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di Diego Fusaro del 01/01/2024

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Che cosa significa, fare oggi l'elogio del Ribelle?
Chi può essere ancora oggi nel tempo dell'omologazione planetaria e del conformismo della globalizzazione un ribelle? Cioè un dissidente alieno rispetto alle logiche dovunque imperanti della reificazione. Chi può far valere ancora un pensiero in rivolta, ribelle, o come avrebbe detto Gramsci uno spirito di scissione?
Io credo che a maggior ragione oggi, dove cresce il pericolo debba crescere anche ciò che salva, commentando i versi di Hölderlin, cioè a maggior ragione oggi, nel tempo della dittatura globale e dell'omologazione planetaria debba esserci la rinascita dei nuovi ribelli, la rinascita della figura del pensiero dell'obstinate contra: di chi si oppone fermamente, ostinatamente alle logiche illogiche che scandiscono l'andamento di un mondo sempre più permeato dalla mercificazione globale e dal potere del nuovo ordine mondiale che vuole vedere ovunque la stessa cosa: merci e consumo. Imposizione dell'inautentico su scala globale avrebbe detto Heidegger.
E credo che per fare l'elogio del ribelle e favorire la nascita di nuovi ribelli oggi nel tempo del conformismo planetario possa essere un operazione utile ed intelligente tornare a leggere uno dei grandi classici del pensiero ribelle, appunto il "trattato del Ribelle" di Ernst Jünger apparso la prima volta nel 1951, ed oggi più che mai attuale nell'odierno tempo della poverta.

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di Liliane Jessica Tami del 03/08/2020

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Per approfondimenti:
_Il libro dell’economia, ed. Gribaudo, Milano, 2018;
_John Kenneth Galbraith, Storia dell’economia, ed. Bur, Milano, 2018.
 
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

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di Giuseppe Nicoletti 08-02-2020

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Essenza del volto: siamo nel tempo del nomadismo planetario conseguente alle molteplici tragedie che avvengono senza sosta nel mondo. Questa condizione costringe l'uomo contemporaneo al confronto continuo con chi varca un confine ed entra in un altro territorio, spesso considerato "il proprio territorio", quella sfera di riferimento nella quale si sente sicuro: solo con se stesso, oppure con gli altri che però conosce e da cui non si sente disturbato. Ma il nomade, il migrante, impone il suo volto allo sguardo altrui, non potendo sfuggire di fronte a lui, ci spinge ad orientarci nella sua stranierietà. Proprio il “volto” (dello straniero, dell’altro) sarà l'oggetto d'indagine di questo breve articolo. Una questione filosofica di fondamentale rilevanza, che proporrò sotto una chiave interpretativa che prevede l'accostamento di Levinas e Modigliani, un filosofo e un pittore accomunati, oltre che da origini ebraiche, dal fatto che il "volto" è stato il concetto alla base di tutta la loro ricerca, filosofica da una parte, pittorica dall'altra. Ma che cosa è il volto? Se lo si pensa come participio passato di volgere, “volto” acquisisce un senso dinamico e non statico come potrebbe essere quello di “faccia” che offre una osservazione statica. Il senso è dato dal movimento del girarsi verso qualcuno che nasconde la propria provenienza, è un volgersi verso gli altri senza svelare l’interno come si vede nel bellissimo quadro di Amedeo Modigliani: Ritratto di Dèdie.
[caption id="attachment_11772" align="aligncenter" width="1000"] Amedeo Modigliani, Ritratto di Dèdie (particolare), 1918.[/caption]

La protagonista guarda l'osservatore, anzi, si volta per guardarlo, ma in un contesto in cui il suo volto non svela il suo mondo, anzi sembra nasconderlo. Dove guarda? Chi guarda? Soprattutto: guarda? È triste o pensierosa, sta ricordando un momento per lei felice o triste? Chi è l’altro? Come identificarlo? Per Levinas la questione non può trovare una risposta risolutiva: «L’altro non è “altro come il pane che mangio, come il paese che abito, come il paesaggio che contemplo, come , a volte, io stesso posso apparire ai miei occhi: è il desiderio di un paese nel quale non siamo mai nati. Di un paese straniero ad ogni natura, che non è stato la nostra patria e nel quale non ci trasferiremo». Per Lévinas l’altro rimane inconoscibile, in Totalità e infinito di fatto afferma che l'altro è «l’assolutamente altro». In questo modo entra in contrasto con la tradizione che da Parmenide in poi vede l’essere come totalità dentro la quale il singolo non trova spazio se non come parte anonima del tutto: «l’impersonale magmatico, il y a». «Nel concetto di totalità che domina la filosofia occidentale (…) gli individui sono ridotti ad essere i portatori di forze che li comandano a loro insaputa. Gli individui traggono da questa totalità “il loro senso”». Il tratto violento della filosofia consiste proprio nella negazione di ogni differenza dentro l’intero «che tutto avvolge»; con la violenza ci si vuole appropriare dell’altro, espellendolo o al limite assimilandolo. Fu a Berlino che si cercò questa assimilazione ma non da parte dell’Altro: furono autori come Franz Rosenzweig che maturarono la concezione speculativa centrata sulle potenzialità teoriche del pensiero ebraico, posto di fronte alla ineliminabile presenza della cultura cristiano-germanica: «il cuore del suo progetto filosofico finì per pulsare dentro quel nucleo problematico, legato alla possibilità di vivere e di pensare la coesistenza pacifica del proprio orizzonte religioso con la cultura tedesca». Sopravvissuto alla catastrofe dei campi di concentramento, Lévinas, in sintonia con l’orientamento di altri filosofi come Buber, Rosenzweig e Arendt, propone di ricominciare dall’inizio: la nuova soggettività si produce nell’incontro del volto, unica resistenza al pensiero totalitario. Lévinas, al riguardo, scrive in Totalità e infinito: «l’arrivo dell’altro è traumatico per l’Io abituato ad essere protetto dalla propria individualità, ma il volto irrompe malgrè moi come uno sconosciuto che bussa alla porta in un momento in cui siamo sicuri nella nostra dimensione, in un momento in cui tutto è fuori e niente può preoccuparci». Ma nonostante bussi alla mia porta ed entri nella mia casa egli non si lascia conoscere, mette subito davanti a noi il suo rifiuto di essere contenuto. Non vuole essere visto né toccato. La sua noumenicità, come un resto che impedisce di chiudere il cerchio, rompe la totalità, è traccia dell’infinito. Il volto è sempre straniero perché non ha una patria, è libero non si ha potere su di lui, è vicino ma lontanissimo, è dentro ma anche fuori e per questo è irraggiungibile. Quando chiede ospitalità, il giorno dopo corre via perché la sua verità è altrove, sempre lontana, “sotto altri cieli e lune”, come direbbe Nietzsche. Da sempre il volto rappresenta una grande attrattiva e seduzione per l’artista che cerca di catturarne i segreti, di catturarne l’assenza dentro contorni definiti. Amedeo Modigliani (1884-1920) descrive la stranierietà con una sorprendente corrispondenza alle idee levinassiane attraverso immagini che sfuggono, come un paradosso, all’atteggiamento totalizzante. Figlio di ebrei sefarditi, appassionato di arte classica ma anche di letteratura e filosofia, Modigliani si trasferisce giovanissimo nella Parigi Bohémienne del primo ‘900 tra gli artisti di Montmartre e Montparnasse. La sua iconografia è unica nel panorama artistico, autonoma dalle accademie, priva di allievi e di continuatori, distante anche dalle forme spigolose del contemporaneo cubismo. A Modigliani interessa il volto umano, si dedica al suo soggetto, affascinato particolarmente dal misterioso volto femminile. Nei suoi ritratti tutto è allungato, assottigliato come in una forma di elevazione. I suoi volti ricordano le Madonne del Trecento, si veda al riguardo l'opera di Simone Martini. Modigliani firma la sua arte con volti dagli occhi obliqui: come mandorle allungate, nere o colorate, quasi senza pupille. Nella febbrile necessità di dipingere volti, Modigliani si sottrae allo scandaglio di quegli occhi da sempre specchio dell’anima. Come se la sua onnipotenza di pittore si arrestasse alla soglia di un ermetico mondo intimo nel quale neppure l’arte ha il potere di entrare. Questi occhi senza trasparenza si pongono come uno iato che impedisce di completare la forma, di rappresentare il tutto.

[caption id="attachment_11773" align="aligncenter" width="1000"] Amedeo Modigliani, Jeanne Hébuterne (au chapeau, particolare) - 1917.[/caption]
Il pittore si ferma nell’opacità degli occhi, nel volto altrui libero dall’invadenza dello sguardo che vorrebbe frugarlo e conoscerlo fino in fondo. Le sue figure appaiono vicine, quasi si possono toccare ma tuttavia sono lontanissime, intoccabili dallo stesso autore, ricordando indirettamente le parole immortali di Javhè che rivolgendosi a Mosè disse: «tu non puoi vedere il mio volto, perché l’uomo non può vedermi e vivere».
Di rilievo è anche l'erotismo nascosto del volto. Sia Levinas che Modigliani trovano ispirazione nel volto femminile per descrivere lʼalterità. Il femminile diventa una via alternativa alla “virilità eroica” dell’Occidente che ha segnato l’epoca del dominio e della tirannia dello stato, il femminile e l’altro si retraggono nel loro mistero. Femminile appartiene al mondo ma nello stesso tempo è fuori di esso, è espressione ed insieme silenzio. Il volto femminile ha per Lévinas il compito di preannunciare all’io l’incontro con l’altro, offrendosi al contempo come luogo di raccoglimento e di cultura. In tal senso la Donna è definita nel senso di Dimora, nel senso del popolo rabbinico: che non ha fissa dimora, migrante verso una terra a venire: la casa non è proprietà difensiva, non radica, come riterrebbe la cultura sedentaria, ma è il contrario di una radice. Come la dimora è fatta di extraterritorialità, così il volto della donna, se è la condizione del raccoglimento nell’intimità, non isola. È casa con la porta aperta ad altri, ospitalità senza appropriazione. Questa concezione levinassiana è culminante nella dimensione erotica, nella sezione intitolata Al di là del volto, in cui il volto femminile è specificamente quello dell’amata. La relazione amorosa non riunisce in un unico essere due metà, non instaura un intero. L’amore va verso altri, scrive Lévinas, ma l’Amata , nella sua debolezza, nel suo non-essere-pienamente, resta irraggiungibile. Il suo volto seducente, se sconvolge l’ordine del presente, tace il segreto dell’Eros rinviando ad un futuro che non apparterrà mai all’amante, «l’Eros è un’estasi al di là di ogni progetto», afferma. La diacronia che appassiona gli amanti è il tempo peculiare del desiderio, del desiderare l’Altro come tale in un movimento continuamente rilanciato. L’amore non è possesso per Lévinas, come non lo è neanche la Dimora, è invece frutto di una mancanza incolmabile. Gli occhi femminili che affascinano sono irrimediabilmente vuoti, ricambiare il loro sguardo vuol dire misurarsi con un eterno mistero.
Nellʼopera Ritratto di Lunia Czechowska di Modigliani è possibile ritrovare un sunto artistico di tutto ciò che è stato fino ad ora sostenuto. Il viso, il collo, i capelli rossi, la camicia bianca, la pelle: tutto delinea un profilo perfetto di un essere come tanti altri. Ma gli occhi? Dove sono? Dove sono le porte che possono aprire il mondo di quest’essere che si mostra e si chiude contemporaneamente? Cosa c’è al di là ? Non è dato saperlo. Gli occhi non daranno mai una emozione che possa mettere questo volto in contatto con noi. Si resta esclusi da questa bellezza e che non si lascia penetrare, incontrare, ammirare.
[caption id="attachment_11774" align="aligncenter" width="1000"] Amedeo Modigliani, Ritratto di Lunia Czechowska con una camicia bianca, olio su tela (70 x45 cm) - 1917.[/caption]
Terzo lato lo troviamo nella eticità del volto. Se lasciata ad una descrizione fine a se stessa, la relazione erotica potrebbe indicare solo una distanza incolmabile dallo altro, una distanza tale da culminare nella indifferenza per l’altro. L’intento di Lévinas è quello di condurci su un piano etico. Se il volto nella sua trascendenza si allontana irrimediabilmente da me, con l’appello etico esso mi chiama nella sua nudità, al di là del profilo di un singolo viso. È nudo non perché lo possa catturare ma semplicemente per il suo essere rivolto a me esposto senza riparo. Mi muove verso di lui senza violenza, con il gesto di una carezza. La carezza non si impadronisce, è contatto che non profana, non svela, è cammino nell’invisibile. Era lʼanaloga tenerezza che provava Modigliani di fronte al suo soggetto, ad un volto nuovo, non si preoccupava dei tratti del viso relativi alla persona che avrebbe ritratto. Incapace di compiere il distacco, egli coglieva i suoi modelli senza considerare i dettagli, su un medesimo piano umano, dolente. Il suo sguardo estetico preparava non al piano gnoseologico, ma a quello etico. Nella Donna seduta con bambino rende il significato di cosa significa portare in braccio chi da sempre è altro da sé. I due protagonisti non si guardano, ognuno segue la direzionalità del suo sguardo, del suo volto senza occhi. Cosa hanno dentro? È un mistero che entrambi nella trascendenza tengono per sé per poi aprirsi nella fase etica.
[caption id="attachment_11775" align="aligncenter" width="1000"] Amedeo Modigliani, Zingara con bambino è un dipinto a olio su tela (115,9 x73 cm) - 1919.[/caption]

IV. La politica e il volto — La relazione etica , a due, non è altro che una ipotetica condizione pre-politica che si occulta appena viene considerato il terzo, nell’orizzonte politico della socialità allargata in cui ciascuno è da sempre immerso, dove non si è solo al cospetto di Altri, ma tra gli altri. La molteplicità umana pone a Lévinas un serio problema: se l’Altro e il terzo sono entrambi il mio prossimo, che cosa hanno fatto l’uno per l’altro? Chi viene prima? Se la prossimità mi ordinasse solo ad altri nella sua solitudine, non ci sarebbe stato problema. La questione non sarebbe nata, né la coscienza , né la coscienza di sé. La responsabilità-per è una immediatezza anteriore alla questione, precisamente: prossimità. Essa è turbata e diviene problema a partire dall’entrata del terzo. Il terzo è altro dal prossimo, ma anche un altro prossimo, ma anche un prossimo dell’Altro e non semplicemente il suo simile. Che sono dunque l’altro e il terzo, l’uno per l’altro? Che cosa hanno fatto l’uno all’altro? Chi viene prima dell’altro? La presenza del terzo obbliga l’Altro a mettersi in discussione, a non pensarsi più come assoluto, la relazione diventa simmetrica per giudicare l’altro in confronto degli altri. Dentro l’istituzione, ciascuno uguale a tutti gli altri, secondo la Giustizia dello Stato, la Legge emerge prima di ogni cosa a determinare i rapporti, una legge impersonale ma necessaria, che traduce in comando generale il fondamentale imperativo “tu non ucciderai”. Si pensi a lʼHobbes del Leviatano, per il quale la giustizia statuale nasce per limitare la naturale ferinità che fa di ogni uomo un lupo per l’altro uomo, in opposizione a questa visione hobbesiana dello stato di natura, l'idea levinassiana deriverebbe, piuttosto, non da una originaria fraternità di esseri uguali che si fanno guerra per affermare la loro differenza, ma di esseri differenti che si eguagliano nella responsabilità per il volto. Quindi, in Lévinas vi sarebbe prima la primarietà dell’accoglienza che unisce sulla giustizia formale che divide; vi sarebbe un surplus etico nel sottosuolo da cui sorge la dimensione politica, che giace silente e dimenticato. Aver dimenticato quel fondo nel percorso della cultura occidentale ha significato, per Lévinas, aver finito per considerare la politica come «mera tecnica dell’equilibrio sociale che armonizza le forze antagoniste» secondo i metodi del logos oppositivo. Alla luce del quale, dalla grecità fino alla tarda modernità, “politica” ha conciso con stabilità, sedentarietà, unità, dentro uno spazio statuale delimitato da confini che stabiliscono la linea di demarcazione tra chi appartiene ad un ordine e chi vi è escluso. Nella pianificazione di quello spazio lo straniero è stato considerato il nemico dell’uniformità, colui da rimandare nei propri spazi, colui al quale non si vogliono concedere spazi propri, colui infine che non metterà mai in crisi i nostri confini che teniamo ben saldi con le nostre leggi fatte ad hoc. Perché bisogna riconoscere il volto dello straniero se questi rompe e interrompe la mia uniformità, se non mi fa più sentire sicuro nel mio spazio, se mi attacca nel momento in cui lo contrasto? Tutto ciò si è palesato nel disprezzo per il volto. Questo concetto trova una sintesi puntuale in una famoso passo letterario di 1984 di Orwell, OʼBrien, membro del partito di rivolge a Winston, il protagonista ormai prigioniero, dicendogli «Se vuoi un simbolo figurato del futuro, immagina uno stivale che calpesta un volto umano [...] ricordati che ciò sarà per sempre . Il volto umano si troverà sempre lì, in modo da poter essere calpestato. L’eretico che è il nemico della società, si troverà sempre lì, in modo da poter essere sconfitto e mortificato di nuovo». Per riassumere, Lévinas sostiene che la negazione della singolarità dell’uomo passa sempre attraverso il rifiuto di riconoscergli la dignità di volto.

