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di Miriana Fazi 07/10/2017

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Il lessico corrente della lingua italiana è notoriamente ricco di sinonimi e di espressioni che, plasticamente, si possono considerare di significato equipollente. Tuttavia, d’altro canto, il lessico giuridico si discosta non di poco da una simile premessa: per definizione, esso necessita di un rigore che non si presti a dare adito a interpretazioni fuorvianti delle parole e, di riflesso, delle disposizioni di legge che le suddette vanno a formare.
Un esempio particolarmente calzante di discrasia tra lessico corrente e lessico giuridico può essere fornito dai concetti di calunnia e diffamazione. Spesse volte si cede alla tentazione di considerare queste due figure giuridiche come sinonimiche e anfiboliche, cadendo spesso in errore.
Se “la calunnia è un venticello”… la diffamazione cos’è? Invero calunnia e diffamazione prestano il nome a due reati di diversa natura, che hanno ad oggetto beni giuridici altrettanto diversi e sono sorretti da finalità e regimi sanzionatori divergenti. Il reato di diffamazione ex art. 595 del codice penale, infatti, è annoverato tra i “delitti contro la persona” al Titolo XII del summentovato codice.
Il dispositivo della norma prevede che: Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a 1032 euro. Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a 2065 euro. Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a 516 euro. Se l’offesa è recata a un corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza, o ad una Autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate”.
Come si può agilmente evincere, il bene tutelato dall’articolo 595 c.p. è “la reputazione”, intesa come corollario dell’onore e come senso di dignità e rispetto che una persona suscita all’interno della comunità sociale. Qual è l’elemento oggettivo di questo reato? Ossia: qual è la condizione che deve necessariamente verificarsi, perché il reato in questione possa dirsi integrato? È necessario che si verifichi una “condotta, che si sostanzi nell’offendere la reputazione altrui dinnanzi a una molteplicità di persone ed in assenza del soggetto nei confronti del quale viene pronunciata l’espressione diffamatoria”.
Particolari problemi, però, sorgono allorquando la diffamazione avvenga a mezzo stampa, ossia tramite televisione, giornali e ogni mezzo di divulgazione aperto a un pubblico vasto e indeterminato.
Genericamente i giornalisti godono di una scriminante particolare, nota come “esercizio del diritto di cronaca”. Tale scriminante consente loro di poter esercitare la propria professione serenamente, senza temere ripercussioni dovute a quanto scritto o riportato. In qualche modo, l’esercizio del diritto di cronaca può stimarsi come un’appendice dell’articolo 21 della Costituzione, posto a presidio del diritto di libertà di espressione.
Tuttavia, la tutela del diritto di cronaca non compre indistintamente qualunque condotta del giornalista. Si pensi, per esempio, a un giornalista che, pur non esprimendosi in termini negativi e mantenendo un profilo informale, scriva un articolo marcatamente infamatorio ai danni di un determinato personaggio. Ebbene, il giornalista in questione potrà godere della scriminante sopra riportata, solo allorquando il suo articolo presenti “profili di interesse pubblico all’informazione, tali da prevalere sulla posizione soggettiva del singolo”. Inoltre sembra quasi pletorico menzionare il requisito di “veridicità dell’articolo” come elemento necessario ai fini dell’efficacia della scriminante in parola.
Ciò premesso, si può rivolgere l’attenzione ad altra sedem materiaeA latere della pittoresca visione rossiniana di calunnia come venticello (da: “Il Barbiere di Siviglia”), la dottrina prevalente inquadra quest’ultima (art 368 c.p.) come reato plurilesivo, ossia posto a tutela di una pluralità di beni giuridici. Tali interessi si possono ravvisare sia nella libertà di una persona innocente, che nel corretto funzionamento dell’amministrazione della giustizia.
La coscienza giuridica italiana è sempre stata attenta alla necessità di predisporre un reato simile, fin dai tempi dei codici preunitari e del Codice Zanardelli ( codice penale emanato nel 1889 e precedente all’attuale Codice Rocco, ndr); anche se in precedenza la calunnia era concepita come “reato contro la fede pubblica”.
Quale che sia la sua categorizzazione dogmatica, un elemento resta certo e imperituro nel corso del tempo: il regime sanzionatorio della calunnia vanta caratteri di peculiare severità, se analizzato comparativamente alle altre sanzioni, comminate per i restanti reati contro l’amministrazione della giustizia.
 
Il dispositivo della norma presenta una felice concisione, Comma uno:
Chiunque con denuncia, querela, richiesta o istanza, anche se anonima o sotto falso nome, diretta all’Autorità giudiziaria o ad altra autorità che a quella abbia obbligo di riferirne, incolpa di un reato taluno che egli sa innocente, ovvero simula a carico di lui le tracce di un reato, è punito con la reclusione da due a sei anni".
Comma due:
La pena è aumentata se si incolpa taluno di un reato per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione superiore nel massimo a dieci anni, o un’altra pena più grave.
Comma tre:
"La reclusione è da quattro a dodici anni, se dal fatto deriva una condanna alla reclusione superiore a cinque anni; è da sei a venti anni, se dal fatto deriva una condanna all’ergastolo".
Anzitutto, bisogna soffermarsi sull’analisi del fatto tipico del reato in parola.
A differenza della “simulazione del reato”, ove si denuncia un reato necessariamente inesistente, senza attribuirlo a persona determinata o facilmente e univocamente determinabile, l’articolo 368 c.p. sanziona come calunnia il comportamento di chi, esplicitamente o implicitamente, incolpa un’altra persona – pur conoscendone l’innocenza - di un reato inesistente, oppure esistente, ma commesso da altri.
Ne deriva che si possono profilare diverse forme di calunnia: quella formale (o verbale, o diretta) consiste nella falsa affermazione della commissione di un reato, mediante querela, denuncia, richiesta o istanza. Il termine “denuncia” si suole intendere in maniera generica, come “qualsiasi informazione concernente fatti criminosi”. Il rischio di tale lettura ampia, secondo alcuni, risiede nell’estensione analogica (ossia nella possibilità di ricomprendere entro il termine “denuncia” anche delle condotte "non idonee a rivestire tale qualifica”, procurando punibilità al loro fautore in maniera del tutto illiberale e anti garantistica).
D’altro canto, la forma materiale (o reale, o indiretta) si verifica allorquando sia commessa mediante la simulazione delle tracce di un reato. Le due diverse condotte sono equivalenti sul piano della punibilità e, qualora dovessero ricorrere insieme, non avrebbe luogo una pluralità di reati.
Naturalmente, in ogni caso, è da escludersi la calunnia omissiva. Qualora si volesse rendere omissivo il reato di calunnia, si porrebbe una problematica difficilmente superabile. Infatti nell’ordinamento italiano difetta un “obbligo di impedire una falsa incolpazione” e in mancanza di tale obbligo è impossibile innestare l’articolo 368 c.p. sulla valvola generale del 40 c.p., clausola che consente di trasformare i reati commissivi nei rispettivi omissivi.
L’elemento soggettivo è il dolo generico, inteso come “coscienza e volontà di di portare la falsa informazione all’autorità giudiziaria”. Naturalmente i motivi che spingono l’autore a commettere un tale delitto sono irrilevanti ai fini del dolo: tutt’al più, possono rilevare come circostanze ultronee da prendere in considerazione nella ricostruzione globale del fatto.
Per di più, la calunnia colposa ( dovuta a negligenza, imperizia, imprudenza o alla contravvenzione di leggi e regolamenti) non è punibile: manca infatti una previsione espressa a tal fine, che sarebbe invece necessaria ai sensi dell’articolo 42 comma2. Non è punibile nemmeno la calunnia sorretta da dolo eventuale (ossia la forma più lieve del dolo, quella in cui gli elementi di volontà e consapevolezza sono ridotti al minimo vigore: essa si profila come accettazione del rischio che un determinato evento dannoso si verifichi in conseguenza di una propria condotta antigiuridica).
Quanto alle forme di manifestazione del reato, si discute sull’ammissibilità del tentativo. Finora il dibattito sembra propendere per la soluzione positiva. La calunnia formale si consuma al momento in cui l’Autorità ha ricevuto o percepito la notizia del reato oggetto dell’incolpazione calunniosa. La calunnia materiale, invece, si consuma nel momento in cui le tracce simulate sono state scoperte.
È curioso, infine, valutare la percezione del reato di calunnia in ambito comparatistico.
In Germania essa è concepita come condotta a forma libera. Non esistono nel dispositivo tedesco delle aggravanti e attenuanti simili a quelle contenute nei commi 2 e 3 dell’articolo 368 e, per di più, l’ordinamento tedesco consente una maggiore estensione dell’oggetto di incolpazione. Infatti rileva perfino la commissione di un illecito disciplinare, quindi la violazione di un dovere di ufficio. Così come in Italia, invece, si suole escludere la punibilità della calunnia commessa a titolo di dolo eventuale. In Spagna figura una peculiare caratterizzazione dell’elemento soggettivo: per integrare quest’ultimo si richiedono consapevolezza della falsità e temerario disprezzo per la verità.
Inoltre la Penisola Iberica conta su uno speciale meccanismo di pregiudizialità: non è consentito procedere contro il denunciante, se non dopo la sentenza, o l’ordinanza definitiva di assoluzione, o l’archiviazione emessa dal giudice che abbia giudicato l’infrazione imputata.
Per concludere, giova riservare un ultimo sguardo al sistema francese, che classifica la calunnia tra i reati contro la persona, la ritiene commissibile con qualsiasi mezzo e consente di punire la “falsità parziale”, che si verifica quando la persona accusata ha davvero commesso il reato denunziato, ma questo è descritto dall’accusatore in modo parzialmente non veritiero.
 
