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di Federico Nicolaci del 28/08/2016

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Non è facile rispondere a una domanda che chiede cosa sia l’essenza dell’uomo. Dobbiamo anzitutto cercare di capire che non è possibile pensare uomo ed essere come due cose separate, da una parte l’essere come una specie di oggetto, dall’altra l’uomo come qualcosa di isolato, come un essere animato a sé stante. È il loro essere insieme, il loro essere consegnati l’uno all'altro nel modo più radicale ad essere fondamentale per intravvedere l’essenza dell’uomo nell’essere in relazione. Ad esempio, l’uomo è aperto all’altro nel dialogo, ma solo perché è originariamente aperto a quell’Altro da sé che è il divino, e cioè solo perché egli stesso è essenzialmente dialogo.
[caption id="attachment_14629" align="aligncenter" width="1000"] Lawrence Alma-Tadema, Under the Roof of Blue Ionian Weather (1903)[/caption]
Chiedi cosa sia il divino. Il divino è tutto ciò che ti circonda, è tutto ciò che è già davanti a te, che ti precede e ti sorprende. L’uomo è certamente quell’ente che è aperto all’ente nel suo insieme: ma come è possibile questa apertura dell’uomo al mondo? Per mondo s’intende qui non la terra o un pianeta, ma la Physis (Φύσις), la natura: ciò che sorge da sé, ciò che è l’eterno sorgere, il divenire da sé: ciò che mai tramonta. Non è un caso che la radice di physis risuoni in fui e futurum: ciò che era e ciò che sarà. Il movimento della Physis è lo stesso movimento in cui consiste il dispiegarsi dell’Assoluto, del Principio, in greco dell’Arché. E cos’è il Principio? Un abisso, proprio perché ciò che sempre era e sempre sarà (Physis). Un abisso che si lascia intuire, si lascia ‘vedere’ senza tuttavia lasciarsi mai comprendere, rinchiudere nel nostro concepire, nel nostro concetto: si lascia ‘vedere’ perché appunto in questo momento noi lo stiamo pensando, è obiectum mentis. Ma non si lascia mai de-finire, cioè racchiudere in un concetto che lo esaurisca. Possiamo dire qualcosa di più? Forse sì: Arché è Principio non solo e non tanto nel senso cronologico di ciò che sta all’inizio, come per esempio nella parola “archeologia”: lo studio di ciò che è prima, di ciò che è remoto. L’Arché è il Principio nel senso, ben più radicale, di ciò che comanda, di ciò che domina: l’arché era infatti anche il generale, il capo dell’esercito. Quando infatti diciamo “anarchia” facciamo riferimento all’assenza di potere, poiché manca l’Archè, nel senso di ciò che comanda, domina, di ciò che è principio perché sovrintende in senso essenziale allo sviluppo di tutto ciò che si sviluppa.
Il punto decisivo, la vera maturazione di un giovane uomo, sta nell’arrivare a comprendere come tutto non sia che un unico sviluppo, come tutto sia uno. Platone ed altri filosofi parlavano dell’uno (non a caso dell’uno, e non del duo o del tre) perché avevano capito che tutto ciò che è, è Uno (uni-verso!): per capirci, qualsiasi scoperta in campo astronomico, vuoi anche la scoperta di un universo parallelo, non sconvolgerebbe nulla, l’universo rimane uno, poiché si tratterebbe semplicemente di un’altra dimensione in un unico universo. Dall’Uno, dall’unità del tutto, non si esce, perché l’altro è altro solo in quanto, in realtà, non è affatto altro dall’Uno, ma è solo un altro uno – e cioè voce, espressione dell’Uno a cui appartiene.
In un senso più profondo, che tutto sia Uno significa che anche noi siamo parte di questo Uno. Anzitutto, noi siamo interni a questo sviluppo: non siamo stati infatti calati nel mondo come un attore sul palcoscenico, come invece una certa interpretazione del Cristianesimo (fondata su una certa interpretazione dell’ebraismo) ha portato a pensare. Così la cosa sembrerebbe prefigurare un rapporto a tre: ci sarebbe Dio, l’uomo e poi natura. È l’idea che prima ci sarebbe Dio che crea la natura e successivamente l’uomo, che viene calato nel Giardino. È in fondo l’idea da cui anche noi oggi spesso prendiamo le mosse: l’idea per cui da una parte c’è l’uomo e dall’altra c’è la natura. Invece non è così! L’uomo non è altro dalla natura, nel senso che non è altro che una espressione, una manifestazione sublime e straordinaria (“deinotaton”, terribile e meravigliosa) della natura. Come diceva Sofocle nella tragedia Antigone: “molto vi è di inquietante, nulla tuttavia si erge più inquietante dell’uomo”.
Ma cosa significa che siamo espressione della Physis, e perché ciò sarebbe in qualche modo inquietante? Perché a rendersi conto, a vedere che in realtà siamo parte ed espressione della natura è proprio quell’ente (l’uomo) che è una fioritura della natura: l’abisso che così si apre è inquietante perché misterioso. Senza dubbio la natura ha in sé il logos (la parola e la coscienza) come sua determinazione più alta e qui entrano in gioco problemi enormi. Arrivati al momento di intuire di essere parte di un’unica cosa (di un unico Essere Vivente che l’uomo ha variamente indicato come Uno, Physis, Dio etc.), è come se il Principio, la “natura” entrasse in rapporto con sé.
