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di Ramon Caiffa del 02/11/2017

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«Dio è morto: ora vogliamo che il superuomo viva». Così esclamava Nietzsche nello Zarathustra. Siamo certi che la profezia nietzschiana non si sia avverata? Siamo certi di poter ancora vivere senza tenere conto di queste considerazioni?
Viviamo in un’epoca dove l’essere umano appare sempre più “antiquato” e il suo superamento sembra essere sempre più d’attualità. È proprio l'elevazione dell'uomo sull'uomo, a costituire il sogno della contemporaneità che, grazie alle nuove scoperte tecnico-scientifiche, sogna di poter “migliorare” l'essere umano. Il sogno è quello di poter elaborare un nuovo uomo più forte e resistente, instaurando una specie di ponte tra un’umanità obsoleta, fragile, antiquata e limitata dalla morte e un nuovo essere che possa raggiungere l’immortalità. Ora, questa frase è certamente vera ma solamente in parte, perché, grazie alle tecniche, non si sogna solamente di allungare la vita - distruggendo la morte -, ma anche di modificare l’uomo, affinché possa vivere meglio nel suo ambiente.
[caption id="attachment_9594" align="aligncenter" width="1000"] Questo monumento al filosofo tedesco Friedrich Nietzsche (1844-1900) si trova in piazza Holzmarkt a Naumburg (Saale).[/caption]
Questo fattore viene messo in pratica sia attraverso la manipolazione delle nascite – dunque agendo all’origine della vita – sia intervenendo su noi stessi, nella nostra attualità – operando, dunque, sulla vita hic et nunc.
Le tecnologie, di cui oggi l’umanità dispone, permettono di dare voce al grandioso sogno della contemporaneità; sogno di cui le parole di Nietzsche sono profetiche. Possiamo finalmente sbarazzarci dell’uomo fragile e mortale, per ottenere una condizione sovra-umana, in cui l’uomo può essere finalmente “alla moda”.
Grazie alle biotecnologie, possiamo modificare non soltanto il vivente, ma anche ipotizzare e disegnare dei mondi nuovi e imprevedibili. Qual è, allora, il posto dell’uomo e, dunque, della vita, così come la conosciamo, in questi nuovi mondi?
Lo status del soggetto che abita la post-modernità è cambiato e sembra orientato verso una soggettività, detta appunto post-umana, connessa e legata alle tecnologie e alle biotecnologie, che permettono una modifica, ovvero una manipolazione del “Se”. Com’è stato sottolineato «I mondi che si squadernano davanti a noi, oggi, sono così meravigliosi, così singolari, così prodigiosi che la struttura stessa di ciò che siamo si vede rimessa in discussione». Science-fiction o realtà?
Il progetto trans-umanista è dunque quello di migliorare l’uomo. Questo progetto non è una novità assoluta. In effetti, come è stato sottolineato: «Gli uomini hanno sempre agito su se stessi e sulla specie. Per il meglio o per il peggio […] Essi si sono fatti carico della loro evoluzione attraverso le differenti tecniche. Tecniche dure, degli attrezzi, mezzi tecno-scientifici[…] tecniche dure e dolci per il governo, per il potere e la violenza, per il controllo della popolazione e della demografia».
Questa ipotesi della fine dell’umanità è una di quelle tesi spaventose e paurose. Ma, il filosofo francese Jean Michel Besnier rileva che, in questa paura, vi è un paradosso: «Perché questa prospettiva di una fine dell’umanità ci sembra spaventosa? Non l’abbiamo desiderata? Ci vogliamo decisamente moderni e, per questa ragione, nulla era più importante ai nostri occhi dell’autonomia – rapportata agli altri, alla natura, alle tradizioni o agli Dei».
Se quest’ipotesi, oggi, ci sembra più spaventosa, è solo perché l’uomo ha raggiunto una maggiore potenza tecno-scientifica, talmente incredibile, da «richiedere la coscienza di una nuova responsabilità». Grazie alle biotecnologie, l’uomo possiede una maggiore potenza su se stesso, è capace di modificarsi sempre meglio, di tendere la propria mano, e quella della scienza, sul mistero della vita.
«Ormai è, per così dire, nell’ovulo che l’uomo è minacciato […]. È anche [il pericolo] imminente e molto più grave di quello che gli fanno correre l’inquinamento atmosferico e il surriscaldamento climatico. La scienza ha poggiato il suo dito sul mistero della vita». L’uomo possiede una potenza incredibile. Può, ormai, modificare, sconvolgere, mettere fine alla vita così come la conosciamo. Può operare, sempre meglio, su qualsiasi aspetto della vita: la nascita, la vita propriamente detta, o la morte. Tutto sembra possibile: controllo delle nascite e planning programmato delle stesse, gestazione “per altri” e mamme “surrogato”, passando per la fecondazione in vitro».
Questa strumentalizzazione della nostra discendenza è strutturalmente collegata ad un certo tentativo di strumentalizzazione di sé poiché, agendo sulla nostra discendenza, cerchiamo un beneficio per noi stessi. Sono tali, ad esempio, le azioni dei dottori-scienziati che cercano a mettere in pratica il clonaggio terapeutico oppure a continuare la ricerca sugli embrioni; cercando così di “creare” degli individui più forti e resistenti all’ambiente.
Possiamo sottolineare un doppio paradosso: mentre agiamo su noi stessi, operiamo sulla nostra discendenza e, agendo su di essa, si opera verso la discendenza, la quale indirettamente ci procura i mezzi per agire sul nostro essere.
Queste manipolazioni “faustiane”, frutto dell’egoismo degli uomini, si allargano a tutte le sfere della vita: dal trattamento del corpo – al fine di cercare la bellezza e la giovinezza eterna – al controllo della morte – morte programmata o eutanasia – passando per i metodi di riproduzione – concezione programmata e planning delle nascite, interruzione delle gravidanze e aborti terapeutici, procreazione assistita, etc.