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di Miriana Fazi 07/08/2017

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La Camera ha approvato il disegno di legge che introduce il reato di tortura nell’ordinamento italiano con 198 voti favorevoli, 35 contrari e 104 astenuti. Il ddl – di iniziativa parlamentare e a prima firma di Luigi Manconi del Partito Democratico – era stato approvato dal Senato con lo stesso testo lo scorso 17 maggio e quindi è diventato legge. Il corpus normativo del codice penale si è ampliato con l’aggiunta dell’articolo 613- bis. Quest’ultimo disciplina il reato di tortura per la prima volta nella storia dell’ordinamento italiano, che finora è stato tacciato d’inadempienza in merito agli obblighi di incriminazione previsti da varie Convenzioni di matrice europea e internazionale.
Il testo della norma si profila come frutto di un atteggiamento compromissorio che forse, parzialmente, ha “snaturato” l’originale attitudine della disposizione in esame.
In ogni caso, mentre l’articolo 613 bis tipizza la condotta che integra reato di tortura, l’articolo 613 –ter si atteggia a coronamento della disposizione, delineando i parametri normativi dell’’ istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura.
 
Cosa dispone l’articolo 613 bis?
È prevista la reclusione da 4 a 10 anni per chi “con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa (...), se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona”. La fattispecie è aggravata - da 5 a 12 anni di reclusione - se i fatti di cui sopra “sono commessi da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio”.
N0n rilevano sul piano della punibilità le “sofferenze risultanti unicamente dall'esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti”. Alcune aggravanti sono previste allorché dai fatti anzi citati conseguano:
_una lesione personale: la pena è aumentata fino a 1/3;
_una lesione personale grave: aumento di 1/3;
_una lesione personale gravissima: aumento della metà;
_la morte quale conseguenza non voluta: 30 anni di reclusione;
_la morte quale conseguenza voluta: ergastolo.
 
Nel caso dell’istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura (art. 613-ter), si applica la reclusione da 6 mesi a 3 anni al pubblico ufficiale o incaricato di un pubblico servizio "il quale, nell'esercizio delle funzioni o del servizio, istiga in modo concretamente idoneo altro pubblico ufficiale o altro incaricato di un pubblico servizio a commettere il delitto di tortura, se l'istigazione non è accolta ovvero se l'istigazione è accolta ma il delitto non è commesso".
La disciplina di cui all’articolo 613 bis estende i propri effetti fino a recare modifica all'art. 191 c.p.p., in tema di prove illegittimamente acquisite. Il nuovo comma 2-bis stabilisce la inutilizzabilità delle dichiarazioni o delle informazioni ottenute mediante il delitto di tortura, salvo che contro le persone accusate di tale delitto e al solo fine di provarne la responsabilità penale. Ulteriori disposizioni prevedono:
_il divieto di respingimento, espulsione o estradizione di una persona verso uno Stato, quando vi siano "fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura"; a tal fine si tiene conto anche dell’esistenza, in tale Stato, di violazioni sistematiche e gravi di diritti umani;
_l'esclusione dall'immunità diplomatica agli stranieri sottoposti a procedimento penale o condannati per il reato di tortura in altro Stato o da un tribunale internazionale; in tali lo straniero è estradato verso lo Stato richiedente nel quale è in corso il procedimento penale o è stata pronunciata sentenza di condanna per il reato di tortura o, in caso di procedimento davanti ad un tribunale internazionale, verso il tribunale stesso o lo Stato individuato ai sensi dello statuto del medesimo tribunale.
Ma perché è stato necessario introdurre il reato di tortura in Italia? Dal più recente rapporto di Amnesty International emerge che 112 Paesi nel mondo praticano ancora la tortura. Molti di questi, per contrastare un simile atteggiamento- unanimemente percepito come illecito, si sono dotati di una fattispecie repressiva apposita; ma in questo composito gruppo di Paesi riformatori non figurava l’Italia. Tuttavia il bel Paese ha finito per doversi allineare a questa tendenza: un’ulteriore procrastinazione avrebbe comportato embarghi non indifferenti allo Stato, nel lungo periodo.
Il peso cruciale di questi dati si sommava alla preoccupazione general preventiva che si atteggia a scopo primigenio di ogni stato di diritto. Pertanto, a prescindere dalla radice del sistema giuridico – common law o civil law che sia - non si può contravvenire all’esigenza di rispettare il principio di tassatività e determinatezza della fattispecie penale. Essa, infatti, invade lo spazio di libertà del cittadino, incidendovi in maniera più o meno invasiva in base alla qualità della sanzione (pecuniaria o detentiva). Il reato di tortura, è stato così finalmente predisposto dal legislatore per dirimere quelle controversie aventi ad oggetto fatti di reato non altrimenti incriminabili o, comunque, incriminabili mediante misure ingiustificatamente meno severe rispetto agli standard internazionali.
Alcuni recenti fatti di cronaca, come i casi “Cucchi”, “Aldrovandi” e “G8 di Genova” hanno infine riportato in auge la diatriba sulla necessità di introdurre una fattispecie apposita.
Se ci poniamo il quesito di cosa sia il reato di tortura per l’ONU, osserviamo come la "Convenzione Onu" del 1989 definisce la tortura come “qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o di intimidire od esercitare pressioni su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione”.
La stessa Convenzione precisa che, ai fini della qualificazione del reato di tortura, l’azione deve essere posta in essere da un pubblico ufficiale “o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito”.
Come obblighi internazionali, il divieto di tortura è previsto da numerose convenzioni internazionali sui diritti umani, come la Convenzione Onu contro la tortura del 1989, la Convenzione Europea per la Prevenzione della Tortura e della pene o trattamenti crudeli, e la Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo. In particolare, la Convenzione Onu del 1989 contro la tortura obbliga gli Stati ad inserire nel proprio diritto penale interno il reato di tortura. Sono moltissimi gli Stati, che proprio al fine di conformarsi a tale obbligo, hanno previsto il reato di tortura nel codice penale e, in alcuni casi, ne hanno sancito il divieto anche a livello costituzionale.
Ora operiamo uno sguardo al diritto comparato: il reato di tortura nel resto del mondo.
 
