La protagonista guarda l'osservatore, anzi, si volta per guardarlo, ma in un contesto in cui il suo volto non svela il suo mondo, anzi sembra nasconderlo. Dove guarda? Chi guarda? Soprattutto: guarda? È triste o pensierosa, sta ricordando un momento per lei felice o triste? Chi è l’altro? Come identificarlo? Per Levinas la questione non può trovare una risposta risolutiva: «L’altro non è “altro come il pane che mangio, come il paese che abito, come il paesaggio che contemplo, come , a volte, io stesso posso apparire ai miei occhi: è il desiderio di un paese nel quale non siamo mai nati. Di un paese straniero ad ogni natura, che non è stato la nostra patria e nel quale non ci trasferiremo». Per Lévinas l’altro rimane inconoscibile, in Totalità e infinito di fatto afferma che l'altro è «l’assolutamente altro». In questo modo entra in contrasto con la tradizione che da Parmenide in poi vede l’essere come totalità dentro la quale il singolo non trova spazio se non come parte anonima del tutto: «l’impersonale magmatico, il y a». «Nel concetto di totalità che domina la filosofia occidentale (…) gli individui sono ridotti ad essere i portatori di forze che li comandano a loro insaputa. Gli individui traggono da questa totalità “il loro senso”». Il tratto violento della filosofia consiste proprio nella negazione di ogni differenza dentro l’intero «che tutto avvolge»; con la violenza ci si vuole appropriare dell’altro, espellendolo o al limite assimilandolo. Fu a Berlino che si cercò questa assimilazione ma non da parte dell’Altro: furono autori come Franz Rosenzweig che maturarono la concezione speculativa centrata sulle potenzialità teoriche del pensiero ebraico, posto di fronte alla ineliminabile presenza della cultura cristiano-germanica: «il cuore del suo progetto filosofico finì per pulsare dentro quel nucleo problematico, legato alla possibilità di vivere e di pensare la coesistenza pacifica del proprio orizzonte religioso con la cultura tedesca». Sopravvissuto alla catastrofe dei campi di concentramento, Lévinas, in sintonia con l’orientamento di altri filosofi come Buber, Rosenzweig e Arendt, propone di ricominciare dall’inizio: la nuova soggettività si produce nell’incontro del volto, unica resistenza al pensiero totalitario. Lévinas, al riguardo, scrive in Totalità e infinito: «l’arrivo dell’altro è traumatico per l’Io abituato ad essere protetto dalla propria individualità, ma il volto irrompe malgrè moi come uno sconosciuto che bussa alla porta in un momento in cui siamo sicuri nella nostra dimensione, in un momento in cui tutto è fuori e niente può preoccuparci». Ma nonostante bussi alla mia porta ed entri nella mia casa egli non si lascia conoscere, mette subito davanti a noi il suo rifiuto di essere contenuto. Non vuole essere visto né toccato. La sua noumenicità, come un resto che impedisce di chiudere il cerchio, rompe la totalità, è traccia dell’infinito. Il volto è sempre straniero perché non ha una patria, è libero non si ha potere su di lui, è vicino ma lontanissimo, è dentro ma anche fuori e per questo è irraggiungibile. Quando chiede ospitalità, il giorno dopo corre via perché la sua verità è altrove, sempre lontana, “sotto altri cieli e lune”, come direbbe Nietzsche. Da sempre il volto rappresenta una grande attrattiva e seduzione per l’artista che cerca di catturarne i segreti, di catturarne l’assenza dentro contorni definiti. Amedeo Modigliani (1884-1920) descrive la stranierietà con una sorprendente corrispondenza alle idee levinassiane attraverso immagini che sfuggono, come un paradosso, all’atteggiamento totalizzante. Figlio di ebrei sefarditi, appassionato di arte classica ma anche di letteratura e filosofia, Modigliani si trasferisce giovanissimo nella Parigi Bohémienne del primo ‘900 tra gli artisti di Montmartre e Montparnasse. La sua iconografia è unica nel panorama artistico, autonoma dalle accademie, priva di allievi e di continuatori, distante anche dalle forme spigolose del contemporaneo cubismo. A Modigliani interessa il volto umano, si dedica al suo soggetto, affascinato particolarmente dal misterioso volto femminile. Nei suoi ritratti tutto è allungato, assottigliato come in una forma di elevazione. I suoi volti ricordano le Madonne del Trecento, si veda al riguardo l'opera di Simone Martini. Modigliani firma la sua arte con volti dagli occhi obliqui: come mandorle allungate, nere o colorate, quasi senza pupille. Nella febbrile necessità di dipingere volti, Modigliani si sottrae allo scandaglio di quegli occhi da sempre specchio dell’anima. Come se la sua onnipotenza di pittore si arrestasse alla soglia di un ermetico mondo intimo nel quale neppure l’arte ha il potere di entrare. Questi occhi senza trasparenza si pongono come uno iato che impedisce di completare la forma, di rappresentare il tutto.