[caption id="attachment_11782" align="aligncenter" width="1000"] Amedeo Clemente Modigliani (1884 - 1920) è stato un italiano ebreo pittore e scultore che ha lavorato principalmente in Francia. È noto per i ritratti e i nudi in uno stile moderno caratterizzato dall'allungamento di volti, colli e figure che non sono stati accolti bene durante la sua vita ma in seguito hanno trovato accettazione. Modigliani trascorse la sua giovinezza in Italia, dove studiò l'arte dell'antichità e del Rinascimento. Nel 1906 si trasferisce a Parigi, dove entra in contatto con artisti come Pablo Picasso e Constantin Brâncuși. Nel 1912 Modigliani esponeva al Salon d'Automne sculture altamente stilizzate con cubisti del gruppo Sezione d'Or .[/caption]

Conclusioni — Oggi, nel panorama della mondializzazione, culture e linguaggi separati da secoli si incontrano e si scontrano; ciò che prima era separato e difficilmente raggiungibile oggi diviene ‒ per dirla alla Bauman ‒ «liquido». Nuovi e incontenibili esodi globali, fuori dal controllo, spontanei, contingenti, come un’onda investono i tradizionali sistemi geopolitici, indeboliscono l’effetto di demarcazione del confine, allargano l’orizzonte del politico dal limitato allo sconfinato. Coloro che Derrida definirebbe «figure dell’arrivante», cioè immigrati, clandestini, profughi in cerca di una vita migliore o semplicemente per scampare al dolore, alla fame, alla morte, creano uno spaesamento esistenziale prima che politico in chi è abituato al proprio luogo. Il loro incombere, ciascuno con il proprio vissuto, con la propria etnia, è evento, direbbe Lévinas, che frattura un mondo creato per durare, frattura l’integrità dell’individuo. Eppure, se nonostante tutto riuscissimo ad alzare lo sguardo sui loro VOLTI, potrebbero crearsi degli spazi nuovi senza barriere, spazi segnalati dal volto in quanto portatore di un diverso significato di confine, come ci hanno suggerito Lévinas e Modigliani. Un significato custodito da sempre alla radice del confine stesso che renda il senso di un margine relazionale tra terra e terra, tra uomo e uomo. Ripensare alla radice il confine a partire dal volto significa ricordare che «ogni confine ha due lati» (La stella della redenzione). In questo senso il volto non è occasione di violenza ma simbolo vivente della pace, di una pace originaria in cui le differenze convivono senza elidersi. Riconoscerlo come tale significherebbe rendere reale, come vorrebbe Lévinas, la possibilità di una autentica convivenza politica nella pluralità: «La pace non può identificarsi con la fine dei combattimenti, per la sconfitta degli uni e la vittoria degli altri, cioè con i cimiteri e gli imperi universali futuri. La pace deve essere la mia pace, in una relazione che parte da un io e va verso l’Altro». Ciò che è essenziale tenere in considerazione è che, per Lévinas, la pace non è semplicemente l’assenza della guerra, quindi la “quiete” a cui tradizionalmente si pensa. La pace, come tutti i termini fondamentali nel pensiero di Lévinas, è un movimento non afferrabile. Questa visione, oltre l’ovvia condanna della violenza espressa in termini di “sconfitta” e “vittoria”, nasconde un aspetto ancor più violento. Per Lévinas, la causa della violenza sotto tutti i suoi aspetti è la totalità, la riduzione dell’Io e dell’Altro alla medesima categoria. Nella guerra e nella violenza c’è il non-riconoscimento del volto d’Altri, la riduzione dell’altro essere umano a oggetto, frutto dell’egoismo. Eppure, come si è già accennato precedentemente, l’essere umano, nel commettere omicidio, vuole annullare ciò che si sottrae completamente al potere, e in questo tentativo conferma la trascendenza di ciò che vuole ridurre ad oggetto. Ma ciò che più conta nel pensiero levinassiano è la personalizzazione del concetto di “pace”, il quale, se espresso in maniera generica, rischia di non avverarsi mai: «la pace deve essere la mia pace, in una relazione che parte da un io e va verso l’Altro, nel desiderio e nella bontà in cui l’io contemporaneamente si mantiene ed esiste senza egoismo». Si ritrova, in un certo senso, lo stesso concetto che si era affrontato nel tema della responsabilità. L’Io non può permettersi di pensare a ciò che fa l’Altro, poiché questo è “affar suo”. Ogni soggetto, dunque, deve agire nella “sua pace”, senza tener conto di ciò che l’Altro può fare. E’ un movimento gratuito, come gratuita è stata l’elezione da parte del Bene, ed è proprio questo movimento gratuito verso Altri che caratterizza l’uscita dalla totalità, dalla filosofia del potere. Precisa Lévinas: «L’unicità dell’unico è l’unicità dell’amato. L’unicità dell’unico significa nell’amore. Da qui la pace come amore. […] Il soggettivo come tale sarebbe precisamente l’apertura […] verso l’unico, verso l’assolutamente altro, attraverso l’amore, la prossimità umana e la pace». Questa è una delle poche affermazioni di Lévinas nelle quali si parla di “amore”, e non è un caso che sia la pace il tema argomentato. L’amore ci riporta alla persona, dunque il concetto si ripete: non si può parlare di pace se non partendo dal singolo soggetto. La responsabilità dell’Io di fronte al volto d’Altri è l’essenza della pace: «Il volto dell’altro nella sua precarietà e nel suo senza-difesa, è per me al contempo la tentazione di uccidere e l’appello alla pace, il “Tu non ucciderai”. […] La prossimità del prossimo […] è la responsabilità dell’io per un altro, l’impossibilità di lasciarlo solo di fronte al mistero della morte. Che è, concretamente, la capacità di morire per l’altro. La pace con altri giunge fino a questo punto. E’ tutta la gravità dell’amore del prossimo, dell’amore senza concupiscenza». In questa citazione sono presenti tutti i temi fondamentali del pensiero levinasiano, accomunati dalla pace. Il vertice della pace è la capacità di morire per l’Altro, un amore senza eros, gratuito, senza godimento ed egoismo. Anche per quanto riguarda il concetto di “pace”, dunque, Lévinas è riuscito impeccabilmente nel non rinunciare alla persona, nel non estendere un termine così comune (e spesso inopportunamente pronunciato) ad un “genere umano”, ma sempre e solo al soggetto in quanto unico, sottoposto al comandamento insito nell’alterità. In riferimento a questo comandamento Lévinas utilizza l’espressione “deve essere” riferendosi alla pace. La pace è “come un dovere”.

 

Per approfondimenti:

_Bauman Z., La società dell’incertezza, tra. It. di R. Marchisio e S. Neirotti, Il Mulino, Bologna, 1999;
_Derrida J., Abramo, l’altro, trad. it. di T. Silla, Cronopio, Napoli, 2005;
_Lévinas E., Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, trad. it. di A. Dell’Asta, Jaca Book, Milano 1986;
_Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, trad. it. di S. Petrosino e M.ttt. aiello, Jaca Book, Milano, 1983;
_Orwell G., 1984, trad. it. di R. Marchisio e S. Neirotti, Il Mulino, Bologna, 1999;
_Ricci Sindona P.: La filosofia ebraica nel novecento. Spaziotre-Il tempo del pensiero, Roma 2017;
_Rosenzweig F., La stella della redenzione, trad. it. di G. Bonola, Marietti, Genova, 1985.
 
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di don Riccardo Patalano  del 24-10-2019

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La Via della bellezza, a partire dall’esperienza semplicissima dell’incontro con lo stupore, può aprire la strada della ricerca di Dio e disporre il cuore e la mente all’incontro col Cristo: Bellezza della Santità Incarnata offerta da Dio agli uomini per la loro Salvezza. Essa invita i nuovi Agostino del nostro tempo, cercatori insaziabili d’amore, di verità e del bello, ad elevarsi dalla bellezza sensibile a quella eterna per poi scoprire con fervore il Dio Santo Artefice di ogni meraviglia.

Non tutte le culture sono in ugual misura aperte al Trascendente e ad accogliere la rivelazione cristiana. Allo stesso modo, tutte le espressioni del bello – o di ciò che ritiene di esserlo – sono lungi dal favorire l’accoglienza del messaggio di Cristo e l’intuizione della sua divina bellezza. Le culture, come le espressioni artistiche e le manifestazioni estetiche, sono segnate dal peccato e possono attirare, perfino catturare l’attenzione fino a farla ripiegare su se stessa suscitando nuove forme di idolatria. Non siamo troppo spesso messi di fronte a fenomeni di vera decadenza in cui l’arte e la cultura si snaturano fino a ferire l’uomo nella sua dignità? Il bello non può essere ridotto ad un semplice piacere dei sensi: sarebbe rifiutarsi di avere piena coscienza della sua universalità, del suo valore supremo, altamente trascendente. La sua percezione richiede un’educazione, poiché la bellezza non è autentica se non nel suo rapporto con la verità – d’altronde, di che cosa sarebbe lo splendore, se non della verità? – ed essa è, al tempo stesso, «l’espressione visibile del bene, come il bene è la condizione metafisica della bellezza» – «il bello non è forse la strada più sicura per raggiungere il bene»? A chiederlo a se stesso fu Max Jacob (1876 - 1944). Ampiamente accessibile a tutti, la via della bellezza non è, tuttavia, priva di ambiguità e di deviazioni. Sempre dipendente dalla soggettività umana, essa può essere ridotta ad un estetismo effimero, lasciarsi strumentalizzare ed asservire dalle mode attraenti della società dei consumi. Da ciò nasce l’urgente missione di educare a discernere tra “uti” e “frui”, cioè tra un rapporto con le cose e le persone fondato unicamente sulla funzionalità – uti -, e la relazione credibile e affidabile – frui -, radicata coraggiosamente sulla bellezza della gratuità, memori di quanto scrive Agostino nel suo De catechizandis rudibus: Nulla est enim maior ad amorem invitatio quam praevenire amando – non c’è invito più grande all’amore che precedere amando.