Turchia
Nel 2016 lo Stato turco ha abolito "l'Istituzione nazionale per i diritti umani”, a seguito del tentato golpe del 15 luglio 2016.
Il leader turco Erdogan ha stretto ancor più le maglie del controllo e della repressione. Sono aumentate le segnalazioni di torture e maltrattamenti durante i periodi di custodia, nelle zone del sud-est a maggioranza curda, ma ancor di più a Istanbul e ad Ankara. Lo stato d'emergenza ha eliminato tutte le tutele per i detenuti e ha permesso pratiche precedentemente vietate: il periodo massimo di detenzione preventiva è stato portato da 5 a 30 giorni e sono state introdotte misure per impedire per 5 giorni ai fermati in custodia preventiva l'accesso a un legale e per registrare le conversazioni tra cliente e avvocato durante la detenzione e passarle ai pm. Le visite mediche sono effettuate in presenza di poliziotti e i loro esiti arbitrariamente negati agli avvocati dei detenuti. Nell'ultimo anno migliaia di persone sono state rinchiuse in centri di detenzione illegali.
 
Iran
In Iran la tortura è una tecnica impiegata per estorcere “confessioni”. I detenuti sotto l'autorità del ministero dell'Intelligence e dei Guardiani della rivoluzione sono stati regolarmente sottoposti a prolungati periodi di isolamento. Le denunce di torture sortiscono spesso effetti contrari: fanno proseguire e inasprire le torture e portano a pesanti sentenze. Secondo Amnesty International, i giudici continuano a considerare ammissibili le "confessioni" come prove a carico dell'imputato. Per chi viene arrestato spesso è ignorato il diritto ad accedere a un legale ed è negato anche l'accesso a cure mediche adeguate ai prigionieri politici. Sono in vigore pene disumani e degradanti, equiparabili a torture, quali fustigazioni, accecamenti e amputazioni.
 
 
Russia
In Russia torture e maltrattamenti sono pratica diffusa e sistematica durante la detenzione iniziale e nelle colonie penali. Sono stati denunciati recentemente uccisioni, arresti e torture di gay rinchiusi in prigioni segrete in Cecenia. Musa Mutaev, kirghiso, autore del libro Il sole verde, ha subito svariate torture e vessazioni fisiche e psicologiche prima di riuscire a fuggire nel 2004 in Norvegia e diventare scrittore. Nel suo libro racconta i sistemi di terrore usati dalle forze russe per estorcere confessioni indotte: scosse elettriche, rottura di arti, sangue.
 
Egitto
La drammatica fine di Giulio Regeni, il ricercatore italiano vittima di violenze inaudite e trovato morto in strada il 3 febbraio 2016, è lì impressa nella memoria, a triste monito delle disumane pratiche poliziesche in Egitto. Associazioni per i diritti umani hanno documentato decine di casi di decessi in custodia dovuti a tortura, maltrattamenti e mancanza di accesso a cure adeguate. Si sono praticate torture e maltrattamenti durante le fasi dell'arresto, come pure durante gli interrogatori. Molti sono stati vittime di sparizione forzata. I metodi utilizzati comprendevano duri pestaggi, scosse elettriche o costrizione a rimanere in posizioni di stress.
 
 
Israele
Amnesty International leva il dito anche contro Israele. Torture o maltrattamenti sono inflitti nell'impunità a detenuti palestinesi (minori compresi) da agenti dell'esercito, della polizia e dell'agenzia israeliana per la sicurezza (Isa), in particolare nelle fasi dell'arresto e dell'interrogatorio. Le pratiche segnalate: percosse, schiaffi, incatenamento in posizioni dolorose, privazioni del sonno, posizioni di stress e minacce.
Dal 2001 ci sono state mille denunce, ma il ministero della Giustizia, competente in materia dal 2014, non ha avviato alcuna indagine penale.
 
Palestina
In Palestina la polizia come pure le altre forze di sicurezza della Cisgiordania, la polizia di Hamas e le altre forze di sicurezza di Gaza hanno abitualmente e impunemente torturato o maltrattato detenuti, compresi minori. Tra gennaio e novembre 2016 la commissione indipendente palestinese ha ricevuto 398 denunce tra tortura e altri maltrattamenti (163 da detenuti in Cisgiordania e 235 da detenuti a Gaza) ma non sono mai state condotte indagini indipendenti.
 
 
Regno Unito
Il Regno Unito è stato uno dei più veloci nell'attuazione della Convenzione contro la tortura dell'Onu del 1984 e nel prevedere la pena più severa, la detenzione a vita. Il riferimento normativo è il Criminal Justice Act del 1988 dove, nella Parte XI, c'è un'apposita sezione dedicata alla tortura commessa da un pubblico ufficiale e comprende sia quella fisica ("grave dolore o sofferenza") che quella psicologica (è "irrilevante" se le sofferenze che consentono di definire un atto come tortura siano di tipo "fisico o mentale" o se "siano stati provocati da azioni o da omissioni").
Qualche obiezione l'hanno però suscitata i commi 4 e 5 dell'articolo 134, che escludono la presenza di reato di tortura se chi ha posto in atto la condotta idonea a provocare gravi dolori o sofferenze possa provare di averlo fatto in virtù di una legittima autorità, giustificazione o scusa. La spiegazione? I commi sono stati inseriti in ottemperanza alla parte finale dell'articolo 1 della Convenzione Onu, in cui il termine tortura "non si estende al dolore o alle sofferenze risultanti unicamente da sanzioni legittime, inerenti a tali sanzioni o da esse cagionate". Per esempio "un chirurgo che provoca sofferenze nell'esercizio legittimo della sua professione".
Un'ulteriore disposizione normativa contro la tortura è inserita nello Human Rights Act del 1998, la legge che ha recepito nell'ordinamento interno la Convezione Europea sui Diritti dell'Uomo.
 
