22 Apr Filosofia dell’Umanesimo in Massimo Cacciari
[vc_row css_animation="" row_type="row" use_row_as_full_screen_section="no" type="full_width" angled_section="no" text_align="left" background_image_as_pattern="without_pattern" css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_separator type="normal" color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Otello Palmini del 23/04/2019
[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1555946104562{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]Il saggio La mente inquieta, edito da Einaudi, pubblicato nel 2019, viene a colmare un parziale vuoto nelle opere di Massimo Cacciari (1944). Infatti, anche se l’interesse del pensatore veneziano per l’Umanesimo è da tempo noto, non era disponibile, fino a ora, una pubblicazione di questa estensione ed organicità espressamente dedicata a questo tema. Questo lavoro è stato anticipato, non di molto, dal saggio Ripensare l’umanesimo che fa da introduzione curato da Raphael Ebdgi (1984) e sempre pubblicato da Einaudi nel 2016. La mente inquieta riprende e amplia alcuni temi del precedente lavoro, senza scalfirne la densità concettuale che rende questo testo, di sole 112 pagine, un lavoro di una straordinaria complessità e ricchezza.
[caption id="attachment_11272" align="aligncenter" width="1000"] Giorgio da Castelfranco (Giorgione), I tre filosofi (particolare), 1508-1509, olio su tela, 123,5 cm x 144,5 cm presso Vienna, Kunstoriches Museum.[/caption]
Un elemento di notevole interesse in cui ci si imbatte prima di addentrarsi nel saggio vero e proprio è la breve pagina che il filosofo veneziano premette al corpo del testo. In queste poche righe Cacciari ricorda l’origine del suo incontro con l’Umanesimo e, insieme, giustifica un interesse che, in prima battuta, potrebbe essere percepito come lontano dalla classica linea di pensiero dello stesso autore che si caratterizzava, specialmente negli anni giovanili, per una grande attenzione alla tradizione in lingua tedesca. L’interesse per l’Umanesimo nasce ai tempi di Krisis (Krisis, Saggio sulla crisi del pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein, 1976) una monografia che ebbe rilevanti effetti nel panorama culturale del secondo Novecento per il fatto di introdurre il “pensiero negativo” entro le riflessioni filosofiche della sinistra italiana spesso unilateralmente caratterizzate dalla tradizione dialettica. Il 1976 è anche l’anno di uscita del lavoro che procura l’occasione dell’incontro tra Cacciari e l’Umanesimo. Si tratta di Rinascite e Rivoluzioni (Rinascite e Rivoluzioni, Movimenti culturali dal XIV al XVIII secolo, 1976) un’antologia di saggi di Eugenio Garin (1909 - 2004) che pone davanti a Cacciari l’immagine di un Umanesimo problematico in grado di accendere l’interesse del filosofo. Un’età di transizione e inquieto tentativo di costruzione di una nuova visione del mondo. Un’«età assiale», scrive Cacciari, che per le sue contraddizioni e per «l’energia del suo solve et coagula» non ha più abbandonato le riflessioni del filosofo veneziano. A 43 anni di distanza da quella lettura, l’invito di Cacciari è quello di cercare, tra le pagine degli umanisti, la complessità e la profondità della tradizione italiana.
Il saggio è diviso in cinque capitoli. Il primo, introduttivo, propone un confronto tra l’Umanesimo italiano e Humanismus tedesco; il secondo e il terzo sono dedicati al problema della lingua e al nesso tra filologia e filosofia; gli ultimi due capitoli sono sondaggi che Cacciari compie sulla scorta di autori giudicati di particolare rilievo su due linee di pensiero che attraversano,talora intersecandosi, l’Umanesimo. Il volume entra nel merito di una questione cruciale: l’Umanesimo ha una filosofia? Tanto Giovanni Gentile (1875 - 1944), che fa dell’Umanesimo una fase embrionale, limitatamente artistica, del più maturo idealismo, quanto Ernst Cassirer (1874 - 1945) che giudica tutto il pensiero del Quattrocento utilizzando Cusano come unità di misura teorica, non concedono, a parere di Cacciari, un’indipendenza e una filosoficità peculiare all’Umanesimo. Né Paul Oskar Kristeller (1905 - 1999) e Ernst Robert Curtius (1886 - 1956), espressioni della migliore storiografia della cultura, chiariscono la questione stando a Cacciari, sostanzialmente non discostandosi dalla tesi di Jackob Burckhardt (1818 - 1897) di un Umanesimo tutto incentrato intorno alla soggettività artistica. La domanda allora è questa: «questa grande arte avrebbe mai potuto nascere senza un implicita filosofia dell’arte? E una concezione poietica del fare umano può non comportare, o addirittura imporre, un’antropologia filosofica» (p.5)?