IV. La politica e il volto — La relazione etica , a due, non è altro che una ipotetica condizione pre-politica che si occulta appena viene considerato il terzo, nell’orizzonte politico della socialità allargata in cui ciascuno è da sempre immerso, dove non si è solo al cospetto di Altri, ma tra gli altri. La molteplicità umana pone a Lévinas un serio problema: se l’Altro e il terzo sono entrambi il mio prossimo, che cosa hanno fatto l’uno per l’altro? Chi viene prima? Se la prossimità mi ordinasse solo ad altri nella sua solitudine, non ci sarebbe stato problema. La questione non sarebbe nata, né la coscienza , né la coscienza di sé. La responsabilità-per è una immediatezza anteriore alla questione, precisamente: prossimità. Essa è turbata e diviene problema a partire dall’entrata del terzo. Il terzo è altro dal prossimo, ma anche un altro prossimo, ma anche un prossimo dell’Altro e non semplicemente il suo simile. Che sono dunque l’altro e il terzo, l’uno per l’altro? Che cosa hanno fatto l’uno all’altro? Chi viene prima dell’altro? La presenza del terzo obbliga l’Altro a mettersi in discussione, a non pensarsi più come assoluto, la relazione diventa simmetrica per giudicare l’altro in confronto degli altri. Dentro l’istituzione, ciascuno uguale a tutti gli altri, secondo la Giustizia dello Stato, la Legge emerge prima di ogni cosa a determinare i rapporti, una legge impersonale ma necessaria, che traduce in comando generale il fondamentale imperativo “tu non ucciderai”. Si pensi a lʼHobbes del Leviatano, per il quale la giustizia statuale nasce per limitare la naturale ferinità che fa di ogni uomo un lupo per l’altro uomo, in opposizione a questa visione hobbesiana dello stato di natura, l'idea levinassiana deriverebbe, piuttosto, non da una originaria fraternità di esseri uguali che si fanno guerra per affermare la loro differenza, ma di esseri differenti che si eguagliano nella responsabilità per il volto. Quindi, in Lévinas vi sarebbe prima la primarietà dell’accoglienza che unisce sulla giustizia formale che divide; vi sarebbe un surplus etico nel sottosuolo da cui sorge la dimensione politica, che giace silente e dimenticato. Aver dimenticato quel fondo nel percorso della cultura occidentale ha significato, per Lévinas, aver finito per considerare la politica come «mera tecnica dell’equilibrio sociale che armonizza le forze antagoniste» secondo i metodi del logos oppositivo. Alla luce del quale, dalla grecità fino alla tarda modernità, “politica” ha conciso con stabilità, sedentarietà, unità, dentro uno spazio statuale delimitato da confini che stabiliscono la linea di demarcazione tra chi appartiene ad un ordine e chi vi è escluso. Nella pianificazione di quello spazio lo straniero è stato considerato il nemico dell’uniformità, colui da rimandare nei propri spazi, colui al quale non si vogliono concedere spazi propri, colui infine che non metterà mai in crisi i nostri confini che teniamo ben saldi con le nostre leggi fatte ad hoc. Perché bisogna riconoscere il volto dello straniero se questi rompe e interrompe la mia uniformità, se non mi fa più sentire sicuro nel mio spazio, se mi attacca nel momento in cui lo contrasto? Tutto ciò si è palesato nel disprezzo per il volto. Questo concetto trova una sintesi puntuale in una famoso passo letterario di 1984 di Orwell, OʼBrien, membro del partito di rivolge a Winston, il protagonista ormai prigioniero, dicendogli «Se vuoi un simbolo figurato del futuro, immagina uno stivale che calpesta un volto umano [...] ricordati che ciò sarà per sempre . Il volto umano si troverà sempre lì, in modo da poter essere calpestato. L’eretico che è il nemico della società, si troverà sempre lì, in modo da poter essere sconfitto e mortificato di nuovo». Per riassumere, Lévinas sostiene che la negazione della singolarità dell’uomo passa sempre attraverso il rifiuto di riconoscergli la dignità di volto.
