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Meglio in fondo a una fogna che su un piedistallo”, scrive Cioran nei Cahiers, metaforizzando per l’ennesima volta una delle ossessioni della sua esistenza: per capire, bisogna toccare il fondo. E per toccare il fondo, bisogna fallire.
In fondo, l’idea stessa di “modernità”, con il suo implicito culto del progresso e la sua fatale predisposizione alle infatuazioni utopiche, non è altro che una titanica dichiarazione di guerra contro la pura e semplice possibilità del “fallimento”. Possibilità che Cioran ha, invece e paradossalmente, idolatrato, fino a diventare autore anti-moderno e inattuale per antonomasia, perché ci si può costruire un’opera, e quasi una reputazione, sul fatto di fallire. E qualcuno potrebbe pure trovarla compromettente, questa faccenda di perseverare contro se stessi e malgrado se stessi, continuando a scrivere libri sul niente, sul nulla e sul male. Al che Cioran ci avrebbe potuto ricordare che poteva fare come gli altri e impiastrare centinaia di pagine sul bene – e forse ci sarebbe andata peggio.
[caption id="attachment_12411" align="aligncenter" width="1000"] Emil Cioran (1911-95) è stato un filosofo e saggista di origine rumena, che ha pubblicato opere sia in lingua rumena che francese. I suoi lavori, in prosa e aforismi, sono caratterizzati da un pervasivo pessimismo filosofico e da un costante tono nichilista. Le sue opere trattano infatti questioni personali come la solitudine, la sofferenza, l'inquietudine, la disperazione. Nel 1937, Cioran si trasferisce nel Quartiere Latino di Parigi, dove soggiornerà in modesti alberghi, e successivamente in una mansarda in rue de l'Odéon 21, dove vivrà con la compagna di una vita, Simone Boué (1919-97).[/caption]
Ad ogni modo, se fallire è alla portata di tutti, accettare il fallimento su di sé e farne una sorta di vocazione al contrario, prevede una certa dose di tracotanza. E Cioran, che al pari di Flaubert, si considerava “un mistico, che non crede in nulla”, vedeva nel fallimento una specie di rinuncia mistica a questo mondo, dato che bisogna trascendere i vincoli e gli obblighi mondani per naufragare in ogni dove nell’aldiquà. Da cui il suo autoritratto, non privo di ironia, in cui si immaginava nei panni di “un Ecclesiaste da marciapiede”, il quale porta oziosamente “la sua inutilità come una corona” (Sommario di decomposizione).
Cito questa frase non casualmente, dato che mi sembra evocare nel modo migliore il titolo di una recente e importante pubblicazione curata da Antonio Di Gennaro per la casa editrice Mimesis: L’orgoglio del fallimento. Lettere ad Arșavir a Jeni Acterian. Si tratta di una corrispondenza inedita in italiano, che testimonia della profonda e preziosa amicizia tra Cioran e i fratelli Arșavir a Jeni Acterian, due affascinanti figure intellettuali che hanno svolto un ruolo non secondario nella vita del pensatore di Sibiu.
Lo scrittore e giornalista Arșavir Nazaret Acterian (1907-1997) è stato infatti colui che, all’inizio degli anni Trenta, non solo ha introdotto Cioran nel circolo della “generazione del ‘27” – di cui egli faceva parta insieme ai vari Mircea Eliade, Constantin Noica ed Eugen Ionesco – ma grazie a cui Cioran avrebbe trovato una voce di conforto nei tormentati anni universitari. Un periodo che lo porterà a pubblicare, nel 1937, Lacrime e santi, opera la cui presunta blasfemia avrebbe provocato una reazione di condanna e indignazione pressoché unanime in Romania, sia da parte del pubblico e delle istituzioni che da quella dei conoscenti più intimi di Cioran. Ci sarà solo una voce a dissentire dal coro, e sarà proprio quella di Jeni Acterian (1916-1958), la sorella più giovane di Arșavir, una delle poche persone con cui Cioran si riconoscerà spiritualmente affine, considerandola forse l’unica a essere altrettanto disillusa e disincanta quanto lui.
Scrive Jeni il 25 marzo 1938: “Caro Emil, mi rendo conto di aver divagato, e me ne dispiaccio. Questa lettera aveva un solo scopo: confessarti che ho amato Lacrime e santi, dalla prima all’ultima pagina, più di qualsiasi altro libro. Ogni riga esprime una sofferenza infernale e, per coloro i quali la sofferenza è divenuta una ʻcondizione permanenteʼ, puoi comprendere la bizzarra e amara gioia [che esso dona]”. Un’amarezza che Cioran doveva ancora provare a distanza di trent’anni, quando, in memoria dell’amica scomparsa, scrive ad Arșavir: “[tua sorella] è stata l’unica a intuire il dramma che si celava dietro alla mia dimostrazione di impertinenza e di provocazione” consustanziali al suo libro.
