto, è il frutto dell’imposizione, impone il proprio statuto. Nominare è il verbo della chiamata. Quando si nomina, si chiama innanzi qualcosa. Io nomino te: ti chiamo. La definizione chiama a sé ciò che definisce, lo contrassegna, impone cioè un segno peculiare. Definire, in tal senso, vuole dire ‘segnare’, ‘imprimere’, imporre un segno, un marchio, un sigillo. La definizione è la ‘cosa marchiata’, ciò che ha ricevuto una determinata segnatura.
Per Stirner, l’Unico non può - e non deve - essere definito. La definizione, infatti, intaccherebbe la sua natura e, riducendolo in una definizione, svuoterebbe (annullerebbe) la sua unicità. L’Unico è in quanto indefinibile: questo è il segreto del suo essere se stesso, singolare, originale, irripetibile, unico. Non esiste un solo concetto in grado di nominarlo, esprimerlo: «Si dice di Dio: ‘Nessun nome può nominarti’. Ciò vale per me: nessun concetto mi esprime, niente di quanto viene indicato come mia essenza mi esaurisce: sono solo nomi» (M. Stirner, “L’unico e la sua proprietà”, p. 380). Ma l’Unico è tale in un senso ancor più forte. Egli fonda la sua causa su di sé, ha in sé il fondamento, nulla è all’infuori di sé. A tal proposito, Stirner è inequivocabile:
«Dio e l’umanità hanno fondato la loro causa su nulla, su null’altro che se stessi. Allo stesso modo io fondo allora la mia esistenza su me stesso, io che, al pari di Dio, sono il nulla di ogni altro, che sono il mio tutto, io che sono l’unico […] Io non sono nulla nel senso della vuotezza, bensì il nulla creatore, il nulla dal quale io stesso, in quanto creatore, creo tutto» (M. Stirner, “L’Unico e la sua proprietà”, p. 13).
Con uno stile dissacrante e provocatorio, il pensatore tedesco esalta il principio di autoaffermazione (o autodeterminazione) e si affida alla dialettica nulla-tutto per chiarire la sua posizione. Stirner scrive: «Io ho fondato la mia causa su nulla». Come ha fatto notare Franco Volpi nel saggio “Il nichilismo”, la tesi - che apre e chiude il libro di Stirner - secondo la quale ‘io’ ho fondato la mia causa su nulla (auf nichts in tedesco) esprime «la negazione e il rifiuto di ogni fondamento che trascenda l’esistenza originaria e irripetibile dell’individuo» (F. Volpi, Il nichilismo, p. 30). Non c’è nulla che sta sopra di me. Non c’è, ovvero, un fondamento o principio che sta alla base di me - dell’Unico. Perché? La risposta è nella proposizione: «io fondo allora la mia causa su me stesso». L’Unico si concepisce come causa di sé e, proprio perché fondatore di se medesimo, appare al contempo avvolto dal nulla e dal tutto. È il nulla di ogni altro: non è gli altri, non fonda gli altri. È il tutto di se stesso: sta a suo fondamento, è pura autoaffermazione. Il concetto di Unico è fortemente legato a quello di proprietà (in tedesco ‘Eigentum’).
«Proprietario del mio potere sono io stesso, e lo sono nel momento in cui so di essere unico […] Ogni essere superiore a me stesso, sia Dio o l’uomo, indebolisce il sentimento della mia unicità e impallidisce appena risplende il sole di questa mia consapevolezza» (M. Stirner, “L’unico e la sua proprietà”, p. 381).
[caption id="attachment_10017" align="aligncenter" width="1000"] Georg Friedrich Kersting, Uomo che legge alla luce della lampada.[/caption]
L’Unico è difatti per Stirner «proprietario» del suo potere, «potenza» integralmente ripiegata su di sé che, di conseguenza, non ha punti d’appoggio esterni, non si definisce nel rapporto con l’altro. È, al contrario, «egoismo», creatura auto-determinante, vale a dire ‘dominus’ del proprio stato, orgoglioso del proprio io.
L’Unico di Stirner è un concetto formidabile che provoca l’uomo e spinge a guardare la vita e a guardarsi nella vita, con altri occhi e altre prospettive. Il premio è il «nuovo paradiso», l’aprirsi di uno sguardo nuovo sul mondo. Egli è il ribelle che annienta tutto il resto per riaffermare la sua libertà, l’uomo in rivolta che è «negazione di tutto ciò che nega l’individuo e glorificazione di tutto ciò che lo esalta» (cfr. A. Camus, “L’uomo in rivolta”). Nell’Unico «ogni essere supremo, compresa l’umanità, viene annientato, e la teologia si ribalda in antropologia». C’è dunque da un lato una negazione, una parte distruttiva, un annientamento; dall’altro una vera parte costruttiva, un ribaltamento, un cambio di prospettiva che è essenzialmente un guadagno, il guadagno della propria individualità. L’individuo non è più schiacciato da esseri e concetti (Dio, stato, umanità…) che opprimevano e occultavano la sua natura. La battaglia contro ciò che vi era di più alto - e perciò lo calpestava e indeboliva il suo sentimento di unicità - è vinta. L’insurrezione è realizzata. L’io è finalmente pensato in tutta la sua potente unicità e ricondotto a se stesso. Stirner compie così il suo inno all’egoismo, a quell’egoismo capace di supportare e sostenere l’Unico, l’io vero, elevandolo a fonte, sorgente, centro, cosa fondamentale del proprio sé. Ad esistere è solo lui e ciò che conta per lui è lui stesso, nient’altro che sé: l’Unico, proprietario del suo potere, cosciente della sua unicità.
 
Per approfondimenti:
_A. Camus, L’uomo in rivolta (1951), Bompiani, trad. it. di L. Magrini, Milano 2017;
_M. Stirner, L’Unico e la sua proprietà (1844), trad. it. di L. Amoroso, Adelphi, Milano 1979;
_F. Volpi, Il nichilismo, Laterza, Roma-Bari 2009.
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di Maurilio Ginex 28/12/2017

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Quando pronunciamo la parola “crisi”, oggi, primariamente pensiamo all’aspetto economico che tale concetto abbraccia. Ci soffermiamo, quasi inconsciamente, solo sull’idea che la crisi, intesa a livello globale, sia un fenomeno solamente economico e che intacchi solo e soltanto la vita occupazionale e lavorativa dell’individuo. Certamente la crisi economica mondiale che il mondo sta affrontando, da più di dieci anni, è un qualcosa la cui concretezza risulta ineluttabile, ma dietro di essa vi è un immenso scenario che comporta anche una crisi a livello morale che mina lo spirito del tempo, plagiando la mente dell’uomo.
La crisi morale del nostro tempo, più post-moderna che mai, risulta essere la ragione che manteneva in auge il pensiero illuministico (1). Il postmodernismo, che risulta essere il prodotto finale di un cambiamento di rotta del modernismo, è strutturato su concetti come l’effimero, il fugace, l’incerto, il frammentato e discontinuo, tutte idee che fanno capo alla rappresentazione universale di un individuo che da un punto di vista esistenziale viene definito come “nomade”.