Conclusioni — Oggi, nel panorama della mondializzazione, culture e linguaggi separati da secoli si incontrano e si scontrano; ciò che prima era separato e difficilmente raggiungibile oggi diviene ‒ per dirla alla Bauman ‒ «liquido». Nuovi e incontenibili esodi globali, fuori dal controllo, spontanei, contingenti, come un’onda investono i tradizionali sistemi geopolitici, indeboliscono l’effetto di demarcazione del confine, allargano l’orizzonte del politico dal limitato allo sconfinato. Coloro che Derrida definirebbe «figure dell’arrivante», cioè immigrati, clandestini, profughi in cerca di una vita migliore o semplicemente per scampare al dolore, alla fame, alla morte, creano uno spaesamento esistenziale prima che politico in chi è abituato al proprio luogo. Il loro incombere, ciascuno con il proprio vissuto, con la propria etnia, è evento, direbbe Lévinas, che frattura un mondo creato per durare, frattura l’integrità dell’individuo. Eppure, se nonostante tutto riuscissimo ad alzare lo sguardo sui loro VOLTI, potrebbero crearsi degli spazi nuovi senza barriere, spazi segnalati dal volto in quanto portatore di un diverso significato di confine, come ci hanno suggerito Lévinas e Modigliani. Un significato custodito da sempre alla radice del confine stesso che renda il senso di un margine relazionale tra terra e terra, tra uomo e uomo. Ripensare alla radice il confine a partire dal volto significa ricordare che «ogni confine ha due lati» (La stella della redenzione). In questo senso il volto non è occasione di violenza ma simbolo vivente della pace, di una pace originaria in cui le differenze convivono senza elidersi. Riconoscerlo come tale significherebbe rendere reale, come vorrebbe Lévinas, la possibilità di una autentica convivenza politica nella pluralità: «La pace non può identificarsi con la fine dei combattimenti, per la sconfitta degli uni e la vittoria degli altri, cioè con i cimiteri e gli imperi universali futuri. La pace deve essere la mia pace, in una relazione che parte da un io e va verso l’Altro». Ciò che è essenziale tenere in considerazione è che, per Lévinas, la pace non è semplicemente l’assenza della guerra, quindi la “quiete” a cui tradizionalmente si pensa. La pace, come tutti i termini fondamentali nel pensiero di Lévinas, è un movimento non afferrabile. Questa visione, oltre l’ovvia condanna della violenza espressa in termini di “sconfitta” e “vittoria”, nasconde un aspetto ancor più violento. Per Lévinas, la causa della violenza sotto tutti i suoi aspetti è la totalità, la riduzione dell’Io e dell’Altro alla medesima categoria. Nella guerra e nella violenza c’è il non-riconoscimento del volto d’Altri, la riduzione dell’altro essere umano a oggetto, frutto dell’egoismo. Eppure, come si è già accennato precedentemente, l’essere umano, nel commettere omicidio, vuole annullare ciò che si sottrae completamente al potere, e in questo tentativo conferma la trascendenza di ciò che vuole ridurre ad oggetto. Ma ciò che più conta nel pensiero levinassiano è la personalizzazione del concetto di “pace”, il quale, se espresso in maniera generica, rischia di non avverarsi mai: «la pace deve essere la mia pace, in una relazione che parte da un io e va verso l’Altro, nel desiderio e nella bontà in cui l’io contemporaneamente si mantiene ed esiste senza egoismo». Si ritrova, in un certo senso, lo stesso concetto che si era affrontato nel tema della responsabilità. L’Io non può permettersi di pensare a ciò che fa l’Altro, poiché questo è “affar suo”. Ogni soggetto, dunque, deve agire nella “sua pace”, senza tener conto di ciò che l’Altro può fare. E’ un movimento gratuito, come gratuita è stata l’elezione da parte del Bene, ed è proprio questo movimento gratuito verso Altri che caratterizza l’uscita dalla totalità, dalla filosofia del potere. Precisa Lévinas: «L’unicità dell’unico è l’unicità dell’amato. L’unicità dell’unico significa nell’amore. Da qui la pace come amore. […] Il soggettivo come tale sarebbe precisamente l’apertura […] verso l’unico, verso l’assolutamente altro, attraverso l’amore, la prossimità umana e la pace». Questa è una delle poche affermazioni di Lévinas nelle quali si parla di “amore”, e non è un caso che sia la pace il tema argomentato. L’amore ci riporta alla persona, dunque il concetto si ripete: non si può parlare di pace se non partendo dal singolo soggetto. La responsabilità dell’Io di fronte al volto d’Altri è l’essenza della pace: «Il volto dell’altro nella sua precarietà e nel suo senza-difesa, è per me al contempo la tentazione di uccidere e l’appello alla pace, il “Tu non ucciderai”. […] La prossimità del prossimo […] è la responsabilità dell’io per un altro, l’impossibilità di lasciarlo solo di fronte al mistero della morte. Che è, concretamente, la capacità di morire per l’altro. La pace con altri giunge fino a questo punto. E’ tutta la gravità dell’amore del prossimo, dell’amore senza concupiscenza». In questa citazione sono presenti tutti i temi fondamentali del pensiero levinasiano, accomunati dalla pace. Il vertice della pace è la capacità di morire per l’Altro, un amore senza eros, gratuito, senza godimento ed egoismo. Anche per quanto riguarda il concetto di “pace”, dunque, Lévinas è riuscito impeccabilmente nel non rinunciare alla persona, nel non estendere un termine così comune (e spesso inopportunamente pronunciato) ad un “genere umano”, ma sempre e solo al soggetto in quanto unico, sottoposto al comandamento insito nell’alterità. In riferimento a questo comandamento Lévinas utilizza l’espressione “deve essere” riferendosi alla pace. La pace è “come un dovere”.
Per approfondimenti:
Non tutte le culture sono in ugual misura aperte al Trascendente e ad accogliere la rivelazione cristiana. Allo stesso modo, tutte le espressioni del bello – o di ciò che ritiene di esserlo – sono lungi dal favorire l’accoglienza del messaggio di Cristo e l’intuizione della sua divina bellezza. Le culture, come le espressioni artistiche e le manifestazioni estetiche, sono segnate dal peccato e possono attirare, perfino catturare l’attenzione fino a farla ripiegare su se stessa suscitando nuove forme di idolatria. Non siamo troppo spesso messi di fronte a fenomeni di vera decadenza in cui l’arte e la cultura si snaturano fino a ferire l’uomo nella sua dignità? Il bello non può essere ridotto ad un semplice piacere dei sensi: sarebbe rifiutarsi di avere piena coscienza della sua universalità, del suo valore supremo, altamente trascendente. La sua percezione richiede un’educazione, poiché la bellezza non è autentica se non nel suo rapporto con la verità – d’altronde, di che cosa sarebbe lo splendore, se non della verità? – ed essa è, al tempo stesso, «l’espressione visibile del bene, come il bene è la condizione metafisica della bellezza» – «il bello non è forse la strada più sicura per raggiungere il bene»? A chiederlo a se stesso fu Max Jacob (1876 - 1944). Ampiamente accessibile a tutti, la via della bellezza non è, tuttavia, priva di ambiguità e di deviazioni. Sempre dipendente dalla soggettività umana, essa può essere ridotta ad un estetismo effimero, lasciarsi strumentalizzare ed asservire dalle mode attraenti della società dei consumi. Da ciò nasce l’urgente missione di educare a discernere tra “uti” e “frui”, cioè tra un rapporto con le cose e le persone fondato unicamente sulla funzionalità – uti -, e la relazione credibile e affidabile – frui -, radicata coraggiosamente sulla bellezza della gratuità, memori di quanto scrive Agostino nel suo De catechizandis rudibus: Nulla est enim maior ad amorem invitatio quam praevenire amando – non c’è invito più grande all’amore che precedere amando.