Perciò, è necessario chiarire che cos’è e in che consiste la via pulchritudinis: di quale bellezza si tratta, che permetta di trasmettere la fede mediante la sua capacità di raggiungere il cuore delle persone, di esprimere il mistero di Dio e dell’uomo, di presentarsi come un autentico «ponte», spazio libero per camminare con gli uomini e le donne del nostro tempo che sanno o imparano ad apprezzare il bello, e aiutarli ad incontrare la bellezza del Vangelo di Cristo che la Chiesa deve, per sua missione, annunciare a tutti gli uomini di buona volontà.
Dunque in che modo la via pulchritudinis può essere una risposta della Chiesa alle sfide del nostro tempo? Il Papa Giovanni Paolo II, instancabile indagatore dei segni dei tempi, indica la via nella sua Enciclica Fides et ratio: «Mentre non mi stanco di richiamare l’urgenza di una nuova evangelizzazione, mi appello ai filosofi perché sappiano approfondire le dimensioni del vero, del buono e del bello, a cui la parola di Dio dà accesso. Ciò diventa tanto più urgente, se si considerano le sfide che il nuovo millennio sembra portare con sé: esse investono in modo particolare le regioni e le culture di antica tradizione cristiana. Anche questa attenzione deve considerarsi come un apporto fondamentale e originale sulla strada della nuova evangelizzazione».
Questo appello ai filosofi può sorprendere, ma la via pulchritudinis non è forse una via veritatis sulla quale l’uomo si impegna per scoprire la bonitas del Dio d’amore, fonte di ogni bellezza, di ogni verità e di ogni bontà? Il bello, come pure il vero o il bene, ci conduce a Dio, Verità prima, Bene supremo e Bellezza stessa. Ma il bello dice più del vero o del bene. Dire di un essere che è bello non significa solo riconoscergli una intelligibilità che lo rende amabile. È dire, nello stesso tempo, che specificando la nostra conoscenza, esso ci attira, anzi ci cattura attraverso un influsso capace di suscitare meraviglia. Se esso esprime un certo potere di attrazione, ancor più, forse, il bello esprime la realtà stessa nella perfezione della sua forma. Esso ne è l’epifania. Esso la manifesta esprimendo la sua intima chiarezza . Se il bene esprime il desiderabile, il bello esprime ancor più lo splendore e la luce di una perfezione che si manifesta .
La via pulchritudinis è una via pastorale che non si può ridurre ad un approccio filosofico. Ma lo sguardo del metafisico ci aiuta a capire perché la bellezza è una via regale per condurre a Dio. Nel suggerirci chi Egli è, essa suscita in noi il desiderio di goderne nella pace della contemplazione, non soltanto perché Lui solo può soddisfare le nostre intelligenze e i nostri cuori, ma anche perché Egli contiene in se stesso la perfezione dell’Essere, fonte armoniosa e inesauribile di chiarezza e di luce. Per giungervi, è importante saper compiere il passaggio «dal fenomeno al fondamento». È di nuovo l’appello del Papa filosofo: «Ovunque l’uomo scopre la presenza di un richiamo all’assoluto e al trascendente, lì gli si apre uno spiraglio verso la dimensione metafisica del reale: nella verità, nella bellezza, nei valori morali, nella persona altrui, nell’essere stesso, in Dio. Una grande sfida che ci aspetta al termine di questo millennio è quella di saper compiere il passaggio, tanto necessario quanto urgente, dal fenomeno al fondamento. Non è possibile fermarsi alla sola esperienza; anche quando questa esprime e rende manifesta l’interiorità dell’uomo e la sua spiritualità, è necessario che la riflessione speculativa raggiunga la sostanza spirituale e il fondamento che la sorregge».
[caption id="attachment_11589" align="aligncenter" width="1000"] Claudio Coello, Il trionfo di sant'Agostino (particolare), 1664, Madrid, Museo del Prado.[/caption]
Questo passaggio dal fenomeno al fondamento non avviene spontaneamente per chi non sia in grado di passare dal visibile all’invisibile perché una certa abitudine alla bruttezza, al cattivo gusto, alla volgarità, si vede promossa sia dalla pubblicità sia da alcuni «artisti folli» che fanno dell’immondo e del brutto un valore, al fine di suscitare scandalo. I fiori capziosi del male affascinano: «vieni dal cielo profondo o esci dall’abisso, o Bellezza?», si chiede Charles Pierre Baudelaire (1821-67). E Dmitrij Karamazov, nell'ultimo romanzo di Fëdor Michajlovič Dostoevskij (1821-81), confida a suo fratello Alëša: «la Bellezza è una cosa terribile. È la lotta tra Dio e Satana e il campo di battaglia è il mio cuore».
Se la bellezza è l’immagine di Dio creatore, essa è anche figlia di Adamo ed Eva e, sulla loro scia, segnata dal peccato. Il rischio dell’uomo è quello di lasciarsi intrappolare dalla bellezza presa in se stessa, la quale da icona si trasforma in idolo: mezzo che inghiottisce il fine, verità che imprigiona, trappola in cui cade un gran numero di persone, per mancanza di un’adeguata formazione della sensibilità e di una corretta educazione alla bellezza.
Percorrere la via pulchritudinis implica impegnarsi a educare i giovani alla bellezza, aiutarli sviluppare uno spirito critico di fronte all’offerta della cultura mediatica, e a plasmare la loro sensibilità e il loro carattere per elevarli e condurli ad una reale maturità. La «cultura kitsch» non è caratteristica di una certa paura di sentirsi spinto ad una profonda trasformazione? Dopo aver a lungo rifiutato questa «passione», Sant’Agostino ricorda la trasformazione profonda dell’anima grazie all’incontro con la bellezza di Dio: nelle Confessioni egli ripensa con tristezza e amarezza al tempo perduto e alle occasioni mancate e, in pagine indimenticabili, rivede il suo percorso tormentato alla ricerca della verità e di Dio. Ma, in una specie di illuminazione nell’evidenza, egli ritrova Dio e lo coglie come «la Verità in persona» (X, 24), fonte di gioia pura e di autentica felicità: « Tardi t’amai, bellezza così antica, così nuova, tardi t’amai! Ed ecco, tu eri dentro di me ed io fuori di me ti cercavo e mi gettavo deforme sulle belle forme della tua creazione… Tu hai chiamato e gridato, hai spezzato la mia sordità, hai brillato e balenato, hai dissipato la mia cecità, hai sparso la tua fragranza ed io respirai, ed ora anelo verso di te; ti ho gustata ed ora ho fame e sete, mi hai toccato, ed io arsi nel desiderio della tua pace».
Quest’esperienza dell’incontro con il Dio della Bellezza è un avvenimento vissuto nella totalità dell’essere e non solo nella sensibilità. Di qui la confessione del De musica (6, 13, 38): Num possumus amare nisi pulchra? – «Che altro si può amare se non le cose belle?». Via Pulchritudinis è un percorso di riscoperta del ruolo evangelizzatore della bellezza e dell’arte. Non una stradina laterale, gradevole nel paesaggio ma poco frequentata, dove far scivolare la teologia cristiana, bensì il tentativo di riportare la riflessione su Dio per l’uomo sulla via principale. Il bello come strumento di conoscenza e di salvezza, dunque, come possibilità per tutti di scorgere, attraverso la nuda materia, la delicata presenza del divino. Via Pulchritudinis è il recupero di un significato antico eppure sempre nuovo, dove la bellezza si manifesta come luogo visibile e sensibile dell’infinito mistero dell’Invisibile. Il cristianesimo nasce alla luce della bellezza e la bellezza è il momento di apertura verso la trascendenza. Cosa sarebbero i nostri musei senza i capolavori di arte sacra? I nostri spartiti senza le messe, i requiem, i magnificat? Le nostre biblioteche senza le opere di letteratura cristiana? Via Pulchritudinis è una presa di coscienza: perché se Dio si lascia vedere e contemplare, la prima chiamata in causa non può essere che l’arte.
Molti hanno almeno sentito nominare i trascendentali moderni, intesi se non nel senso husserliano del termine quantomeno in quello kantiano: per Immanuel Kant, «trascendentale» è «ogni conoscenza che si occupa non di oggetti, ma del nostro modo di conoscenza degli oggetti, in quanto questa deve essere possibile a priori» (Critica della ragion pura, Intr., sez. VII). Meno nota è l’esistenza di un significato previo di trascendentale, non solo più antico e frutto di una lunga elaborazione concettuale, ma carico di un più forte spessore metafisico, ancor meglio ontologico: i trascendentali elaborati in filosofia dal XII secolo in poi (ma non in modo monolitico), che trovano una magistrale espressione nel pensiero di Tommaso d’Aquino.
Perché parlarne qui – e perché del bello? A prima vista potrebbe sembrare tutt’altro che un tema interdisciplinare, meritevole tutt’al più di una curiosità erudita. In realtà, in questo momento i trascendentali godono di una rinnovata attenzione in filosofia a livello internazionale, ad esempio nell’attualissimo tomismo analitico ma non solo, (e fin qui la cosa potrebbe interessare solo i filosofi di professione). Per di più, come tutto ciò che si dice di ciò che è – e quindi in parole più povere, ma imprecise, di tutto ciò che esiste, quindi di ogni cosa, ogni vivente e ogni persona – riguardano in profondità il fine e lo svolgersi della ricerca scientifica nonché la ricerca stessa e il ricercatore che la compie... e con lui ogni essere umano. Se, quindi, anche il bello possa annoverarsi tra di essi è una questione che tocca in profondità anche chi si occupa di scienza. Anticipo, infatti, che la questione nel pensiero di Tommaso è ed è stata oggetto di discussione, con autorevoli interpreti schierati a favore dell’una o dell’altra interpretazione.
Cosa sono, allora, i trascendentali? Comparsi per la prima volta con Filippo il Cancelliere (Philippus Cancellarius Parisiensis, 1165-1236), sebbene il termine – oggi filosoficamente consolidato – sia stato coniato solo molti anni più tardi con la tarda scolastica, i trascendentali sono appunto le determinazioni proprie di ogni ente in quanto ente. Cosa vuol dire? Essi oltrepassano, trascendono appunto, le divisioni tra gli enti (ad esempio la differenza tra specie) perché si dicono di ogni “cosa” che è, proprio perché è. Usare il verbo essere è improprio, perché in questo contesto si pensa agli enti concreti e individuali e non ad un essere generico, ma si può dire comunque che così l’essere è “pieno”, essere significa “essere con certe caratteristiche”. In termini filosofici, i trascendentali si distinguono concettualmente dagli enti ma sono ad essi coestensivi. I più noti, ma non gli unici, sono l’ uno («unum»), il vero («verum»), il buono («bonum»): essi indicano che ogni cosa è una, vera e buona – tanto più essa è.
Dietro l’apparente semplicità, si tratta di uno dei problemi più ardui della storia della filosofia, se non altro solo perché i termini del problema non si lasciano definire, strettamente parlando: sono talmente primi che non c’è nulla, di più generico di loro, che si possa usare per spiegarli.
Anche il bello è altrettanto primo, quantomeno per l’Aquinate? Se l’ammissibilità del trascendentale bello è ancora oggi una questione aperta, tanto più lo era nel Medioevo, quando però la stragrande maggioranza degli autori non lo includeva nelle liste dei trascendentali. Negli scritti di San Tommaso non si trova un’esplicita presa di posizione in merito, ma il tema della bellezza, anche se non è affrontato in un trattato a sé stante, non solo è presente a margine (neanche così a margine, talvolta) di molti altri problemi, ma è per così dire vissuto dall’Aquinate, che non per niente fu autore di inni sacri ancora oggi molto amati nella liturgia della Chiesa cattolica, come il Pange lingua. Se non si possono forzare i suoi testi ad affermare qualcosa che non vi è scritto, tuttavia da un punto di vista logico, a partire da quanto vi si ritrova pagina dopo pagina, argomento dopo argomento, una conclusione si può comunque suggerire.
[caption id="attachment_11586" align="aligncenter" width="1000"] Guido Reni (1575-1642), bottega di probabile Giovanni Andrea Sirani (1610-70): San Michele Arcangelo (particolare), prima metà del XVII secolo - olio su tela, 152x112cm.[/caption]
Ora, nel pensiero di San Tommaso, la bellezza è caratterizzata da alcuni elementi costitutivi, che sono «integrità o perfezione» (integritas sive perfectio), che indica la compiutezza e l’assenza di deformità o difetti di qualunque genere; «dovuta proporzione o armonia» (debita proportio sive consonantia), che indica la proporzione e il rapporto opportuno per ogni cosa; e «splendore» (claritas), che, nel suo senso più metafisico, indica come la bellezza risplenda e manifesti se stessa. Essi, infatti, devono essere intesi nella totalità della metafisica tommasiana, che li lega intimamente all’essere e li attribuisce non solo e non tanto alle realtà fisiche, quanto piuttosto allo stesso intelletto umano e sommamente alle realtà spirituali: è in queste ultime che si dà la bellezza maggiore (così come esse sono ontologicamente più perfette). La proporzione dovuta, ad esempio, in ultima analisi sembra raccordare ogni ente a Dio.
Dunque, non c’è equivocità tra bellezza corporea e bellezza spirituale e Dio è la fonte di entrambe: il mondo tommasiano è alieno da quelle divisioni che si affermeranno anche drammaticamente in autori successivi ed è fondamentalmente in armonia (ma non si dimentichi con ciò il peccato originale e ciò che esso porta con sé). Nello stesso tempo, per San Tommaso «belle sono le cose che viste piacciono» (pulchra dicuntur quae visa placent, Summa Theologiae, I, q. 5, a. 4, ad 1). Il pulchrum intrattiene con il piacere (delectatio) un rapporto privilegiato, forse più del bene, ed un rapporto costitutivo: la bellezza appaga il desiderio (tecnicamente, l’Aquinate scrive l’«appetito») al solo guardarla, senza che sia necessario raggiungerla od appropriarsene in altro modo. Si noti che è il piacere intellettuale, che in questo caso è coinvolto in quanto deriva dalla bellezza intellettuale, ad avere una dignità maggiore: per San Tommaso, esso non è una semplice delectatio, che è propria anche degli animali, ma consiste più propriamente nel gaudium.
Quel che si può dire qui, dunque, è che se ogni ente è bello, allora la realtà per noi risplende e suscita il nostro piacere al solo guardarla (anche senza possederla). Tommaso d'Aquino insegna che la bellezza risplende nel mondo sensibile, ma non è confinata in esso e, anche se per noi è più difficile scorgerla, si trova sommamente al di là di esso – e anche negli argomenti razionali: possiamo legittimamente aggiungere nelle dimostrazioni matematiche e nelle teorie scientifiche.
Dunque se un ente è uno, identico con se stesso e tale da abbracciare le sue parti, lo scienziato può avere un oggetto di studio, perché la molteplicità esasperata risulta necessariamente incomprensibile, forse anche fluttuante e caleidoscopica: l’intelletto non avrebbe un appoggio dove “fare presa”, ma solo un vortice sfuggente. È perché la realtà è vera che può sperare di concludere con delle leggi che non siano solo costruzioni funzionali o utilitaristiche. Se la realtà si apre alla mia intelligenza, allora posso sperare con fondatezza di capirla, almeno in parte, in modo appropriato e concludente. È perché la realtà è buona, che so che è un bene per me conoscerla – e che il mio sforzo per farlo è giustificato. Infine, è perché la realtà è bella che ci attrae e ci dà gioia contemplarla – e anche per questo ci attrae fare ricerca, anche se non se ne scorge un’immediata utilità pratica. La bellezza, per il ricercatore, – aggiungo – può essere un segno del bene, ma soprattutto un segno del vero – e costituire così un aiuto prezioso per la ricerca, a condizione, sia chiaro, di non divenirne il fine ultimo; è il vero (e il bene) che fiorisce in tutto il suo splendore. Sembra che nel pensiero dell’Aquinate si possa trovare una risposta a quell’interrogativo che suscitano i non pochi scienziati di professione (tra i quali Dirac) che indicano la bellezza di una nuova teoria come un potente criterio euristico se non addirittura di vaglio veritativo – e giustificarne almeno in parte le affermazioni.
Il fatto che la bellezza di una teoria scientifica o, ancor meglio, della realtà che essa ci dischiude, può suscitare a ragione la gioia di chi la coglie e la fa sua. I trascendentali tommasiani ci indicano che nella realtà si dispiega una fondamentale armonia. In conclusione, giustificano perché vale la pena fare ricerca scientifica.. e perché farla ci piace.
Proporre la via pulchritudinis come cammino di evangelizzazione e di dialogo, vuol dire partire da un interrogativo urgente, talvolta latente, ma sempre presente nel cuore dell’uomo: «Che cos’è la bellezza?», per condurre « tutti gli uomini di buona volontà, nei quali, in modo invisibile agisce la grazia», verso « l’uomo perfetto» che è « immagine del Dio invisibile» (Col. 1,15) .
Questa domanda risale all’alba dei tempi, come se l’uomo ricercasse disperatamente, dopo la caduta originale, quel mondo di bellezza ormai fuori dalla sua portata. Essa attraversa la storia sotto molteplici forme e il gran numero di opere, frutto di bellezza in tutte le civiltà, non riesce ad estinguerne la sete.
Pilato pone a Cristo la questione della verità. Cristo non risponde, o meglio la sua risposta è il silenzio: quella verità non si dice, ma si congiunge senza parole alla parte più intima dell’essere. Gesù si era rivelato ai suoi discepoli: «Io sono la Via, la Verità e la Vita». Adesso tace. Poco dopo mostrerà la via, cammino di verità, che porta alla Croce, mistero di sapienza. Pilato non capisce, ma misteriosamente, egli stesso dà la risposta alla sua domanda: « Che cos’è la verità?» . Davanti al popolo esclama: «Ecco l’uomo», cioè Cristo, che è la verità.
[caption id="attachment_11588" align="aligncenter" width="1000"] Paolo de Maio, San Tommaso D'Aquino - Olio su tela, 80 x 70 cm.[/caption]
Se la bellezza è lo splendore della verità, allora il nostro interrogativo si ricollega a quello di Pilato e la risposta è identica: Gesù stesso è la Bellezza. Egli si manifesta dal Tabor alla Croce per illuminare il mistero dell’uomo, sfigurato dal peccato, ma purificato e ricreato dall’Amore redentore. Gesù non è una via tra le altre, una verità tra le altre, una bellezza tra le altre. Egli non propone una via tra le altre: Egli è la via viva che conduce alla verità viva che dà la vita. Bellezza suprema, splendore di Verità, Gesù è la fonte di ogni bellezza, perché, Verbo di Dio fatto carne, è la manifestazione del Padre: « Chi ha visto me ha visto il Padre» ( Gv 14, 9).
Il vertice, l’archetipo della bellezza si manifesta nel volto del Figlio dell’uomo crocifisso sulla Croce dei dolori, rivelazione dell’amore infinito di Dio che, nella sua misericordia per le proprie creature, ripristina la bellezza perduta con la colpa originale. «La bellezza salverà il mondo», perché tale bellezza è Cristo, la sola bellezza che sfida il male e trionfa sulla morte. Per amore, il «più bello dei figli dell’uomo» si è fatto «uomo dei dolori», «senza apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi» ( Is 53, 2), e in tal modo ha reso all’uomo, ad ogni uomo, pienamente la sua bellezza, la sua dignità e la sua vera grandezza. In Cristo, e solo in Lui, la nostra via Crucis si trasforma nella sua in via lucis e in via pulchritudinis.
La Chiesa ricerca continuamente questa bellezza nell’incontro con il suo Signore e, con Lui, nel dialogo d’amore degli uomini e delle donne del nostro tempo. Nel cuore delle culture, per rispondere alle loro angosce, alle loro gioie e alle loro speranze, essa non cessa di affermare con il Papa Benedetto XVI: «chi fa entrare Cristo, non perde nulla, nulla – assolutamente nulla di ciò che rende la vita libera, bella e grande. No! solo in quest’amicizia si spalancano le porte della vita. Solo in quest’amicizia si dischiudono realmente le grandi potenzialità della condizione umana. Solo in quest’amicizia noi sperimentiamo ciò che è bello e ciò che libera».
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di Gabriele Rèpaci  del 02-10-2019