 
Stati Uniti
Sul fronte Stati Uniti, l'ottavo emendamento della Costituzione americana proibisce di infliggere "pene crudeli e inconsuete". Non si parla esplicitamente di tortura ma, dagli anni Ottanta, la Corte Suprema americana ha stabilito che la tortura è contro la legge in base all'ottavo emendamento. In seguito agli attentati dell'11 settembre, però, nel 2003 il dipartimento di Giustizia americano dichiarò che "l'ottavo emendamento non trova applicazione" quando si tratta di ottenere "informazione di intelligence da parte di combattenti catturati". Nel 1994 il "Torture Act" (formalmente noto come Titolo 18, Parte I, Capitolo 113C del Codice statunitense) ha proibito la tortura da parte di dipendenti federali contro persone "in loro custodia o sotto il loro controllo", fuori dagli Stati Uniti. Ciò non ha impedito lo scandalo delle torture nelle prigioni militari all'estero, Guantanamo in prima fila. Solo dopo anni di polemiche, il presidente George W. Bush, nel 2007, ha firmato un ordine esecutivo per proibire alla Cia qualsiasi trattamento inumano nei confronti di prigionieri catturati nella lotta al terrorismo, impegnandosi a rispettare l'articolo 3 della Convenzione di Ginevra che vieta la tortura contro i prigionieri di guerra. Nel 2009 il presidente Barack Obama ha messo al bando l'uso della crudeltà durante gli interrogatori ovunque nel mondo. Dal 2005 è inoltre in vigore negli Usa il Detainee Treatment Act, che proibisce "pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti" del personale nelle prigioni militari.
 
 
Germania
In Germania il divieto di tortura è di fatto contenuto nella Costituzione. Non esiste una norma specifica nell'ordinamento tedesco, ma è presente una serie di articoli di legge del codice penale in cui la fattispecie della tortura è specificata in maniera molto esplicita, con pene di reclusione che possono andare da 3 ai 10 anni. L'articolo primo della Legge fondamentale della Repubblica federale sancisce che è "dovere di ogni potere statale rispettare e proteggere la dignità dell'uomo"Sempre nel testo costituzionale, al comma 1 dell'articolo 104, si afferma che le persone tratte in arresto "non possono essere sottoposte né a maltrattamenti morali, né a maltrattamenti fisici".
Non solo. Nel codice penale vi è un esplicito ancoramento agli articoli 3 e 15 della Convenzione europea per i diritti dell'uomo, in cui si afferma che nessuno individuo può essere "sottoposto alla tortura oppure a punizioni o trattamenti disumani o umilianti", nonché che queste disposizioni valgono anche "se la vita della nazioni è minacciata dalla guerra o da altra emergenza di natura pubblica".
 
 
Francia
La Francia ha ratificato nel febbraio 1986, poco più di un anno dopo la sua stipula, la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura. È all'articolo 1 della Convenzione che si possono richiamare i giudici francesi quando incorrono in un reato di tortura: questo non è infatti definito con precisione dall'ordinamento giuridico d'oltralpe. Sono i giudici che definiscono, caso per caso, gli "atti di tortura e di barbarie".
Generalmente, si tratta di azioni violente estremamente gravi, che si traducono in un oltraggio all'integrità fisica della vittima ma senza che ci fosse intenzione di uccidere. L'autore di tali atti dimostra una crudeltà estrema, che suscita l'indignazione generale. Il grado di punizione per tali atti dipende dalle conseguenze, dagli strumenti impiegati e dalle caratteristiche della vittima. Secondo il Codice penale francese, articolo 222, l'autore rischia la condanna a 15 anni di reclusione criminale; la pena può essere aumentata a 20 anni se le vittime sono bambini sotto i 15 anni, persone vulnerabili come anziani, ammalati, invalidi o donne incinte, o ancora se gli atti sono stati commessi utilizzando o minacciando l'uso di un'arma. La pena può arrivare a 30 anni se gli atti di tortura o di barbarie sono commessi su un minore di 15 anni da un parente legittimo, naturale o adottivo o da qualsiasi altra persona che ha un'autorità sul minore, o ancora se gli atti sono commessi da una banda organizzata o in modo ripetuto su un minore di 15 anni o su una persona vulnerabile o se questi atti hanno provocato una mutilazione o un'infermità permanente. Se la vittima muore, può scattare l’ergastolo.
 