Nel tentativo di rispondere a questa domanda Cacciari, nel primo dei sui sondaggi, affronta la natura del nesso tra filosofia e filologia a partire dall’opera di Dante e, in particolare dal De vulgari eloquentia, mette in evidenza quanto la lingua possa farsi espressione di un tempo storico e comunicare e chiarificare il sentimento profondo di un popolo. Una lingua, ben inteso, consapevole del proprio carattere dinamico, tanto più espressiva quanto più capace di seguire, e insieme dirigere, i mutamenti della vita in cui si produce. Una lingua che deve essere massimamente plastica per essere efficace e non può rinunciare all’inventio poetica. Anzi, è proprio l’inventio ad assicurarne la capacità trasformativa che è condizione necessaria della sua effettualità e, quindi, della sua stessa vitalità. I grammatici possono svolgere una lingua, ma ai poeti è lasciato il compito di fondarla. Dante è, per Cacciari, l’esempio più fulgido di questo fondamentale ruolo dell’inventio poetica nella genesi e nell’evoluzione di una lingua e del suo corredo retorico. L’uso dell’allegoria in Dante, rivela infatti la distanza dalle concezioni, non meno “allegoriche” che caratterizzavano la riflessone Scolastica.
[caption id="attachment_11277" align="aligncenter" width="1000"] Raffaelo Sorbi, Dante che incontra Beatrice (particolare) - 1863 Olio su tela cm.98x76.[/caption]
In Dante il significato allegorico infatti non è mai perfettamente esprimibile discorsivamente. Per questo la sua funzione non è quella di rimandare ad un “altro determinato”, ma è, l’allegoria stessa, simbolo della possibilità di esprimere Altro, «la poesia è divina quando la sua parola appare segno dell’Invisibile, oltre ogni definibile analogia di attribuzione o proporzione, quando lo illumina-illustra e ne è illuminata» (p.26).
Dalla riflessione sulla lingua che trova in Lorenzo Valla (1407 - 1457) la sua espressione più lucida e, insieme, discontinua rispetto alla tradizione, germoglia l’aspetto concettuale della filologia umanistica. «Homo è chi seppellisce i morti (humus-humare), ma per tenerli a cuore, ricordarli, con religiosa pietas. Dunque, in fondo, per disseppellirli sempre»(p.29). Allo stesso modo, la filologia umanistica deve essere sottratta a qualunque interpretazione volta a ridurla ad una contemplazione feticistica del il passato. Lo studio dell’antico non si riduce a sterile erudizione, non è con l’occhio dell’antiquario che gli umanisti guardano al passato e ai classici. E neppure, secondo Cacciari, l’approdo ad una «paideia totalizzante-armonica» può essere l’obiettivo della filologia umanistica come lo sarà poi per Humanismus tedesco. Lo studio della tradizione è presupposto fondamentale «all’esercizio critico consapevole». È il presente, in tutta la problematicità in cui questa età di passaggio a essere l’assillo della classicità indagata dagli umanisti. Individuare una nuova ratio, un nuovo ordine che sia in sintonia con il proprio tempo è impresa eminentemente filosofica ma non è cosa che possa farsi senza una lingua. Il latino classico, spiega Cacciari, funge da modello di una chiarezza alla quale aspirare. Ma è proprio l’essere modello non può condurre alla imitazione pedissequa di una lingua morta, ma deve attendere all’ inventio di una lingua diversa ma capace di eguagliare l’antica in chiarezza. Senza una lingua così concepita anche la creazione di un nuovo ordine resterebbe un sogno infantile. Logos è al contempo pensiero e linguaggio e la sua forza non può che nutrirsi di questa unione. La “filosofia filologica” deve essere l’antidoto alla astratta filosofia scolastica. La filologia deve assicurare alla filosofia il radicamento, la cura verso la tradizione e la chiarezza della forma. La tradizione deve essere quel cibo che non sazia mai e che, se metabolizzato, può dare la forza per muoversi in avanti. La filologia umanistica, insomma, è già, in sé, intimamente filosofica.