Lo stato di nomadismo è identificativo del postmoderno, il non essere mai fermi, stanziati e strutturati in un’unica posizione, questo prevede la condizione postmoderna. Tale condizione però bisogna circoscriverla all’interno di un immaginario concettuale che prevede una condizione esistenziale incerta. L’uomo, vivendo la condizione di nomade, all’interno di una società che in questa sede definiamo come post-moderna, ma che allo stesso tempo, in virtù delle tesi di Zygmunt Bauman, definiamo anche come “liquida” (2), vive una condizione di un’incertezza assoluta.
Tale entità è generata dalla consapevolezza di un continuo cambiamento, di una realtà in divenire in cui si è immersi e di un’impossibilità da parte dell’individuo nel cercare di mantenere intatta una propria forma esistenziale statica.
C’è una certa affinità tra la liquidità della società di Bauman, che vede un uomo gettato in un mondo che tende a rendere obsoleto ogni risultato raggiunto, e la condizione esistenziale del postmoderno che tende sempre a distruggere tutto ciò che siamo, abbiamo e conosciamo in virtù di una società caratterizzata da un’implicita tendenza alla continua trasformazione. Le due posizioni sono due facce della stessa medaglia che si implicano perché condividono una matrice comune che è identificata da una condizione esistenziale che non poggia su basi sicure. Ma tale incertezza, di cui dipaniamo l’ontologia, da cosa sembrerebbe radicata?
Vi è un autore di matrice neo-marxista, Fredric Jameson, che riporta tutta la condizione postmoderna a un’evoluzione ideologica del tardo capitalismo globalizzato: “Tutta questa cultura postmoderna, mondiale e tuttavia americana, è l’espressione interna e sovrastrutturale di tutto il nuovo corso del dominio economico e militare dell’America nel mondo". (3)
Non è una posizione errata quella del pensare di poter accomunare la condizione incerta che vive l’uomo postmoderno a un eccessivo e pervasivo capitalismo che si muove verso il mondo, plagiando l’uomo nel processo di legittimazione (e dunque, normalizzazione) dei campi di sapere che costituiscono l’identità delle società.
Su questa scia si innesta la morte di uno sfondo ideologico che aveva caratterizzato la condizione moderna, la quale prevedeva l’egemonia di una razionalità illuministica volta al progresso. Il post-modernismo si identifica con tutta una fenomenologia della sovversione di quegli ideali che avevano caratterizzato la modernità e che nel loro dileguarsi hanno portato con sé il dileguarsi di quel periodo storico. La condizione postmoderna, avendo disgregato una precedente razionalità che muoveva la coscienza dell’uomo, ha gettato gli individui nell’assoluta mancanza di punti di riferimento, causata da una società totalmente decentralizzata da un punto di vista politico, dunque, identitaria e morale.
[caption id="attachment_9742" align="aligncenter" width="1000"] Fredric Jameson (Cleveland, 14 aprile 1934) è un critico letterario e teorico politico statunitense.[/caption]
Il capitalismo incalzato più che mai da uno sviluppo tecnologico della società, che necessita di un immenso processo economico che la sorregga, ha portato lo stato sociale ad essere come un fiume senza argine che nel suo continuo divenire del flusso dell’acqua è come se variasse in ogni punto e in ogni momento. L’uomo non ha la possibilità di alimentare la propria soggettività, dunque, per stare al passo il continuo cambiamento dell’assetto sociale sopprime il proprio sé.
Jean-François Lyotard, autore de “La condizione postmoderna” (1983), spiega come la nascita del postmoderno sia identificata con l’avvento delle società industriali, a capitalismo avanzato ed eccessivamente informatizzate. Questa tesi identificativa viene collaudata da qualsiasi processo analitico nei confronti della costituzione di questo periodo storico, poiché le condizioni economiche e tecnologiche in continuo sviluppo quantitativo hanno plasmato la società in cui la comunicazione è dominata dal potere dei media. Lyotard, nel momento in cui sviscera le componenti costitutive del postmodernismo prende una posizione critica nei confronti di ciò che precedentemente erano stati i grandi racconti filosofici: illuminismo, idealismo e in fine marxismo. Racconti filosofici che l’autore chiama “metanarrazioni”. Queste, che si sono identificate come vie di salvezza per l’uomo, al fine di trovare un’emancipazione e un progresso per quest’ultimo, in realtà agli occhi di Lyotard hanno rappresentato un colossale fallimento, poiché l’uomo alla fine non si è ritrovato in una condizione emancipata e libera da quei problemi socio-politici, ma anche esistenziali, che quei racconti filosofici cercavano di combattere. Roberto Mordacci, autore de “la condizione neo-moderna” (2017), sostiene che il postmoderno sia morto e che la diagnosi dei post-modernisti sia fallita, ma vi sono varie posizioni che potrebbero contestare una tale tesi. Della razionalità, intesa in maniera illuministica come risveglio dal sonno della mente, vi è una traccia sbiadita, nel senso che se vi è una ratio che muove l’uomo verso le cose e le azioni è il prodotto di un qualcosa che da sovrastruttura è diventato struttura, ovvero, l’economia. La razionalità economica è l’unica razionalità che oggi identifica la logica esistenziale dell’uomo, a discapito di una razionalità di fondo che in altra maniera dovrebbe stimolare il sé. Dunque, se attraverso Lyotard notiamo come il postmoderno nasce nel momento in cui vi è quell’enorme sviluppo delle società industrializzate e a capitalismo avanzato, si potrebbe pensare, in maniera legittima, che sia impossibile che il postmoderno sia deceduto come riporta Mordacci nella sua tesi. Quest’oggi, con un capitalismo che ha trasceso la materia fino ad arrivare allo spirito di ogni singolo, il postmoderno è più vivo che mai.
Che una condizione tale sia viva e vegeta non è certamente un bene per l’uomo, poiché la pervasione di questa unica dimensione economica in virtù di questo violento capitalismo non può che finire per influenzare e veicolare la direzione delle forme di sapere che identificano una società. Se il capitalismo si manifesta come un potere che ha la possibilità di influenzare il sapere, allora, in virtù di questi tratti antropologici dettati da tale società, il linguaggio diventa una forma di legittimazione e normalizzazione di quel sapere, diventando funzionale al potere che manipola i soggetti stimolandoli unicamente verso quelle forme di sapere legittimate. Con il termine sapere si intende una vasta gamma di significati, in cui notiamo come si alluda al “…saper fare, saper vivere, saper ascoltare…” (4); dunque il linguaggio diventa la forma di legittimazione di una modalità d’essere determinata da questo sapere che viene normalizzato.
