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Chiedi cosa sia il divino. Il divino è tutto ciò che ti circonda, è tutto ciò che è già davanti a te, che ti precede e ti sorprende. L’uomo è certamente quell’ente che è aperto all’ente nel suo insieme: ma come è possibile questa apertura dell’uomo al mondo? Per mondo s’intende qui non la terra o un pianeta, ma la Physis (Φύσις), la natura: ciò che sorge da sé, ciò che è l’eterno sorgere, il divenire da sé: ciò che mai tramonta. Non è un caso che la radice di physis risuoni in fui e futurum: ciò che era e ciò che sarà. Il movimento della Physis è lo stesso movimento in cui consiste il dispiegarsi dell’Assoluto, del Principio, in greco dell’Arché. E cos’è il Principio? Un abisso, proprio perché ciò che sempre era e sempre sarà (Physis). Un abisso che si lascia intuire, si lascia ‘vedere’ senza tuttavia lasciarsi mai comprendere, rinchiudere nel nostro concepire, nel nostro concetto: si lascia ‘vedere’ perché appunto in questo momento noi lo stiamo pensando, è obiectum mentis. Ma non si lascia mai de-finire, cioè racchiudere in un concetto che lo esaurisca. Possiamo dire qualcosa di più? Forse sì: Arché è Principio non solo e non tanto nel senso cronologico di ciò che sta all’inizio, come per esempio nella parola “archeologia”: lo studio di ciò che è prima, di ciò che è remoto. L’Arché è il Principio nel senso, ben più radicale, di ciò che comanda, di ciò che domina: l’arché era infatti anche il generale, il capo dell’esercito. Quando infatti diciamo “anarchia” facciamo riferimento all’assenza di potere, poiché manca l’Archè, nel senso di ciò che comanda, domina, di ciò che è principio perché sovrintende in senso essenziale allo sviluppo di tutto ciò che si sviluppa.
Il punto decisivo, la vera maturazione di un giovane uomo, sta nell’arrivare a comprendere come tutto non sia che un unico sviluppo, come tutto sia uno. Platone ed altri filosofi parlavano dell’uno (non a caso dell’uno, e non del duo o del tre) perché avevano capito che tutto ciò che è, è Uno (uni-verso!): per capirci, qualsiasi scoperta in campo astronomico, vuoi anche la scoperta di un universo parallelo, non sconvolgerebbe nulla, l’universo rimane uno, poiché si tratterebbe semplicemente di un’altra dimensione in un unico universo. Dall’Uno, dall’unità del tutto, non si esce, perché l’altro è altro solo in quanto, in realtà, non è affatto altro dall’Uno, ma è solo un altro uno – e cioè voce, espressione dell’Uno a cui appartiene.
In un senso più profondo, che tutto sia Uno significa che anche noi siamo parte di questo Uno. Anzitutto, noi siamo interni a questo sviluppo: non siamo stati infatti calati nel mondo come un attore sul palcoscenico, come invece una certa interpretazione del Cristianesimo (fondata su una certa interpretazione dell’ebraismo) ha portato a pensare. Così la cosa sembrerebbe prefigurare un rapporto a tre: ci sarebbe Dio, l’uomo e poi natura. È l’idea che prima ci sarebbe Dio che crea la natura e successivamente l’uomo, che viene calato nel Giardino. È in fondo l’idea da cui anche noi oggi spesso prendiamo le mosse: l’idea per cui da una parte c’è l’uomo e dall’altra c’è la natura. Invece non è così! L’uomo non è altro dalla natura, nel senso che non è altro che una espressione, una manifestazione sublime e straordinaria (“deinotaton”, terribile e meravigliosa) della natura. Come diceva Sofocle nella tragedia Antigone: “molto vi è di inquietante, nulla tuttavia si erge più inquietante dell’uomo”.