Questo senso profondo della filologia è presente in quello che Cacciari chiama, seguendo Garin, «Umanesimo tragico» che coinvolge Francesco Petrarca (1304 - 1374) prima, e poi Leon Battista Alberti (1404 - 1472) e Niccolò Machiavelli (1469 - 1527). L’uno e l’altro pionieri nel recupero della filologia al pensiero teoretico. Nel caso di Alberti l’arte edificatoria degli antichi deve essere studiata direttamente, pensata e metabolizzata come esempio per il proprio fare architettonico. L’antico deve essere quel serbatoio di esempi, di soluzioni, di schemi costruttivi, i quali devono costituire quella cultura necessaria a nutrire un ingegno che non voglia rassegnarsi ad essere astratto e quindi ineffettuale. Questa “filologia architettonica” albertiana è strutturalmente identica, suggerisce Cacciari, allo studio della storia che il Segretario fiorentino concepisce come un requisito indispensabile di un virtuoso agire politico. Gli exempla devono forgiare quella prudentia necessaria all’azione decisionale del principe, anche qui al fine di massimizzare la capacità dell’agire politico di incidere sul reale. Nessuna idolatria del passato, in entrambi i casi, ma un fagocitare la tradizione per ancorare a terra (humus) la concretezza del proprio fare. Un ulteriore nodo teorico che Cacciari individua come comune ai due umanisti, è il fatto che, entrambi, concepiscano l’uomo come soggetto che può e deve cercare di agire effettualmente nel mondo sebbene sempre in balia dell’eterna vicissitudo. La fortuna resta un elemento esterno, mai definitivamente e completamente riducibile alla ratio umana; un elemento senza il favore del quale non è possibile edificare una città né organizzare un corpo politico. L’azione umana è destinata a una continua mediazione con questo alter. Ma anche in sé, la struttura stessa dell’essere umano, la sua continua e insaziabile curiositas, lo consegna a una vita senza requie, ad un continuo superamento della stasi, ad una agire tragico nella misura in cui mai potrà essere definitivo. La libertà dell’azione umana è sottoposta tanto ai limiti del Fato quanto a quella della stessa struttura umana, quindi, ad un perpetuo agire inquieto. Tanto la scienza della costruzione albertiana quanto quella politica machiavelliana sono impregnate di un forte anti-dogmatismo e di una forte carica anti-utopica, nota ancora Cacciari, entrambe sono scienze della congettura, dell’ipotesi, tagliate su un essere umano che deve misurarsi con elasticità con la realtà. «La contraddizione deve essere sostenuta, ‘tollerata’, non possiamo sperare di sanarla, così come non possiamo eliminare, quasi si trattasse di errori logici, quel carattere o demone della nostra natura […] piuttosto che con la visione della verità, si conclude con la drammatica scoperta della molteplicità dei nostri nomi, non con l’Uno, ma con la sua stessa e originaria divisio» (p.65). La tragicità di questa linea della riflessione umanistica consiste nel consegnare l’uomo a una vita di ricerca non garantita da alcun appiglio metafisico. La contraddittorietà che caratterizza tanto la stessa natura umana quanto il rapporto dell’azione umana con la fortuna, non lascia spazio ad alcuna posizione definitiva, pacificata, a nessuna via aurea da percorrere, ma consegna l’esserci umano a costruirsi faticosamente delle strade che lo assicurino in una realtà priva di appigli definitivi.
L’altra linea, percorsa da Cacciari, è quella del neoplatonismo di Marsilio Ficino (1433 - 1499) e, soprattutto, della speculazione di Giovanni Pico della Mirandola (1463 - 1494). Il fine perseguito, in maniera massimamente rigorosa da Pico, è quello della pax, il superamento dell’asimmetria della struttura umana diventa l’obiettivo del lavoro del conte di Mirandola. La concordia, in questo indirizzo di pensiero, diventa il faro alla luce del quale agire. Un possibile, non facile da raggiungere, che, però, deve orientare le dinamiche umane nel mondo. Diventa fondamentale il perfezionamento di sé che può prendere corpo solamente nell’inesausto rapporto con i classici.