“La comunicazione funzionale è soltanto lo strato esterno dell’universo ad una sola dimensione in cui l’uomo è addestrato a dimenticare, a tradurre il negativo nel positivo in modo da poter continuare a funzionare, ridotto nelle sue facoltà ma atto alla bisogna e ragionevolmente efficiente.” (5)
Queste parole che Marcuse utilizza nel suo capolavoro “l’uomo a una dimensione” (1967), si ricollegano al discorso precedentemente affrontato riguardo al fallimento illuministico in una società postmoderna. La ragione non viene gestita dal soggetto, ma è un qualcosa che dall’esterno riduce le facoltà soggettive dell’uomo. La comunicazione, che nel sistema postmoderno viene gestita dalla potenza dei media, diventa il veicolo attraverso cui si istituisce l’ineluttabile doppia implicazione tra potere e sapere. Oggi, riattualizzare Marcuse sarebbe indicativo al fine di fare una diagnosi della realtà tangibile che viviamo. Gianni Vattimo, filosofo torinese, studioso del postmoderno, attua una vera e propria ripresa del pensatore francofortese, ritenendo funzionale riapplicare tutto il concetto di unicità della dimensione esistenziale dell’uomo che immerso in questa tecnologia - portata all’eccesso -, caratterizza il postmodernismo, il quale non possiede vie di fuga.
[caption id="attachment_9743" align="aligncenter" width="1000"] Gianteresio Vattimo, detto Gianni (Torino, 4 gennaio 1936), è un filosofo e politico italiano.[/caption]
Riesumare Marcuse, che a detta di Vattimo era stato troppo dimenticato negli ultimi tempi, si manifesterebbe come una maniera ideale per comprendere come l’uomo si ritrova a vivere, senza esser portato a pensare e ragionare, quella dimensione estetizzante della realtà che i mass-media profilano come unica e migliore di qualsiasi altra. Questo aspetto che riguarda la potenza della comunicazione è l’elemento caratteristico del sistema post-moderno, in cui la razionalità viene dall’esterno e gestisce le capacità soggettive dell’individuo, il quale viene portato a pensare solo ciò che si può pensare, sulla scia di ciò che i media (intesi come televisione, libri, giornali) propongono alla gente che ascolta.
I grandi racconti filosofici hanno fallito durante la modernità, non hanno emancipato l’uomo liberandolo - come ha sostenuto Lyotard -, ma hanno eliminato progressivamente quella razionalità soggettiva che gli permetterebbe di esser tale. Probabilmente ripensare quelle “metanarrazioni” al fine di un superamento dell’imposizione implicita di questa realtà retta sul giogo comunicativo, non risulterebbe negativo nei confronti del sé, ma al contrario potrebbe ri-stimolare le pulsioni dell’uomo alimentandone la coscienza. Dovrebbe esser vista come priorità l’intenzionalità di un ritorno al soggetto che viene scosso di fronte all’oggettivazione della realtà.
Le contraddizioni del postmoderno potrebbero essere trascese a partire da una presa di coscienza del proprio essere all’interno di una società in quanto tale. I media, le industrie, il capitalismo, la tecnologia, tutti dati identificativi di un profilo sociale, tendono in univoco verso l’omologazione, senza ammettere resistenze. Questa non consiste nel rendere tutti uguali secondo un canonico profilo antropologico che identifica l’essere sociale, ma si tratta di un processo più subdolo e implicito che attraverso i media propone un’idea di realtà come unica e sola. In un contesto così alienante, in cui la potenza dei media si identifica nel costituire l’essere nelle società tecnologiche, attraverso le notizie e le interpretazioni del reale, quei grandi racconti filosofici, che per i postmoderni rappresentano racconti metafisici ormai superati, risulterebbero invece come una maniera per mettere in gioco il proprio Io attraverso l’alimentazione del proprio spirito. In virtù del fatto che il nostro presente è totalmente privo di forze protese verso il nuovo, il ripensare il passato in termini di progresso per il nostro presente potrebbe essere una via d’uscita da questa assenza di propulsione che alberga nella vita dell’uomo. Ripensare il passato, senza però copiarlo per cercare di riattualizzarlo in maniera ortodossa, ripensarlo al fine di reinterpretarlo secondo gli schemi concettuali dell’epoca attuale (6).
Quest’ultima è un periodo storico privo di soggetto, di razionalità, di pensiero e in questo caso il ripensare quel passato, che agli occhi dei post-modernisti è risultato un totale fallimento, serve a trascendere e superare il ristagno e lo stallo esistenziale che ha generato quest’idea continua di progresso senza un effettivo sviluppo umano.
 
Per approfondimenti:
Nota 1: David Harvey, La crisi della modernità, il Saggiatore, Milano, 1993, pag. 59-60. Harvey sostiene che la ragione, strumento che il pensiero illuministico aveva utilizzato per l’emancipazione dell’uomo, in virtù del fatto che la morale attraversa il crollo di tale impostazione illuminista, nell’epoca postmoderna essa viene utilizzata come strumento per sottomettere gli altri senza alcun fine spirituale o etico;
Nota 2: Zygmunt Bauman, Vita Liquida, Editori Laterza, Bari, 2008, introduzione, pag. VII. L’autore scrive: «vita liquida» e «modernità liquida» sono profondamente connesse tra loro. «liquida» è il tipo di vita che si tende a vivere nella società liquido-moderna. Una società può essere definita «liquido-moderna» se le situazioni in cui agiscono gli uomini si modificano prima che i loro modi di agire riescano a consolidarsi in abitudini e procedure.” Come si può notare dalle parole dell’autore, il concetto di nomadismo esistenziale in cui l’individuo postmoderno si trova immerso è molto affine all’idea che l’uomo che abita la società liquida sia soggetto, in una simile maniera, ad essere nomade di fronte a un’identità statica;
Nota 3: Fredric Jameson, Il postmoderno, o la logica culturale del tardo capitalismo, Garzanti, Milano, 1989, p.15;
Nota 4: Jean Francois Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano, 1985, p.38. L’autore spiega come con il termine “sapere” si intende una ampia gamma di significati, che attraverso il linguaggio vengono normalizzati identificando quasi il modo di essere dell’uomo nella società. Esempio questo di rapporto tra sapere e potere;
Nota 5: si veda Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino, 1967, p.121;
Nota 6: Esempio è il ripensamento di un marxismo trascendendo la lotta di classe che Marx presupponeva alla base di una società. Oggi si potrebbe ripensare Marx in termini critici nei confronti della condizione alienante dei lavoratori in conseguenza di questa crisi che abbraccia il mondo da più di dieci anni. Non vi è più l’esistenza di classi all’interno della società ma vi è una società addirittura ultra-capitalista, dunque un pensiero come quello marxista potrebbe risultare funzionale al risveglio dal sonno della ragione che l’uomo vive in una condizione esistenziale come quella di oggi.
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di Maurilio Ginex 03/12/2017

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Il grande atto della storia che è fatta da noi è l’atto della trasformazione radicale della società: il corso della storia umana è l’interazione dei numerosi momenti storici, consci e inconsci, volontari e involontari”.