Lo sconvolgimento della vita umana è dunque al centro del dibattito contemporaneo.
In questo scenario, nel quale l’uomo corre il rischio di scomparire, la sfida che occorre affrontare riguarda la sua definizione; chi è l’uomo?
Secondo Ollivier Dyens: «[…] Queste nuove sfere del reale ci obbligano su ciò che vuol dire essere umano. Questa riflessione è la sfida più importante della nostra epoca». Dunque la sfida è lanciata e per confrontarsi con questa realtà, l’uomo deve assolutamente definirsi. Ascoltando le parole di Tugdual Derville, l'uomo: «Deve comprendere la sua identità per acconsentire a essa e, in questo modo, umanizzarsi di più. Questo presuppone la resistenza alle nuove sirene scientiste. Perché la loro canzone, divenuta assordante, annuncia una ridefinizione dell’uomo». Definire l’uomo, affinché possa confrontarsi alle nuove tecnologie, è necessario, perché, come dice P. Kemp, il problema non è solo quello della qualità della vita che desideriamo realizzare, ma soprattutto del come. «Parliamo, oggi, di lavorare per una vita migliore, diciamo che si tratta di migliorare la qualità della vita. Ma come vogliamo raggiungere questa vita migliore, questa nuova qualità della vita?».
Per fare ciò, analizzeremo la fonte della vita umana, ovvero la nascita, e vedremo come la teoria trans-umanista arrivi a sconvolgerla. Definire l’uomo vuol dire schematizzare le differenti tappe della vita, così come si presenta, nella sua sacralità e fragilità. In effetti, se si dice che essa è da difendere, vuol dire che si riconosce, in essa, implicitamente o meno, una certa sacralità e fragilità.
Ancora Jean-Michel Besnier insiste: «Da dove deriva che questa volontà di oltrepassare la condizione naturale, grazie alle nuove tecnologie, s’interpreta, ancora oggi, come un peccato contro la natura umana, come un gesto di trasgressione? Senza dubbio è perché riconosciamo alla natura un carattere di sacralità […]».
[caption id="attachment_9599" align="aligncenter" width="1000"] Jean-Michel Besnier, è nato il 5 aprile 1950 a Caen, ed è un filosofo francese contemporaneo. Professore emerito di filosofia presso l'Università della Sorbona a Parigi, dove ha creato e gestito il "Comitato di redazione e gestione della conoscenza digitalizzata". E 'membro del Consiglio Scientifico dell'Istituto di Studi Avanzati in Scienze e Tecnologie (IHEST) 3, il consiglio di amministrazione di Murs (Movimento universale per la responsabilità scientifica) e del Comitato della ricerca scientifica e tecnica di letteratura al Centro Nazionale del Libro (CNL). Il suo insegnamento e la supervisione delle tesi di dottorato sotto la sua direzione si concentrano sulla filosofia della tecnologia. E 'stato direttore scientifico del settore della Scienza e della Società del Ministero dell'Istruzione e della Ricerca nel 2008, fino ad aprile 2011. La sua attuale ricerca si concentra sull'impatto filosofico ed etico della scienza e della tecnologia sulle rappresentazioni individuali e collettive e gli immaginari.[/caption]
Occorre difendere l’uomo e la vita, dunque, contro quelle forze destrutturanti derivanti dalle nuove biotecnologie: questo sarà il nostro compito. Occorrerà, partire dal principio.
Alla base vi è la vita. Più precisamente, nelle fondamenta di questo mistero inestinguibile, c’è un evento particolare: la nascita. La difesa della vita passa, in primis, dalla salvaguardia e dall’elogio di quell’evento particolare che è il parto. L'essere umano nato da una donna, deve necessariamente porre la tutela della maternità che è, oggi, sempre più minacciata. Il professor Derville Tugdual mira a precisare: «Che siamo uomini o donne, abbiamo tutti soggiornato a lungo nel corpo di un altro. Questo fatto incontestabile è ormai contestato. La maternità è minacciata».
Il problema che tormenta la contemporaneità è, così sembra, la natura non democratica della maternità. Unicamente l'essere femminile può dare alla luce un figlio. Questa verità è vista, dai fautori del post-umano, come un irritante privilegio. Essi, infatti, sognano di poter finalmente dare anche all’uomo questa prerogativa femminile. Tale scopo è, o vorrebbe essere, compiuto tramite quella che chiameremo la decostruzione del sesso che, sottolineiamolo, è ciò che si cerca di fare promuovendo le teorie gender.
«Maschio e femmina li creò» (Gn. 1, 27). Quest’evidenza è divenuta, ormai, contestata e contestabile. Non vogliamo, qui, prendere una posizione netta contro queste teorie, ovvero contro quelle persone che risentono un forte disagio psichico a causa del loro sesso biologico, ma sottolineare che, in questa nuova colonizzazione del pensiero, anche i fautori delle suddette teorie gender devono arrendersi all’evidenza: solo le donne, e unicamente loro, possono partorire. Prendiamo, ad esempio, il caso di una donna che ha deciso di “cambiare” il proprio sesso, per diventare uomo. Ora, questa donna, anche se divenuta uomo, può, nel caso conservi il suo utero, avere un bambino, provando così, attraverso la procreazione, il suo status femminile.
Ancoira Derville Tugdual ci spiega come: «In materia di procreazione, il corpo non sa mentire: né la comparsa artificiale della barba […], né l’asportazione volontaria dei seni potrà fare di una partoriente un uomo». Il sesso biologico non sa mentire: lo status civile è sempre secondario. Controllo delle nascite, mamme “in affitto”, legame e aggroviglio della carne alle macchine: il sogno post umano è all’opera.