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di Miriana Fazi 20/05/2017

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Nel dopoguerra, il governo del nuovo stato israeliano, si trovò di fronte ad un dilemma: la Procura Federale dell’Assia chiese l’estradizione del colonnello delle Schutzstaffel (SS) Otto Adolf Eichmann; tuttavia le prospettive di un processo tedesco non si profilavano verosimili. D’altro canto, l’opinione pubblica della divisa Germania sembrava poco incline a rimarcare l’infausta responsabilità connessa alle atrocità naziste. I tempi non erano ancora maturi per un mea culpa collettivo. Si correva così il rischio di dar luogo a un processo, che avrebbe finito per spaccare il Paese e rianimare vecchi conflitti, prospettando un secondo problema, in vista di tale processo: la condanna sarebbe potuta non arrivare o mostrarsi particolarmente lieve rispetto alle aspettative del Governo Israeliano.
[caption id="attachment_8755" align="aligncenter" width="1000"] Otto Adolf Eichmann (Solingen, 19 marzo 1906 – Ramla, 31 maggio 1962) è stato un paramilitare e funzionario tedesco, considerato uno dei maggiori responsabili operativi dello sterminio degli ebrei nella Germania nazista.[/caption]
Nel 1961, la filosofa Hannah Arendt segue le centoventi sedute processuali, inviata dal settimanale statunitense New Yorker a Gerusalemme. Il tedesco Otto Adolf Eichmann, classe 1906, è stato responsabile della sezione IV-B-4, ovvero l'apparato competente sugli affari ebraici, dell'ufficio centrale per la sicurezza del Reich (RSHA), organo nato dalla fusione - voluta da Himmler - del servizio di sicurezza delle SS con la polizia di sicurezza dello stato, unita alla polizia segreta o Gestapo.
Il nazista non era mai andato oltre il grado di tenente-colonnello, ma per l'ufficio ricoperto ha svolto una funzione di grande rilievo nella politica del regime nazionalsocialista: aveva coordinato - a livello europeo - l'organizzazione dei trasferimenti degli ebrei, verso i campi di concentramento e di sterminio. Rifugiatosi nel dopoguerra in Argentina, nel maggio 1960 viene catturato dagli agenti israeliani, i quali lo scortano sotto sequestro a Gerusalemme.
Processato da un tribunale israeliano, nella sua difesa tenne a precisare che, in fondo, si era occupato "soltanto di trasporti". Fu condannato a morte mediante impiccagione e la sentenza fu eseguita il 31 maggio del 1962. Il resoconto di quel processo e le considerazioni che lo concludevano furono pubblicate sulla rivista americana e successivamente furono riunite nel 1963 nel saggio "La banalità del male" (Eichmann a Gerusalemme).
In questo scritto la Arendt analizza come le modalità del pensiero umano, possano evitare azioni malvagie. La banalità del male ha accentuato la relazione fra la facoltà di pensare, la capacità di distinguere tra giusto e sbagliato, la facoltà di giudizio e le loro implicazioni morali, compiti che sono stati estremamente significativi nel lavoro della filosofa ebrea fin dai primi scritti della fine dell'anno 1940, sul fenomeno del totalitarismo.
La prima reazione è più che sinistra: lei sostenne che "le azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, ne demoniaco ne mostruoso". La percezione dell'autrice su Eichmann, sembra essere quella di un uomo comune, caratterizzato dalla sua superficialità e mediocrità che la lasciarono stupita nel considerare il male commesso da lui, che consiste, nell'organizzare la deportazione di milioni di ebrei nei campi di concentramento.
Ciò che la Arendt scorgeva in Eichmann non era neppure stupidità ma qualcosa di completamente negativo: l'incapacità di pensare. Il tedesco ha sempre agito all'interno dei ristretti limiti permessi dalle leggi e dagli ordini. Questi atteggiamenti sono la componente fondamentale di quella che può essere vista come una cieca obbedienza. Dunque se gli alti burocrati potevano apparire dei "mostri", egli in apparenza era persona comune, normale, ma nella sua vita regolare e monotona - nell'eseguire ordini -  i suoi atti erano terribili. In questa "mostruosa normalità" della burocrazia, capace di commettere la più grande atrocità che l'umanità avesse mai visto, la Arendt rintraccia la questione della "banalità del male". La "normalità" espressione di atteggiamenti comuni ripudiati dalla società - in questo caso i programmi della Germania nazista - trova il suo elemento all'interno del comportamento del cittadino comune, il quale non riflette sul contenuto delle regole, ma applica queste in maniera incondizionata. Il nazista ha introdotto il pericolo estremo della irriflessività. Può apparire incredibile che queste atrocità commesse, non arrecavano al carnefice nessun pentimento morale o ammissione di colpa, poiché le circostanze normali della quotidianità, rendevano le operazione routine da lavoro.
Dunque le analisi delle interrelazioni fra la facoltà di pensare, la capacità di distinguere tra giusto e sbagliato, la facoltà di giudizio, e le loro implicazioni morali rappresentano il nucleo tematico dell'opera. A questo proposito la Arendt si è chiesta se la facoltà di pensare, nella sua natura e nei suoi attributi intrinseci, coinvolge la possibilità di evitare di "fare il male".
La banalità del male non è sembrato incorniciare gli standard soliti di male, come patologia di condanna ideologica di chi lo compie: in questo senso la filosofa si domanda se la dimensione del male sono una condizione necessaria di "operare il male".  Si plasmava un nuovo fenomeno del male, le cui radici non sono state ancorate negli standard filosofici, morali, religiosi tradizionali, al meno si aprirà una prospettiva nuova sul comprensione del male.
La stessa, riprende la tematica nelle prime pagine dell'introduzione de "La Vita della Mente": assistendo al processo Eichmann la Arendt disse: " mi sono sentita scioccata perché tutto questo contraddice le nostre teorie sul male".
Un accenno alle sue tesi sulla banalità sono presenti ne "Le Origini di Totalitarismo" (1951), il suo primo saggio, nel quale sosteneva che l'aumento di totalitarismo, era dovuto all'esistenza di un nuovo genere di male, il male assoluto, che, "non poteva essere a lungo spiegato e capito con malvagie ragioni di egoismo, avidità, bramosia, risentimento, sete per potere, e codardia". Nasceva un "hostis generis humani", tradotto dal latino nemico del genere umano.
Come può dunque la capacità di pensare muoversi in modo da evitare il male? Per prima cosa - secondo la Arendt - gli standard etici e morali basati sulle abitudini e sulle usanze hanno dimostrato di poter essere cambiati da un nuovo insieme di regole di comportamento dettate dall'attuale società. La filosofa si interroga sul come sia possibile che pochi individui, non aderiscano al regime malgrado ogni coercizione. A tale domanda risponde in maniera semplice: i non partecipanti, chiamati irresponsabili dalla maggioranza, sono gli unici che osano essere "giudicati da loro stessi"; e sono capaci di farlo non perché posseggano un miglior sistema di valori o perché i vecchi standard di "giusto e sbagliato" siano fermamente radicati nella loro mente e nella loro coscienza, ma perché essi si domandano fino a che punto, un individuo può vivere in pace con sé stesso, dopo aver commesso certe azioni.
[caption id="attachment_8760" align="aligncenter" width="1000"] Hannah Arendt (Hannover, 14 ottobre 1906 – New York, 4 dicembre 1975) è stata una filosofa, storica e scrittrice tedesca naturalizzata statunitense. La privazione dei diritti civili e la persecuzione subite in Germania a partire dal 1933 a causa delle sue origini ebraiche, unitamente alla sua breve carcerazione, contribuirono a far maturare in lei la decisione di emigrare. Il regime nazista le ritirò la cittadinanza nel 1937; Hannah Arendt rimase quindi apolide fino al 1951, anno in cui ottenne la cittadinanza statunitense.[/caption]