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«È certo che occorre ristudiare Sorel, per cogliere al di sotto delle incrostazioni parassitarie deposte sul suo pensiero da ammiratori dilettanti e intellettuali, ciò che in esso è più essenziale e permanente». Così affermava Antonio Gramsci, nei suoi Quaderni del carcere riferendosi a Georges Eugene Sorel: di spirito irrequieto e frammentario, venato da un pessimismo pieno di tragiche significazioni; studioso ben preparato del pensiero socratico e del messaggio cristiano; teorico acuto del sindacalismo rivoluzionario e critico geniale del marxismo; attento alla lezione di Proudhon e di Renan, di Bergson e di James, Sorel si può annoverare, insieme con Nietzsche e Ortega y Gasset, tra gli esponenti della Lebensphilosophie (Filosofia della vita), ma nel contempo personifica la crisi politica e morale del suo tempo, e nel suo pensiero, che è impossibile compendiare in ordine sistematico, si riflettono i contrasti, le ambiguità e le antinomie che hanno alimentato le maggiori polemiche dell'ultimo Ottocento e dei primi decenni del Novecento.
[caption id="attachment_11545" align="aligncenter" width="1000"] Georges Eugene Sorel (Cherbourg, 2 novembre 1847 - Boulogne-sur-Seine, 29 agosto 1922) è un filosofo e sociologo francese, noto per la sua teoria del sindacalismo rivoluzionario. Può essere considerato come uno dei principali introduttori del marxismo in Francia.[/caption]
Georges Sorel nacque il 2 novembre 1847 a Cherbourg da una famiglia della media borghesia normanna. Dopo aver conseguito il diploma in lettere e scienze nella scuola locale si recò a Parigi dove frequentò un corso di matematica al collège Rollin e in seguito venne ammesso all'Ècole Polytechnique. La famiglia lo seguirà nella capitale in seguito alla fallimento del commercio del Padre. Scrive Pierre Andreu: «Il padre di Sorel fece pessimi affari. Alla nascita di Georges, teneva uno spaccio di acqua di Seltz e di acque gassose; verso il 1840 si ritrovavano nei giornali locali degli annunci pubblicitari per la vendita del sidro di Toques, suo paese natale. Più tardi lo troviamo locandiere e affittacamere, come lo qualifica un vecchio almanacco della città di Cherbourg. Che avesse fatto fallimento, come allora pretendono certi vecchi di Cherbourg, conoscenti di Sorel, non è sicuro […] La famiglia di Sorel ebbe dunque delle “disgrazie” […] e si può pensare che questa atmosfera di difficoltà finanziarie e di riprovazione morale che circondava allora – siamo in provincia, nel 1850, e lo stesso Sorel ha notato nelle sue Réflexions che fino al 1879 la bancarotta fraudolenta era punita con la morte – i commercianti sfortunati, isolando Sorel dalla sua classe, lo avesse preparato ad accettare più tardi le idee socialiste».
Giovane studente, alla vigilia della caduta del Secondo Impero si professava ardente legittimista: ammirava le tradizioni francesi e temeva che il regime del tempo – portando al potere «avventurieri materialisti e amorali» - se ne stesse completamente allontanando.
All'età di vent'anni iniziò la professione di ingegnere al Dipartimento governativo dei Ponti e delle Strade e nel luglio 1870 – qualche giorno prima della dichiarazione della guerra alla Prussia – venne trasferito in Corsica ove rimase per tutta la durata del conflitto.
Durante il periodo della Comune di Parigi (18 marzo 1871 – 28 maggio 1871), il giovane Sorel si trovava lontano dalla Francia, tuttavia le vicende di questi anni saranno sempre presenti all'interno delle sue valutazioni e dei suoi orientamenti. Nel 1875 incontrò la sua futura moglie Marie David, giovane operaia del Giura di umili origini e profondamente religiosa, che gli rimarrà accanto per tutta la vita. Nel 1892 preferì rinunciare all'incarico nell'amministrazione statale francese, rifiutando anche i diritti di pensione e si dedicò completamente agli studi di filosofia, di politica, di religione, di economia e di storia. Il 1893 è la data che segna l'incontro con il pensiero di Marx, contrassegnato da una prima fase di sostanziale ortodossia (1893 -1897) come testimoniano gli scritti riguardanti la concezione labriolana del materialismo storico e alcuni studi economici. In questa prima fase per Sorel non si trattava di assimilare il marxismo per farne un uso puramente politico, bensì di misurarne e valorizzarne tutte le potenzialità scientifiche rispetto ai recenti sviluppi delle scienze sociali.
Sotto la spinta dell'affare Dreyfus, Sorel si mostrò favorevole a una lotta comune del movimento operaio con le formazioni democratiche della sinistra borghese e partecipò attivamente alla battaglia ingaggiata dal blocco delle sinistre in difesa della Repubblica. A partire dal 1897, nell'ultimo articolo da lui pubblicato sulla rivista «Devenir social», Sorel cominciò ad avanzare dubbi sull'effettiva scientificità del paradigma marxiano e, qualche mese dopo, in una lettera indirizzata a Benedetto Croce espresse il suo favore nei confronti delle tesi esposte da Eduard Bernstein sulla rivista «Neue Zeit». Se il riformismo rimarrà solo una breve parentesi indissolubilmente legato al clima dell'affare Dreyfus, il revisionismo diverrà una costante del suo pensiero. Nei primi anni del Novecento entrò in contatto con il nascente gruppo del sindacalismo rivoluzionario capeggiato da Arturo Labriola ed Enrico Leone, e dietro invito di quest'ultimo, entrerà nel comitato di redazione della rivista romana «Il divenire sociale» che uscirà, quindicinalmente dal 1905 al 1910. Su queste pagine egli scriverà una serie di articoli (La lotta di classe e la violenza, La decadenza borghese e la violenza, I pregiudizi contro la violenza, Lo sciopero generale e La morale dei produttori) che che compendierà poi nella sua opera maggiore, Réflexion sur la violence (1908). Attorno al 1910 iniziò a guardare con simpatia Charles Maurras, l'Action française ed il nazionalismo integrale. Lo scoppio del primo conflitto mondiale lo vide da subito attestato su posizioni di aperta condanna della guerra. Nel tentativo di favorire la posizione antimilitarista italiana scrisse con insistenza a tutti i sindacalisti rivoluzionari con cui era ancora in contatto, così come a Croce, Pareto e a Missiroli, rivolgendo due vibranti appelli perfino dalle colonne dell'«Avanti». Tuttavia ormai i vecchi sindacalisti erano stati conquistati alla causa interventista, tanto da passare dalla redazione dell'«Avanti» al «Popolo d'Italia» di Benito Mussolini. Sorel nonostante l'abbandono da parte dei suoi vecchi compagni e immerso nel più nero pessimismo, avrà l'onestà di rivolgere un sincero elogio al Partito Socialista Italiano per la sua ferma opposizione alla guerra. Il trionfo inatteso del bolscevismo in Russia sorprenderà ed esalterà Sorel che non cesserà di ammirare e di difendere Lenin, non senza testimoniare al tempo stesso, una viva stima per Mussolini, di cui stava cominciando l'ascesa politica. Nel 1921 vendette la piccola villa di Boulogne in cui abitava dal 1893 per stabilirsi poco distante in un grande edificio dell'avenue Jean-Baptiste Clément. Negli ultimi mesi di vita, tormentato dai problemi fisici, non vide altri all'infuori del nipote Robert, del fidato amico e discepolo Édouard Berth e dei coniugi Delessalle. Morì in solitudine il 27 agosto 1922, venendo sepolto a Villeurbanne. Oggi riposa nel cimitero di Tenay; a pochi chilometri da Lione.
Non ha torto si è visto in Sorel il genio della contraddizione, per gli atteggiamenti assunti dal suo spirito vivacissimo e mai soddisfatto. Fu antimarxista, ma difese, sostenne ed esaltò la lotta di classe; fu antidemocratico, ma contemporaneamente teorizzò l'avvento vittorioso del proletariato; fu insieme antigiacobino e antiriformista, avversario irriducibile del cesarismo del Secondo Impero, della politica della Terza Repubblica e del radicalismo postdreyfusiano; avversò il positivismo e le correnti evoluzioniste per proclamare il valore della rivoluzione e la morale del sublime, ma accolse talune affermazioni positivistiche; fu antimilitarista, ma esaltò la funzione rinnovatrice della violenza; si dichiarò antipatriottico, ma ebbe vivissimo il senso della nazione e della tradizione francese; si definì antiterrorista, condannando l'esperienza del 1789, ma sottoscrisse i metodi leninisti della rivoluzione sovietica; fu anticlericale, ma lasciò pagine ricche di contenuto religioso; fu scettico e amaro, ma insieme animato da una fede incrollabile in una umanità migliore. Così ebbe dovunque contemporaneamente amici, detrattori e apologeti, a destra, al centro e a sinistra, senza riuscire mai a proporre un principio o un'idea valida per tutti.
Partito dalle affermazioni marxiste secondo cui la storia si identifica con la lotta di classe che produrrà un giorno la distruzione della società capitalistica, Sorel si distaccò da tutte le correnti socialiste, rivendicando contro ogni deviazione deterministica il valore assoluto e permanente delle forze morali, del sacrificio, della volontà e della libertà umana. La storia per Sorel rimane ancora un processo storico di divenire, di azione, di libertà, che si conquista e si realizza attraverso la lotta violenta; ma questa lotta e questa violenza, che costituiscono «la salute dell'umanità», hanno un valore e un fondamento essenzialmente morali, poiché le preoccupazioni d'ordine etico rimangono il presupposto e il principio informatore di tutte le pagine soreliane. «Ciò che vi è di veramente fondamentale in ogni divenire, è lo stato di tensione personale che si trova negli spiriti».
[caption id="attachment_11546" align="aligncenter" width="1000"] Sciopero operaio nel bacino minerario francese di Longwy: intonano l'internazionale e sventolano la bandiera rossa.[/caption]
Essere liberi significa così, non tanto sottrarsi allo sfruttamento economico, quanto superare la condizione attuale di tutta la società: ma per realizzare queste finalità occorre creare un «mito» in cui credere e per il quale agire (infatti mentre l'utopia è spesso intellettualistica, il mito ha sempre un fondamento religioso).
Nasce così il mito soreliano della violenza e della lotta di classe: il mito che non trasforma il mondo storico, ma lo rivoluziona; non lo cambia, ma lo distrugge; non lo adatta, ma lo ricrea. Attraverso questa lotta drammatica, che ha un fine costante di miglioramento morale, si realizza la vittoria rivoluzionaria del proletariato che è dovuta, non al prodursi del determinismo marxista, ma all'intervento spontaneo dell'azione e della volontà umana, ossia a quella forma di «volontarismo» che caratterizza il sostrato filosofico soreliano.
Correlativamente, la nuova forma politica, il sindacato operaio diventa il nucleo centrale, il fulcro vitale dell'ordinamento politico futuro, come lo furono in tempi diversi il convento, il feudo o la camera legislativa; mentre lo sciopero generale rappresenta, più che lo strumento, l'atto rivoluzionario supremo per realizzare la lotta di classe e per vivificare la combattività del proletariato fino al momento del grande urto, quando si annienteranno i gruppi monopolitistici del capitale, si distruggeranno le autorità politiche tradizionali e si affermeranno i nuovi quadri dirigenti e le nuove aristocrazie nate dalla lotta sindacale con «la missione di modificare il mondo, cambiandone la valutazione morale». E infatti nelle pagine di Sorel, torna insistente il motivo di una nuova morale, che «non è già un complesso di precetti, ma uno stato di entusiasmo che ci permette di vincere gli ostacoli posti dalle abitudini inveterate sulla via del progresso, i pregiudizi e il desiderio di immediati godimenti»: ossia una morale viva, dinamica, antiformale, libera da ogni schema pregiudiziale, aperta (per dirla con il linguaggio di Bergson), una morale che abbia «in sé l'idea del sublime». Così, questa costante preoccupazione etica che anima tutte le sue pagine giustifica come intorno al programma rivoluzionario di Sorel si siano raccolti pochi e non sempre vivaci animatori, mentre spiega come intorno alla sua personalità ricca e geniale si siano potuti riunire i plausi e i consensi degli esponenti più diversi della cultura e della politica, specie in terra italiana, dove Sorel ebbe ammiratori e difensori, da Benedetto Croce a Vilfredo Pareto, da Antonio Labriola ad Antonio Gramsci, oltre che Benito Mussolini.
Per approfondimenti:
_A. Monchietto, Da capo senza fine. Il marxismo anomalo di Georges Sorel, Petite Plaisance, Pistoia, 2015;
_M. Gervasoni, Georges Sorel, una biografia intellettuale. Socialismo e liberalismo nella Francia della belle époque, Milano, Unicopli, 1997;
_G. L. Goisis, Sorel e i soreliani, ed. Helvetia, 1984;
_G. Spadolini, Il pensiero politico di Georges Sorel ("La pensée politique de Georges Sorel"), coll. "Collana di filosofia e pedagogia ad uso delle scuole", nouvelle série, Le Monnier, Firenze 1972;
_S. Sand, L'illusion du politique. Georges Sorel et le débat 1900, Paris, La Découverte, 1984;
_P. Andreu, Notre maître, M. Sorel, Paris, Grasset, 1953;
_G. Sorel, Scritti politici, a cura di di R. Vivarelli, Utet,orino, 1963;
_B. Croce, Il pensiero di Georges Sorel, in Conversazioni critiche, I, Bari, Laterza, 1918;
_P. Lassere, Georges Sorel théoricien de l'impérialisme. Cahiers de la quinzaine, Paris, 1928;
_J. H. Meisel, The Genesis of Georges Sorel. An Account of His Formative Period Followed by a Study of His Influence, George Wahr Publ. Co., Ann Arbor, et Athena Publ., London 1951;
_J. Rennes, Georges Sorel et le syndicalisme révolutionnaire, Liberté, Paris 1936;
_I. L. Horowitz, Radicalism and the Revolt Against Reason. The Social Theories of Georges Sorel, with a Translation of His Essay on "The Decomposition of Marxism", Routledge & Kegan Paul, London, et Humanities Press, New York, 1961;
_E. Paresce, Giorgio Sorel e altri saggi, Gustavo Travi, Palermo, 1934;
_M. Freund, Georges Sorel. Der revolutionäre Konservatismus, Vittorio Klostermann, Frankfurt/M. 1932;
_V. Sartre, Georges Sorel. Elites syndicalistes et révolution prolétarienne, Spes, Paris 1937;
_R. Humphrey, Georges Sorel, Prophet Without Honor. A Study in Anti-intellectualism, coll. "Harvard Historical Studies", 59, Harvard University Press, Cambridge, et Oxford University Press, London 1951;
_C. Goretti, Il sentimento giuridico nell'opera di Georges Sorel, Il Solco, Città di Castello 1922.
 