Non viviamo in un mondo controllato dalle macchine, anche se quest’ultimo è controllato e, in gran parte, creato da esse. Ciò vuol dire che le macchine, prodotte, dalla tecnica degli uomini, non soltanto possono mantenere in vita un bimbo, nato prematuramente, ma anche di generarlo; sono le sfide cui ci sottopone la fecondazione in vitro o la programmazione delle nascite. Ma ecco il paradosso: generare è peculiarità dell’umano.
Ancora Ollivier Dyens afferma come: «Ogni giorno, dovunque in Occidente, le macchine ci proteggono dal freddo della canicola, dalla fame, dalla sofferenza e dalla malattia. Ma, soprattutto, ogni giorno, ovunque in Occidente, delle macchine autorizzano la nascita di bimbi straordinari e partoriscono letteralmente […]» e prosegue asserendo che la società sta scivolando verso un mondo che non è, certo, dominato dalle macchine ma che è creato sempre di più a sua immagine e somiglianza: «l’uomo, la donna, il bambino di questa era sono umani per la loro relazione alle macchine».
Le macchine che generano il nostro mondo non sono né dei robot né dei grandi automi, ma sono nientemeno che le scoperte tecno-scientifiche applicate alla vita. Si dovrà, dunque, parlare della procreazione assistita e della conseguenza di questa pratica sulla vita.
Con questo termine, ci riferiamo, generalmente, a un insieme di pratiche, cliniche e tecniche, grazie alle quali l’uomo può intervenire sulla procreazione e, dunque, sulla nascita; esse comprendono un ampio ventaglio di possibilità: fecondazione in vitro, bambini-provetta, dono dei gameti, inseminazione artificiale, madri “surrogato”.
La potenza tecnica degli uomini può, al giorno d’oggi, ottenere molteplici risultati, anche nel campo biomedico e della procreazione. Tuttavia, quando l’atto tecnico si sostituisce in toto al dono coniugale, la nostra riflessione deve mobilitarsi. Le sfide che la procreazione medicalmente assistita ci sottopone sono molteplici: in primis il significato delle maternità si trova  mutato nel suo significato, secondariamente essa concerne la relazione madre-figlio e, infine, la relazione coniugale strictu sensu.
Innanzitutto occorre enunciare una definizione. La gestazione per altri – o ciò che volgarmente chiamiamo “mamme surrogato” o “mamme in affitto” – è una pratica medica che permette alle coppie, che non possono averne, di avere figli, ricorrendo a un terzo elemento, esterno alla coppia: la cosiddetta mamma “in affitto”. Ella ha il compito di portare e partorire il bambino di una coppia, che ha fornito il materiale genetico.
Ora questa pratica solleva delle domande e degli interrogativi.
Per cominciare, essa annulla quel significato intimo della maternità, che abbiamo cercato di enunciare, espandendola su tre o addirittura più persone. In genere, la genitrice e la coppia che vuole il bambino. Questo fatto sconvolge la maternità, perché si fonda sulla negazione di essa. La maternità non è semplicemente una relazione biologica, ma istituisce un legame ontologico tra i due poli della relazione; ivi madre-figlio. Riflettiamo ancora.
[caption id="attachment_9601" align="aligncenter" width="1000"] Tugdual Derville è una personalità francese del mondo associativo noto per la sua implicazione nell'accoglienza dei bambini in situazione di handicap, nella lotta contro l'eutanasia, contro l'aborto e contro il matrimonio e l'adozione da parte delle coppie dello stesso il sesso. È il delegato generale dell'associazione Alliance VITA, portavoce di La Manif per tutti e co-iniziatore del Courant pour un Ecologie Humaine.[/caption]
Che cosa significa desiderare un figlio? E cosa vuol dire per una donna, o un padre, avere un bimbo? Essa implica un’apertura all’Essere; un’apertura generosa dell’uomo ad un altro “io”. Ma, questo significa che lo scopo della maternità, o della paternità, non è la produzione di bambini perché, in effetti, l’uomo non è un prodotto. Ora, in base a quanto detto prima, capiamo perché la maternità non può, in nessun caso, essere né una produzione, né uno scambio di qualsiasi tipo; in effetti, c’è sempre qualcosa che eccede, di sovrabbondante.
Il professor Derville afferma come nel dono della vita, la maternità resta un mistero, perché non può, in nessun caso, ridursi a uno scambio di natura materiale: a un do ut des. «La mamma surrogato anche se ha deciso, intellettualmente, di non “investirsi”, è dotata di un cuore di madre».
La relazione di una madre a suo figlio è, dunque, più profonda di quello che non si creda. La maternità non può ridursi ad una relazione “carnale”, ma c’è, in essa, un qualcosa di più profondo; il legame che la nuova madre instaura con suo figlio e che non può essere ridotta ad una semplice relazione biologica, sanguigna o carnale, ma implica un legame misterioso che non può essere concettualizzato.
All’interno di queste pratiche, possiamo rintracciare, dunque, una duplice riduzione. In primis, vi è una “sottomissione della donna” e, in seguito, una riduzione della maternità, come avvenimento.
In effetti, esse sfruttano il corpo della donna, che non solo è prestato a terzi, ma è ridotto a un semplice mezzo per raggiungere un fine; per soddisfare i desideri di qualcun altro. La decostruzione dell’essere umano è qui duplice: da un lato, abbiamo, certo, la riduzione del corpo femminile a una sorta di merce, ma dall’altro, ancora peggio, la riduzione del nuovo nato, del bambino a prodotto. In effetti, cosa viene ad essere il bambino frutto di queste pratiche? Nient’altro che un prodotto; oggetto del nostro desiderio e che può essere, sotto pagamento, ordinato e scelto. Come ogni prodotto, poi, ci sono i prodotti ben riusciti, e che rispondono pienamente ai desideri dei compratori-genitori, e quelli mal riusciti o imperfetti: i bambini malati o portatori di handicap. Essi sarebbero, solo, degli errori di cui sarebbe meglio non parlare.