 
L'epoca odierna vuole la soppressione di ogni pulsione vitale e soggettiva mirando ad omologare le masse verso un’unica via in cui trovare la realizzazione materiale e ideale del sé. L’uomo ha il dovere di rivestire un ruolo in cui è necessario alimentare la coscienza partendo dal proprio Io e non degenerando verso il "fuori di sé". L'individuo vive una crisi inconscia, poiché non è consapevole della sua matrice antropologica, la quale è vitalmente attiva e sfugge al meccanismo contorto della società articolata: questa genera individui assoggettati che diventano monadi di un pensiero unico connaturato.
Probabilmente il problema dell’assoggettamento psicologico degli individui rappresenta una questione che andrebbe decostruita partendo dalla mancanza di punti di riferimento ideologici. Un'assenza, che funge da dato peculiare di una realtà contraddittoria, la quale porta l’uomo al non possesso di una coscienza critica nei confronti di ciò che viene dettato come unica legge per una realizzazione. I media hanno sempre operato il loro corso, rappresentando lo strumento del potere, funzionale alle logiche del sistema odierno, portando difficoltà verso critiche costruttive su una loro funzione fattiva.
In questa sede non parleremo di analisi semiotiche a riguardo, ma ciò che bisogna evidenziare - ai fini di una ricerca scientifica di un fenomeno come il nostro (che vede l’uomo, con tutto il suo vitalismo, ridotto a oggetto passivo di una realtà che lo travolge) -, è rappresentato dal tentativo di recupero di una scelta libera da parte dell’individuo. In sintesi bisogna evidenziare come l’uomo, avendo perso la sua forza spirituale critica e cosciente, si ritrovi a divenire oggetto passivo di fronte alla realtà immutabile. È esattamente questo il punto in cui bisogna, probabilmente, ripensare un approccio alla realtà attraverso alcune linee teoriche che hanno caratterizzato il post-strutturalismo.
Quest’ultimo vede l’avvento di quella che fu la cosiddetta Nietzsche-Renaissance, in cui si ripensava Nietzsche per ricostituire l’importanza della volontà di potenza dell’uomo, con l'obiettivo di riportarlo da "oggetto di una struttura", come lo pensavano gli strutturalisti, a "soggetto agente di fronte alla realtà", che riesce a trascendere quella forma.
Oggi, ripensare Nietzsche con le stesse finalità potrebbe essere fuorviante per la comunità umana, data l’importanza che forzatamente hanno fatto rivestire alle scienze umanistiche, ma al di là degli schemi concettuali che fanno capo solamente a un finanz-capitalismo(2) che alimenta l’ideologia unica del denaro, un ripensamento del post-strutturalismo con una particolare attenzione alle posizioni nietzschane potrebbe risultare come un modo per prendere coscienza, da parte dell’uomo, dall’annientamento pulsionale che vive.
[caption id="attachment_9683" align="aligncenter" width="1000"] Friedrich Wilhelm Nietzsche (Röcken, 15 ottobre 1844 – Weimar, 25 agosto 1900) è stato un filosofo, poeta, saggista, compositore e filologo tedesco.[/caption]
Un processo che in partenza potrebbe risultare possibile, ma che in atto trova ogni forma di argine a partire dall’uomo stesso. Oggi, il processo hegeliano di autocoscienza che prevede una  alterità rivestita dall’altro, non trova modo di dar vita al particolarismo differenziale, che gli uomini potrebbero vivere se avessero modo di scegliere senza aver esperienza di quell’angoscia della libertà dal sapore sartriano.
L’autocoscienza sembra mediata da un unico pensiero omologante che si serve di una psicologia inversa secondo la quale l’uomo non può scegliere al di fuori di ciò che viene normalizzato come unica via possibile. Si prende coscienza di se stessi unicamente in base ad un personale allontanamento dallo schema imposto: il compromesso viene rappresentato dal fatto che si viene percepiti come diversi nel momento in cui si sceglie diversamente.
Nell'ottica di uno scenario così alienante per la propria identità, il ripensamento di Nietzsche - che vede l’uomo a metà tra un nichilismo passivo (inteso come una presa di coscienza della crisi morale dell’epoca, senza cambiamento di una situazione così degenerante) e un nichilismo attivo (che invece prevede l’azione dell’uomo come esercizio di forza distruttiva) -, diventa funzionale per dar una possibile forma all’ontologia sociale.
Su questa scia si può osservare come il richiamo verso una volontà di potenza - la quale permette all’individuo il suo adattamento, secondo le proprie inclinazioni pulsionali, verso una struttura basata su un sistema funzionale, che riporti in auge la vera antropologia vitalistica -, potrebbe muovere l’uomo secondo la propria coscienza: proprio in tale ambito bisogna ri-pensare un innesto con Nietzsche.
Di fronte a una generale e disarmante crisi del capitale, non solo monetario, ma anche sociale - proveniente da un corroborante avallo da parte di un individuo antropologicamente assoggettato -, bisogna  con educazione rimettersi in gioco senza rivestire le convenzioni sociali subdolamente dettate attraverso gli strumenti mediatici.
Per sovvertire un caos che funge da struttura manipolante, identificata nella materialità delle istituzioni che tendono a omologare più che a differenziare, bisogna prendere coscienza del fatto che l’uomo dovrà essere il soggetto operante di quella trasformazione radicale della società a cui si alludeva in principio del discorso. Se i fondamenti strutturali della società dominate, sono manipolatrici di coscienze, come può l’uomo scegliere e garantire una trasformazione sociale radicale? Nelle relazioni umane, se non si è allineati con il politicamente corretto, si è fuori luogo: come può ritornare in auge l’uomo, a discapito di un sistema che ci vuole come attori sociali del mito globalizzato?
Un ripensamento di Nietzsche, dunque, potrebbe essere funzionale per rispondere in maniera veemente a quesiti del genere. Un ripensamento, tra l’altro, che riprende le redini di quell’atmosfera culturale che aveva caratterizzato l’ambiente post-strutturalista, come precedentemente evidenziato, e che prevedeva una reinterpretazione anche di figure come Freud e Marx, poiché oggi più che mai ci si ritrova a vivere i drammi esistenziali, economici e morali che identificano la struttura di un’epoca immersa totalmente in una crisi di valori, oltre che pragmaticamente economica e politica, che deteriora fino all’essenza le funzioni di un sistema sociale.
[caption id="attachment_9685" align="aligncenter" width="1000"] Nietzsche soggiornò a Torino tra l'aprile del 1888 e i primi giorni del 1889, precisamente in un appartamento all'ultimo piano del palazzo in angolo tra via Carlo Alberto n.6 e la piazza.[/caption]
Dunque, se Nietzsche fosse ripensato e proposto come un nuovo punto di riferimento per riaccendere le pulsioni vitali dell’uomo ai fini di un principio di auto-realizzazione, l’uomo potrebbe prendere coscienza critica di fronte a una realtà che non vede assolutamente nessun punto di riferimento, se non ciò che l’unica dimensione economica globalizzata permette di vedere: un sistema economico che struttura le menti degli individui, professando come unico profilo quello antropologico dell’uomo economico, che come ci spiega Gallino, ormai è diventato un profilo in carne e ossa(3).