La Arendt chiaramente presuppone alla facoltà del pensare questo tipo di giudizio. Questa presupposizione non necessita di una elevata intelligenza, ma semplicemente l'abitudine di vivere insieme, e in particolare con se stessi, il ché significa, essere occupato in un dialogo silenzioso tra l'io e l'io, che da Socrate è stato chiamato "pensare".
L'incapacità di pensare non è stupidità: può essere presente negli individui più intelligenti e la malvagità non è la sua causa, ma è necessaria per causare grande male. Dunque l'uso del pensiero previene il male. Una delle questioni principali consiste nel fatto che un'intera società può sottostare ad un totale cambiamento degli standard morali, senza che i suoi cittadini emettano alcun giudizio circa ciò che sta accadendo. La Arendt sceglie Socrate come suo modello di pensatore. Una maniera per prevenire il male è come detto sopra rintracciabile nel processo del pensare. Questo pensare per Socrate provoca essenzialmente la perplessità che ha il potere di dislocare gli individui dalle loro regole di comportamento.
La capacità di pensare, ha dunque la potenzialità di mettere l'uomo di fronte ad un quadro bianco annullando il bene o il male, ma semplicemente attivando in lui la condizione per stabilire un dialogo con se stesso e permettendogli dunque di deliberare un giudizio circa tali eventi. La Arendt sta cercando di evitare l'aderire degli uomini a ogni tipo di standard morale, sociale o legale senza esercitare la loro capacità di riflettere, basata sul dialogo con se stessi, circa il significato degli avvenimenti, ovvero la manifestazione del pensiero, il quale è capace di provocare perplessità e obbliga l'uomo a riflettere e a pronunziare un giudizio.
La banalità del male che appare attraverso Eichmann, rende evidente come il fenomeno del male può mostrare la sua faccia. In un trattato scritto per un dibattito su "Eichmann a Gerusalemme" nel Collegio Hofstra nel 1964, la Arendt ha affermato che "banalità" significa "senza radici", non radicato nei "motivi cattivi" o "impulso" o forza di "tentazione".
La Arendt asserisce inoltre: "la mia opinione è che il male non è mai 'radicale', ma soltanto estremo, e che non possegga né la profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare tutto il mondo perché cresce in superficie come un fungo. Esso sfida come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, andare a radici, ed nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua "banalità"... solo il bene ha profondità e può essere integrale."
Tornando al processo, archiviata l’ipotesi di matrice tedesca, venne considerata una seconda opzione per avviare il procedimento. Si pensò quindi alla convocazione di un tribunale internazionale ad hoc, che presupponesse l’utilizzo del c.d. Codice di Norimberga (un insieme di principi giuridici scritti e utilizzati per la prima volta nel 1945, ndr).
Un simile approccio, tuttavia, avrebbe comportato la violazione del principio di retroattività della norma penale sostanziale. Un ipotetico tertium genus da considerare, invece, sarebbe stato un processo tutto israeliano.
Al di là dei problemi, sorti dopo l’operazione del Mossad, si poneva una questione squisitamente giuridica: qual era la norma da applicare? Le possibilità facevano capo a tre modelli alternativi. In primo luogo si considerò un rito penale ordinario, che concedesse di processare Eichmann per omicidio plurimo. Tale ipotesi non fu accolta con favore, giacché sembrava svilire la carica simbolica e politica che quel processo sembrava essere destinato ad assumere.
Si considerò un’alternativa incentrata sul modello processuale italiano, mediante l’audizione di un Tribunale Militare. Eppure un impedimento intrinseco alla fattispecie impedì di procedere in tal guisa. Eichmann non era un militare: facendo parte delle SS, era considerato un paramilitare. Peraltro il concorso in omicidio - capo d’imputazione riferito ad Eichmann, era alquanto difficile da provare nel novero dei sei milioni di omicidi commessi.
Di fatto soltanto in un’occasione emerse la partecipazione diretta di Eichmann all’uccisione di un ebreo: si trattava di un ragazzino, sequestrato da Eichmann e ucciso da questi a bastonate, in concorso con la propria guardia del corpo. Pertanto, al fine di evitare un tortuoso processo penale ordinario, si decise di procedere ad una soluzione ibrida, destinata a diventare un precedente giuridico rivoluzionario.
Il paradosso consisteva nel fattore, che uno dei maggiori responsabili dei crimini nazisti della questione ebraica, infine sfociata nella "soluzione finale" rischiasse di avere una pena lieve, per i crimini contro l'umanità commessi.
Si decise di celebrare il processo a Gerusalemme, davanti ad un tribunale ordinario, ma applicando i capi d’ imputazione ricavati dall’esperienza del processo di Norimberga.
Il Parlamento d’Israele aveva infatti recepito i principi giuridici fondamentali, coniati per il processo di Norimberga con un’apposita legge ordinaria: “La legge sulla punizione dei Nazisti e dei loro collaboratori” del 1950.
La normativa introduceva il reato di “crimini contro il popolo ebraico”, una chiara interpretazione estensiva dei “crimini contro l’umanità” previsti dal Codice di Norimberga.
Tale disciplina adottata dal Tribunale distrettuale di Gerusalemme, costituì una potente arma contro la difesa di Eichmann. La legge infatti prevedeva un forte inasprimento delle pene e una fattispecie abbastanza aperta e idonea a condannare qualunque nazista, che fosse stato dotato di un incarico di responsabilità.
Di fatto, sul solco di tali premesse, Eichmann venne condannato dalla propria inappuntabile precisione. Avendo egli annotato ogni operazione con pedanteria maniacale, venne accertata la sua responsabilità solo in ordine all’eliminazione degli ebrei.
[caption id="attachment_8757" align="aligncenter" width="1000"] Col grado di SS-Obersturmbannführer era responsabile di una sezione del RSHA; esperto di questioni ebraiche, nel corso della cosiddetta soluzione finale organizzò il traffico ferroviario per il trasporto degli ebrei ai vari campi di concentramento. Criminale di guerra, sfuggito al processo di Norimberga, si rifugiò in Argentina, ma venne poi catturato dal Mossad, processato e condannato a morte in Israele per genocidio e crimini contro l'umanità.[/caption]
Per questa ragione Eichmann, pur volendo, non avrebbe potuto addurre a propria scusante il fatto di essere un criminale di guerra ordinario. L’ultimo barlume di speranza per Eichmann sarebbe potuto provenire dal fronte del diritto internazionale. Questo perché L’Argentina contestò aspramente l’operazione illegale condotta da Mossad.
Il Tribunale Internazionale delle Nazioni Unite, l’organismo arbitrale specializzato nella risoluzione delle controversie fra gli stati, riconobbe un risarcimento all’Argentina, ma allo stesso tempo decise di non ingerirsi nel Processo di Gerusalemme.
Eichmann venne quindi processato e condannato a morte in tempi relativamente brevi. Il processo in quanto tale, fu di risonanza mondiale, ma la questione giuridica che sorreggeva la sua impalcatura non venne risolta definitivamente con voci assonanti sul piano dottrinale.
Si creò in questo modo un precedente giuridico, che finì per riaprire vexatae questiones mai sopite: era legittima la deroga al principio di irretroattività della legge penale? Molti giuristi blasonati del calibro di Kelsen risposero negativamente. Anzitutto, in base al rilievo che all’epoca dei fatti non esisteva lo Stato di Israele, né di riflesso il Codice penale di Israele, in base al quale il nazista venne alfine condannato.
Secondo altra parte dei commentatori, in caso di gross violations di simile portata sarebbe stata legittima anche una deroga al principio di irretroattività della legge penale. La questione resta teoreticamente ancora aperta e irrisolta. Ai posteri l’ardua sentenza, dunque, con la consapevolezza che “il processo del secolo” si è consumato anche su un terreno di battaglie giuridiche, di cavilli e codici.
 