Tuttavia, di fronte alla richiesta legittima, di un padre, che si rifiuta di avere un bimbo malformato e che chiede alla donna portatrice di abortire, può avvenire che la donna si rifiuti. Perché? Non è forse l’emblema di ciò che abbiamo detto in precedenza, ovvero che il legame madre-figlio è più forte di ogni tecnica?
In effetti, questo dimostra non solo che il legame affettivo è molto più forte di quello tecnico, ma, soprattutto, che la maternità non può ridursi a una pratica di commercio. Diremmo allora che questa riduzione della «ricchezza della maternità biologica» è una trasgressione. Ma se questa trasgressione è uno sconvolgimento della vita è perché si ha la tendenza a negare quella complessità che caratterizza l’umano, assumendone dei tratti caricaturali.
Ora, pretendendo d’imitare il reale, la tecnologia si sforza di negarne la complessità, cancellando il mistero dell’imprevedibilità. E' lo stesso Derville a ricordarcelo: «quando si tratta di ridisegnare la vita, ne facciamo una caricatura!».
In effetti, dal momento che la tecnica si trova incapace a riprodurre ogni sfera della vita umana, la quale è troppo complessa e articolata, e che vuole comunque riprodurla, si trova costretta a semplificarne gli avvenimenti. È così, però, che quello che si chiamava vita, diventa, ipso facto, un’altra cosa, perché la complessità è caratteristica primaria della vita.
In effetti, come abbiamo affermato, la maternità è ridotta ad una semplice relazione “esteriore”, che nega il surplus della gioia proprio alla relazione madre-figlio; un surplus che la tecno-scienza, pretendendo d’imitare il reale, non riconosce.
In questo contesto, la procreazione è vista, sempre più spesso, come “produzione” di bambini ed è per questo che queste pratiche ci invitano a riflettere meglio sullo statuto del matrimonio, ovvero sulla relazione coniugale. Che cosa diviene la relazione coniugale all’epoca della tecno-scienza? In questo contesto, essa non è più il luogo dell’accoglienza, ma della produzione volontaria. Occorrerà spiegare meglio questo passaggio.
La relazione tra i coniugi è una di quelle relazioni che, nel mondo dominato dalla tecnica, ha subito il peso di ciò che abbiamo chiamato riduzione. In effetti, oggi, pensiamo che essa sia il luogo della creazione, quando invece è il luogo della procreazione. Qual è la differenza?
Con il termine di creazione, ci riferiamo a un atto d’invenzione o di produzione. Per questo motivo diciamo che scopo della tecnica è inventare o creare strumenti e prodotti. Ma, come abbiamo affermato, un bambino non può essere in alcun modo il risultato di una produzione e, dunque, a fortiori, nemmeno di una creazione.
Procreare significa donare la vita, essere aperti ad essa e accettare il dono gratuito di una nuova vita. Ora, ciò che ci urge sottolineare è che se la tecnica ci illude di poter creare la vita, e il bimbo in particolare, è la vita stessa che ci ricorda quest’impossibilità: né la madre, né il padre creano il bambino, ma accolgono una vita che non solo non hanno prodotto, ma che possono alle volte nemmeno avere desiderato.
L’amore è dunque, apertura alla vita; al dono gratuito e, ipso facto, la procreazione è l’atto attraverso il quale questo amore si offre e si dona.
Per concludere, ci piace citare le pacate parole pronunciate da Giovanni Paolo II, in cui si afferma che il rischio, sempre più elevato, è che le tecnologie possano arrivare a sostituire la maternità o la paternità:
«[esse sono] sostitutive della vera paternità e maternità e, ipso facto, nocive per la dignità sia dei genitori, che dei figli. [l’atto coniugale] non può essere sostituito da un semplice intervento tecnologico […]».
 
Per approfondimenti:
_Besnier, J-M. (2012). Demain les posthumains. Le futur a-t-il encore besoin de nous ? Paris : Pluriel;
_Derville, T. (2016). Le temps de l’homme. Pour une révolution de l’écologie humaine. Paris : Plon;
_Dyens, O. (2007). La condition inhumaine. Essai sur l’effroi technologique. Paris : Flammarion;
_Michaud, Y. (2006). Humain, inhumain, trop humain. Réflexion sur les biotechnologies, la vie et la conservation de soi à partir de l’œuvre de Peter Sloterdijk. Castelnau-le-Lez : Climats.
Nietzsche. F. (1883). Also sprach Zarathustra. Ein Buch für alle und keinen. Chemnitz : Verlag von Ernst Schmeitzner.
 
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

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di Ramon Caiffa del 02/09/2017

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Con il termine di visione Beatifica intendiamo la contemplazione diretta di Dio, da parte dei beati. La filosofia greca attribuiva alla visione un potere conoscitivo. In effetti, si poteva dire di conoscere un oggetto quando si poteva vedere.
«[…] Vedere in modo semplice costituisce una fonte di conoscenza». La visione beatifica è la contemplazione di Dio nella sua gloria celeste, la quale è scopo ultimo della vita umana: «Meta e scopo della vita umana è la conoscenza unitiva di Dio». Ma, dicevamo, la contemplazione è conoscenza: «Ora infatti vediamo come per mezzo di uno specchio, in modo oscuro, ma allora vedremo a faccia a faccia; ora conosco in parte, ma allora conoscerò proprio come sono stato conosciuto» (1 Cor, 13, 12). Nella contemplazione di Dio faccia a faccia e nell’essere con Cristo risiede la felicità umana:«Vita est enim esse cum Christo; ideo ubi Christus, ibi vita, ibi regnum».