Se l’uomo è Physis ed è al contempo aperto sulla Physis, significa che questa si apre su se stessa, che la natura vede se stessa, il proprio abisso: ma ciò significa che l’assoluto si è dovuto scindere in sé, si è ritmato in sé, si è mediato. Che cosa ne discende? L’assoluto si mostra in questo modo non come qualcosa di immediato, ma come qualcosa che è andato oltre la propria muta immediatezza, si è mediato in sé ‘creando’ in sé un altro da sé – l’uomo - in cui si specchia e si sa. Ovvero l’assoluto è autocoscienza, ha coscienza di sé, diventa consapevole di sé. L’uomo, che lo sappia o no, in quanto è essenzialmente aperto al mondo (alla dimensione che ci sovrasta, ci domina e alla quale siamo consegnati) è momento essenziale dell’autocoscienza dell’assoluto (dell’Uno).
In qualsiasi istante della nostra esistenza, in qualsiasi luogo, noi e-sistiamo: siamo aperti al mondo. Tutti gli uomini hanno una distanza tra sé e il mondo (infatti ci sentiamo “altro” dal mondo), sentiamo uno scarto tra la natura e ciò ci è dato dalla riflessione: l’animale vede, si muove, corre dietro gli istinti; l’uomo, invece, sa di sentire, vede il suo vedere, sente il tuo sentire e questa è la coscienza; ed è questo che produce il distacco. Ma questo distacco deve essere anche sanato, deve essere riportato sotto l’abbraccio infinito dell’Uno, a cui la coscienza dell’uomo appartiene. L’uomo sa che esiste e ha davanti a sé l’oggetto che sta vedendo entrando in relazione con esso, l’animale no. Ma l’oggetto che gli appare fuori come altro da sé deve essere compreso in modo più profondo.
Infatti la coscienza di sentire e vedere è la coscienza naturale, quella che tutti abbiamo senza sforzo, perché è immediata: ma questa autocoscienza non è il punto più alto a cui può giungere l’autocoscienza dell’umano. Stiamo parlano di un’autocoscienza più alta a cui dobbiamo pervenire, che non è il sapere finalmente tutto su noi stessi, è bene chiarirlo subito! Per quanti sforzi infatti noi facciamo e per quanto cerchiamo di conoscere noi stessi, siamo destinare a rimanere un abisso per noi stessi, così come abisso rimane per noi l’altro, perfino la persona amata, che pure crediamo illusoriamente di conoscere molto bene: ma anche la persona amata, per fortuna, è sempre incatturabile, la sua anima non si lascia mai definire ed esaurire nel nostro conoscerla. D’altronde, solo perché l’uomo è abisso (“mai troverai i confini dell’anima”, diceva Eraclito), solo per questo non è mai riducibile a cosa. Possiamo anzi dire che solo perché siamo abisso possiamo davvero dire di essere “a immagine di Dio”: come Dio, anche noi non siamo riducibili a un oggetto determinato e quindi comprensibile. Come non possiamo comprendere (prendere-con) il divino, così non possiamo mai ridurre l’altra persona in nostro potere: ciò che possiamo comprendere è infatti ciò che dominiamo, ciò che per il fatto stesso di esaurire nel nostro sapere riduciamo in nostro potere: comprendere in tedesco si dice Verstehen non a caso, perché comprendere è distruggere lo stare (stehen) autonomo di ciò che ci sta davanti (il prefisso ver porta al limite estremo - all’estremo possibile, l’im-possibile - l’azione, in questo caso lo stare). Ciò che ho tutto risolto nel mio sapere, l’ho anche in pugno.
Chiarito questo, l’autocoscienza “vera” a cui l’uomo è chiamato ad avvicinarsi è una consapevolezza ben diversa dalla prima (naturale) citata sopra. Poiché io posso benissimo – come sempre avviene - vedere di vedere, essere cosciente di sentire etc., e ciononostante non aver affatto raggiunto l’autocoscienza umana, anzi vivere nella forma dell’isolamento e della solitudine: vivere cioè le forme astratte dell’autocoscienza, nelle quali l’uomo non è arrivato alla suprema autocoscienza di sé in quanto, in termini teologici, “figlio di Dio”. Quando in teologia ascoltiamo la formula “figlio di Dio”, a cosa pensiamo?
Il linguaggio metaforico deve essere scavato, disseppellito dalla sabbia che l’ha coperto e ritornare all’idea originale, alla sorgente vivente spirituale da cui quelle parole sono scaturite. Allora la sorgente spirituale di questa idea si rivela la stessa indicata dai greci: “l’uomo è un fiore della natura” di cui è parte, di cui è momento, ma soprattutto “di cui è momento essenziale” perché è il momento in cui la natura vede se stessa.