[caption id="attachment_12412" align="aligncenter" width="1000"] Eugenia Maria Acterian, per matrimonio Georgescu, è conosciuta in ambito teatrale come Jeni Arnotă, (nata il 22 giugno 1916, a Constanța, Romania - morta il 29 aprile 1958, presso Bucarest, Romania), fu una regista rumena, di origine armena, drammaturga e autrice di un intimo diario. È la sorella degli scrittori Arșavir Acterian (1907 - 97) e Haig Acterian (1904-43). Ha lasciato quasi mille pagine del Journal: scritte con talento, mostrano l'indubbia dotazione di scrittura[/caption]
E basterebbe ciò, in effetti, per mostrare l’importanza di questo scambio epistolare, grazie a cui il lettore può osservare Cioran e la vita culturale rumena da una prospettiva differente. Inoltre, ma questo accade sempre con Cioran, sono lettere estremamente belle, in cui la voce dello scettico funesto si confonde con quella, più vulnerabile e umoristica, dell’amico a cui ogni confessione e incongruenza è concessa.
Basti pensare che il ventenne Cioran, convinto che mai sarebbe invecchiato, si lamentava con Arșavir per la sua tragica ossessione dell’essenziale, grazie a cui soltanto i poeti avrebbero avuto “qualcosa da imparare” da lui, l’ultimo degli ultimi. Eppure, contro ogni pronostico, Cioran invecchia e, quando Arșavir festeggia il sessantesimo compleanno, il nostro gli scriverà con scanzonata onestà: “Non avrei mai pensato che un giorno sarei stato esposto al “complesso” dell’invecchiamento, alle offerte del Tempo Ritrovato. Dopo un giro laggiù, non mi resterebbe che la scelta tra il Nirvana e l’elettroshock”. Un modo come un altro per ammettere: “Non sono buddhista, sono solo un simpatizzante”.
Eventualità confermata in una missiva del 1969, poco dopo che Cioran aveva inviato ad Arșavir una copia del Funesto Demiurgo, in cui i due amici fanno i conti col proprio passato: “La nostra generazione ha conosciuto tutte le forme di sconfitta: come non esserne orgogliosi? Inoltre, detto tra noi, senza l’orgoglio del fallimento, la vita sarebbe a stento tollerabile”.
Epilogo che non avrebbe certo trovato l’approvazione del Buddha, il quale, però, avrebbe forse pensato, come pensava e scriveva Cioran, che c’è una qualche “dolcezza nello svanire delle nostre illusioni”. E nello sfogliare queste pagine.
 
Per approfondimenti:
_Emil Cioran, L’orgoglio del fallimento. Lettere ad Arșavir a Jeni Acterian, a cura di Antonio Di Gennaro, Milano-Udine: Mimesis, 2021
 
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Del suo amico Petre Ţuţea (1902 - 1991) – «il solo vero genio che abbia mai incontrato» – Cioran ammirava l’acume intellettuale e l’irriverenza spirituale. Al riguardo è famoso l’aneddoto, raccontato in Confessioni e anatemi, di Cioran che paragona Ţuţea a un miscuglio di Dio e Don Chisciotte: «Al momento ne fu lusingato, ma la mattina dopo, prestissimo, venne a notificarmi: Quella storia di Don Chisciotte non mi piace».
A Cioran – come testimoniano numerose lettere, articoli e interviste sparse nel tempo – piaceva invece raccontare delle uscite folgoranti del suo compare rumeno, di dieci anni più vecchio, con il quale aveva però condiviso una parte importante della vita universitaria e con cui avrebbe sempre mantenuto una profonda amicizia, nonostante i due, dopo la fine della Seconda Guerra, non avrebbero più avuto modo di frequentarsi. Perseguitato dal regime comunista per la sua precedente militanza politica– fu un funzionario del Ministero dell’Economia Nazionale dal 1940 al 1947 –, Ţuţea trascorse più di tredici anni in carcere e visse poi in povertà e solitudine, fino alla morte, in un monolocale di Bucarest; Cioran, che dalla fine degli anni Trenta esiliò in Francia, era nondimeno considerato dalla Securitate rumena un intellettuale pericoloso, le cui relazioni personali dovevano essere tenute sotto stretta sorveglianza. Soprattutto quelle con i suoi vecchi amici rimasti in patria.
In questo contesto, non stupisce la difficoltà di recuperare gli eventuali scambi epistolari tra i due intellettuali né il fatto che essi non avessero potuto scriversi liberamente. Per questo motivo, è davvero opportuno segnalare la recente pubblicazione, da parte dell’editore Mimesis, de L’insonnia dello spirito: un volume curato da Antonio Di Gennaro e composto da una dozzina di lettere che Cioran e Ţuţea si spedirono nella seconda metà degli anni Trenta e tra gli anni Settanta e Novanta (oltre a un’intervista che Ţuţea concesse a Gabriel Liiceanu nel 1990, dedicata proprio a Cioran).