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di Otello Palmini del 23/04/2019

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Il saggio La mente inquieta, edito da Einaudi, pubblicato nel 2019, viene a colmare un parziale vuoto nelle opere di Massimo Cacciari (1944). Infatti, anche se l’interesse del pensatore veneziano per l’Umanesimo è da tempo noto, non era disponibile, fino a ora, una pubblicazione di questa estensione ed organicità espressamente dedicata a questo tema. Questo lavoro è stato anticipato, non di molto, dal saggio Ripensare l’umanesimo che fa da introduzione curato da Raphael Ebdgi (1984) e sempre pubblicato da Einaudi nel 2016. La mente inquieta riprende e amplia alcuni temi del precedente lavoro, senza scalfirne la densità concettuale che rende questo testo, di sole 112 pagine, un lavoro di una straordinaria complessità e ricchezza.
[caption id="attachment_11272" align="aligncenter" width="1000"] Giorgio da Castelfranco (Giorgione), I tre filosofi (particolare), 1508-1509, olio su tela, 123,5 cm x 144,5 cm presso Vienna, Kunstoriches Museum.[/caption]
Un elemento di notevole interesse in cui ci si imbatte prima di addentrarsi nel saggio vero e proprio è la breve pagina che il filosofo veneziano premette al corpo del testo. In queste poche righe Cacciari ricorda l’origine del suo incontro con l’Umanesimo e, insieme, giustifica un interesse che, in prima battuta, potrebbe essere percepito come lontano dalla classica linea di pensiero dello stesso autore che si caratterizzava, specialmente negli anni giovanili, per una grande attenzione alla tradizione in lingua tedesca. L’interesse per l’Umanesimo nasce ai tempi di Krisis (Krisis, Saggio sulla crisi del pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein, 1976) una monografia che ebbe rilevanti effetti nel panorama culturale del secondo Novecento per il fatto di introdurre il “pensiero negativo” entro le riflessioni filosofiche della sinistra italiana spesso unilateralmente caratterizzate dalla tradizione dialettica. Il 1976 è anche l’anno di uscita del lavoro che procura l’occasione dell’incontro tra Cacciari e l’Umanesimo. Si tratta di Rinascite e Rivoluzioni (Rinascite e Rivoluzioni, Movimenti culturali dal XIV al XVIII secolo, 1976) un’antologia di saggi di Eugenio Garin (1909 - 2004) che pone davanti a Cacciari l’immagine di un Umanesimo problematico in grado di accendere l’interesse del filosofo. Un’età di transizione e inquieto tentativo di costruzione di una nuova visione del mondo. Un’«età assiale», scrive Cacciari, che per le sue contraddizioni e per «l’energia del suo solve et coagula» non ha più abbandonato le riflessioni del filosofo veneziano. A 43 anni di distanza da quella lettura, l’invito di Cacciari è quello di cercare, tra le pagine degli umanisti, la complessità e la profondità della tradizione italiana.
Il saggio è diviso in cinque capitoli. Il primo, introduttivo, propone un confronto tra l’Umanesimo italiano e Humanismus tedesco; il secondo e il terzo sono dedicati al problema della lingua e al nesso tra filologia e filosofia; gli ultimi due capitoli sono sondaggi che Cacciari compie sulla scorta di autori giudicati di particolare rilievo su due linee di pensiero che attraversano,talora intersecandosi, l’Umanesimo. Il volume entra nel merito di una questione cruciale: l’Umanesimo ha una filosofia? Tanto Giovanni Gentile (1875 - 1944), che fa dell’Umanesimo una fase embrionale, limitatamente artistica, del più maturo idealismo, quanto Ernst Cassirer (1874 - 1945) che giudica tutto il pensiero del Quattrocento utilizzando Cusano come unità di misura teorica, non concedono, a parere di Cacciari, un’indipendenza e una filosoficità peculiare all’Umanesimo. Né Paul Oskar Kristeller (1905 - 1999) e Ernst Robert Curtius (1886 - 1956), espressioni della migliore storiografia della cultura, chiariscono la questione stando a Cacciari, sostanzialmente non discostandosi dalla tesi di Jackob Burckhardt (1818 - 1897) di un Umanesimo tutto incentrato intorno alla soggettività artistica. La domanda allora è questa: «questa grande arte avrebbe mai potuto nascere senza un implicita filosofia dell’arte? E una concezione poietica del fare umano può non comportare, o addirittura imporre, un’antropologia filosofica» (p.5)?
Nel tentativo di rispondere a questa domanda Cacciari, nel primo dei sui sondaggi, affronta la natura del nesso tra filosofia e filologia a partire dall’opera di Dante e, in particolare dal De vulgari eloquentia, mette in evidenza quanto la lingua possa farsi espressione di un tempo storico e comunicare e chiarificare il sentimento profondo di un popolo. Una lingua, ben inteso, consapevole del proprio carattere dinamico, tanto più espressiva quanto più capace di seguire, e insieme dirigere, i mutamenti della vita in cui si produce. Una lingua che deve essere massimamente plastica per essere efficace e non può rinunciare all’inventio poetica. Anzi, è proprio l’inventio ad assicurarne la capacità trasformativa che è condizione necessaria della sua effettualità e, quindi, della sua stessa vitalità. I grammatici possono svolgere una lingua, ma ai poeti è lasciato il compito di fondarla. Dante è, per Cacciari, l’esempio più fulgido di questo fondamentale ruolo dell’inventio poetica nella genesi e nell’evoluzione di una lingua e del suo corredo retorico. L’uso dell’allegoria in Dante, rivela infatti la distanza dalle concezioni, non meno “allegoriche” che caratterizzavano la riflessone Scolastica.
[caption id="attachment_11277" align="aligncenter" width="1000"] Raffaelo Sorbi, Dante che incontra Beatrice (particolare) - 1863 Olio su tela cm.98x76.[/caption]
In Dante il significato allegorico infatti non è mai perfettamente esprimibile discorsivamente. Per questo la sua funzione non è quella di rimandare ad un “altro determinato”, ma è, l’allegoria stessa, simbolo della possibilità di esprimere Altro, «la poesia è divina quando la sua parola appare segno dell’Invisibile, oltre ogni definibile analogia di attribuzione o proporzione, quando lo illumina-illustra e ne è illuminata» (p.26).
Dalla riflessione sulla lingua che trova in Lorenzo Valla (1407 - 1457) la sua espressione più lucida e, insieme, discontinua rispetto alla tradizione, germoglia l’aspetto concettuale della filologia umanistica. «Homo è chi seppellisce i morti (humus-humare), ma per tenerli a cuore, ricordarli, con religiosa pietas. Dunque, in fondo, per disseppellirli sempre»(p.29). Allo stesso modo, la filologia umanistica deve essere sottratta a qualunque interpretazione volta a ridurla ad una contemplazione feticistica del il passato. Lo studio dell’antico non si riduce a sterile erudizione, non è con l’occhio dell’antiquario che gli umanisti guardano al passato e ai classici. E neppure, secondo Cacciari, l’approdo ad una «paideia totalizzante-armonica» può essere l’obiettivo della filologia umanistica come lo sarà poi per Humanismus tedesco. Lo studio della tradizione è presupposto fondamentale «all’esercizio critico consapevole». È il presente, in tutta la problematicità in cui questa età di passaggio a essere l’assillo della classicità indagata dagli umanisti. Individuare una nuova ratio, un nuovo ordine che sia in sintonia con il proprio tempo è impresa eminentemente filosofica ma non è cosa che possa farsi senza una lingua. Il latino classico, spiega Cacciari, funge da modello di una chiarezza alla quale aspirare. Ma è proprio l’essere modello non può condurre alla imitazione pedissequa di una lingua morta, ma deve attendere all’ inventio di una lingua diversa ma capace di eguagliare l’antica in chiarezza. Senza una lingua così concepita anche la creazione di un nuovo ordine resterebbe un sogno infantile. Logos è al contempo pensiero e linguaggio e la sua forza non può che nutrirsi di questa unione. La “filosofia filologica” deve essere l’antidoto alla astratta filosofia scolastica. La filologia deve assicurare alla filosofia il radicamento, la cura verso la tradizione e la chiarezza della forma. La tradizione deve essere quel cibo che non sazia mai e che, se metabolizzato, può dare la forza per muoversi in avanti. La filologia umanistica, insomma, è già, in sé, intimamente filosofica.
Questo senso profondo della filologia è presente in quello che Cacciari chiama, seguendo Garin, «Umanesimo tragico» che coinvolge Francesco Petrarca (1304 - 1374) prima, e poi Leon Battista Alberti (1404 - 1472) e Niccolò Machiavelli (1469 - 1527). L’uno e l’altro pionieri nel recupero della filologia al pensiero teoretico. Nel caso di Alberti l’arte edificatoria degli antichi deve essere studiata direttamente, pensata e metabolizzata come esempio per il proprio fare architettonico. L’antico deve essere quel serbatoio di esempi, di soluzioni, di schemi costruttivi, i quali devono costituire quella cultura necessaria a nutrire un ingegno che non voglia rassegnarsi ad essere astratto e quindi ineffettuale. Questa “filologia architettonica” albertiana è strutturalmente identica, suggerisce Cacciari, allo studio della storia che il Segretario fiorentino concepisce come un requisito indispensabile di un virtuoso agire politico. Gli exempla devono forgiare quella prudentia necessaria all’azione decisionale del principe, anche qui al fine di massimizzare la capacità dell’agire politico di incidere sul reale. Nessuna idolatria del passato, in entrambi i casi, ma un fagocitare la tradizione per ancorare a terra (humus) la concretezza del proprio fare. Un ulteriore nodo teorico che Cacciari individua come comune ai due umanisti, è il fatto che, entrambi, concepiscano l’uomo come soggetto che può e deve cercare di agire effettualmente nel mondo sebbene sempre in balia dell’eterna vicissitudo. La fortuna resta un elemento esterno, mai definitivamente e completamente riducibile alla ratio umana; un elemento senza il favore del quale non è possibile edificare una città né organizzare un corpo politico. L’azione umana è destinata a una continua mediazione con questo alter. Ma anche in sé, la struttura stessa dell’essere umano, la sua continua e insaziabile curiositas, lo consegna a una vita senza requie, ad un continuo superamento della stasi, ad una agire tragico nella misura in cui mai potrà essere definitivo. La libertà dell’azione umana è sottoposta tanto ai limiti del Fato quanto a quella della stessa struttura umana, quindi, ad un perpetuo agire inquieto. Tanto la scienza della costruzione albertiana quanto quella politica machiavelliana sono impregnate di un forte anti-dogmatismo e di una forte carica anti-utopica, nota ancora Cacciari, entrambe sono scienze della congettura, dell’ipotesi, tagliate su un essere umano che deve misurarsi con elasticità con la realtà. «La contraddizione deve essere sostenuta, ‘tollerata’, non possiamo sperare di sanarla, così come non possiamo eliminare, quasi si trattasse di errori logici, quel carattere o demone della nostra natura […] piuttosto che con la visione della verità, si conclude con la drammatica scoperta della molteplicità dei nostri nomi, non con l’Uno, ma con la sua stessa e originaria divisio» (p.65). La tragicità di questa linea della riflessione umanistica consiste nel consegnare l’uomo a una vita di ricerca non garantita da alcun appiglio metafisico. La contraddittorietà che caratterizza tanto la stessa natura umana quanto il rapporto dell’azione umana con la fortuna, non lascia spazio ad alcuna posizione definitiva, pacificata, a nessuna via aurea da percorrere, ma consegna l’esserci umano a costruirsi faticosamente delle strade che lo assicurino in una realtà priva di appigli definitivi.
L’altra linea, percorsa da Cacciari, è quella del neoplatonismo di Marsilio Ficino (1433 - 1499) e, soprattutto, della speculazione di Giovanni Pico della Mirandola (1463 - 1494). Il fine perseguito, in maniera massimamente rigorosa da Pico, è quello della pax, il superamento dell’asimmetria della struttura umana diventa l’obiettivo del lavoro del conte di Mirandola. La concordia, in questo indirizzo di pensiero, diventa il faro alla luce del quale agire. Un possibile, non facile da raggiungere, che, però, deve orientare le dinamiche umane nel mondo. Diventa fondamentale il perfezionamento di sé che può prendere corpo solamente nell’inesausto rapporto con i classici.
[caption id="attachment_11280" align="aligncenter" width="1000"] Giovanni Lusini, Statua di Leon Battista Alberti (particolare), Galleria degli Uffizi, Firenze.[/caption]
Tanto lo studio dell’antico quanto il confronto con la pluralità delle tradizioni portano a quella unità che sola può assicurare la concordia. L’Oratio pichiana è per Cacciari la prova che questa pax non potrà essere ottenuta seguendo una sola tradizione. Ma è evidente che l’obiettivo al quale Cacciari orienta la propria analisi del pensiero pichiano sia quello del De ente et uno. Nelle Conclusiones nongentae, segnatamente nelle Conclusiones magicae, l’unità dell’uomo con il mondo si ottiene solo nell’azione: in quella magia naturale che è l’operare secondo la logica della natura. Anche lo studio della Cabala non segue una diversa prospettiva: «nello studio della Cabala non si esprime, allora, una disciplina particolare, per quanto alta o somma; la Cabala rivela quella dimensione dello spirito in cui la limitatezza stessa dei distinti si supera e invera»(p. 83) L’uomo è questo esser-ci, questo possibile, che ha la capacità tanto di innalzarsi quanto di decadere. Per potersi innalzare, deve assumere su di sé tutte le tradizioni e, insieme, riuscire a ricomporle in un nucleo unitario. Questa prassi dell’Uno, che può condurre alla pax, è perseguibile forse individuando la logica di una simpatia universale che tutto regola? Forse nello studio delle stelle, quello astrologico ovviamente, può risiedere una soluzione? Queste domande restano aperte, ma la pace nell’interpretazione cacciariana resta impossibile, l’agire dell’uomo può essere efficace, ma per esserlo deve contare solo su se stesso, deve essere emendato da qualunque disegno provvidenziale, da qualunque logica che lo preceda e lo inveri.
Tornano Alberti e Machiavelli con la loro pesante carica di disincanto. Forse, conclude Cacciari si deve recuperare un metodo della pace che non abbatta le differenze, ma in cui, viceversa, i differenti si rispettino in quanto tali, consci dell’impossibilità di una loro risoluzione nel senso dell’Uno. Ogni posizione parziale deve riconoscere se stessa nel rapporto con le altre, in un rapporto di profonda alterità e contrasto che le renda però indispensabili una per l’altra. Il tentativo è quello di pensare l’Uno come quel contrasto rispettoso tra le alterità, in cui queste non vengano annullate da una logica che possa ridurle ad una, ma persistano in un dialogo produttivo tra distinti. Strada difficile, ma forse necessaria al di là dell’interpretazione dell’Umanesimo.
Il saggio di Cacciari restituisce un Umanesimo che continua a dare da pensare, che non si lascia mettere da parte e come stadio, ormai superato, della vita dello spirito europeo. La sua inquietudine oscilla coraggiosamente e realisticamente tra «solve et coagula», tra l’ebrezza per l’instaurazione di una nuova visione del mondo e la difficoltà di realizzarla. Questo è l’Umanesimo che si scopre in queste pagine e che può essere, per chi si trova in un tempo di crisi, un esempio, machiavellianamente o albertianamente inteso, per agire sul proprio tempo. Ciò che può essere portato, da queste pagine oltre l’interpretazione dell’Umanesimo è il tentativo di pensare un metodo della pace che non sia guerra fratricida ma nemmeno riduzione ad uno. Un metodo che faccia della differenza radicale una ricchezza e non tenti di sanarla nel segno di una qualche unità, un metodo che insegni il rispetto della differenza in quanto tale e non in quanto, tutto sommato, riducibile alla nostra visione del mondo. Il compito che questo Umanesimo suggerisce è una vita infinita di ricerca di se stessi nel rapporto con l’altro inteso come elemento essenziale del nostro cammino. Ogni visione del mondo può andare in profondità dentro se stessa, solo a patto di fare questa strada assieme a tutte le altre. Una strada che resta infinita data l’impossibilità di una pax nel segno dell’omologazione, e che, quindi, deve essere contraddistinta da una paritaria, rispettosa quanto netta contrapposizione.
Per approfondire:
_Jackob Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia, a cura di Eugenio Garin, Firenze, Sansoni, 1955;
_Ernst Cassirer, Individuo e cosmo nella filosofia del rinascimento, Torino, Bollati Boringhieri 2012;
_Giovanni Gentile, Il pensiero italiano del Rinascimento, Firenze, Le Lettere 2003;
_Massimo Cacciari, La mente inquieta, Torino, Einaudi, 2019;
_Massimo Cacciari, Ripensare l’Umanesimo, In Umanisti Italiani, pensiero e destino, Torino, Einaudi, 2018;
_Eugenio Garin, Rinascite e Rivoluzioni, Movimenti culturali dal XIV al XVIII secolo, Bari, Laterza, 2007.
 