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Da un punto di vista speculativo, come dicevamo, la Physis si rivela immediatamente non come un “uno” chiuso in sé: il Principio non è un unum-assoluto, come pensa invece l’Islam, ed ecco perché il cristianesimo diventa essenziale per comprendere tutta la nostra cultura. Non si può pensare l’assoluto come un qualcosa di “chiuso in sé” come un “totalmente altro” perché se così fosse innanzi tutto non se ne potrebbe parlare: come si può parlare di qualcosa che è veramente assoluto, cioè senza alcuna mediazione? Non è vero che è assoluto, se già se ne parla. Si è già assolto dalla sua assolutezza. Ma cosa significa ab-solvere l’Uno dall’immediatezza? Significa che l’Uno si fa molteplice e il Cristianesimo (in questo senso) è superiore all’Islam. Non è un caso che Hegel parlasse del Cristianesimo come la religione assoluta, ma su questo tema c’è poco da discutere. Bisogna, invece, pensare a come questa unità sia qualcosa che è scissa in sé: cioè si è mediata, ha creato in sé la coscienza di sé. Se non avesse adempito a questo compito non si potrebbe parlare di assoluto: l’assoluto senza l’autocoscienza non è pensabile. Come potrebbe esserci l’assoluto se non ci fosse nessun punto di vista che lo testimoniasse, che lo “vedesse”? Non sarebbe l’assoluto. Io sono questo punto di vista aperto dall’assoluto sull’assoluto stesso, sono l’essersi totalmente donato dell’assoluto. Per questo poi l’assoluto non è qualcosa che si lasci totalmente comprendere da me: io sono infatti colui che ha ricevuto il dono, non colui che l’ha fatto. Se sono compreso da questa Physis che mi abbraccia, come potrei comprendere ciò da cui io stesso sono compreso? Comprendere è l’idea che io possa stringere in abbraccio (l’assoluto), ma ciò è impossibile: l’assoluto è ciò da cui io stesso sono abbracciato. Tutti i tentativi di riportare al centro la soggettività, spacciandosi per rivoluzionari, dimenticano proprio questo: dimenticano questa relazione in nome della quale non è affatto vero che il soggetto, cioè la coscienza, è il fondamento ultimo dell’essere. Che sia così (che l’uomo sia il fondamento) è certamente falso nella misura in cui tale idea viene assolutizzata, perché per certi versi è anche vero che l’uomo è colui che porta alla presenza l’essere. Ma ciò non può essere vero nel senso per cui l’io sarebbe fondamento ultimo del reale, dal momento che questa stessa coscienza, che in effetti è il fondamento del presentarsi dell’ente, è essa stessa dono che proviene dal Principio, è già espressione della Physis. Qui dovremmo fare un cenno a Kant.
La “Critica della Ragion Pura” di Kant è un momento di svolta: un grande momento di autoriflessione, che però è come camminare lungo un pauroso crinale, dove se si sbaglia a mettere il piede di un solo millimetro si può cadere nel burrone dell’errore: il senso della critica era la famosa rivoluzione copernicana di Kant: attenzione, non esiste l’uomo qui e poi la natura fuori, esiste piuttosto la coscienza e le forme a priori con cui io schematizzo la natura. In precedenza, invece, vi era il mondo e l’uomo che si adeguava ad esso, il famoso rispecchiamento della natura.
Kant prende le distanze da questa linea perché non esiste una divisione fra le parti, è tutto per così dire dal lato della coscienza: la natura non è altro che il prodotto delle mie forme a priori (spazio, tempo, che sono le forme a priori della sensibilità, e le categorie con cui io predico – cioè dico e percepisco - l’ente). Se si osserva un paesaggio, questo non esiste indipendentemente dalla mia “mente”, dalle mie facoltà schematizzanti, ma è nella coscienza il fondamento del suo apparire. Oggi uno scienziato direbbe più o meno lo stesso osservando che i colori sono creati dai “neuroni” dell’uomo e quindi non esiste qualcosa fuori dalla mente: la natura come prodotto delle forme a priori dell’uomo.
Dunque, se la coscienza è il fondamento della natura (dove questa non esiste se non attraverso la coscienza che la schematizza e la rende formalmente visibile), allora l’uomo è il fondamento del reale. Peccato che la questione insoluta e insolubile di Kant fosse come queste forme a priori, con cui l’uomo crede di aver liquidato la questione della natura, siano esse stesse un prodotto della natura. Kant aveva presente che c’era questo abisso: di questa dimensione non ha voluto parlare fino in fondo, perché Kant era più interessato a indicare i limiti del conoscere, ma così facendo questo abisso l’ha indicato in più luoghi della sua opera, soprattutto attraverso l’evocativa e celeberrima espressione della “cosa in sé”. Cos’è la “cosa in sé”? I manuali alla buona di filosofia spiegano: la cosa prima dell’attività schematizzante della mente, la cosa prima di venire fenomenizzata. È una definizione fuorviante e superficiale, che fa perdere di vista la questione fondamentale, una banalizzazione che alimenta la disputa da bar tra nuovi realisti e nuovi idealisti: entrambi non colgono i termini della questione. In realtà Kant, con l’idea di “cosa in sé” voleva indicare come ciò che noi possiamo conoscere sia solo ciò che appare (i fenomeni, appunto): ma i fenomeni stessi fanno segno a qualcosa che pur apparendo in essi e grazie ad essi non si lascia comunque mai esaurire nel e dal fenomenico. Pensiamo a ciò abbiamo davanti, al manifestarsi di ciò che chiamiamo natura: essa appare sempre, ora in questo fiore, ora in questo frutto, ora come giorno, ora come notte. Ma la natura, che in questo momento si manifesta ‘perfettamente’ davanti a noi, al contempo si nasconde e si cela, e proprio mentre si manifesta: quando si mostra come frutto, ad esempio, si assenta come fiore, e quando si mostra come notte si assenta come giorno, senza con ciò venire mai meno a se stessa. Si manifesta perfettamente, ma non si lascia mai esaurire nell’ente che appare (nel fenomeno).