A dispetto delle dimensioni ridotte, questo prezioso scambio epistolare copre un arco temporale molto ampio e riesce a restituire al lettore l’intensità di un rapporto che sopravvisse non solo alla drammaticità degli eventi storici, ma anche a una serie di stravolgimenti interiori che avrebbero apparentemente potuto compromettere una tale amicizia. Quando Cioran conosce Ţuţea, infatti, sia il giovane studente universitario che il già affermato uomo politico condividono una medesima visione dissacrante, pessimistica e solitaria dell’esistenza: una visione dove la fede naufraga contro i mulini a vento del nichilismo, dove l’epifania procede a colpi di disgusto e misantropia, dove la “verità ultima” è un nulla da cercare “ai crocevia” e non in mezzo ai libri, e dove l’imperativo dell’indifferenza cede soltanto al miraggio di una rivoluzione. Tuttavia, quando per i due amici la rivoluzione diventerà sinonimo di esilio e prigionia, essi intraprenderanno strade diverse: dopo le torture e la segregazione subite in carcere, Ţuţea si convertirà alla fede cristiana e si dichiarerà apologeta della religione (pubblicando anche un Trattato di antropologia cristiana), mentre Cioran, consacratosi nel frattempo alla lingua francese, maturerà una concezione sempre più scettica e disincanta della vita, in cui persino la blasfemia subisce il fascino del fallimento e le calunnie della noia. Eppure, i due continueranno a non tradire il loro antico sodalizio e a riconoscere nelle disfatte dell’altro il segno sia della loro elezione spirituale che del destino che unisce entrambi.
Se Cioran vedrà sempre in Ţuţea “un Socrate oceanico” dei Carpazi – che preferì “fallire” in silenzio piuttosto che umiliarsi lasciando ai posteri “un’opera” –, Ţuţea vedrà sempre in Cioran l’unico uomo capace “di praticare una sincerità assoluta, […] l’unica immagine pura nella mia memoria”. In un caso come nell’altro, e in modo reciproco, lo scetticismo dell’uno non si configura mai come sconfessione della fede dell’altro; ed è proprio questo aspetto a rendere così commovente lo scambio epistolario tra Cioran e Ţuţea, perché ci rivela come un amico possa essere migliore sia dei nostri dubbi che delle nostre certezze.
Nel luglio del 1937, commentando un’istantanea che li ritraeva insieme, Cioran scrive a Ţuţea che «quella foto, dove qualcuno potrebbe scambiarci per venditori delusi o profeti dementi, smarriti nella zoologia rumena, mi ha persuaso del fatto che condividiamo la stessa sorte». Nel novembre dello stesso anno, quando è già a Parigi, Cioran aggiunge: «Io sono forse l’unico ad aver compreso la dimensione shakespeariana del tuo essere, così pure mi piace credere che tu sia il solo ad aver penetrato l’incurabilità del mio passaggio tra le bestie. Ti scrivo dalla città dove tutti i dubbi sono ammessi, e questo dona alle mie ombre un profumo di cancrena. Sono felice di poter essere qui da solo, terribilmente solo, e di essere lontano dai Balcani, dove soltanto tu giustifichi il sorgere del sole».
[caption id="attachment_11384" align="aligncenter" width="1000"] Emil Cioran e il suo amico Petre Ţuţea in due rari scatti.[/caption]
Passano più di cinquant’anni, con tutto quel che è accaduto nel mezzo, e in una mattina primaverile del 1990 Ţuţea ripensa al proprio passato, alla sua fede attuale e al suo amico Emil, che non crede in nulla ma che è forse il solo che lo possa ascoltare: «Caro Emil, ho nostalgia di vederti e abbracciarti. Mi piacerebbe incontrarti […] in uno spazio disabitato dagli uomini e sentire per alcuni attimi la gioia dell’orizzonte visivo vissuto da santi e bambini. […] Consentimi di affermare che sono simile a te, con la differenza che tu pratichi una sincerità illimitata, mentre il mio osare è limitato da credenze da cui non posso separarmi».
Alla fine di questa lettera, veniamo a sapere che il piccolo appartamento in cui Petre abita dal momento della sua scarcerazione è un appartamento in affitto; un appartamento, cioè, che non gli appartiene e in cui sarebbe costretto a congedarsi come un estraneo. Per questo motivo, e considerando i prezzi ridotti del mercato immobiliare rumeno, egli confida all’amico un suo desiderio: «che tu compra il mio monolocale, poiché non voglio morire inquilino. […] E in una proprietà di Cioran, non mi sentirei inquilino».
In realtà, anche Cioran sarebbe morto da inquilino nella sua mansarda di Rue de l’Odéon. Ciononostante, e ben prima che Petre gli facesse questa proposta, il giovane filosofo gli aveva forse già risposto, quando, nel 1937, gli confidò: «Io sono un Diogene che ha spento la sua lanterna, dopo averti incontrato. Un uomo, finalmente! E per abbracciarti, abbandono anche la botte». Perché non sempre la botte è un posto sicuro.
 
Per approfondimenti:
_E. Cioran, L’insonnia dello spirito, a cura di A. Di Gennaro, tr. it. di I. M. Chelariu, Milano, Mimesis, 2019.
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