Come precisa Freud, quando numerosi individui mettono un unico e medesimo oggetto al posto del proprio ego ideale, dipendono e sono rafforzati dal ripetersi di un atteggiamento simile da parte degli altri membri del gruppo(4). Dunque, ciò detto, una normalizzazione tipologico-mentale su scala globale, come succede nell’oggi ultra-capitalistico, non può che creare uguali soggetti, i quali agiscono nella totale mancanza di quel vitalismo nietzschano che bisogna riesumare.
 
Per approfondimenti:
Nota 1: Il ruolo della coscienza nella storia è stato analizzato da Marx e Engels nel Manifesto del partito comunista, e in altre opere successive. Citazione riportata L. Krader, nella Storia del marxismo, Einaudi Torino, 1978, pag. 221, I tomo;
Nota 2: Si veda, Finanzcapitalismo, Luciano Gallino, Einaudi Torino, 2011-2013;
Nota 3: Ibidem, pag. 139;
Nota 4: Si veda, Antropologia come critica culturale, George E. Marcus e Michael M.J. Fischer, Anabasi Spa Milano, 1994, pag. 194.
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di Maurilio Ginex 04/10/2017

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Se c’è un tema su cui oggi bisogna interrogarsi è proprio quello di capire che posto occupa la cultura in società. Dalla comprensione del grado di importanza che riveste la cultura per una società si può scorgere un metro valutativo che permette di comprendere su quale direzione essa si sviluppa e quali siano le inclinazioni verso cui si dirige.
Per condurre tale indagine bisogna capire in principio, il grado dell’istruzione del sistema sociale, dunque quali sono i campi del sapere scientifico su cui si investe, quali sono i valori ai quali vengono esposti gli individui una volta posti di fronte alla grande scelta della loro vita e quali sono i profili professionali socialmente e razionalmente utili. Attraverso la comprensione di questi fattori si può cominciare a delineare il profilo strutturale di un sistema sociale.
Una persona appena uscita dalla scuola, subisce uno spaesamento come quello di un naufrago che in mezzo al mare non può basarsi su nessun punto di riferimento.
La conseguenza che l’angoscia può generare da una scelta drastica, porta l’individuo a farsi influenzare dai bombardamenti psicologici della struttura sociale, la quale coercitivamente viene percepita come utile e ideale. E’ proprio questo il momento in cui l’individuo subisce la persuasione del sistema che lo invoglia ad abbracciare quei valori basati sulle uniche (e universali) offerte di formazione che si conformano alle logiche del sistema.
Nell’attuazione di una divisione del sapere, facendo una scala di importanza, non vi è spazio per scelte che vertono su campi di apprendimento umanistico, poiché questi campi non sono conformi alla logica di mercato, la quale si identifica con quei valori che portano l’uomo unicamente verso la cosiddetta prosperity, ovvero, quella prosperità economica che porta all’accumulo di denaro. Intorno agli ’70 del secolo passato, Ivan Illich, un intellettuale austriaco di fama mondiale, scriveva un libro intitolato “Descolarizzare la società” (1971) e alcune delle sue parole sono queste:
La scuola vende un corso di studi: vale a dire, un pacco di merci simili per struttura e metodo di fabbricazione a qualunque altra mercanzia. La produzione di questi corsi nasce nella maggior parte delle scuole da una ricerca cosiddetta scientifica, partendo dalla quale i tecnici dell’istruzione prevedono, nei limiti fissati dai bilanci e dai tabù, la futura richiesta di utensili umani per la catena di montaggio... Si insegna agli allievi-consumatori a conformare i propri desideri ai valori suscettibili di essere messi sul mercato. In tal modo si ottiene che si sentano colpevoli se non si comportano secondo le predizioni delle indagini di mercato procurandosi i voti e i diplomi che permetteranno loro d’accedere a quella categoria professionale cui sono stati indotti ad aspirare”.
[caption id="attachment_9500" align="aligncenter" width="1000"] Ivan Illich (1926 – 2002) è stato uno scrittore, storico, pedagogista e filosofo austriaco. Personaggio di vasta cultura, viene citato spesso come teologo, poliglotta, per la sua vasta conoscenza di svariati idiomi, e storico. Viene però più spesso ricordato come libero pensatore, capace di uscire da qualsiasi schema preconcetto e di anticipare riflessioni affini a quelle alter-mondiste. Estraneo a qualsiasi inquadramento precostituito, la sua visione è strettamente affine all'anarchismo cristiano. Vice rettore dell'Università di Porto Rico e fondatore in Messico del Centro Intercultural de Documentación (CIDOC), ha focalizzato gran parte della sua attività in America Latina.[/caption]
L’autore scriveva in un periodo storico in cui già si percepivano gli aloni del cambiamento strutturale della società. I tecnicismi facevano il loro ingresso nella quotidianità dell’individuo modellando la mente di quest’ultimo, secondo valori che si conformassero all’unica etica basata sul consumo e su una polarizzazione della società attraverso scelte professionali e profitto di quest’ultime.
L’analisi di Illich parte dalla scuola americana vista come uno dei poli che alimenta il sistema capitalistico. Già a scuola l’individuo viene manipolato, attraverso subdole logiche che portano il ragazzo-individuo a scegliere da sé ciò che è socialmente utile. Però al di là della società americana - che per essenza divide il popolo in base al reddito -, in un mondo ultra-capitalistico al livello globale come quello di oggi, vediamo come le contraddizioni che evidenziava a suo tempo l'autore austriaco abbiano subìto un ampliamento portato all’eccesso. Già a scuola la persona sa cosa scegliere ai fini di una aderenza al tessuto sociale. Alla domanda di quest’ultimo, si attua una selezione dei vari campi di ricerca ai fini di una perfetta e adeguata collocazione futura. Adeguata, certamente, alle logiche di mercato, che mercificano l’apprendimento, rendendo gli individui “(...) umani per la catena di montaggio”.
E’ alienante come si sia sviluppato con tanta naturalezza un sistema sociale così settoriale e implicitamente autoritario, come diceva Simone Weil: “(...) la società è diventata una macchina che comprime il cuore”.
Non vi è lo spazio per ascoltare il sordo richiamo delle pulsioni e delle proprie inclinazioni, poiché nell’aridità dello spirito si strutturano griglie concettuali e schemi sociali ben saldi e compatti che difficilmente trovano il modo di inserirsi in discussione. La descolarizzazione della società ha portato la cultura in un cunicolo buio rinchiuso dentro uno sgabuzzino che viene aperto soltanto all’occorrenza, quando qualcuno decide di farlo. La cultura non è visibile sull’orizzonte della una realizzazione poiché questa non è mercificabile e non è in perfetta linea con la tipologia di intenzionalità alimentata dalle istituzioni: soltanto se questa viene ricercata al di fuori di schemi prestabiliti dai tecnici dell’istruzione, per continuare a dirla con Illich, la si può abbracciare e utilizzare come risorsa. Ma una società descolarizzata, tende a far credere di essere un estraneo o un diverso a chiunque voglia imboccare la via del "pensare altrimenti", a ciò che viene convenzionalmente pensato come ideale.