Ciò che si nasconde nell’atto stesso di manifestarsi è precisamente la “cosa in sé”: la cosa in sé non la puoi conoscere non perché sei limitato o non hai capito che l’oggetto è sempre oggetto per un soggetto, ma perché la cosa in sé è l’ombra che appare là dove appare l’oggetto che tieni nella coscienza. La cosa in sé è cioè il fenomeno stesso, non qualcosa prima o sotto il fenomeno. È proprio l’oggetto che hai davanti, che tieni nella tua coscienza e credi di aver compreso (nel senso letterale di essere tu, soggetto, il fondamento del suo apparire) a sfuggirti di mano: l’oggetto non si esaurisce nel tuo possederlo, nel tuo essere condizione del suo apparire. Il tuo tenere ora quell’oggetto specifico nella tua coscienza (questo suono, questa luce) non esaurisce “l’oggettità” dell’oggetto, non esaurisce l’essenza dell’oggetto, che è con tutta evidenza irriducibile a ciò che di volta in volta appare attraverso la tua coscienza: e infatti l’oggetto che tieni lo perdi subito. Non è un caso che i “nuovi idealisti” non sappiano fare altro che limitarsi a ripetere in indefinitum la tautologia con cui credono di aver svelato l’arcano: l’oggetto (ma di quale oggetto parlano? Non esiste infatti l’oggetto in generale, esiste la sensazione di questo tavolo, il suono di questa campana, il ricordo di questo profumo) è sempre il risultato del porre di un soggetto, un prodotto della coscienza! Tutto chiaro? Assolutamente no. È strano infatti che questa tautologia, trionfalmente sventolata come la Formula definitiva della Verità, non dica poi nulla del perché al soggetto l’oggetto sfugga sempre dalla coscienza, nell’attimo stesso in cui lo possiede: il soggetto non riesce a tenersi l’oggetto, evidentemente perché l’essenza dell’oggetto non è quella di essere proprietà del soggetto, a cui quindi non appartiene nel senso del pieno possesso. D’altronde un bene che è in mio pieno possesso posso decidere se tenerlo o darlo via, mentre non sembra che sia così con gli “oggetti” della coscienza. La stessa coscienza non è un bene che mi appartiene, non me la sono data io, e d’altronde con il morire la perdo. Ma se anche stessimo sul piano dell’avere ora nella coscienza, devo riconoscere che mentre posseggo l’oggetto come frutto, mi è gia sfuggito come fiore. L’oggetto non lo posseggo mai, anche se io sono momento essenziale del suo essere presente ed apparire. Vi è qui il principio, l’indicazione di una relazione essenziale, che ogni soggettivismo ingenuo e triviale cancella d’un colpo.
Kant era perfettamente consapevole di questa relazione, tutta problematica e da pensare, relazione che si annuncia già nel fatto che io posso schematizzare il dato empirico, ed essere effettivamente condizione dell’apparire dell’ente, solo perché sono affetto da una datità che non sono io a darmi, ma che al contrario ricevo. Ed è chiaro che ciò che ricevo non mi appartiene: mi è dato, e così pure tolto.
Ma questa impostazione di Kant è stata tradita dalla traduzione che della sua filosofia avrebbe fatto l’idealismo di Fichte, che asseriva come non ci fosse alcuna “cosa in sé”, ma solo l’Io: è il momento in cui l’uomo capisce che c’è una relazione, nell’Uno, dell’Uno con sé, ma poi pensa di potersi collocare dal punto di vista dell’Uno, come se fosse lui a scindersi, e non l’Uno: è il tentativo impossibile e perfino ridicolo dell’uomo di porsi nel punto di vista dell’Inzio. Così Fichte, figlio di contadini, finisce per pensare, ridicolizzandola, la cosa in sé come un ente separato dalle forme a priori (un oggetto separato dal soggetto): ma questo è impossibile, dunque nulla esiste fuori dell’Io. Ma così ha ridotto l’essere a un ente, e di questo ha ribadito il suo essere solo un fenomeno, cioè un prodotto dell’Io. Perché certo non c’è oggetto che non sia senza un soggetto, senza una coscienza. Ma Kant non voleva dire questo quando pensava alla cosa in sé, ma qualcosa di più raffinato: l’assoluto è un “oggetto” che nessun soggetto può catturare nel “fenomeno”, anche se si manifesta in ogni fenomeno. Questo il paradosso!
[caption id="" align="aligncenter" width="1000"] Caspar David Friedrich Wanderer, Il viandante sul mare di nebbia - 1818[/caption]