Per approfondimenti:
_Hannah Arendt, La banalità del male - Edizioni Feltrinelli
_Deborah E. Lipstadt, Il processo Eichmann - Edizioni Einaudi
 
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di Miriana Fazi 19/ 03/ 2017

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Tra gli scaffali d’una libreria mi sono imbattuta in un volume di modeste dimensioni e dalla copertina di colore rosso vermiglio. Il titolo, al contempo laconico e denso, dà voce a un’endiadi ideale di parole diverse, ma irrimediabilmente connesse tra loro: diritto e amore. L’autore, nel primo capitolo, s’interroga su quale sia il rapporto che intercorre tra gli anzidetti vocaboli, che al giorno d’oggi sembrano non avere molto in comune.
Diritto e amore sono compatibili, pronunciabili insieme, oppure appartengono a delle logiche conflittuali, tanto che l’uno e l’altro tentano di sopraffarsi? Il diritto è stato usato come sistema di neutralizzazione dell’amore, quasi che, lasciato a se stesso, l’amore rischiasse di dissolvere l’ordine sociale?”.
A una prima analisi la risposta sembra essere affermativa. Il diritto, per esigenze legate alla propria natura, richiede uguaglianza, regolarità, uniformità. È evidente come le sue premesse di fondo divergano da quelle che sottendono alle ragioni dell’amore. In effetti, volgendo il pensiero a un avveduto Montaigne, torna subito alla mente la definizione che questi diede alla vita: “un movimento ineguale, irregolare e multiforme”.
Se si facessero convergere amore e vita in un solo significato di più ampio respiro, sarebbe semplice individuare la netta antitesi che si pone tra questi termini e la parola “diritto”, intesa nella maniera precedentemente proposta.
Dunque, bisogna concludere che “l’amore è allergico alle goffagini del diritto civile”, come notava il giurista francese F. Terré, nella sua opera “Fait-on un bon droit avec de bons sentiment?” Sembra di sì, considerato che il diritto ha spesso confinato l’amore senza legge in uno stato d’eccezione. Si pensi, per esempio, alla disciplina codicistica del diritto di famiglia. Nella modernità occidentale, fino a tempi piuttosto recenti, il vincolo giuridico del matrimonio si basava su un rapporto tra coniugi innestato su alcune categorie tipiche del diritto patrimoniale. Prima tra queste, “la proprietà”: ciascun coniuge vantava un diritto sul corpo dell’altro.
[caption id="attachment_8215" align="aligncenter" width="1000"] Stefano Rodotà (Cosenza, 30 maggio 1933) è un giurista, politico e accademico italiano.[/caption]
In seconda istanza, “il credito”; giacché il diritto di esigere prestazioni sessuali connotava la relazione matrimoniale, all’interno della quale compariva il “debito coniugale”.
Tuttavia, com’è noto ai più, la posizione dei coniugi non godeva della parità che ad oggi qualifica le parti contraenti in altri rami del diritto. Basti pensare che l’error virginitatis (la mancata verginità della donna al momento della consumazione, ndr) rendeva nullo in radice il matrimonio stesso. La ragione che in passato sorreggeva tale pretesa va individuata nel fatto che un errore sulle “qualità personali del coniuge” non sembrava conforme a quella logica monogamica fondata sull’esclusivo possesso di una donna.
Tuttavia Ludovico Mortara, presidente della Corte d’Appello di Milano, in una sentenza del 1911 si espresse con un’opinione dissenziente rispetto all’ideologia ben radicata al tempo e più risalente.
Questi evidenziò come <<Elevare la verginità fisica della donna a qualità essenziale, il cui difetto, se non è stato prima dichiarato, diviene causa di annullamento delle nozze, significa abbassare il matrimonio a livello di un contratto commutativo, nel quale l’oggetto principale sarebbe costituito dal corpo degli sposi; vuol dire estendere al matrimonio i principi della garanzia che il venditore deve al compratore per i vizi e i difetti occulti della cosa venduta, assegnando precisamente al difetto di verginità la funzione di un vizio redibitorio, per la quale si considera la sposa deflorata non atta a raggiungere i fini del matrimonio; nello stesso modo che si soleva nel Medioevo subordinare la validità dei contratti di compra-vendita delle schiavette di Levante e Barberia alla condizione che la giovane fosse “non fatta” ma “sana, integra in tutte le sue parti e senza macchia”>>.
[caption id="attachment_8216" align="aligncenter" width="1000"] Lodovico Mortara (Mantova, 16 aprile 1855 – Roma, 1º gennaio 1937) è stato un avvocato, politico e docente universitario di Diritto Costituzionale italiano, divenne ministro della giustizia con il primo governo Nitti.[/caption]
Può l’amore essere associato alla subordinazione?
Nel 1942, all’alba delle discettazioni sulla nuova codificazione civile, il celebre giurista Francesco Carnelutti si espresse in questi termini : << Lo ius in corpus o in corpore dell’un coniuge verso l’altro è più vicino che non sembri al diritto nascente per l’imprenditore verso il lavoratore del contratto di lavoro>>. Dunque, considerate simili costruzioni culturali, è agevole comprendere il motivo per il quale nel codice civile del 1942 al “marito” venisse ancora assegnato il ruolo di “capo famiglia” ex articolo 144 c.c., rimasto in vigore fino alla riforma del 1975.
La lettera dell’art 144 c.c. disponeva << Il marito è il capo della famiglia. La moglie segue la condizione civile di lui, ne assume il cognome ed è obbligata ad accompagnarlo ovunque egli crede di fissare la sua residenza>>.
Questa corrente di pensiero all’epoca dominante spiega la difficoltà della Corte Costituzionale nel cancellare la discriminazione tra le diverse condizioni del marito e della moglie in caso di tradimento. In danno del primo non erano previste pene, contrariamente a quanto accadeva per la seconda, che era imputabile di “reato d’adulterio”.
In ogni caso, sembra che un composito gruppo di giuristi avversasse la condizione paritaria di uomo e donna finanche nel matrimonio . Tra questi figuravano Vittorio Emanuele Orlando, politico e fondatore del diritto pubblico italiano; Piero Calamandrei e Francesco Saverio Nitti.
 
 
Per approfondimenti:
_Diritto d’amore -Stefano Rodotà.
_Teoria generale del diritto – F.Carnelutti
_Politica e amore – A. Tonelli
_Fait-on un bon droit avec de bons sentiments – F. Terré
 