Ma cosa significa che siamo espressione della Physis, e perché ciò sarebbe in qualche modo inquietante? Perché a rendersi conto, a vedere che in realtà siamo parte ed espressione della natura è proprio quell’ente (l’uomo) che è una fioritura della natura: l’abisso che così si apre è inquietante perché misterioso. Senza dubbio la natura ha in sé il logos (la parola e la coscienza) come sua determinazione più alta e qui entrano in gioco problemi enormi. Arrivati al momento di intuire di essere parte di un’unica cosa (di un unico Essere Vivente che l’uomo ha variamente indicato come Uno, Physis, Dio etc.), è come se il Principio, la “natura” entrasse in rapporto con sé.
Se l’uomo è Physis ed è al contempo aperto sulla Physis, significa che questa si apre su se stessa, che la natura vede se stessa, il proprio abisso: ma ciò significa che l’assoluto si è dovuto scindere in sé, si è ritmato in sé, si è mediato. Che cosa ne discende? L’assoluto si mostra in questo modo non come qualcosa di immediato, ma come qualcosa che è andato oltre la propria muta immediatezza, si è mediato in sé ‘creando’ in sé un altro da sé – l’uomo - in cui si specchia e si sa. Ovvero l’assoluto è autocoscienza, ha coscienza di sé, diventa consapevole di sé. L’uomo, che lo sappia o no, in quanto è essenzialmente aperto al mondo (alla dimensione che ci sovrasta, ci domina e alla quale siamo consegnati) è momento essenziale dell’autocoscienza dell’assoluto (dell’Uno).
In qualsiasi istante della nostra esistenza, in qualsiasi luogo, noi e-sistiamo: siamo aperti al mondo. Tutti gli uomini hanno una distanza tra sé e il mondo (infatti ci sentiamo “altro” dal mondo), sentiamo uno scarto tra la natura e ciò ci è dato dalla riflessione: l’animale vede, si muove, corre dietro gli istinti; l’uomo, invece, sa di sentire, vede il suo vedere, sente il tuo sentire e questa è la coscienza; ed è questo che produce il distacco. Ma questo distacco deve essere anche sanato, deve essere riportato sotto l’abbraccio infinito dell’Uno, a cui la coscienza dell’uomo appartiene. L’uomo sa che esiste e ha davanti a sé l’oggetto che sta vedendo entrando in relazione con esso, l’animale no. Ma l’oggetto che gli appare fuori come altro da sé deve essere compreso in modo più profondo.
Infatti la coscienza di sentire e vedere è la coscienza naturale, quella che tutti abbiamo senza sforzo, perché è immediata: ma questa autocoscienza non è il punto più alto a cui può giungere l’autocoscienza dell’umano. Stiamo parlano di un’autocoscienza più alta a cui dobbiamo pervenire, che non è il sapere finalmente tutto su noi stessi, è bene chiarirlo subito! Per quanti sforzi infatti noi facciamo e per quanto cerchiamo di conoscere noi stessi, siamo destinare a rimanere un abisso per noi stessi, così come abisso rimane per noi l’altro, perfino la persona amata, che pure crediamo illusoriamente di conoscere molto bene: ma anche la persona amata, per fortuna, è sempre incatturabile, la sua anima non si lascia mai definire ed esaurire nel nostro conoscerla. D’altronde, solo perché l’uomo è abisso (“mai troverai i confini dell’anima”, diceva Eraclito), solo per questo non è mai riducibile a cosa. Possiamo anzi dire che solo perché siamo abisso possiamo davvero dire di essere “a immagine di Dio”: come Dio, anche noi non siamo riducibili a un oggetto determinato e quindi comprensibile. Come non possiamo comprendere (prendere-con) il divino, così non possiamo mai ridurre l’altra persona in nostro potere: ciò che possiamo comprendere è infatti ciò che dominiamo, ciò che per il fatto stesso di esaurire nel nostro sapere riduciamo in nostro potere: comprendere in tedesco si dice Verstehen non a caso, perché comprendere è distruggere lo stare (stehen) autonomo di ciò che ci sta davanti (il prefisso ver porta al limite estremo - all’estremo possibile, l’im-possibile - l’azione, in questo caso lo stare). Ciò che ho tutto risolto nel mio sapere, l’ho anche in pugno.