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di Giuseppe Baiocchi del 27/11/2018

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Perché qualcosa, anziché nulla? Chi siamo? Siamo liberi? Il tema e la domanda che davvero urge in tutta la riflessione filosofica occidentale deriva da questi tre quesiti. Che cosa può dirsi libero? Su quali ragioni possiamo dirci liberi? Partendo dalla definizione di Baruch Spinoza (1632 - 1677) egli nella sua opera principale “Ethica ordine geometrico demonstrata; Ethica more geometrico demonstrata” afferma: «diciamo libera quella cosa che esiste per sola necessità della sua natura e si determina ad agire da sé sola»; questa è la definizione più rigorosa che possiamo dare al termine libertà.
[caption id="attachment_10830" align="aligncenter" width="1000"] Sir Lawrence Alma-Tadema, Punto di vista previlegiato (particolare), 1895.[/caption]
Sulla base di questa definizione nessun uomo potrebbe dirsi veramente libero, poiché la sua mente è sempre determinata ad agire da un’altra con-causa e così via per infinite volte. Se noi teniamo ferma la definizione di Spinoza, questa ci appare molto convincente, poiché conduce l’uomo a domandarsi propriamente il perché egli rivolge tale quesito, che è davvero senza risposta. L’uomo si chiede questa domanda perché non è felice del proprio agire, ma se l’individuo umano fosse soddisfatto delle proprie azioni, si interrogherebbe su tale tematica? Probabilmente no: l’animale non si pone tale quesito. Per quanto possiamo saperne la fiera è contenta nella sua azione, è assolutamente determinata e dominata dalle cause che la spingono ad agire, ma in questo dominio in cui è pervasa è in esso contenta. L’uomo di contro, nel suo essere determinato, nel suo essere causa, non è felice: la sua azione non è mai soddisfacente e da qui la domanda sulla libertà.
Dunque tale inquietudine umana, derivante da una profonda insoddisfazione, porta il nostro ergon (lavoro – come nostro agire) al mancato raggiungimento della sua enèrgheia (la forma è atto): esso non è mai in pace con sé, non è mai vero atto. L’ergon umano soffre di una sua miseria interiore, di una sua assenza, di una sua povertà: non sa mai compiersi o perfigersi, non riesce a trovare la perfezione. Perché l’umanità non riesce mai a produrre una cosa per cui essere in pace? Forse perché non siamo liberi, forse perché c’è qualcosa di cattivo che ci determina ad agire. Ed ecco perché la libertà si coniuga direttamente al tema del male: l’uomo si pone la domanda sulla libertà, perché il suo agire è male, perché facciamo “male” (nel senso generale e radicale del termine), perché qualsiasi opera non ci soddisfa, perché non siamo mai enèrgheia, atto, perché siamo sempre un ergon imperfetto. Ci poniamo sovente la domanda sulla libertà, perché inconsciamente ci sembra di essere cattivi. Facciamo male al di là di ogni accezione psicologica e moralistica del temine, ma in senso ontologico.
[caption id="attachment_10836" align="aligncenter" width="1000"] Antonello da Messina, San Girolamo nel suo studio di pittura.[/caption]
Questo il tema: la libertà e il male, formano un unicum. Quale è stata dunque la risposta, dominante nella tradizione filosofico-teologica occidentale, che inquieta e continuerà a interrogare l’uomo su questo grande problema? Forse è stata quella impostata da Platone che può ricondurci all’origine della nostra riflessione. Egli afferma in forma canonica: «del male (del nostro far male) il Dio non può essere ritenuto causa. Dio è bene, Dio è immutabile, è semplice e veritiero ed è causa di tutti i beni: Theos anaitios, Dio è innocente». Sarà su tale base platonica, che si fonderà la teologia futura. Ovvero il concepimento che Dio, ritenuto innocente dei mali del mondo, non ha responsabilità sul nostro “far male”. Le “cattive azioni” umane sono nostra mera scelta, appunto, una nostra libertà. Come afferma Massimo Cacciari: «Noi non siamo determinati dal Divino ad agire male; le nostre imperfezioni, le nostre miserie, sono frutto e prodotto della nostra libertà». L’uomo dunque è causa del male, il grande mito platonico della Repubblica è proprio l’essere umano, poiché sarà esso a decidere il proprio daimon (il proprio carattere), il proprio demone, scegliendolo sulla base delle vite che ha condotto. Ed è libero in tale scelta, proprio come sottolinea Platone: «l’uomo è perfettamente libero in quella scelta» - però è - «libero soltanto nel momento della scelta del suo daimon», poiché una volta deciso il carattere, esso rimarrà vincolato da ferree inesorabili catene. Difatti una volta aver scelto il proprio daimon, l’uomo lo fa suo (liberamente e nessun Dio è causa di ciò) e resta relegato ad esso: è libero unicamente nell’istante supremo della sua decisione, lì l’uomo si determina per poi essere condizionato per tutta la vita da quella scelta. Ma l’uomo non solo nel momento della scelta, nella cultura classica greca, è libero, ma mantiene tale stato anche durante la propria esistenza, prima della scelta caratteriale. Tale condizione agisce, nel corso della vita umana, con l’accumulazione di tutte le conoscenze necessarie, fondamentali nel momento supremo della decisione, poiché l’essere umano deve essere “consapevole” del destino che sceglie. Questo è un tema caratteristico della cultura greca: è la sua dominante intellettualistica. La volontà dell’uomo, si esplica unicamente nella sua voglia di conoscere e solo in questo frangente ideologico vi è una possibile salvezza. L’uomo può conoscere il proprio destino e solo tale conoscenza può salvarci dal seguire il carro del destino in ceppi come uno schiavo oppresso - un’immagine questa che ricorre in tutta la cultura ellenistica e cristiana. L’uomo non ha la facoltà di sfuggire al proprio destino, ma ha la libertà di poterlo conoscere e dunque di avere facoltà di seguirlo volentieri: intelligere Deum – non come gli schiavi seguono il carro dei vincitori, in catene. La focalizzazione deve avvenire nel frammento del “comprendere il necessario”, nella capacità umana di armonizzarsi al necessario, tendere al lògos, alla ragione che pervade tutto il cosmo e l’uomo può comprenderla, quindi si può armonizzare ad essa. Qui comprendiamo la nostra libertà: nel conoscere ciò che è necessario. Inutile dire che la nostra società contemporanea induce all’esatto opposto.
[caption id="attachment_10831" align="aligncenter" width="1000"] Hieronymus Bosch, Trittico del carro del fieno (particolare),1510-16.[/caption]
La formazione della ragione “del tutto” – ultima grande parola della gnòsis classica (conoscenza classica), ci porta alla conclusione del quesito di partenza, ovvero il nostro rapporto tra libertà e male. Se la libertà umana consiste nel porsi un’unica ragione del lògos (pensiero) che pervade il mondo, una volta acquisito questo complemento, cosa accade al nostro “male”? Non-consiste più, perché tutto diviene ragione, dove “male” e “bene” divengono punti di vista soggettivi, poiché il primo termine diviene unicamente ciò che fa male all’uomo in quanto tale, ma che non riguarda affatto la ragione nel suo insieme pensato.
Il “male” infine può realizzarsi unicamente nella mancanza di sapere, poiché costringe l’essere umano alla ruota del carro degli eventi in forma meramente subordinata ad esso e non dalla visuale elevata di colui che guida il carro. È male non sapere, poiché rilega l’uomo in una condizione di oppressione destinale e non di alleato consapevole del destino. Allora il male diviene unicamente un vuoto, una mancanza, niente (il nichilismo deve farci riflettere oggi più che mai): il punto di vista di un soggetto ignorante, di uno schiavo, di una res nullius (cosa di nessun rilievo, di nessuna importanza) per gli antichi. Concludiamo affermando che il male è solamente il punto di vista di un ignorante, colui che non vede la totalità del cosmo e la sua unica ragione e che non possiede nessuna prospettiva. Tutta la nostra tradizione filosofica e teologica Occidentale, rimuove il problema del male, lo annichilisce.
 
Per approfondimenti:
_Baruch Spinoza, Etica dimostrata secondo l'ordine geometrico, a cura di Giovanni Gentile, Gaetano Durante, Giorgio Radetti, Milano, Bompiani, 2013;
_Baruch Spinoza, Etica dimostrata con metodo geometrico, a cura di Emilia Giancotti, Milano, PGreco, 2010;
_Francesco Sarri, Socrate e la nascita del concetto occidentale di anima, Vita e Pensiero, 1997;
_Enrico Berti, Filosofia pratica, Guida Editori, 2004;
_Elisa Cuttini, Unità e pluralità nella tradizione europea della filosofia pratica di Aristotele: Girolamo Savonarola, Pietro Pomponazzi e Filippo Melantone, Rubbettino, 2005;
_Massimo Cacciari, Il libero arbitrio, Vivarium, Napoli, 1993;
_M. Vegetti, Introduzione a Platone, La Repubblica, BUR, Milano 2007
 
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di Giuseppe Baiocchi del 28/07/2018

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Tema decisivo della nostra cultura europea è l’educazione: in fondo educare significa coltivare una mente, un’anima, coltivare anche un corpo. Il tema educativo è fondamentale per la nostra civiltà, ma generalmente per ogni cultura che pensi al futuro. Educare significa allevare delle persone che “saranno domani”; difficile educare un cinquantenne in formato “permanente”. L’educazione è dunque un tema decisivo per quelle culture che pensano al proprio futuro, poiché pensare al divenire significa essenzialmente in-vestire nell’espressione orrenda del “capitale umano”.
[caption id="attachment_10764" align="aligncenter" width="1012"] Insegnante con bambini in una scuola austriaca nel 1930.[/caption]
Dunque l’indice migliore per capire che una società è in crisi  è quella di vedere l’indice di educazione programmatica, poiché una società che non investe in educazione, non prepara il proprio futuro; si limita soprattutto a “sopravvivere”, si limita a “galleggiare”.
Educazione può essere espressa in vari modi, nelle nostre lingue: partendo dal greco παιδεία (paidéia), letteralmente sta a significare educare il fanciullo, pâis. Certo una persona matura e intelligente continua ad educarsi, tuttavia noi conosciamo che da un punto di vista medico, il nostro cervello oltre una certa età non è più modellabile: è un fatto fisico, non siamo meno intelligenti, ma la mente diviene diversa, elabora, approfondisce, ma fatica enormemente a rimodellarsi; esempio lampante lo abbiamo nell’apprendere una lingua, poiché arrivati ad una certa età, non si riesce a parlarla correttamente – se non meccanicamente. Quindi paidéia, tema platonico nelle sue origini greche, è un bel nome, dal latino educĕre, condurre fuori, far uscire, far sgorgare qualcosa dal fondo. Possiamo dunque dire che educare è l’opposto di informare: “educĕre, in-formare”. Sono due visioni del mondo completamente opposte, in questi termini che noi continuamente confondiamo, perché oramai caratteristica della nostra epoca è parlare, senza sapere ciò che si dice: senza essere informati dei termini che usiamo.
Dunque riprendendo il latino, se io “traggo fuori” qualcosa da un contenitore, significa che in tale oggetto vi è qualcosa; che quel contenitore non è un vuoto, se io “traggo fuori” un elemento: ciò significa che la scatola non è vuota. Ciò sta a significare che una concezione della persona che educo, non è la visione di un contenitore svuotato di sé, platonicamente parlando, ma sta a significare che nella mente di quel individuo vi è “in potenza” il tutto: da qui “educare”.
Bisogna conoscere e ri-conoscere il valore di quella persona che ho di fronte, capire le potenzialità dell’individuo ed essere così talentuosi da trarne fuori il meglio. È la visione maieutica (maieutiké, sottinteso: téchne) della paidéia propria dei cardini della nostra Europa.
[caption id="attachment_10768" align="aligncenter" width="1000"] La Scuola di Atene (particolare) è un affresco (770×500 cm circa) di Raffaello Sanzio, databile al 1509-1511 ed è situato nella Stanza della Segnatura, una delle quattro "Stanze Vaticane", poste all'interno dei Palazzi Apostolici (Città del Vaticano).[/caption]
L’educazione maieutica consiste nel “far partorire” la persona che ho di fronte – la donna che sta per partorire ha bisogno del medico che trae fuori il neonato -, poiché ciò che il pâis ha in sé, non riesce ad emergere da solo, ma ha bisogno di un “medico” che lo aiuti (le analogie tra medicina e filosofia, sono infinite). A questa visione educativa, se ne contrappone  un'altra: vi è il docente, la scatola vuota del dicente, e il primo che in-forma; ovvero mette la propria forma in quella scatola. È una scelta decisiva per una civiltà, prima di tutto si deve intendere bene quale modello scegliere: quello dell’educazione dove la relazione tra docente-discente, sia composta dal primo che si sforzi di comprende l’intelletto del secondo; oppure un modello in cui c’è il docente che conosce e trasmette il suo sapere in forma costrittiva al discente? Vogliamo il modello informativo? Finché il nostro Ministro dell’Istruzione (passato-presente) non decida tale indirizzo, l’educazione non potrà funzionare.
Quale il fine per cui educo? I due modelli non sono compatibili. A che serve educare? L’educazione deve essere finalizzata all’utile, o alla virtù – parafrasando Aristotele. Deve essere un’educazione che serve alla professione – qualunque essa sia – o serve a formare un “uomo buono”?
Certamente ci appaiono oggi domande insensate, ma sono più attuali che mai, poiché abbiamo un modello di educazione che deve “servire”. La scuola al “servizio” della professione. È certamente una contraddizione in termini, un paradosso: la scuola al servizio, letteralmente, sta a significare che il periodo della vita in cui un individuo è in scholé, ovvero in ozio, è tutto organizzato al fine dell’occupazione. Perché? È una contraddizione in termini. Come può un elemento in ozio a “servire”? La contraddizione si annulla se si afferma che il periodo dell’educazione non deve essere rivolto a “servire” qualcosa, ma è rivolto a “formare” – a dare forma – a quella persona che io educo: a renderla buona, ma non sotto il punto di vista morale, ma sotto il punto di vista etico – che è integro, in forma, padrone delle proprie capacità.
Il modello educativo che non è finalizzato al “servire” qualcosa, ma si indirizza verso la costituzione dell’uomo nella sua libertà: nell’essere umano che certamente poi si professionalizzerà, si specializzarà, ma sempre partendo dalla sua integrità in quanto “forma”.
Il servizio della scuola è il tradimento dell’essenza stessa del plesso scolastico e non meramente sotto il profilo letterale del termine, poiché il senso della terminologia si identifica con il suo fine educativo. Certamente nell’età antica l’uomo libero (lībĕr - figlio) era colui, a differenza degli individui impegnati nei lavori manuali, che dirigeva - l’élite che comandava. I “veri liberi” (i figli di) erano il vero limite dell’antichità, ma per tale ragione noi oggi dobbiamo eliminarne l’idea di fondo? Nella nostra epoca dobbiamo essere “per tutti” e non per la libertà di pochi, ma certamente non tutti “al servizio”. Nonostante l’imposizione dei media e delle piattaforme multimediali, dobbiamo tornare “liberi”, per non rischiare di rimanere all’interno della miopia, della cecità, del processo educativo totalizzante che mira unicamente alla “professionalizzazione” in quanto tale. È molto più attuale il processo formativo rivolto a formare l’uomo “buono”, il quale possiede la capacità di specializzarsi liberamente, che l'individuo educato alla mera professionalizzazione.
Proprio oggi la velocità di trasformazione lavorativa, legate alle tecniche professionali di occupazione, vuole un’educazione formata nel senso più alto del temine, come indicato. Proprio questo termine angosciante dell’occupazione, ci rende “occupati”; ma perché devo essere “occupato”? Voglio lavorare e non essere occupato: perché quando lavoro devo essere occupato? Perché non libero? Dobbiamo usare un linguaggio educativo di formazione verso i giovani, che li spinga verso una strada di autonomia e quindi di libertà.
Quindi due stadi: il primo è certamente il modello – comunicazione, educazione o informazione -; il secondo consiste nel chiedersi se essere al servizio dell’utile o della virtù. Proprio tale ultimo termine dal greco Aretè (ἀρετή) significa propriamente la capacità di compiere qualsiasi cosa “al limite”, di averne “la potenza” – rendere il pâis (fanciullo) potente di tutto. Ma tale “potenza” può essere esercitata unicamente se si è “liberi” dal servire questo o quello. Se si possiede una educazione al servizio non si sarà mai totalmente in libertà (discorso differente nel servire un’ideale superiore ideologicamente, soggettivo, in piena libertà di spirito). Tale prerogativa legata all’asservimento, non ci renderà mai pronti ad affrontare di slancio i radicali mutamenti di contesto della nostra epoca – legata alla velocità – della nostra contemporaneità.
Un terzo modello può essere incentrato sul “come”, educare: educare tutto - bisogna trarre fuori quell’essere in potenza. Il docente dovrebbe in primis capirne la natura; esso potrebbe essere paragonato ad un medico. L’insegnante non può pensare di “trarre fuori” la stessa potenza da chiunque, poiché la natura di coloro che incontra e di coloro con i quali entra in comunicazione (la parola – opposto di informazione) è diversa. Deve Cum-prendere quella natura: non esiste una educazione strettamente egualitaria – i regimi totalitari ci hanno provato e hanno fallito miseramente. Anche il fisico va educato: in Italia la sottovalutazione fisica (educazione ginnica) è folle; ancora altro elemento messo da parte è la musica, il linguaggio più universale che l’uomo occidentale ha conosciuto.
Perché ginnastica e musica? Perché i greci pensavano che le basi della paidéia operavano nel ragazzo, la forma e l’armonia tra le parti. Se il fanciullo veniva educato al linguaggio universale della musica, esso poteva muoversi armonicamente, controllando la situazione (data dal ritmo) dei movimenti delle parti del suo corpo, formando in lui, naturalmente, un’idea di colleganza, di composizione, di forma. Naturalmente se si è così educati, nella propria vita non “ si stonerà” mai (se si esclude l’amore), qualsiasi sia la propria attività, addirittura ci sembrerà innaturale tutto ciò che vìola le leggi dell’armonia, della composizione, della forma. Se si viene educati bene e si desidera intraprende l’arte della politica, sicuramente non si potranno commettere ruberie, perché si avrà avversione; esattamente come l’educazione porta a non commettere gesti poco consueti in pubblico.
Così ragionavano i nostri classici: l’educazione deve formare l’abitudine, se questa non ci forma verso una vita “buona”, non possiamo parlare di educazione; si possono apprendere tutte le nozioni disciplinari, ma se si è sprovvisti di educazione verso “l’abitudine” (èthos) la fatica nozionistica appare vana, fine a se stessa. Non a caso i latini riprendono il termine mores affermavano che l’importanza delle leggi è nulla senza l’educazione (i mores), poiché queste verranno sistematicamente disobbedite. Ed è qui che torniamo alla scuola e alla sua importanza, quando questa è rivolta alla virtù, alla bontà e non quando essa è rivolta a dare qualche informazione: può dare un milione di nozioni, ma non formerà mai l’abitudine alla vita buona (la Chiesa insegna l’idea giusta dell’abitudine all’educazione, solo per citarne un esempio in ambito prettamente medievale). È proprio dall’armonia educativa che nascono l’aritmetica, la geometria, la filosofia, l’architettura e tutte le discipline che compongono l’avere umano. Non a caso la Politeia (πολιτεία) di Platone è la somma opera della filosofia occidentale, che parte dall’archetipo della ginnastica e della musica: educazione e armonia delle parti.
 