[caption id="attachment_11280" align="aligncenter" width="1000"] Giovanni Lusini, Statua di Leon Battista Alberti (particolare), Galleria degli Uffizi, Firenze.[/caption]
Tanto lo studio dell’antico quanto il confronto con la pluralità delle tradizioni portano a quella unità che sola può assicurare la concordia. L’Oratio pichiana è per Cacciari la prova che questa pax non potrà essere ottenuta seguendo una sola tradizione. Ma è evidente che l’obiettivo al quale Cacciari orienta la propria analisi del pensiero pichiano sia quello del De ente et uno. Nelle Conclusiones nongentae, segnatamente nelle Conclusiones magicae, l’unità dell’uomo con il mondo si ottiene solo nell’azione: in quella magia naturale che è l’operare secondo la logica della natura. Anche lo studio della Cabala non segue una diversa prospettiva: «nello studio della Cabala non si esprime, allora, una disciplina particolare, per quanto alta o somma; la Cabala rivela quella dimensione dello spirito in cui la limitatezza stessa dei distinti si supera e invera»(p. 83) L’uomo è questo esser-ci, questo possibile, che ha la capacità tanto di innalzarsi quanto di decadere. Per potersi innalzare, deve assumere su di sé tutte le tradizioni e, insieme, riuscire a ricomporle in un nucleo unitario. Questa prassi dell’Uno, che può condurre alla pax, è perseguibile forse individuando la logica di una simpatia universale che tutto regola? Forse nello studio delle stelle, quello astrologico ovviamente, può risiedere una soluzione? Queste domande restano aperte, ma la pace nell’interpretazione cacciariana resta impossibile, l’agire dell’uomo può essere efficace, ma per esserlo deve contare solo su se stesso, deve essere emendato da qualunque disegno provvidenziale, da qualunque logica che lo preceda e lo inveri.
Tornano Alberti e Machiavelli con la loro pesante carica di disincanto. Forse, conclude Cacciari si deve recuperare un metodo della pace che non abbatta le differenze, ma in cui, viceversa, i differenti si rispettino in quanto tali, consci dell’impossibilità di una loro risoluzione nel senso dell’Uno. Ogni posizione parziale deve riconoscere se stessa nel rapporto con le altre, in un rapporto di profonda alterità e contrasto che le renda però indispensabili una per l’altra. Il tentativo è quello di pensare l’Uno come quel contrasto rispettoso tra le alterità, in cui queste non vengano annullate da una logica che possa ridurle ad una, ma persistano in un dialogo produttivo tra distinti. Strada difficile, ma forse necessaria al di là dell’interpretazione dell’Umanesimo.
Il saggio di Cacciari restituisce un Umanesimo che continua a dare da pensare, che non si lascia mettere da parte e come stadio, ormai superato, della vita dello spirito europeo. La sua inquietudine oscilla coraggiosamente e realisticamente tra «solve et coagula», tra l’ebrezza per l’instaurazione di una nuova visione del mondo e la difficoltà di realizzarla. Questo è l’Umanesimo che si scopre in queste pagine e che può essere, per chi si trova in un tempo di crisi, un esempio, machiavellianamente o albertianamente inteso, per agire sul proprio tempo. Ciò che può essere portato, da queste pagine oltre l’interpretazione dell’Umanesimo è il tentativo di pensare un metodo della pace che non sia guerra fratricida ma nemmeno riduzione ad uno. Un metodo che faccia della differenza radicale una ricchezza e non tenti di sanarla nel segno di una qualche unità, un metodo che insegni il rispetto della differenza in quanto tale e non in quanto, tutto sommato, riducibile alla nostra visione del mondo. Il compito che questo Umanesimo suggerisce è una vita infinita di ricerca di se stessi nel rapporto con l’altro inteso come elemento essenziale del nostro cammino. Ogni visione del mondo può andare in profondità dentro se stessa, solo a patto di fare questa strada assieme a tutte le altre. Una strada che resta infinita data l’impossibilità di una pax nel segno dell’omologazione, e che, quindi, deve essere contraddistinta da una paritaria, rispettosa quanto netta contrapposizione.
Per approfondire:
_Jackob Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia, a cura di Eugenio Garin, Firenze, Sansoni, 1955;
_Ernst Cassirer, Individuo e cosmo nella filosofia del rinascimento, Torino, Bollati Boringhieri 2012;
_Giovanni Gentile, Il pensiero italiano del Rinascimento, Firenze, Le Lettere 2003;
_Massimo Cacciari, La mente inquieta, Torino, Einaudi, 2019;
_Massimo Cacciari, Ripensare l’Umanesimo, In Umanisti Italiani, pensiero e destino, Torino, Einaudi, 2018;
_Eugenio Garin, Rinascite e Rivoluzioni, Movimenti culturali dal XIV al XVIII secolo, Bari, Laterza, 2007.
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