Chiarito questo, l’autocoscienza “vera” a cui l’uomo è chiamato ad avvicinarsi è una consapevolezza ben diversa dalla prima (naturale) citata sopra. Poiché io posso benissimo – come sempre avviene - vedere di vedere, essere cosciente di sentire etc., e ciononostante non aver affatto raggiunto l’autocoscienza umana, anzi vivere nella forma dell’isolamento e della solitudine: vivere cioè le forme astratte dell’autocoscienza, nelle quali l’uomo non è arrivato alla suprema autocoscienza di sé in quanto, in termini teologici, “figlio di Dio”. Quando in teologia ascoltiamo la formula “figlio di Dio”, a cosa pensiamo?
Il linguaggio metaforico deve essere scavato, disseppellito dalla sabbia che l’ha coperto e ritornare all’idea originale, alla sorgente vivente spirituale da cui quelle parole sono scaturite. Allora la sorgente spirituale di questa idea si rivela la stessa indicata dai greci: “l’uomo è un fiore della natura” di cui è parte, di cui è momento, ma soprattutto “di cui è momento essenziale” perché è il momento in cui la natura vede se stessa.
Da un punto di vista speculativo, come dicevamo, la Physis si rivela immediatamente non come un “uno” chiuso in sé: il Principio non è un unum-assoluto, come pensa invece l’Islam, ed ecco perché il cristianesimo diventa essenziale per comprendere tutta la nostra cultura. Non si può pensare l’assoluto come un qualcosa di “chiuso in sé” come un “totalmente altro” perché se così fosse innanzi tutto non se ne potrebbe parlare: come si può parlare di qualcosa che è veramente assoluto, cioè senza alcuna mediazione? Non è vero che è assoluto, se già se ne parla. Si è già assolto dalla sua assolutezza. Ma cosa significa ab-solvere l’Uno dall’immediatezza? Significa che l’Uno si fa molteplice e il Cristianesimo (in questo senso) è superiore all’Islam. Non è un caso che Hegel parlasse del Cristianesimo come la religione assoluta, ma su questo tema c’è poco da discutere. Bisogna, invece, pensare a come questa unità sia qualcosa che è scissa in sé: cioè si è mediata, ha creato in sé la coscienza di sé. Se non avesse adempito a questo compito non si potrebbe parlare di assoluto: l’assoluto senza l’autocoscienza non è pensabile. Come potrebbe esserci l’assoluto se non ci fosse nessun punto di vista che lo testimoniasse, che lo “vedesse”? Non sarebbe l’assoluto. Io sono questo punto di vista aperto dall’assoluto sull’assoluto stesso, sono l’essersi totalmente donato dell’assoluto. Per questo poi l’assoluto non è qualcosa che si lasci totalmente comprendere da me: io sono infatti colui che ha ricevuto il dono, non colui che l’ha fatto. Se sono compreso da questa Physis che mi abbraccia, come potrei comprendere ciò da cui io stesso sono compreso? Comprendere è l’idea che io possa stringere in abbraccio (l’assoluto), ma ciò è impossibile: l’assoluto è ciò da cui io stesso sono abbracciato. Tutti i tentativi di riportare al centro la soggettività, spacciandosi per rivoluzionari, dimenticano proprio questo: dimenticano questa relazione in nome della quale non è affatto vero che il soggetto, cioè la coscienza, è il fondamento ultimo dell’essere. Che sia così (che l’uomo sia il fondamento) è certamente falso nella misura in cui tale idea viene assolutizzata, perché per certi versi è anche vero che l’uomo è colui che porta alla presenza l’essere. Ma ciò non può essere vero nel senso per cui l’io sarebbe fondamento ultimo del reale, dal momento che questa stessa coscienza, che in effetti è il fondamento del presentarsi dell’ente, è essa stessa dono che proviene dal Principio, è già espressione della Physis. Qui dovremmo fare un cenno a Kant.