Non è vero, sta dicendo Kant, che tutto è nella mia coscienza ed è riducibile alla mia coscienza, che l’oggetto si risolve completamente nel suo essere oggetto-per-un-soggetto. Shakespeare giustamente canzonava questa ingenua credenza dei filosofi di poter comprendere e possedere tutta la realtà, ricordando al borioso di turno che ci sono molte più cose in cielo e in terra di quanto la sua filosofia possa sognare!

Ma superata questa dialettica tra l’oggetto e il soggetto nel senso di un definitivo risolvimento di ogni esitazione presente invece in Kant (punto di svolta della modernità), possiamo capire cos’è l’idealismo e la contemporaneità.
Detto questo, torniamo ora all’uno che non possiamo comprendere ma solo immaginare, intuire: a questa Physis che si auto-ritma in sé, si auto scinde: un uno che non può quindi essere assoluto, come crede invece l’Islam, perché l’uno si auto-media in sé, crea in sé un altro da sé, che è l’uomo, cioe è il logos. Nel Cristianesimo è Dio che si è mediato (si è fatto uomo), l’uno cioè si scinde, è in sé molteplice.
Noi siamo la relazione aperta, dall’uno, nell’uno, siamo un momento di Dio. Ecco perché il Dio cristiano è uno e trino. Il divino ripiega su di sé, cioè è aperto a se stesso e instaura questa relazione bellissima, perché l’uomo, anche quando non ne è pienamente cosciente, è in relazione costante con il divino a cui appartiene, e per questo dipinge, costruisce chiese e templi, scrive poesie etc. L’animale, che non ha la parola, non è aperto in questo modo al divino (è “povero di mondo”, diceva Heidegger), non ha autocoscienza: non vede di vedere, non sente di sentire, sente, vede e vive nell’immediato, è una coincidenza immediata con la natura. È l’essere in atto della Physis. Noi siamo qualcosa di più, anche se siamo da cima a fondo “naturali” (i processi di digestione corporea, per esempio, o tutti questi processi interni, avvengono indipendentemente e prima di ogni nostra coscienza: non dominiamo neanche quelli, figuriamoci la realtà!).
Ecco perché si parla del Dio uno e trino: Dio non è solo Padre, chiuso in sé, ma è un Dio che crea l’altro da sé, il Figlio: l’uomo, a cui dona lo Spirito, che è la relazione fra il Padre e il Figlio. Lo spirito è la parola. L’uomo è aperto al divino, che gli è davanti e può essere aperto al mondo, solo perché dotato di parola. Ma cosa è la parola (logos)? È quel raccogliere (legein) che porta alla presenza ciò che già è presente davanti. È davvero un raccogliere: un collaborare con l’essere, quasi come se l’assoluto avesse bisogno di noi per essere per sé. Ad esempio se si percorre un sentiero lungo e in salita, l’uomo inizia a pensare che questo sentiero è lungo! Dunque dicendo “il sentiero è lungo” raccoglie e porta alla presenza ciò che è già presente davanti (il sentiero).
In conclusione, si giunge sulla soglia di un abisso, che è terribile e meraviglioso allo stesso tempo: perché nel momento in cui io prendo consapevolezza del mio essere aperto, del mio essere trascendente, cioè rivolto costantemente verso l’ente nella sua totalità, di essere l’essere in atto del dispiegarsi del divino, tutto il nostro mondo dovrebbe modificarsi, poiché ci si rende conto che tutti i discorsi sulla morte di Dio, i discorsi sulla fine degli assoluti, sulla fine delle verità… sono solo parole, perché non hanno compreso neanche qual è il punto: non esiste un uomo potente che ci bacchetta, ci punisce, che ci premia.
Non è affatto di questo, invece, di cui si deve parlare, ma del nostro essere costantemente aperti ad una dimensione che è il divino, che non è una dimensione che abbiamo fatto noi, anzi è una dimensione di cui facciamo parte e alla cui relazione noi siamo stati consegnati: ci è stato donato, perché questo essere aperti è anche un prendersi cura. L’uomo in quanto con la parola porta alla luce l’ente, è anche colui a cui l’ente viene affidato. D’altronde a livello empirico noi vediamo come sia l’uomo a dominare il mondo, ma in senso più profondo questo mondo è letteralmente donato e dato in mano all’uomo. L’uomo è quell’ente a cui l’essere si è consegnato per poter essere cosciente di sé.