[caption id="attachment_9318" align="aligncenter" width="1000"] Michelangelo Buonarroti "Giudizio Universale" - particolare del primo anello. Cappella Sistina, Musei Vaticani, Roma.[/caption]
In effetti, la fruizione divina non rappresenta solo il compimento della vita umana, ma la somma beatitudine: «[…] la beatitudine consiste soltanto nella fruizione del sommo bene».
In essa risiede la liberazione da ogni paura, persino da quella della morte: «né possono più morire. In queste cose sono come angeli, e sono figli di Dio, perché sono risorti dalla morte» (Lc, 20: 36). In questo senso possiamo dire, allora, che contemplare Dio consiste nel vedere la sua essenza. L’essenza, com’è stato lungamente insegnato, è ciò che una cosa è. Dire, allora, che Dio viene contemplato nella sua essenza, significa affermare che Egli viene conosciuto così com’è; in se stesso; nel suo essere se stesso. Nella prima lettera di Giovanni apostolo, ritroviamo un passaggio che ci aiuta a comprendere meglio come la visione beatifica sia in realtà la contemplazione di Dio nella sua essenza: «Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è ancora stato rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è» (1 Gv, 3: 2).
La visione di Dio è, in primis, conoscenza di Dio. Conoscenza immediata, intuitiva, diretta dell’essenza divina. “Là vedrai l’essenza divina in una visione intuitiva senza la mediazione di alcuna creatura: «è la “visione beatifica”: la contemplazione di Dio […]». Questa contemplazione è un restare, un dimorare, un abitare (Apoc, 22:5). Abitare significa vivere. Vivere è soprattutto saper gustare e assaporare una determinata situazione. Questo dimorare non ha, però, il semplice significato di abitare, ma anche e soprattutto quello di rivenire; infatti, sebbene l’essenza divina non sia ancora stata rivelata, l’uomo sa che la comunione divina è il suo principio e la sua fine; la sua Alpha e Omega (Apoc. 1:8).
Elevarsi a Dio significa ascendere a Lui, per contemplarlo nella sua gloria. Ascendere a Lui implica, com’è stato detto, la visione, e la visione richiama il tema della conoscenza. Ad essa, a questa verità cui l’uomo aspira diamo il nome, lo abbiamo già ribadito, di visione beatifica.
Già dalle prime pagine dell’Itinerarium mentis in Deum di San Bonaventura, emerge non soltanto la concezione dell’uomo viandante e peregrino, dell’homo viator sempre in cammino verso la conoscenza divina, ma anche quella della fragilità umana, che non può arrivare a Dio, se non per grazia di Dio stesso, ovvero grazie a un aiuto divino. Aiuto che può essere chiesto e invocato tramite la devozione e la preghiera: «la preghiera, pertanto, è la fonte e l’origine del nostro elevarci a Dio».
L’Itinerarium si presenta, allora, nella visione del Doctor seraphicus, come una guida per ascendere alla contemplazione di Dio, attraverso i gradini esemplificati dalla realtà stessa intesa come vestigium, creata ad imago Dei, affinché si possa vivere in Dio ed esclamare: «Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me» (Gal. 2:19-20). Ora, è necessario, affinché si possa giungere a contemplare le realtà divine, essere preparati e pronti a mettersi in cammino. Quest'ultimo è proprio un "camminare" verso uno scopo; un traguardo. Tuttavia, per compiere questo determinato cammino, non occorre solo il saper camminare - e dunque una determinata abilità pratica -, ma anche una determinata “disposizione dell’animo”. È grazie ad essa che è possibile sperare in una risposta divina al nostro appello: «Tale risposta si manifesta, prima che con le parole, con la “disposizione del cuore”, ovvero con comportamenti conseguenti verso Dio (fede e speranza nelle sue promesse, amore e timore verso di lui, obbedienza alla sua volontà) e verso gli altri uomini (atteggiamenti di giustizia e misericordia, rettitudine morale e della condotta)».
La tematica dell’homo viator, che s’impegna nella ricerca di Dio, è tanto centrale, nella riflessione di Bonaventura, quanto quella dell’adozione di un’attitudine “retta” e “giusta”, perché non è possibile giungere alla conoscenza di Dio se non attraverso la fede e la buona volontà: «[…] Né, infatti, si è in alcun modo preparati alla contemplazione delle realtà̀ divine, che conducono al rapimento estatico dell'anima, se non a condizione di essere, a somiglianza di Daniele, «uomo di desiderio».
[caption id="attachment_9319" align="aligncenter" width="1000"] Michelangelo Merisi, "Conversione di San Paolo" (particolare) - Santa Maria del Popolo, Roma.[/caption]
Daniele è chiamato “uomo di desiderio” perché è colui che crede in quella che Bonaventura dice essere la prima tappa per ascendere a Dio: la preghiera. «All'inizio delle tue suppliche è uscita una parola e io sono venuto per fartela conoscere, perché tu sei grandemente amato» (Dan. 9:23).
Poiché, allora, abbiamo riconosciuto l’importanza della preghiera, senza la quale nessuno può sperare di cominciare il viaggio per giungere alla contemplazione di Dio, dovremmo, analizzare lo statuto ontologico della preghiera; infatti, come abbiamo detto, non si può sperare di elevarsi senza ricorrere alla grazia di Dio e non si può sperare di avere grazia senza la preghiera: «È, dunque, necessario che chi vuole ascendere a Dio, dopo avere evitato di cadere nella colpa che corrompe la nostra natura, eserciti le facoltà naturali di cui prima si è parlato, per ottenere, mediante la preghiera, la grazia che riabilita […]».