La “Critica della Ragion Pura” di Kant è un momento di svolta: un grande momento di autoriflessione, che però è come camminare lungo un pauroso crinale, dove se si sbaglia a mettere il piede di un solo millimetro si può cadere nel burrone dell’errore: il senso della critica era la famosa rivoluzione copernicana di Kant: attenzione, non esiste l’uomo qui e poi la natura fuori, esiste piuttosto la coscienza e le forme a priori con cui io schematizzo la natura. In precedenza, invece, vi era il mondo e l’uomo che si adeguava ad esso, il famoso rispecchiamento della natura.
Kant prende le distanze da questa linea perché non esiste una divisione fra le parti, è tutto per così dire dal lato della coscienza: la natura non è altro che il prodotto delle mie forme a priori (spazio, tempo, che sono le forme a priori della sensibilità, e le categorie con cui io predico – cioè dico e percepisco - l’ente). Se si osserva un paesaggio, questo non esiste indipendentemente dalla mia “mente”, dalle mie facoltà schematizzanti, ma è nella coscienza il fondamento del suo apparire. Oggi uno scienziato direbbe più o meno lo stesso osservando che i colori sono creati dai “neuroni” dell’uomo e quindi non esiste qualcosa fuori dalla mente: la natura come prodotto delle forme a priori dell’uomo.
Dunque, se la coscienza è il fondamento della natura (dove questa non esiste se non attraverso la coscienza che la schematizza e la rende formalmente visibile), allora l’uomo è il fondamento del reale. Peccato che la questione insoluta e insolubile di Kant fosse come queste forme a priori, con cui l’uomo crede di aver liquidato la questione della natura, siano esse stesse un prodotto della natura. Kant aveva presente che c’era questo abisso: di questa dimensione non ha voluto parlare fino in fondo, perché Kant era più interessato a indicare i limiti del conoscere, ma così facendo questo abisso l’ha indicato in più luoghi della sua opera, soprattutto attraverso l’evocativa e celeberrima espressione della “cosa in sé”. Cos’è la “cosa in sé”? I manuali alla buona di filosofia spiegano: la cosa prima dell’attività schematizzante della mente, la cosa prima di venire fenomenizzata. È una definizione fuorviante e superficiale, che fa perdere di vista la questione fondamentale, una banalizzazione che alimenta la disputa da bar tra nuovi realisti e nuovi idealisti: entrambi non colgono i termini della questione. In realtà Kant, con l’idea di “cosa in sé” voleva indicare come ciò che noi possiamo conoscere sia solo ciò che appare (i fenomeni, appunto): ma i fenomeni stessi fanno segno a qualcosa che pur apparendo in essi e grazie ad essi non si lascia comunque mai esaurire nel e dal fenomenico. Pensiamo a ciò abbiamo davanti, al manifestarsi di ciò che chiamiamo natura: essa appare sempre, ora in questo fiore, ora in questo frutto, ora come giorno, ora come notte. Ma la natura, che in questo momento si manifesta ‘perfettamente’ davanti a noi, al contempo si nasconde e si cela, e proprio mentre si manifesta: quando si mostra come frutto, ad esempio, si assenta come fiore, e quando si mostra come notte si assenta come giorno, senza con ciò venire mai meno a se stessa. Si manifesta perfettamente, ma non si lascia mai esaurire nell’ente che appare (nel fenomeno).