[caption id="attachment_9502" align="aligncenter" width="1000"] La scuola obbligatoria, la scolarità prolungata, la corsa ai diplomi, l'università di massa: differenti aspetti di quel medesimo falso progresso che consiste nella preparazione di studenti orientati al consumo di programmi scolastici e di merci culturali studiate per imporre il conformismo sociale, l'obbedienza alle sue istituzioni e ai suoi manager. Anche la strutturazione del profilo degli insegnanti, per promuovere una didattica basata sul modello della trasmissione delle conoscenze, ha lasciato l'uomo della società dell'informazione e dei consumi privo di strumenti e ancora più esposto al rischio di una mistificazione strumentale delle sue qualità migliori. A tutto ciò, Ivan lllich aveva opposto la sua visione, una quarantina di anni fa, con un testo che è una pietra miliare del pensiero occidentale alle prese con la grande trasformazione culturale e tecnologica in atto. E con un'idea di scuola ben precisa. Descolarizzare la società vuol dire, per il suo autore, sostituire un'educazione autentica ai rituali dell'educazione di massa per imparare finalmente a vivere attraverso la propria vita e nell'incontro con l'altro. Non sì tratta solo di una rottura radicale e necessaria con un sistema di poteri e di saperi, ma di restituire all'uomo il gusto di inventare, creare e sperimentare la propria vita partecipando alla sfida della vivibilità del pianeta in questo tempo.[/caption]
Per comprende più a fondo questo sistema sociale che aliena le pulsioni soggettive e rende estranee tutte le forme di alternativa a ciò che viene proposto (e imposto), bisogna far luce su alcune analisi che Michel Foucault condusse riguardo all’ordine del discorso e sul rapporto che intercorre tra sapere e potere. Secondo l’intellettuale francese di Poitiers, la produzione dei discorsi è veicolata e controllata attraverso una serie di processi che poi avranno a loro volta potere e controllo sul sapere. Foucault parlava di un potere che principalmente fosse una forza positiva, la quale agendo dall’interno dell’individuo crea un profilo antropologico assoggettato e che per definizione non resiste all’imposizione, dunque un potere che produce e fabbrica individui.
Attraverso quest’ottica, la quale vede evidenziate le logiche di un potere che normalizza una coscienza assoggettata, rapportando il problema dell’esistenza di tale potere alle logiche precedentemente analizzate, attraverso l’acume di Illich, possiamo notare e comprendere il perché oggi vi siano discipline che risultano non funzionali al sistema, che per l’appunto accetta e promuove figure professionali che siano perfettamente scollate da un ideale di società scolarizzata.
Dunque, il potere che agisce sul sapere porta a una settorializzazione del lavoro e nel particolarissimo periodo storico attuale, privo di punti di riferimento intellettuali, vi è attuata una separazione enorme tra lavoro pratico (e utile) e il lavoro intellettuale. In questa separazione si può quasi scorgere l’eliminazione della seconda tipologia di lavoro, poiché non rappresenta un impiego al servizio delle logiche di mercato: questa situazione non mina soltanto l’individuo singolo che probabilmente si ritroverà a scegliere una formazione professionale in base a ciò che risulta come convenzionalmente sociale, ma mina anche l’istituzione primaria che rappresenta la formazione dell’individuo, ovvero, l’università.
[caption id="attachment_9503" align="aligncenter" width="1000"] Paul-Michel Foucault (1926 – 1984) è stato un filosofo, sociologo, storico, accademico e saggista francese. Filosofo, "archeologo dei saperi", saggista letterario, professore al Collège de France, tra i grandi pensatori del XX secolo, Foucault fu l'unico che realizzò il progetto storico-genealogico propugnato da Friedrich Nietzsche allorché segnalava che, nonostante ogni storicismo, continuasse a mancare una storia della follia, del crimine e del sesso.[/caption]
Tornando a Illich, vediamo come nel testo sopracitato, viene affrontato anche il tema della decadenza delle Università, che inizialmente rappresentavano i poli culturali in cui il dibattito tra individui generava autocoscienza, pensiero, riflessione, in cui vi si costituiva l’identità delle indagini scientifiche, in cui si ritrovavano luoghi di propaganda culturale e che già al tempo dell’autore subirono un cambiamento nella loro funzionalità. Illich fa un paragone di varie società con la società americana: in quest’ultima lo studente è visto come un qualcosa che alimenta lo sviluppo del sistema e quindi in tale logica si osserva l’individuo come capitale sociale per il sistema. Era più funzionale puntare sulla quantità di studenti impiegati in determinati settori più che sulla qualità che poteva fuoriuscire dalle decisioni soggettive secondo particolari inclinazioni.
Oggi, questo stato di cose, non è cambiato, anzi ha visto il suo sviluppo. Il discorso sull’istruzione universitaria e sull’impiego ha generato un processo di esclusione di determinati settori, tale processo ha generato quel discorso che a sua volta genera potere sul sapere. Attraverso Foucault vediamo come in una società come la nostra, il discorso generi quel processo di esclusione che porta a riconoscere il carattere di verità solo di determinati discorsi, che sarebbero quelli che vengono diffusi dagli apparati istituzionali. Il discorso sull’istruzione è uno di quei discorsi che tipicamente viene colpito dalle convenzioni sociali, dunque vi saranno continuamente pareri discordanti sulle scelte acquisite di fronte a un progetto di vita. Nello specifico vi è un conflitto tra facoltà universitarie.
Oggi, principalmente, si opera per assicurarsi l’accumulo di denaro futuro, non correndo rischi legati al compromesso tra ciò che è più rassicurante e ciò che rappresenta invece il proprio reale desiderio: una situazione che in alcuni casi snatura anche della sua nobile essenza alcune scelte di vita, come iscriversi a medicina. Il medico, missione di vita per eccellenza, non può subire la privazione del suo reale significato venendo limitato a un lavoro in quanto tale.
Hannah Arendt, in “Nel deserto del pensiero”(1950-1973) scriveva: “Il lavoro serve sempre ad assicurare il sostentamento. Se faccio il medico per guadagnarmi da vivere, la Τέχνη della guarigione è degradata al rango di lavoro. Il mondo moderno ha trasformato ogni attività in lavoro, ha spogliato tutto della sua dignità”. 
Parole che fanno luce sullo spirito che alberga nella società attuale, che seleziona in base a un utile, che degrada la nobiltà delle cose e priva di dignità l’uomo senza permettergli di scegliere. Una situazione conflittuale che vede una maggioranza a sostegno dell’utilità immediata delle scelte prese e conseguentemente una minoranza che di contro difende le proprie posizioni fatte di inclinazioni e pulsioni.