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di  Francesco Di Turi del 04/08/2016

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Cosa significa fare i conti con la crisi del Soggetto? Cosa significa «crisi del Soggetto» nel senso di dissoluzione della metafisica in quanto decentramento e smottamento del punto di appoggio fondamentale, del fondamento sul quale e intorno al quale è venuto a costituirsi il «discorso filosofico della modernità»? Quando la struttura stessa di ogni categorizzazione a partire dal principio inconcusso che, per strati archeologici, appare sotto le vesti di Idea o di energheia al culmine greco della filosofia, di Summum bonum, Summum ens teologico, quindi di Soggetto rappresentante al principio della modernità, di Sostanza, Causa Sui in Spinoza? Passando per l’Io penso di Kant; o ancora in forma di Spirito come Soggetto Assoluto in Hegel fino alla sua estrema propaggine, vale a dire nella forma della Volontà di Potenza in Nietzsche?
A partire dalle radici greche del fenomeno si fa risalire la nascita del Soggettomoderno a Cartesio. Il Soggetto, a partire da Cartesio e via via fino alla sua dissoluzione nietzscheana è il luogo in cui l’autocomprensione dell’uomo moderno si riduce innalzandosi fino alla persuasione di poter assoggettare a sé tutto il conoscibile, tutto il reale, tutta la verità.