La preghiera non è un semplice atto sociale, ma un atto che, nella sua semplicità, esprime la totalità del fenomeno religioso.«L’essenza più profonda della religione [si evince nel suo] atto più semplice» , ovvero la preghiera.
Condurre una riflessione organica sul tema della preghiera significa, innanzitutto, analizzarne lo scopo e, quindi, il pleroma, ovvero i contenuti più intimi. Ma analizzare i suoi contenuti significa, implicitamente o meno, riconoscere che, così come non esiste un solo modo di pregare, non esiste un solo tipo di preghiera. Infatti, vi è la preghiera di petizione, ovvero quella che contiene una richiesta, e quella di lode. Ora, soprattutto essa è preghiera al massimo grado, ma procediamo con cautela, nella nostra riflessione. Che cosa possono dirci i testi biblici a proposito dell’oggetto della nostra ricerca? Innanzitutto, vi è da riconoscere che la preghiera ricerca, prima di tutto, una disposizione interiore e non tanto le parole, perché, se è pur vero che le parole sono importanti, esse devono passare sempre in secondo piano: «Non essere precipitoso con la bocca e il tuo cuore non si affretti a proferir parola davanti a Dio» (Qo. 5, 1-1) ed essere poche: «perciò le tue parole siano parche» (Qo. 5, 1-1).
Questo non vuol dire che esse non siano importanti, ma che, quando si tratta della preghiera, devono passare sempre in secondo piano «[poiché] dalle molte chiacchiere [viene] il discorso dello stolto» (Qo. 5, 1-2).
Le parole devono essere poche e ridotte al minimo, perché anche se appaiono essere «necessarie, […] almeno per fissare il pensiero» . Dio, conoscendo già i nostri pensieri, sa già di cosa l’uomo ha bisogno. Certo, come abbiamo accennato in precedenza, questo non vuol dire che le parole non servano, poiché, come afferma lo stesso Agostino, nella lettera centotrenta, occorre pregare anche con parole: «preghiamo Dio anche con parole, affinché mediante quei segni delle cose stimoliamo noi stessi e ci rendiamo conto di quanto abbiamo progredito in questo desiderio e ci sproniamo più vivamente ad accrescerlo in noi» .
È l’evangelista Matteo, che riportando la testimonianza del Cristo, riassume tutto ciò dicendo: «Pregando poi, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate». (Mt. 6, 7-8).
A cosa servirebbero, in effetti, le parole se non fossero accompagnate da un atteggiamento consono, ovvero da quelle “disposizioni del cuore” o, come dice Agostino, con immenso affetto? Ma cos’è quest’immenso affetto? Esso è un offrirsi a Dio. Offrire (Offerire) significa presentare, ovvero portare (ferre) innanzi a… (-Ob). Ma questo offrire è soprattutto un donare. Ora, quando si dona autenticamente lo si fa, non certo per ingraziare qualcuno , ma per ringraziare.
Ogni dono è gratis perché espressione di una certa gratitudine (gratitudo) della quale siamo grati (grati). Ma, se siamo grati verso qualcuno, lo siamo innanzitutto verso Colui che ci ha posti nell’essere; in ciò consiste il vero culto: «Dei cultus dici poterat, qui in hoc maxime constitutus est, ut anima ei non sit ingrata» . Ecco, allora che il peccato peggiore è l’ingratitudine: «Il peccato peggiore non è tanto quello di aver mangiato il frutto, quanto quello di avere creduto che ci era dovuto. Il peccato è essere cechi di fronte al dono […] il peccato peggiore è l’ingratitudine […] perché essa ci esclude direttamente dal dono dell’essere».
Se tutto ciò è vero, allora possiamo già tirare le due prime conclusioni. In primis, la vera forma di preghiera risulta essere quella che esprime gratitudine a Dio e, dunque, una lode sempre nuova: «Cantate al signore un canto nuovo/cantate al signore da tutta la terra» (Sal. 96), che risuona ovunque (Sal. 150).
Possiamo notare che i concetti di generosità e gratitudine richiamano immediatamente il concetto agostiniano di affetto d’animo, ovvero quello che Mauro chiama “disposizione interiore”; infatti è essa ad essere maggiormente gradita da Dio che, come abbiamo visto non ascolta né chi moltiplica le parole, né tantomeno chi moltiplica inutilmente le opere, i sacrifici, i regali: «Le nostre mani, pensiamo dovrebbero essere piene di offerte, di regali, di voti, di buone azioni, affinché Dio guardi alle nostre preghiere. Se mai le nostre mani fossero vuote di doni e sacrifici, eccoci convinti che Dio non ci guarderebbe. Così spesso siamo tentati di spiegare il non-esaudimento delle nostre preghiere dicendoci «Non avevo fatto abbastanza, non avevo meriti. Non avevo offerte».
[caption id="attachment_9323" align="aligncenter" width="1000"] Michelangelo Merisi, "San Francesco in preghiera" (particolare) - Chiesa di S.Maria Immacolata in via Veneto, Roma - 1605[/caption]
Strana concezione di Dio che, come gli Dei pagani, pensiamo sia interessato ai nostri regali! «[…] Dio nella preghiera domanda un soggetto libero che si dona, noi invece preferiamo portargli degli oggetti, che gli offriamo per renderlo gentile e comprensivo». Proprio questa è, infatti, la grande tentazione; ovvero di pregare non tanto con il cuore; offrendo a Dio una lode sincera e donandosi completamente, ma credere che le nostre opere possano essere più importanti della disposizione d’animo. Bisogna, però, che non si fraintendano le parole fin qui dette. Non si vuole dire, infatti, che le opere non contano per nulla – pensiamo all’importanza della carità e delle opere pie, ad esempio - ma, al contrario, si vuole affermare, nel momento dell’atto di preghiera, la loro secondarietà. Quando si prega un Tu si rivolge ad un altro Tu che ascolta, in un rapporto di una libertà ad un’altra libertà. Ma sarebbe un Tu veramente meschino se lo si dovesse ingraziare a priori con la speranza di essere esauditi. (Sal. 6, 69).