Per approfondimenti:
_Platone, Teeteto, o Sulla Scienza, Milano, Feltrinelli, 2005;
_Dialoghi di Platone. Teeteto, Fratelli Bocca, 1892;
_C. Kahn, Platone e il dialogo socratico, Vita e Pensiero, Milano 2008;
_F. Adorno, Introduzione a Platone, Laterza, Roma-Bari 1995;
_Franco Volpi, M. Heidegger, L'essenza della verità: sul mito della caverna e sul Teeteto di Platone; Adelphi, Milano, 1997;
_Aristotele, Le tre etiche, Milano Bompiani, 2008;
_Aristotele, Etica Nicomachea, Bari, Laterza, 1999;
_Lucia Caiani, Lettura dell'Etica Nicomachea di Aristotele, Torino, UTET, 1998;
_Franco Volpi, È ancora possibile un’etica? Heidegger e la “filosofia pratica” – Acta Philosophica, vol. 11 (2002).
 
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

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di Liliane Jessica Tami del 22/09/2018

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Nella storia del 900, tra gli svariati personaggi che il secolo breve ha conosciuto, Richard Walther Darré (1895 - 1953), già Ministro dell’agricoltura tedesca dal 1933 al 1938 è stato politico e scrittore nato il 14 luglio a Buenos Aires, in Argentina, da una famiglia di coloni tedeschi. Alla tenera età di 10 anni sbarca in Germania poiché la famiglia desidera non far smarrire al figlio le sue radici europee. Partecipò alla Prima guerra mondiale e guadagnò la Croce di Ferro poi, dopo aver concluso gli studi presso la Deutsche Colonial Schule, si iscrisse alla facoltà di agraria e zootecnica dell’università di Halle.
Studiando l’eugenetica (dal greco eu=buono ; genos=generazione) animale, in particolare dei cavalli da corsa, prese convinzione verso l'importanza del mantenimento delle linee di sangue pure, sia in campo zoomorfo, sia in quello umano, affinché si preservino le migliori qualità biologiche e caratteriali attraverso le generazioni. Da qui nasce il suo auspicio: che le famiglie nobili e possidenti terrieri non perdano il loro sangue e la proprietà, tramandandoli. Non si tratta di una forma di "razzismo", come potrebbe apparire, ma dalla forma dell'aver della razza: ovvero la preservazione delle proprie peculiarità fisiche e culturali, non dettate da una presunta superiorità, ma dalla volontà e libertà di non attuare il meticciato. 
Il saggio breve dal titolo La Nuova Nobiltà di Sangue e Suolo, pubblicato in Italia per la prima volta nel 1978 dalla casa editrice AR e poi ristampato nel 2010 dalla Ritter Edizioni, è suddiviso in sei capitoli, la cui nominazione spiega bene i temi esposti. La fase iniziale tratta l'esposizione preliminare della questione (l’autore enuncia i motivi secondo cui vi è la necessità di una nuova aristocrazia); successivamente analizza la storia dell’evoluzione della nobiltà tedesca (confronto fra nobiltà germanica pagana, nobiltà cristiana e nobiltà Romana); osserva i caratteri fondamentali del Ritter von tedesco (libero gentiluomo possessore terriero avente sangue nobile, in grado di partecipare all’amministrazione politica della propria comunità mediante le pubbliche assemblee, i Thing); Il Hegehof (la proprietà terriera di famiglia); L’Hegehof e il matrimonio, con la necessità di trovare una donna di nobili natali, indifferente al richiamo delle vanità borghesi, in grado di portare avanti la tenuta di famiglia; infine alcune direttive generali sull’educazione della giovane Nobiltà e sul suo rango in seno al popolo tedesco.
Nel primo capitolo Darré espone un’analisi etica e politica riguardante la nobiltà. In sintesi egli sostiene che essa debba essere restaurata, come fu in origine, affinché l’Europa venga redenta dalla decadenza morale che l’affligge. Secondo l'argentino, alla base di ogni comunità vi debbono essere le famiglie da secoli legate a quella terra, di contro si andrà inevitabilmente verso la frammentazione in migliaia di singoli individui sradicati dalla propria stirpe e dal proprio luogo d’origine.
Walter Darrè aveva osservato con i propri occhi la decadenza avvertita da parte della società alemanno-tedesca all'interno della Repubblica di Weimar, e qui enuncia una serie di esempi di civiltà che si sono corrotte per via della perdita dell’antica aristocrazia che ne fondò le basi. Ad esempio, all’indomani delle guerre tra plebei urbani e patrizi d’origine agraria, la nobilitas Romana venne perlopiù composta dalle famiglie patrizie indissolubilmente legate alla terra da lavorare. E Roma, che inizialmente era repubblicana, fu gloriosa proprio perché la nobiltà era incarnata dalle famiglie patrizie. A parer suo una civiltà che pone l’individuo, anziché la famiglia, al centro del proprio codice civile è destinata a fallire. Egli infatti asserisce come: «l’avvento della democrazia in uno Stato aristocratico provoca all’inizio una disgregazione generale [...] essa nega i legami ereditari e famigliari […]. Infatti, dopo un’iniziale prosperità, l’assenza di qualità ereditarie ne spegne il bagliore, portandola alla decadenza».
[caption id="attachment_10635" align="aligncenter" width="1000"] Nelle quattro immagini (da sinistra a destra): il politico argentino, naturalizzato tedesco Richard Walther Darré; la versione del saggio italiana; due versioni originali del saggio in tedesco Neuadel aus Blut und Boden.[/caption]
La vera nozione di nobiltà germanica, secondo Darré, si caratterizza mediante una selezione di dirigenti consapevolmente educati sulla base di ceppi ereditari selezionati. Purtroppo, la vera nobiltà, di sangue e di impeccabile educazione non esiste più già dai tempi del Barone vom und zum Stein - Testamento politico di Heinrich Friedrich Karl vom und zum Stein (1757 - 1831), lettera del 24 novembre 1808 a Theodor von Schön (1773 - 1856) -, che ne invocava la soppressione. La nobiltà, secondo l’agronomo, è ormai solo interessata a frequentare i ricevimenti dei commercianti e dei nuovi ricchi, e non ha nulla a che fare con la nobiltà di razza e d’animo, legata alla propria stirpe, che caratterizzava gli antichi germani. Non a caso il filosofo tedesco Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844 - 1900), ne La volontà di potenza asserisce che: «Non vi è nobiltà che per nascita e per sangue. Non parliamo però né del Gotha né della particella von intercalata per gli asini. Questa particella von, se noi parliamo di aristocrazia dello spirito, è sospetta e assai sovente nasconde qualcosa: basta solo vedere come gli ebrei ambiziosi la ricerchino. Lo Spirito da solo non nobilita, gli manca ancora ciò che nobilita lo spirito: l’ascendenza nobile»!
Il secondo capitolo è di tipo storico, e l’autore espone una cronologia della storia della nobiltà e le principali differenze che vi sono tra l’antica nobiltà pagana germanica, la nobiltà cristiana, in cui vige il valore dell’eguaglianza, e la nobiltà della Roma imperiale, multietnica e in cui vigevano ostentazione, lussuria e corruzione.
L’antica nobiltà germanica, come in gran parte anche quella degli Indoariani, si basava sulla credenza dell’ineguaglianza umana. Secondo le antiche credenze pagane, queste ineguaglianze risalivano ad antenati divini, e si credeva che il sangue portasse in sé i germi essenziali del carattere dell’uomo, così come le qualità fisiche ed intellettuali. Per questo i pagani pensavano anche che ci si reincarnasse sempre all’interno del medesimo ceppo famigliare. La purezza del sangue, infatti, come ricorda von Amina nel saggio Principi di diritto germanico, veniva mantenuta con severe leggi di selezione che seguivano una logica impressionante. Inoltre, presso gli antichi germani, non vi era differenza tra un nobile e l’uomo libero. Per gli antichi tedeschi non esistevano, infatti, segni esteriori della nobiltà come le insegne di rango tali il trono, lo scettro, il manto regale. Furono le grandi migrazioni provenienti da Bisanzio, nel 900, a portare l’idea che la nobiltà andasse ostentata con segni di riconoscimento superficiali, anziché puramente etici e genetici. I germani, liberi e nobili, senza distinzione di rango, si davano del “Tu”.
L’uso romano di rivolgersi a Sua Maestà il Re e alla terza persona apparve soltanto in seguito, per dar luogo a sua volta ad un’etichetta che nel medioevo divenne via via sempre più complessa, raggiungendo poi vette eccessive durante l’assolutismo.
La nobiltà determinata dal sangue degli antichi germani venne spazzata via dal cristianesimo, secondo cui vige l’uguaglianza tra tutti i figli di Jahwhé e tutti, a prescindere dalla razza d’appartenenza, possono in ugual modo meritarsi il regno dei cieli. Ciò comportò, più tardi, presso i Franchi, che anche i funzionari servi potessero comprare il titolo di nobile. Darrè, inoltre, riporta anche un fatto assai particolare e paradossale: dopo la rivoluzione francese del 1789, ossia il trionfo della borghesia cosmopolita, vennero impiccate e trucidate molte persone solo perché aventi gli occhi azzurri ed i capelli chiari e si temeva potessero ricostituire un governo nobile ed oligarchico non rispettoso dell’idea d’uguaglianza della finta democrazia apportata.
La nobiltà cristiana in Germania è nata nel 496, quando Re Clodoveo e i suoi nobili si convertirono alla fede cristiana, e da questo momento vennero introdotti nella società princìpi di governo non germanici bensì romani. Presto, quindi, le idee cristiane e romane trasformarono il Re eletto dai suoi pari, come accadeva nelle antiche terre germaniche, in un individuo avente la pretesa di esercitare la fonte giurisprudenziale derivatagli dall'elezione divina in terra, direttamente dal Dio Cristiano: «per diritto divino, appunto». Ciò permise che i funzionari ricevessero un’investitura reale benché non fossero originari di un dato territorio. Così un gruppo di funzionari stranieri si sostituì alla Nobiltà tedesca barbara-autoctona, e di conseguenza il governo dei pari nobili, “democraticamente” eletti nelle assemblee (thing) germaniche, venne sostituito dall'istituzione monarchia.
I Sassoni furono i più importanti depositari della nobiltà pagana, e mal sopportavano chiunque volesse imporre loro un governo solo perché recante un titolo nobiliare acquisito. Carlo Magno dovette massacrare i sassoni pagani in modo tale che si decidessero a riconoscere l’autorità politica di dirigenti allogeni, quindi non nobili. Carlo Magno, a detta di Darrè, estirpò lo spirito di uguaglianza (solo) tra nobili tipico dell’antica Germania e vi introdusse l’idea di classe Romana.
[caption id="attachment_10636" align="aligncenter" width="1000"] Nell'immagine di sinistra: Johann Siebmacher disegna il Nuovo stemma dell'Imperatore e Re del Sacro Romano Impero nel 1605; a destra particolare del dipinto di Louis-Félix Amiel - Carlo Magno Imperatore d'Occidente del 1837.[/caption]
Se si attua una riflessione, certamente il paese che dopo il medioevo ha meglio mantenuto il concetto germanico di Nobiltà in grado di auto-amministrarsi è stata la Confederazione del popolo degli Helvi, ossia gli Svizzeri. A partire dalla celebre Giornata di Verden, nel 782, la Nobiltà cristiana in Germania si sostituì alla nobiltà germanica. Gli antichi germani cessarono così di esseri pari ai loro governanti eletti, e vennero soggiogati dal potere di un Signore che li costringeva a pagare imposte e a sottostare a leggi straniere che non avevano scelto nelle assemblee dei nobili capi-famiglia, i Thing.
Ciò implicò che gli elementi migliori cercarono di svincolarsi da queste morse troppo strette, e nacque così la figura del vassallo, uomo che gestendo un feudo datogli dal Re cercava di ritagliarsi un po’ di quella libertà perduta. Ciò fece sì che l’antico tedesco, uomo di nobili origini, possessore terriero, lavoratore e capace di usare le armi, scomparve. Alcuni divennero solo uomini d’arme, altri invece si occuparono solo della terra, divenendo contadini oppressi dal signore. La nobiltà intesa come casta e non più come appartenenza ad un antico lignaggio indissolubilmente legato ad un territorio, nacque nel X secolo.
Nel terzo capitolo Walter Darrè spiega i caratteri del contadinato tedesco e di come esso debba essere ripristinato, in chiave nobile, al fine di garantire una vita di qualità all’intero Paese. Inoltre il libero contadinato nobile è garante di rispetto dei legami famigliari e del territorio, quindi ciò implica continuità delle tradizioni, degli usi, dei costumi e del sangue. Le famiglie patrizie di contadini gentiluomini sussistenti grazie ai frutti del proprio lavoro e senza debiti con nessuno, rappresentano per Darré l’emblema dell’uomo Libero e Nobile. Infatti una società per essere forte deve porre al suo centro le famiglie, coi relativi terreni inalienabili, anziché gli individui. Per gli antichi romani, infatti, il pater familias era vincolato ai suoi antenati, ai suoi eredi e perciò anche alla proprietà di famiglia. Egli, quindi, non poteva permettersi, come invece oggi accade, di liberarsi della proprietà solo perché è intestata a lui in quanto era di proprietà dell’intera stirpe. Dopo la Repubblica a Roma sorse l’Impero, ed anche il codice civile mutò. Qui la proprietà privata sopraffò la proprietà di famiglia, e pian piano s’instillò nell’Impero il germe dell’individualismo, della distanza dalla terra e quindi della decadenza.
Questo discorso inerente la continuità tra famiglia nobile e proprietà terriera ci spinge subito al quarto e quinto capitolo, in cui l’autore analizza il concetto di Hegehof, ossia la casa di proprietà di famiglia con terreno coltivabile. Egli apre il capitolo scrivendo: «La Nobiltà che abita in una terra inalienabile è la sola a sviluppare quella libertà di spirito che, on ogni circostanza della vita, osa agire e consigliare seguendo soltanto la propria coscienza». Secondo Darré, infatti, la città è il luogo in cui viene maggiormente denobilitato l’uomo. Egli, infatti, vivendo in un luogo sovraffollato, dovendo dipendere dal commercio per potersi permettere ogni tipo di bene, compreso quello alimentare, perde la propria libertà in quanto costretto a sottostare al denaro e non più dal lavoro. Il Gentiluomo di buon sangue, quindi, per potersi garantire la libertà (se un titolo non offre libertà a che serve?) deve essere innanzitutto possessore di una terra che lascerà in eredità alla propria stirpe. L’Hegehof deve essere abbastanza grande per mantenere la famiglia che lo vive: ciò quindi dipende dal tipo di terreno e dalla sua lavorabilità.
[caption id="attachment_10638" align="aligncenter" width="1000"] Richard Gilson Reeve, Mameluke, cavallo campione nel 1827 dell’ Epsom Derby. Stallone purosangue inglese. Le migliori famiglie equine vengono perpetrate tramite incroci selezionate. Allo stesso modo anche le famiglie nobili, in tale pensiero, debbono essere protette affinché i geni migliori, determinanti per il carattere e l’aspetto fisico, non vengano persi nel tempo.[/caption]
Anche il matrimonio deve essere contratto in modo rispettoso degli eredi che ne nasceranno: Darré distingue le donne in quattro categorie, e quelle di ultima categoria, ossia le prostitute, le straniere e le viziose di ogni tipo, devono essere imperativamente non prese in moglie da un uomo che voglia costituirsi la propria comunità famigliare libera ed autarchica. Inoltre la città, oltre che privare l’uomo nobile della propria libertà originaria, rende la donna più incline alla dissolutezza. La femmina borghese e denobilitata, non dovendosi occupare della tenuta e della prole, può permettersi il lusso di sprecare il suo tempo e le sue energie in inutili civetterie. La gentildonna nobile, di pregiata stirpe, è anche quella che non teme di mettersi al servizio dell’uomo e della sua terra per il bene dei suoi figli e rifugge ogni forma di frivolezza e pigrizia, disdegnando l’ inutile vanità.
L’ultimo capitolo è un appello dell’autore affinché la giovane nobiltà venga educata bene e possa raggiungere al meglio una posizione rilevante politicamente. Egli auspica che, ben presto, una nuova nobiltà di sangue e di animo possa prendere in mano le redini della società per guidarla fuori dal baratro di dissolutezza in cui si è gettata. L’educazione, nel formare l’individuo, è importante quanto la sua natura genetica: la società ha quindi un ruolo basilare nel dare ai giovani di buona stirpe gli strumenti per rendere onore ai loro avi liberi e nobili.
Riuscendo a rimettere al centro del codice civile non più l’individuo, bensì la famiglia, e in particolare quelle autoctone, ben presto i reciproci doveri dei genitori e dei figli verrebbero ristabiliti. La buona educazione, l’amore per la propria cultura, la capacità di vivere del frutto del proprio terreno e la memoria dei propri avi dovrebbero essere elementi costituenti di ogni famiglia. L’autore, infatti, si chiede se sia possibile un’educazione civica in questo ambito, ossia che lo Stato si impegni a rendere i suoi abitanti non solo contribuenti bensì nobili inter pares.
 