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di Francesco di Turi del 03-08-2016

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Cominciamo in via provvisoria con il localizzare il nichilismo nella storicità europea attraverso due nodi interni ad esso che determinano le sue tre direttrici di senso storiche.
Che cos’è «nichilismo»? Nichilismo è l’erosione del senso, l’impossibilità dello stesso domandarsi il «perché» delle cose. L’inutilità e l’illusione che la domanda sussista. Nichilismo non è semplicemente il fatto, già di per sé stesso inquietante, della mancanza di una possibile risposta al «perché» ma, più radicalmente, è la stessa insensatezza della domanda, la sua interna natura dialettica. Questa è un’accezione precisa di nichilismo e pur tuttavia non l’unica; più precisamente essa è la forma che il nichilismo europeo assume solo con Nietzsche e dopo Nietzsche ma non necessariamente in Nietzsche, è il luogo in cui il nichilismo precipita in se stesso facendosi assoluto nel senso rigoroso della nozione. La condizione della possibilità di un simile precipitare assoluto del nichilismo ha nome Immanuel Kant.

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di Francesco Di Turi del 02/08/2016

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Tutti i movimenti della storia compreso quello in corso, e a maggior ragione le soglie che discriminano le epoche storiche, sono eventi che agiscono sulle strutture psichiche consce e subconsce dell’individuo e delle comunità a cui esso appartiene. Il riflusso storico attuale che caratterizza pressoché tutte le culture globali e che proviene da differenti situazioni storiche analogiche passate e dissolte, determina un rifluire, un riemergere carsico anche delle condizioni psichiche consce e subconsce delle situazioni storiche che ritornano.

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di Francesco Di Turi del 01/08/2016

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Diceva Hegel che l’ovvio, proprio perché tale, resta sempre non conosciuto poiché assunto come mero dato senza pensarlo. Se nelle cose della filosofia quasi sempre ciò che è ovvio è anche fragwürdig, ossia «degno di essere domandato»; nei suoiarcana, questo stesso ovvio diventa das Fragwürdigste, «la cosa fra tutte che è più degna di domanda». E cosa c’è di più ovvio sul piano storico di affermare che l’uscita da un conflitto qual è stato la Seconda Guerra Mondiale sia stata un’uscita con conseguenze profonde per tutta l’Europa e non certo solo per la Germania? Quindi, proprio perché cosa ovvia e proprio perché prendiamo sul serio Hegel, c’è da chiedersi se siamo davvero sicuri di aver già meditato a sufficienza cosa è stato per l’Europa lo scontro tra le tre ideologie più potenti della storia: il liberalismo-democratico, il comunismo e il fascismo-nazionalsocialismo. Tre ideologie legate a doppio filo al senso stesso della filosofia occidentale la quale si pone nei loro confronti come madre.