Ciò che si nasconde nell’atto stesso di manifestarsi è precisamente la “cosa in sé”: la cosa in sé non la puoi conoscere non perché sei limitato o non hai capito che l’oggetto è sempre oggetto per un soggetto, ma perché la cosa in sé è l’ombra che appare là dove appare l’oggetto che tieni nella coscienza. La cosa in sé è cioè il fenomeno stesso, non qualcosa prima o sotto il fenomeno. È proprio l’oggetto che hai davanti, che tieni nella tua coscienza e credi di aver compreso (nel senso letterale di essere tu, soggetto, il fondamento del suo apparire) a sfuggirti di mano: l’oggetto non si esaurisce nel tuo possederlo, nel tuo essere condizione del suo apparire. Il tuo tenere ora quell’oggetto specifico nella tua coscienza (questo suono, questa luce) non esaurisce “l’oggettità” dell’oggetto, non esaurisce l’essenza dell’oggetto, che è con tutta evidenza irriducibile a ciò che di volta in volta appare attraverso la tua coscienza: e infatti l’oggetto che tieni lo perdi subito. Non è un caso che i “nuovi idealisti” non sappiano fare altro che limitarsi a ripetere in indefinitum la tautologia con cui credono di aver svelato l’arcano: l’oggetto (ma di quale oggetto parlano? Non esiste infatti l’oggetto in generale, esiste la sensazione di questo tavolo, il suono di questa campana, il ricordo di questo profumo) è sempre il risultato del porre di un soggetto, un prodotto della coscienza! Tutto chiaro? Assolutamente no. È strano infatti che questa tautologia, trionfalmente sventolata come la Formula definitiva della Verità, non dica poi nulla del perché al soggetto l’oggetto sfugga sempre dalla coscienza, nell’attimo stesso in cui lo possiede: il soggetto non riesce a tenersi l’oggetto, evidentemente perché l’essenza dell’oggetto non è quella di essere proprietà del soggetto, a cui quindi non appartiene nel senso del pieno possesso. D’altronde un bene che è in mio pieno possesso posso decidere se tenerlo o darlo via, mentre non sembra che sia così con gli “oggetti” della coscienza. La stessa coscienza non è un bene che mi appartiene, non me la sono data io, e d’altronde con il morire la perdo. Ma se anche stessimo sul piano dell’avere ora nella coscienza, devo riconoscere che mentre posseggo l’oggetto come frutto, mi è gia sfuggito come fiore. L’oggetto non lo posseggo mai, anche se io sono momento essenziale del suo essere presente ed apparire. Vi è qui il principio, l’indicazione di una relazione essenziale, che ogni soggettivismo ingenuo e triviale cancella d’un colpo.
Kant era perfettamente consapevole di questa relazione, tutta problematica e da pensare, relazione che si annuncia già nel fatto che io posso schematizzare il dato empirico, ed essere effettivamente condizione dell’apparire dell’ente, solo perché sono affetto da una datità che non sono io a darmi, ma che al contrario ricevo. Ed è chiaro che ciò che ricevo non mi appartiene: mi è dato, e così pure tolto.
Ma questa impostazione di Kant è stata tradita dalla traduzione che della sua filosofia avrebbe fatto l’idealismo di Fichte, che asseriva come non ci fosse alcuna “cosa in sé”, ma solo l’Io: è il momento in cui l’uomo capisce che c’è una relazione, nell’Uno, dell’Uno con sé, ma poi pensa di potersi collocare dal punto di vista dell’Uno, come se fosse lui a scindersi, e non l’Uno: è il tentativo impossibile e perfino ridicolo dell’uomo di porsi nel punto di vista dell’Inzio. Così Fichte, figlio di contadini, finisce per pensare, ridicolizzandola, la cosa in sé come un ente separato dalle forme a priori (un oggetto separato dal soggetto): ma questo è impossibile, dunque nulla esiste fuori dell’Io. Ma così ha ridotto l’essere a un ente, e di questo ha ribadito il suo essere solo un fenomeno, cioè un prodotto dell’Io. Perché certo non c’è oggetto che non sia senza un soggetto, senza una coscienza. Ma Kant non voleva dire questo quando pensava alla cosa in sé, ma qualcosa di più raffinato: l’assoluto è un “oggetto” che nessun soggetto può catturare nel “fenomeno”, anche se si manifesta in ogni fenomeno. Questo il paradosso!