Per approfondimenti:
_Richard Walther Darré, Neuadel aus Blut und Boden, J.F. Lehmann, München,1930.
 
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

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di Maurilio Ginex 09/09/2018

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Nel mondo magico esplorato da Ernesto De Martino (1908 - 1965) la crisi esistenziale, alla quale l’uomo viene continuamente esposto, rappresenta una forma di negativo che viene fronteggiata attraverso l’utilizzo del rituale magico.
Un elemento caratterizzante della crisi che invade l’uomo e lo rende inerme di fronte al negativo è rappresentato da ciò che l’antropologo napoletano, attraverso le analisi lucidissime a riguardo condotte da Pierre Janet (1859 - 1947), chiama «sentimento del vuoto».
Quest’ultimo identifica la totale perdita di rapporto positivo tra coscienza e volontà al fine di decidere per sé ciò che, su una scala di valori consolidata e collaudata, è giusto o sbagliato commettere. Nel momento in cui l’uomo si ritrova all’interno di una condizione critica, in cui non è più lui ad essere padrone di se stesso, ma diventa un’entità esterna, allora quel sentimento porta a allo sprofondamento l’uomo in quel vuoto in cui si riveste una condizione, totalmente negativa, che l’autore identifica con «l’essere-agito-da», cioè essere mosso da un’entità esterna che ti ripone in una posizione subalterna ad essa e che causa una crisi psicologica quasi irreversibile.
Su questa traccia, da cui emerge quest’orizzonte di crisi, la magia svolge un ruolo determinante, poiché ritrae quell’àncora di salvataggio in cui la finitezza dell’umanità può ancora avere speranza e giungere a un miglioramento di una determinata condizione vissuta. La spersonalizzazione e il sentimento del vuoto verso cui l’uomo si imbatte a causa di determinati e specifici traumi - come ci dimostra l’avvenimento luttuoso -, mettono in scena una serie di resistenze di cui, all’interno dell’universo magico, l’uomo si arma per fronteggiare l’orizzonte della crisi totalizzante.
Su questo livello si intrecciano l’esistenzialismo e l’analitica dell’esserci, che Martin Heidegger (1889 - 1976) ha sviluppato nel suo capolavoro Essere e tempo (1927), con ciò che è stata l’etnologia di De Martino. Il rapporto che intercorre tra i due, inizia a scorgersi a partire dall’ultima risposta di De Martino all’interno dell’antropologia, con termini mutuati dal linguaggio del filosofo tedesco. Concetti come «crisi della presenza» ricorrono all’interno delle analisi dell’orizzonte metastorico del magico Sud Italia. De Martino, nella decostruzione di questo mondo e nell’osservazione di ciò che quell’orizzonte di crisi genera, evidenzia come la vita, subalterna alla cultura egemonica che lo tratta come diversità da trascendere, sia continuamente esposta a quello che viene definito come «rischio radicale».
Per Heidegger l’esserci dell’uomo rappresenta lo «stare al mondo», o per dirla con il suo linguaggio, identifica un «essere-nel-mondo» (nota1), parlando così di esistenza, in quanto l’uomo viene gettato nel mondo con la capacità identificativa per la sua ontologia di progettare la sua vita nella realtà vissuta.
Nel momento in cui De Martino parla di presenza dell’uomo e di collaterale crisi di tale entità, si riferisce al rischio che quell’esistenza, che nel tedesco non subisce minaccia, corre continuamente. Per l’antropologo partenopeo la vita dell’individuo è continuamente esposta al rischio di una frattura della stabilità apparente: per cui il mondo magico, con le annesse categorie di interpretazione della realtà, esprime il modo più adatto per fronteggiare quella crisi che l’individuo potrebbe vivere e da cui potrebbe scaturire il crollo.
Dunque, nell’atto pratico, l’importanza del rituale (magico) risiede in questa intenzionalità, da parte del gruppo di appartenenza o della comunità, di far recuperare all’individuo la sua coscienza e la sua volontà, le quali, nell’ottica di un esistenzialismo applicato al mondo magico e a tutto ciò che comporta, devono ritrovarsi in un rapporto dialettico positivo senza complicazioni.
L’ethos , o per meglio dire il temperamento della magia, risiede in questo compito difficoltoso di protezione dell’individuo, che gettato nel mondo deve proteggere il suo Dasein (nota2) dalle minacce di «annientamento», in quanto nel suo «essere-agito-da» passa da una condizione in cui è il soggetto portante di quella presenza nel mondo a una condizione di soggetto di una non-presenza, parlando così di quell’annientamento dell’uomo stesso che non può più esprimere la sua volontà liberamente. Si viene a creare un dualismo del senso dell’Esserci, poiché diventa un punto focale d’incontro tra i due autori, ma allo stesso tempo in esso si manifestano due visioni dell’esistenza differenti. Mentre in Heidegger l’esserci è un qualcosa di garantito e certo, in cui la visione della realtà è una visione positiva; nel mondo magico di De Martino, questa condizione umana viene capovolta perché immersa profondamente nel nucleo del proprio dramma esistenziale di crisi dell’esserci e dunque di crisi della presenza. L’uomo magico è continuamente esposto al rischio della perdita del sé, l’annientamento, che rappresenta uno dei capisaldi prodotti dall’orizzonte di crisi, viene istituito dalle varie forme e tipologie di minaccia che possono spaziare dalla paura per il raccolto - che un contadino ha di fronte all’incombere di una tempesta -, fino ad arrivare a fronteggiare, per mezzo di rituali magici, entità definite esterne al sé: «L’uomo magico è esposto al rischio della labilità nelle sue solitarie peregrinazioni, allorché la solitudine, la stanchezza connessa al lungo peregrinare, la fame e la sete, l’apparizione improvvisa di animali pericolosi, il prodursi di eventi inaspettati ecc., possono mettere a dura prova la resistenza del ‘ci sono’. L’anima andrebbe facilmente ‘perduta’ se attraverso una creazione culturale e utilizzando una tradizione accreditata non fosse possibile risalire la china che si inabissa nell’annientamento della presenza».
In queste parole si sintetizza in maniera essenziale e chiara quanto sia incerto e indifeso il mondo magico, fatto di un velo di «superstizione» che funge da struttura portante per la credenza che alberga nella mente degli individui che fanno parte di quel mondo. Nella sua precarietà il mondo magico induce verso l’incertezza dell’essere, il quale durante lo svolgimento di un’attività come le «peregrinazioni solitarie» deve affrontare la realtà investendola di una serie di pericoli percepiti sotto forma di minaccia da attribuire a qualche entità soprannaturale. Sembra che nel mondo magico si evidenzi il totale divario tra uomo e natura: non vi è assolutamente un’identità tra le due cose, poiché l’uomo scorge nella natura una fonte di negatività e di rischio.
Su questo scenario si innesta quella differenza con l’analitica dell’esserci condotta da Heidegger, poiché in De Martino la realtà diventa «realtà condenda», ovvero, esposta continuamente alla negatività, all’annullamento, al male e al crollo psichico. Un realtà, quella dei contadini, in cui tutto è fonte di minaccia che può espandersi fino al diventare anche morte: «la natura in quanto minaccia è minaccia di morte, di disordine, di vuoto, di irrazionalità; il contadino in quanto agente di storia deve dare un ordine anche a questa minaccia, perché sia possibile la vita. Ed è vita riguadagnata attraverso l’assunzione della morte in cui si può dare ordine solo nella misura in cui viene inserita quale momento previsto di una dialettica di vita».
In queste parole che non sono di De Martino, ma di Lombardi Satriani (1936), riecheggia ancora Heidegger, poiché nel suo esistenzialismo prodotto da un rapporto ermeneutico con l’essere e l’esistenza, ritroviamo le situazioni limite di Karl Theodor Jaspers (1883 - 1969), le quali possono essere identificate nel mondo contadino attraverso la comprensione della dimensione metastorica che vive e attraverso la presa di coscienza della sua subalternità causata da una cultura egemonica che lo etichetta come primitivo, in quanto a cultura e religione.
L’orizzonte di crisi di fronte al quale il contadino viene esposto è totalizzante, poiché la minaccia che la natura-realtà genera può anche diventare morte. L’autoctono del mondo magico, vive una realtà labile sotto tutti i punti di vista: questa (realtà condenda) diventa un reale problema da fronteggiare con una tipologia di approccio in cui viene normalizzato il negativo del divenire e in cui si vive armandosi di tutte quelle possibilità di affrontarlo attraverso l’utilizzo dell’atto magico, qualsiasi sia l’entità di tale attività.
 
_Nota1: L’autore spiega come l’uomo è un essere-nel-mondo, in quanto ricopre la sua funzionalità esistenziale di “prendersi cura” (Besorgen) delle cose di cui necessita, dunque, cambiarle, plasmarle, manipolare, costruirle, dunque tale cura delle cose di cui ha bisogna diventa materiale puro per una progettualità del suo essere e della sua vita.
_Nota2: Il termine è stato utilizzato già in precedenza da Hegel, Jaspers, Feuerbach, ma Heidegger l’ha sviluppato in maniera più approfondita in Essere e tempo, rapportandolo al significato dell’esserci e dunque ponendolo all’interno di un’analitica dell’esistenza.
 
Per approfondimenti:
_E. De Martino, Sud e magia, Feltrinelli, Milano, 1959;
_E. De Martino, Morte e pianto rituale nel mondo antico: dal lamento pagano al pianto di Maria, Torino, Bollati Boringhieri, 1958;
_E. De Martino, Il mondo magico. Prolegomeni per una storia del magismo, Torino, Bollati Boringhieri, 1948;
_M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano, 1971;
_L. M. Lombardi-Satriani, M. Meligrana, Il ponte di San Giacomo, Sellerio Editore Palermo, 1989.
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