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di Danilo Serra del 15/07/2016

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Il “progetto antropologico elementare” su cui ha lavorato Arnold Gehlen fin dal 1935 vuole riflettere non solo sulle differenze biologico/adattive che intercorrono tra l’uomo e l’animale ma, a partire da esse, condurci verso ciò che identifica la specie umana e che dona forma al suo abitare il mondo. Il tema dell’azione umana sul mondo naturale diviene così la chiave di volta per comprendere il compito dell’uomo ed il suo esserci.
Der Mensch , pubblicato nel 1940, è stato il testo su cui Gehlen ha fondato la propria antropologia filosofica, interpretando l’uomo come “progetto particolare” della natura. Egli rappresenta un “essere manchevole” (Mängelwesen), carente sotto l’aspetto morfologico di organi specializzati propri della specie e monco di quegli istinti naturali presenti invece in tutti gli altri animali. La naturale carenza umana, tesi già sviluppata dall’antropologia di Johann Gottfried Herder , spinge l’uomo a ricercare nuove alternative che possano consentirgli di reagire in modo sempre diverso e adeguato alle situazioni circostanti. Gehlen, definendo l’uomo come “progetto complessivo della natura”, tende a designare un essere unico nel suo genere, occupante un posto particolare nel mondo, diverso da tutti gli altri viventi, in grado di adattarsi ovunque e, per tale ragione, riprendendo Max Scheler, “aperto al mondo” (Weltoffen).

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di Danilo Serra del 11/07/2016

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Il concetto di “apertura al mondo” è un concetto derivato dal pensiero di Max Scheler, il quale, in un’opera conosciuta in italiano con il titolo La posizione dell’uomo nel cosmo, risponde alla domanda riguardante l’essere dell’uomo (Che cos’è l’uomo?) affermando: [egli è] «un essere spirituale non più legato alla tendenza e all’ambiente, ne è libero, e perciò aperto al mondo» .

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di Danilo Serra del 07/07/2016

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Nelle prime pagine della Lettera sull’«umanismo», Heidegger affronta la questione relativa al compito del pensiero, un compito che risiede nel portare a compimento «il riferimento (Bezug) dell’essere all’essenza dell’uomo» . Questa tensione del “portare a compimento” non indica un produrre o un generare. Il pensiero non produce e non genera nulla. Il pensiero porta piuttosto a compimento: «Portare a compimento significa: dispiegare qualcosa nella pienezza della sua essenza, condurre-fuori a questa pienezza, producere» . Dunque, seguendo questo significato, solo ciò che già è, può essere dispiegato e portato a compimento: «Ma ciò che prima di tutto “è” è l’essere» . Il portare a compimento indica allora un far “av-venire”, un portare alla luce e al linguaggio ciò che già è, ciò che è da pensare. Il pensiero offre il riferimento (Bezug), porta a compimento la manifestatività dell’essere. Nel pensiero, scrive Heidegger, «l’essere perviene al linguaggio» , ossia a quel linguaggio che è la casa dell’essere nella cui dimora abita l’uomo e che ha nei pensatori e nei poeti i suoi autentici custodi. Essi, infatti, portano, più di ogni altro, a compimento la manifestatività dell’essere e, «mediante il loro dire, la conducono al linguaggio e nel linguaggio la custodiscono» . Il pensiero, in quanto porta a compimento, agisce. E lo fa in maniera particolare, ossia rammemorando, ringraziando e custodendo.

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di Danilo Serra del 05/07/2016

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Un tempo camminava per le vie di Alessandria d’Egitto una donna che, con grande franchezza e coscienza critica, si rivolgeva faccia a faccia ai potenti della città, mostrando loro tutta la sua eleganza e potenza retorica. Tra il IV e il V secolo dopo Cristo, in un’epoca chiamata ad annunciare la fatale caduta dell’Impero Romano d’Occidente, ha vissuto una delle menti più sagge ed affascinanti dell’intera storia dell’umanità. Il suo nome divenne ben presto una leggenda, un mito, un’icona mondiale della libertà di pensiero e conoscenza: Ὑπατία, Ipazia.

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di Danilo Serra del 03/07/2016

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Tra le questioni fondamentali che emergono nel corso della lettura del Trattato decisivo sull’accordo della religione con la filosofia (Fasl al-maqāl fi-mā bayna al-hikma wa al-šarī‘a min al-ittisāl), spicca senza dubbio la problematica relativa alla legittimità della filosofia, o più in generale della “conoscenza”, nell’Islām.
In questo breve e denso trattato, Averroè ha l’obiettivo di definire giuridicamente la legittimità dell’attività filosofica secondo i parametri della legge religiosa islamica, la šarī‘a.