La preghiera di lode, com’è stato accennato in precedenza, non è, però, l’unica tipologia di preghiera possibile. Guardando all’ampio ventaglio delle possibilità che si offrono all’uomo, oltre alla preghiera di lode esiste anche quella che mira a richiedere (petere) e a domandare: è la cosiddetta preghiera petitiva (peto). In effetti, anche dal punto di vista etimologico il termine “preghiera” è soprattutto una predicazione (precatio) che mira a domandare. Anche nei testi neotestamentari, Gesù, invitando alla preghiera, riconosce alla preghiera di supplica e domanda una certa autonomia e importanza, garantendone l’efficacia «Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto; perché chiunque chiede riceve, e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto». (Mt. 7, 7-8).
Occorrerà, allora, nel seguito della nostra trattazione, indagare anche la tipologia di preghiera che consiste nel domandare. La seconda tipologia di preghiera che occorrerà, ora, analizzare è la preghiera petitiva, ovvero quella determinata forma di rivolgersi alla divinità che consiste nel chiedere.
Notiamo subito che, anche se Gesù invita i fedeli a domandare senza paura, occorre distinguere tra ciò che è bene e conveniente domandare e ciò che sarebbe meglio tacere. È lo stesso Sant’Agostino che ci invita a «[…] perseverare notte e giorno nella preghiera» , riconosce che ci sono beni che, sebbene legittimamente desiderabili, non sono, tuttavia, domandabili. A questa tipologia appartengono quei beni mondani, onore, ricchezza, salute, che non rappresentano il fine della preghiera, infatti essa mira ad ottenere un bene superiore: «Approviamo noi dunque che, oltre a questa salute temporale, si bramino per sé e per i propri familiari onori e posti di comando? Si, è senz'altro lecito desiderarli, ma a patto che per mezzo di essi si sovvenga ai bisogni di coloro che vivono alle proprie dipendenze, non mirando a questi beni in sé e per sé, ma per un altro bene che ne consegue».
In questo senso, possiamo dire che pregare rettamente domanda discernimento e precauzione, affinché non si chiedano cose sconvenienti, ovvero dannose, come Socrate fa notare nell’Alcibiade secondo: «Dunque, non ti pare che ci voglia molta precauzione affinché non si chiedano in preghiera, senza accorgersene, grandi mali ritenendoli dei beni, e gli dei in quel momento si trovino in tale disposizione da concedere ciò che appunto ci si trovi a pregare?».
Che cosa sarebbero questi beni confrontati alla vita eterna? «Tu ben sai quanto siano incerti tutti questi beni mondani; e anche se non fossero incerti, che cosa sarebbero a paragone della felicità che ci è stata promessa?» . Di qui si solleva la domanda su qual è quel bene che tutti dovrebbero chiedere e ricercare. Affidiamo la risposta al salmo 26: «Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per gustare la dolcezza del Signore ed ammirare il suo santuario» (Sal. 26,4-6).
In definitiva è, ancora una volta, la grazia della contemplazione di Dio che è lecito domandare e non i beni materiali, poiché, com’è stato osservato: «Se uno nella preghiera dice per esempio: "Signore, moltiplica le mie ricchezze o: "accresci i miei onori, fa che in questo mondo io sia assai potente e famoso" o altre simili affermazioni, e le desidera ardentemente senza avere lo scopo di volgerle a vantaggio degli uomini secondo il volere di Dio, costui, a mio avviso, non trova affatto nella preghiera insegnataci dal Signore nessuna espressione compatibile con questi desideri. Perciò si abbia almeno l'accortezza di chiedere ciò che non si ha pudore di desiderare, oppure se si ha coraggio anche di desiderarlo - ma la passione ha il sopravvento -, quanto sarà meglio chiedere al Signore che ci liberi anche da questo male della cupidigia, dato che gli diciamo: Liberaci dal male!».
«Che altro dunque conviene chiedere nelle preghiere se non quel bene che bramano tanto i cattivi che i buoni, ma al quale arrivano solo i buoni?» (Agostino, Lettera 130). La preghiera è uno dei fenomeni religiosi più diffusi e, per questo motivo, essa è stata l’oggetto di numerosi dibattiti; dibattiti filosofici, certo, ma non solo. Non bisogna infatti dimenticare anche l’apporto, più o meno critico, che arriva dalla tradizione letteraria. In questo senso non possiamo sottacere la mirabile preghiera che Dante fa pronunziare a San Bernardo nel canto XXXIII del paradiso della Divina commedia. In esso, San Bernardo innalza un’invocazione alla Vergine Maria, affinché Dante possa essere colmato di Grazia e ammesso a godere della visione mirabile di Dio.
[caption id="attachment_9326" align="aligncenter" width="1000"] Bartolomeo Manfredi, "Apollo e Marsia". Dante invoca Apollo per ricevere l'ispirazione necessaria per descrivere il Paradiso, facendo appello proprio alla potenza del dio da lui manifestata nella gara di cetra.[/caption]
Che cosa significa invocare? Invocare (invocāre) indica il chiamare (vocāre) a sé (in+vocāre).Non solo, perché l’atto dell’invocare non è mai sterile e fine a se stesso, ma è sempre volto al discorrere; all’instaurare un dialogo. Ma che cos’è questo dialogare? Il dialogare (διάλογος) è un discorrere (λογος) attraverso (διά) una relazione con qualcuno; con due o più persone. Certo, vi è anche il dialogo con se stessi, ma, anche in questo caso, occorre ammettere che i poli della discussione sono sempre almeno due.