Questa scissione tra individui, mina la collettività che rappresenta la "conditio sine qua non" per cui vi siano le possibilità per non vivere angosciati nella paura di non imboccare la via definita giusta.
Kierkegaard prima, Sartre dopo, si sono espressi sul concetto di "scelta" - generante angoscia e paura di aver preso la giusta decisione - secondo gli schemi convenzionali. Kierkegaard parla di un’angoscia generata dall’esperienza dell’ignoto e inconoscibile, Sartre parla dello stesso elemento da un punto di vista diverso, cioè l’uomo in assoluta libertà, il quale può scegliere davanti alla vita e attraverso il quale ne viene evidenziato proprio questo particolare carattere di libertà, senza influenze, che genera l’angoscia e lo spaesamento dell’uomo.
Da chiedersi è dunque, che posto ha lo spirito soggettivo dell’uomo? In un mondo dove l’unica ricerca è quella dell’utile, dove non vi è l’idea di sbracciarsi per giungere a un obiettivo che ci si prefissa di raggiungere, un mondo dilaniato dall’idea dell’arrivare subito e sicuramente, senza ostacoli, una realtà che non ammette il pensiero razionale e che preferisce far “scegliere” nell’assoluta irrazionalità l’uomo.
Quella compiuta è tutta un’analisi che si ricongiunge al testamento che Ivan Illich ha lasciato all’umanità. Un testamento che si identifica nel ripercorrere, in questo caso specifico, la struttura dell’istruzione all’interno della società e il ruolo che hanno i propagatori della cultura e della conoscenza. Gli insegnanti, gli intellettuali, gli studiosi, in una società descolarizzata che tende a quantificare al posto di qualificare, non è assolutamente vero che non hanno il loro posto, poiché rappresentano quel progresso intellettuale che combatte contro un’irrazionalità totalizzante che rema ai danni dello spirito, rappresentano quella fetta di progresso che ha il potere e la posizione di combattere e resistere contro l’oggettivazione dei futuri, rappresentano quel principio di speranza dal sapore blochiano, rappresentano quella mano tesa al naufrago disperso nel mare.
 
Per approfondimenti:
_ Ivan Illich, Vedi, Descolarizzare la società - Edizioni Mondadori, 1971, pag. 67-68;
_Michel Foucault, L’ordine del discorso - Edizioni Einaudi, 1971;
_Hannah Arendt, Nel deserto del pensiero - Edizioni Neri Pozza, Vicenza, 2007;
_Ernst Bloch, Il principio speranza - Edizioni Garzanti, Milano, 1994.
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di Liliane Jessica Tami del 24/09/2017

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Il Sublime, parola di cui oggi si abusa troppo facilmente, solo negli ultimi secoli è diventato un concetto carico di pathos e collegabile alle manifestazioni meravigliose della Natura, vista come prodotto di Dio. Inizialmente - come è riportato nel celebre testo di estetica dell’antichità "Del sublime", forse vergato dal retore imperiale Cassio Longino (Emesa, 213 a.C. - Palmira, 273 a.C.) - il sublime è nato con l’arte oratoria e designa uno dei quattro stili usati nella redazione di testi eroici. Ivi è riportato che: «Il Sublime trascina gli ascoltatori non alla persuasione, ma all'estasi: perché ciò che è meraviglioso s'accompagna sempre a un senso di smarrimento, e prevale su ciò che è solo convincente o grazioso, dato che la persuasione in genere è alla nostra portata, mentre esso, conferendo al discorso un potere e una forza invincibile, sovrasta qualunque ascoltatore».

In questo testo vi è anche riportato che solo un uomo dotato di grandi passioni, grandi idee e d’integrità morale ineccepibile può produrre opere sublimi. Tale perfetta sovrapposizione tra la vita privata dell’artista e le sue opere, erede del concetto ellenico di “anima bella in corpo bello”, è stata ampliamente ripresa dal filosofo e musicista Richard Wagner, che nel suo testo "Arte e rivoluzione" analizzando colui che crea le opere grandiose, questo non può esimersi dall’essere anche un rivoluzionario.

Una simile visione greca e morale dell’arte oggi, oltre settant’anni dopo la sconfitta del Reich hitleriano, è inconcepibile: mai, come nell’attuale era del post-moderno, si è vista una tale discrasia tra individuo ed opera e, come direbbe Nietzsche: "attualmente l’uccisione di Pan è stata totale". È solo alla fine del XV secolo, grazie al critico letterario parigino Nicolas Boileau, che vengono distinti due tipologie di sublime, ossia il sublime che produce un’elevazione dell’anima e che crea piacere e il sublime inteso come stile letterario in grado di condurre il lettore all’estasi.

[caption id="attachment_9452" align="aligncenter" width="1000"] Caspar David Friedrich, Luna nascente in riva al mare (particolare) - Olio su tela 1822.[/caption]
Per Friedrich Nietzsche esistono due tipi di uomini: i dominatori politeisti con la morale dei Signori e gli schiavi monoteisti appartenenti al filone semita dei timorati di Dio.
La percezione del sublime si divide in queste due grandi categorie: vi sono coloro che quando alzano gli occhi oltre i limiti umani, vengono colti dalla paura e, come dice Kant, da un momentaneo vacillamento dell’Io, da un blocco psichico, mentre vi sono coloro che - come gli antichi seguaci di Pan - vedono nel prometeico ambire oltre ai propri limiti un potenziamento dell’individuo. Per Nietzsche, la percezione del sublime allarga l’animo dell’Individuo e l’accresce senza disintegrarlo. L’Io avente volontà di Potenza, tanto criticato da Schopenhauer, è fondamentale in quanto è proprio il suo operare ed il suo genio a fondare l’arte apollinea.
Il sublime - ossia l’arte dionisiaca e tragica, la quale può anche rendere piacevoli le atrocità e il disgusto della vita -, è come la Tragedia greca: infonde energia panica e vitale all’intero popolo spettatore. La grande questione sul sublime è tremare di fronte al meraviglioso e disprezzare il mondo dei sensi, sentendosi orfani di Pan, senza alcuna tragica ambizione, verso il superamento dei propri limiti, o parallelamente ambire ad ergersi contro lo stupefacente terrore e con coraggio araldico superarlo, proprio come Lucifero nel tentativo di superare Dio o Prometeo nel raggiungere il fuoco.
Nel 1757, con Edmund Burke, il termine ha iniziato ad essere utilizzato correntemente per descrivere lo stato d’animo scaturito da percezioni grandiose legate a fenomeni naturali. Per Burke il sublime è “Tutto ciò che può destare idee di dolore e di pericolo, ossia tutto ciò che è in un certo senso terribile o che riguarda oggetti terribili, o che agisce in modo analogo al terrore", esso può anche essere definito come "l'orrendo che affascina" (delightful horror), tema già messo in versi da John Milton ne "Il Paradiso Perduto" nella sua descrizione di Satana. Nella percezione del Sublime di Burke, come anche di Schopenhauer, vi è un macabro elemento di nichilismo, di prostrazione totale, di ascetismo o, per dirla in termine nietzscheani, di sottomissione femminea e semitica: l’io, di fronte alla grandezza di una percezione sublime, anziché riempirsi, come detto da Longino, viene annullato e dissolto.
