Mario Martone è un regista dalla raffinatezza indiscutibile. Il suo film “Il giovane favoloso” rappresenta una pietra miliare nel cinema degli ultimi dieci anni. Parla di una delle personalità della letteratura italiana su cui si è più che mai discusso e scritto. Il film è molto ben strutturato ed è degno della sua profondità intellettuale di regista. Il Leopardi di Martone ha un tocco insolito, che può essere compreso dallo spettatore attraverso lo scrutare dentro le scene aiutato anche dalla colonna sonora che il regista sceglie di Sascha Ring, meglio noto come Apparat.
Ad interpretare Leopardi Martone sceglie Elio Germano, il quale riesce a dare - con una possente recitazione - un volto cinematografico al poeta. Germano attraverso il talento e la capacità empatica riesce ad immedesimarsi dentro l’identità di un gigante dell’intelletto. Martone ripercorre le tappe della sua vita tessendo le lodi della grandezza del genio riconosciuto tale negli ambienti intellettuali del periodo. Leopardi aveva dentro un mondo al quale dava voce soltanto attraverso la scrittura e poteva esprimersi solamente in questo modo. Gentiluomo dell’Ottocento, il padre - figura autoritaria - si preoccupava con rigore della formazione dei figli, divenendo per Leopardi un argine imponente. Recanati non poteva essere abbandonata, le amicizie e le conoscenze dovevano essere controllate, bisognava far attenzione ai credi politici e alle parole che si utilizzavano nei confronti di una società radicata nella monarchia: Martone rappresenta esemplarmente la conflittualità tra i due, il padre Monaldo Leopardi, interpretato da Massimo Popolizio, e il figlio Giacomo. Il poeta marchigiano era consapevole del mondo che esisteva al di fuori di Recanati, riceveva lettere di elogio dai suoi amici letterati che vivevano in altre città d’Italia e in particolare dal suo amico Pietro Giordani, che lo invitava continuamente a recarsi a Roma. Tutto un mondo di cui il giovane favoloso veniva privato per imposizione di un padre autoritario.
Gli anni settanta sono stati per l'Italia un periodo storico molto particolare con eventi capaci di lasciare tracce indelebili all'interno delle coscienze delle persone. Il terrorismo politico, l'incessante illegalità dei partiti, una classe dirigente che portava avanti una “tolleranza repressiva” nei confronti di chi presentava un lucido sospetto, fascisti contro comunisti, risse, manifestazioni contro una polizia la quale picchiava duro, l’Italia della DC e della P2. I legami che avvenivano tra i tavoli degli uffici del Palazzo, stavano giocando il destino del popolo italiano, il quale faceva capo a un Paese che vedeva all'orizzonte un'unica e sola via: quella di una spoliticizzazione senza nessuna cura. In questo clima controverso, il 10 Gennaio del 1976 arrivava delle sale cinematografiche "Salò o le 120 giornate di Sodoma", del regista Pier Paolo Pasolini dopo un’anteprima parigina del 22 Novembre 1975.
Salò rappresentò l’ultima grande opera di Pasolini, nella quale il tema trattato e il modo in cui l’autore lo affrontò, lasciarono nelle coscienze un vero e proprio testamento della sua vita. L’animo polemico del regista - nello stesso tempo amante della sfida a se stesso, ma soprattutto alla società - si incarna alla perfezione in quella pellicola che, per fatalità, sarà la sua ultima produzione. In quest’opera cinematografica, che sarebbe dovuta essere la prima di una seconda trilogia, intitolata “trilogia della morte” e successiva alla precedente “trilogia della vita”, si è concretizzato cinematograficamente uno dei temi più significativi dell’operato generale di Pasolini: l'analisi di un Potere che reprime con un’anarchica violenza la volontà e la corporeità dell’individuo. Una tematica come questa trova, come perfetto adattamento nella rappresentazione, la logica dantesca della suddivisione in gironi nell'Inferno della Divina Commedia. Il film suddiviso in quattro parti, inizia con un Antinferno e prosegue con i tre gironi, rispettivamente: delle manie, della merda e del sangue. Suddivisione che tra l’altro Pasolini decide di adoperare in un secondo momento, in cui si accorge che anche Sade - da cui mutua il titolo della sua opera e varie tematiche nei confronti del sesso - aveva alluso a Dante. Scrive, infatti, riguardo al film: “Mi sono accorto tra l'altro che Sade, scrivendo pensava sicuramente a Dante. Così ho cominciato a ristrutturare il film in tre bolge dantesche”. Un Potere che abbatte la soggettività del singolo e che si muove consumando, nel più grottesco dei modi possibili, le peggiori atrocità che possono essere compiute nei confronti dell’umano.
Pasolini tocca esattamente quell’assurdità generata dall’anarchica e priva di logica volontà di un potere, il quale vuole soltanto l’assoggettamento ad esso in quanto tale. La suddivisione in diverse parti che Pasolini attua nei confronti della sua opera è funzionale alla comprensione delle varie sfaccettature con cui il comando può manifestarsi sul soggetto, rendendolo - di conseguenza - un oggetto inerme del suo volere. Non è soltanto un potere che giostra la sua attività sul dolore fisico, visto come prodotto di lesioni e lacerazioni che portano alla morte - poiché questa tipologia è rappresentata nell’ultimo girone dedicato al sangue -, ma non visualizza l’unica tipologia di esecuzione del potere sull’individuo. Prima di arrivare alla morte del singolo, vi è una forma di tortura: quella sulla dignità, inflitta tramite le altre due logiche che il potere usa per annientare la singolarità del soggetto, la sua anima, la sua identità. Tipologie, quest’ultime, che trovano rappresentazione negli altri due gironi, delle manie e della merda.
Quale potrebbe essere il punto d’incontro tra una corrente cinematografica come quella del Neorealismo e una corrente filosofica come quella dell’esistenzialismo? Il dopoguerra è il campo in cui si dipanano questi due universi di rappresentazione. Tutto è crollato e all’orizzonte non vi è che un mondo inerte di fronte ad ogni forma di ripresa. Periodo in cui il concetto di fulgido non esiste e non trova più casa, una dimensione costituita dal tragico che abita e si arena nelle vite dei singoli individui.