Questa digressione sulla natura del dialogo è solamente apparente, perché, come abbiamo visto, la preghiera è invocazione e l’invocazione è dialogo strictu sensu. «il pregare una forma così peculiare di discorso […], una forma così peculiare di dialogo […]» . Che la preghiera sia soprattutto dialogo è testimoniato largamente: «I testi biblici, di cui in particolare la tradizione di pensiero cristiana si alimenta, a partire da quelli veterotestamentari presentano la preghiera innanzi tutto come dialogo con un Dio che crea, si rivela e parla all’uomo, quindi propriamente come risposta umana (sia personale sia comunitaria) all’iniziativa divina».
Abbiamo detto, però, che il dialogo della preghiera è un’invocazione. Ora, l’invocazione esige sempre un invocante che espleta l’azione dell’invocare e qualcuno da invocare. Colui che viene invocato è Dio e colui che invoca è il credente. In effetti, compito dell’invocazione è rendere presente Dio, nella preghiera: «La preghiera […] apre a un rapporto dialogico […]» . Ma perché vogliamo rendere Dio presente? In primis, per lodarlo. L’invocatio Dei è sempre una laus Dei.
Tuttavia, se essa nasce e si genera profondo, è perché sorge, nelle profondità dell’anima, una domanda fondamentale – una quaestio fondamentalis – che, seppur pacatamente e senza abusare delle parole, chiede ininterrottamente, domanda, persegue. Che cosa persegue? Che cosa domanda? La domanda della preghiera, quale unica richiesta lecitamente concessa, è che Dio si manifesti, che si renda presente; in una parola è concessa l’invocazione.
«La preghiera che si leva dall’uomo verso […] Dio altro non può essere se non un canto di lode. […] quando si faccia petitio, quel che singolarmente ed ecclesiasticamente (liturgicamente) chiede è, nella sostanza ultima, la possibilità di attingere, comunque, la delectatio laudis».
 
Per approfondimenti:
_P. Piccari, Conoscenza ordinaria e senso comune, Franco Angeli, Milano, 2011, p. 101;
_A. Huxley, Il mondo nuovo-Ritorno al mondo nuovo, Mondadori, Milano, 2015, p. 55.
_Ambrogio (San), «Expositio evangelii secundum Lucam (10: 121)», in C. Corsato, Volume 43 of studia ephemeridis Augustianianum, Istitutum patristicum Augustianianum, Roma, 1993, p. 54. La vita è infatti con Cristo; perché dove c’è Cristo là c’è la vita, là c’è il regno. Traduzione mia;
_Bonaventura (San), Itinerario della mente in Dio, a cura di L. Mauro, Rusconi, Milano, 1996, p. 6;
_F. Bersini, La sapienza del Vangelo, Le Áncore, Milano, 2015, p. 102;
_Bonaventura (San), Itinerario della mente in Dio, cit., p. 6. Più in generale, vi è da dire che la preghiera, come accadimento fondamentale della relazione religiosa, è il momento culmine del rapporto uomo-Dio. Tommaso D’Acquino afferma espressamente che oratio est proprie religionis actus, definendo, così, la religione, e quel suo spazio vitale che è la preghiera, come atto fondante della humana conditio;
_L. Mauro, «La preghiera nella storia del pensiero: costanti e differenze», in Fogli Campostrini, Vol. 5, N°1, 2013, p. 28.
Bonaventura (San), Itinerario della mente in Dio, cit., p. 4.
Ivi. p. 8.
_L. Feuerbach, L’essenza del Cristianesimo, Feltrinelli, Milano 1994, p. 136;
_L. Mauro, «La preghiera nella storia del pensiero: costanti e differenze», cit., p. 28;
_Agostino, «Lettera 130», in Id., Le lettere, II, Città Nuova, Roma 1971, pp. 72-109.In effetti, il dono fatto per ottenere qualcosa in cambio non è un vero dono, il quale deve possedere almeno due caratteristiche: la gratuità e la generosità.
_Agostino, De spiritus et littera, XI, 18.«Il vero culto di Dio consiste soprattutto in questo, che l’anima non gli sia ingrata». traduzione personale;
_Martin Steffens, Petit traité de la joie. Consentir à la vie, Salvador, Poche Marabout 2016, pp. 66.67. Traduzione personale;
_J. Ellul, L’impossible prière, Le Centurion, Paris 1977, p. 16 Traduzione libera;
_Agostino, «Lettera 130», in Id., Le lettere, II, Città Nuova, Roma 1971, pp. 75;
_Platone, Alcibiade secondo, 138b.
_Agostino, «Lettera 130», in Id., Le lettere, II, Città Nuova, Roma 1971, p. 74;
_La preghiera alla Vergine si trova all’interno della Commedia, nell’ultimo canto della terza cantica. Siamo dunque al canto conclusivo dell’intera opera: il numero XXXIII del paradiso (vv. 1-39). In esso viene non solamente ribadito il tema del viaggio, ma anche che nessun uomo può sperare di elevarsi a Dio senza prima ricevere la grazia: Or questi, che da l’infima lacuna/de l’universo infin qui ha vedute/le vite spiritali ad una ad una/supplica a te, per grazia, di virtute/tanto, che possa con li occhi levarsi/più alto verso l’ultima salute (vv. 21-27);
_D. Venturelli, «Interrogazione filosofica e preghiera», in, Fogli Campostrini, Vol. 5, N°1, 2013, p. 45;
_L. Mauro, «La preghiera nella storia del pensiero: costanti e differenze», cit., p. 28;
_F. Bersini, La sapienza del Vangelo, cit., p. 30;
_A. Carracciolo, Nulla religioso e imperativo dell’eterno, Il nuovo melangolo, Genova, 2011, pp. 91-92.
 
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