Nella prefazione dell’edizione di Inchiesta sul Bello ed il Sublime di Edmund Burke, egli usa il termine "masochismo" per definire il sentimento di sottomissione ed annullamento dell’Io burkiano, per quanto egli dedicò parte della sua vita politica a difendere le istituzioni inglesi monarchiche dal pensiero provocatorio libertino. Profonda è infatti la riflessione di Burke attorno all’Eros ed al suo rapporto con la morte: la percezione della morte, il terrore, finché è lontano arreca diletto e piacere. Nel Sublime la morte viene erotizzata, la lussuria diventa violenta ed estatica proprio quando nell’elemento erotico si inserisce quello mortifero. La bellezza, per Burke, è la qualità in grado di rendere l’amore contemplativo e sereno, liberandolo dal gioco di dominazione-sottomissione e terrore-piacere, elementi dai quali scaturisce il Sublime. La passione causata è lo stupore, la terribile meraviglia che desta lo spietato Dio biblico al popolo da lui intimorito. Di contro per i pagani, la potenza dell’Uomo, come dice il poeta romano Quinto Orazio Flacco, sta proprio nel guardare la Natura senza esserne intimoriti.
[caption id="attachment_9457" align="aligncenter" width="1000"] Joseph Mallord William Turner, L'incendio delle Camere dei Lord e dei Comuni (particolare).[/caption]
Immanuel Kant ne "la Critica della Capacità di Giudizio", analizza a fondo la questione della percezione estetica, del gusto (giudizio), del bello e del sublime. Innanzitutto è importante notare che per il filosofo "non esiste una regola del gusto oggettiva", per via del giudizio propriamente umano inerente al gusto, il quale è legato alla percezione estetica ed al sentimento del singolo soggetto e non ad un concetto fondamentale di determinazione dell’oggetto.
Se per Kant l’agire morale - seguendo la celebre massima “agisci sempre come se ogni tua azione dovesse divenire una massima universalmente valida” - è oggettivo, la percezione del bello e del sublime è invece soggettiva, in quanto dipende strettamente dalla propria percezione e dal proprio gusto. Un uomo gretto e dall’animo chiuso se posto sulla cima di una maestosa montagna non ne percepisce il sublime, perché non possiede la disposizione d’animo adatta.
Il Gusto è, per Kant, una facoltà che si ha in proprio e non esiste un principio "del gusto" avente criterio universale. Diversamente per tornare a Burke, "il gusto" si forma dalla facoltà della mente di formare un giudizio sulle percezioni, le arti e le opere d’immaginazione, ed è universale e comune a tutti. Secondo Burke alcune persone, hanno il gusto traviato o rovinato, e diverse sensibilità.
Dal momento in cui l’animo è predisposto a percepire il sublime, esso può coglierne di due tipi: "matematico" e "dinamico". Il primo nasce dalla percezione dell’infinito e dello sterminato, in confronto alla piccolezza dell’uomo - a riguardo pensiamo al celebre dipinto di Friedrich "Il viandante sul mare di nebbia", in cui a meravigliare è la grandezza del cielo nuvoloso, oppure al quadro di Giorgio Belloni “La calma”, conservato presso le Gallerie d’Italia della Banca Intesa san Paolo -; mentre il secondo è dato dal possente movimento degli elementi, come nel caso di una tempesta, di una cascata o un’eruzione vulcanica.
[caption id="attachment_9458" align="aligncenter" width="1000"] Giorgio Belloni, Calma (Particolare) - 1913.[/caption]
Friedrich Nietzsche ne "La Nascita della Tragedia", scritta grazie ai consigli del suo amico Richard Wagner, a più riprese critica Schopenhauer. Per il filosofo malinconico, e dalle tendenze buddhiste, la Volontà di Vivere deve essere annientata affinché si riesca ad uscire dalla grotta platonica o sollevare il velo di Maja. Bisogna dire che questa posizione assai grama, è certamente figlia di una sua situazione infelice: Schopenhauer, a differenza di Richard Wagner che era un gran amatore di donne, ha vissuto perlopiù una vita carica d’invidia nei confronti della madre, di odio verso l'universo femminile e di disprezzo grettamente monoteistico,verso ogni forma di piacere estetico e sensuale.
Tale è la sua critica verso il mondo dei sensi e della materia che, nella sua opera "Il Mondo come volontà e rappresentazione", arriva persino a criticare le nature morte dipinte dagli olandesi perché troppo “realistiche” ed incitanti alla bramosia alimentare. Per Schopenhauer, infatti, il sublime è il piacere che si prova osservando la potenza o la vastità di un oggetto che può distruggere chi l’osserva. Questa visione infelice del Sublime, percepito come modalità di annullamento della volontà dell’individuo, affinché egli estraniandosi dal mondo possa vederlo come una mera rappresentazione. Tale visione  non è poi così diversa dai monaci flagellanti, i quali arrivavano a suicidarsi logorandosi le carni col pretesto dell’avvicinamento all’idea di Dio: il "Soggetto Puro della Conoscenza", ossia l’asceta, osserva le idee eterne e percepisce il mondo a distanza senza lasciarsi coinvolgere dal contingente e dall’effimero.
La visione sublime aiuta ad annullare la propria volontà per calarsi momentaneamente nei panni dell’Asceta, il quale vede il mondo attraverso un occhio puro ed oggettivo. L’artista senza più una volontà individuale, definito anche Genio, è colui che riesce a rappresentare le idee del Cosmo in modo universalmente valido. L’uomo mediocre, di contro, percepisce il mondo in modo soggettivo e se crea opere d’arte si limita ad esprimere la propria opinione o a copiare quella altrui. Per quanto il genio schopenhaueriano possa essere brillante nel contemplare l’assoluto, se castrato del proprio spirito individuale, vitale e dionisiaco, esso perde ogni possibilità di farsi creatore di opere grandiose. Hans Sachs, nell’opera musicale "I maestri cantori di Norimberga" di Wagner, asserisce infatti “Proprio questa è l’opera del poeta: che egli interpreti e noti il suo sognare”.
 
Per approfondimenti:
_Nietzsche, La nascita della Tragedia - Edizioni piccola biblioteca Adelphi;
_Edmund Burke, Inchiesta sul Bello ed il Sublime - Edizioni Aesthetica Palermo, 2017;
_Immanuel Kant, Critica della capacità di giudizio - Edizioni BUR Biblioteca;
_Arthur Schopenhauer, "Il mondo come volontà e rappresentazione" - Edizioni Rizzoli.
 
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