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di Miriana Fazi 15/03/2017

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Abbandonati lo spirito golliano (c.d. “politica della sedia vuota”) e la pretesa d’accentrare le competenze penali in seno ai soli Stati Nazionali, l’Unione Europea ha dovuto vieppiù prestare attenzione a un dilemma nascente nell’ambito del proprio quadro politico e legislativo. Le regole e i principali fondamentali del riparo di competenze sono le seguenti:
1) L’Ue non gode di una competenza penale diretta, difatti i rapporti tra diritto dell’Unione europea e diritto penale interno devono essere analizzati alla luce del "Trattato di Lisbona" del 2007, entrato in vigore il 1° dicembre 2009.
In primo luogo, non esiste una potestà sanzionatoria penale dell’UE, poiché nessuna norma dei Trattati attribuisce alle istituzioni europee la competenza a emanare norme penali incriminatrici.
Inoltre, il principio costituzionale della riserva di legge (art. 25 Cost.) impedisce l’ingresso, nel nostro ordinamento, di fonti penali europee. La riserva di legge, infatti, attribuisce esclusivamente al Parlamento nazionale (e al Governo) la competenza a emanare norme penali incriminatrici. La riserva di legge deve essere intesa, quindi, come riserva di legge statale, che verrebbe violata qualora si consentisse a norme europee di introdurre nel nostro ordinamento nuove figure di reato, individuando sia il precetto sia la sanzione, nonché nel caso in cui una legge statale rinviasse a una fonte europea per l’individuazione del precetto penale o di una parte di esso, con una formula del tipo “chiunque violi un regolamento dell’UE in materia di ... è punito con la pena di ....”.
2) L’incidenza indiretta dell’UE sull’ordinamento penale ... Il divieto, per l’UE, di introdurre direttamente fattispecie penali incriminatrici nei singoli ordinamenti statali non esclude, tuttavia, che l’UE eserciti comunque un’influenza notevole sui singoli ordinamenti. Infatti, gli atti dell’UE, e in particolare le direttive, possono prevedere:
−obblighi di criminalizzazione di determinate condotte a carico del legislatore penale statale;
−vincoli dettagliati sulla configurazione della fattispecie penale da parte del legislatore penale statale.
Da questa influenza non deriva alcun obbligo per i cittadini, che potranno essere assoggettati a sanzione penale soltanto se una legge nazionale, recependo le indicazioni provenienti dall’UE, preveda come reato il fatto commesso.
Normalmente gli Stati membri si conformano spontaneamente agli obblighi europei per evitare sanzioni. Numerosi settori del diritto penale italiano, soprattutto nell’ambito della legislazione penale complementare (si pensi, ad es., al settore del diritto penale alimentare) sono “dettati” dall’UE.
3) Sul giudice penale: il diritto dell’UE non vincola soltanto il legislatore nazionale ma anche il giudice penale. In virtù del principio di primazia del diritto dell’Unione sul diritto interno, le norme penali statali contrastanti con una norma europea dotata di efficacia diretta non saranno applicabili e devono, quindi, essere disapplicate dal giudice penale, il quale cioè non dovrà tenerne conto ai fini del processo. Le norme europee che possono rendere inapplicabili le norme statali, anteriori o successive a quelle sovranazionali, possono essere contenute nei trattati, nei regolamenti o nelle direttive (purché siano dettagliate e sia decorso il termine per la loro attuazione da parte dello Stato membro).
In caso di incompatibilità totale tra norma europea e norma penale interna, quest’ultima è neutralizzata in tutta la sua estensione: ad es., in materia di gioco e scommesse (v. l’approfondimento sulla Lezione di diritto penale n. 1), la normativa italiana (art. 4 L. 401/1989) punisce l’attività di raccolta delle scommesse svolta, per conto di una società con sede in un altro Stato membro dell’UE, in assenza di concessione o autorizzazione rilasciata dallo Stato italiano, ma la giurisprudenza ha ritenuto che tale attività non integra il reato in quanto contrasta con i principi europei di libertà di stabilimento e di prestazione di servizi. Invece, in caso di incompatibilità parziale, la norma penale si applica nella parte in cui non sussiste contrasto con la norma europea.
Inoltre, il giudice penale nazionale ha l’obbligo di interpretare le norme interne in modo conforme alla normativa europea, scegliendo, tra le interpretazioni possibili, quella più conforme alla lettera e alla ratio della normativa europea.
4) Il ruolo della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Così come le norme europee non possono introdurre fattispecie incriminatrici nei singoli Stati, delineandone il precetto e la sanzione, anche la Convenzione europea dei diritti dell’uomo non può incriminare determinate condotte né prevedere le relative sanzioni, perché ciò contrasterebbe con il principio di legalità e di riserva di legge in materia penale (art. 25, co. 2, Cost.).
Le norme Cedu:
a) assicurano la tutela (anche penale) di dei diritti fondamentali, ponendo dei limiti alla libertà di azione statale per proteggere la persona da arbitri e abusi, attraverso tre tipologie di limiti (VIGANÒ):
- divieto di violazione diretta, da parte del legislatore penale nazionale, dei diritti fondamentali della persona;
- divieto di incriminare condotte che costituiscono esercizio di diritti fondamentali;
- obbligo di incriminare condotte lesive di diritti fondamentali.
[caption id="attachment_8181" align="aligncenter" width="1000"] La Corte europea dei diritti dell'uomo (abbreviata in CEDU o Corte EDU) è un organo giurisdizionale internazionale, istituita nel 1959 dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) del 1950, per assicurarne l'applicazione e il rispetto. Vi aderiscono quindi tutti i 47 membri del Consiglio d'Europa. Sebbene abbia sede a Strasburgo, la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo non è un'istituzione che fa parte dell'Unione europea; non dev'essere confusa con la Corte di giustizia dell'Unione europea con sede in Lussemburgo, istituzione effettiva dell'Unione europea.[/caption]
Rispetto ai diritti fondamentali la Corte europea dei diritti dell’uomo accade spesso che la Corte europea interpreti le norme Cedu attribuendo al soggetto una tutela più ampia di quella riconosciuta dai giudici nazionali nell’interpretazione delle norme costituzionali corrispondenti. In queste ipotesi, le norme Cedu come interpretate dalla Corte europea arricchiscono il contenuto delle norme costituzionali, elevando il livello di tutela dei diritti fondamentali, e tale nuovo contenuto delle norme costituzionali vincola il legislatore italiano che debba legiferare su quella materia, il giudice penale che debba applicarle e il giudice costituzionale che debba valutare la legittimità costituzionale delle leggi penali.
Se si prende ad esempio l’art. 8 Cedu, questo disciplina il diritto al "rispetto della vita privata e familiare": la Corte europea dei diritti dell’uomo ne ricava una serie di limiti alla possibilità, per lo Stato, di disporre l’espulsione dello straniero che abbia forti legami familiari o affettivi nello Stato dal quale dovrebbe essere espulso. Tali limiti devono essere rispettati dal legislatore nazionale nel prevedere i casi di espulsione dello straniero, dal giudice penale italiano nell’applicare la legge che disciplina l’espulsione dello straniero e dal giudice costituzionale che si trovi a valutare la legittimità della relativa disciplina.
Per quanto riguarda, invece, gli obblighi contenuti nella Cedu, rivolti ai singoli Stati, di incriminare determinate condotte, il principio di legalità ex art. 25 Cost. impedisce al giudice penale di rimediare alla mancanza di una norma penale incriminatrice conforme agli obblighi contenuti nella Cedu estendendo la portata di altre norme incriminatrici o introducendo nuove figure di reato: il giudice penale - ad esempio - non può rimediare in via interpretativa alla mancanza, nel nostro ordinamento, del reato di tortura.
b) Le norme Cedu, contengono obblighi internazionali alla cui osservanza il legislatore italiano è tenuto in base all’art. 117, co. 1, Cost., che impone al legislatore di osservare la Costituzione, i vincoli derivanti dall’ordinamento europeo e, appunto, gli obblighi internazionali. Ciò significa che il legislatore deve conformarsi agli obblighi internazionali e che una legge contrastante con tali obblighi sarà costituzionalmente illegittima per violazione dell’art. 117 Cost., a meno che gli stessi obblighi internazionali siano in contrasto con i principi fondamentali della Costituzione (c.d. controlimiti). Pertanto, anche le norme Cedu devono essere interpretate alla luce dei principi costituzionali.
Prima di rivolgersi alla Corte costituzionale, però, il giudice deve tentare di interpretare le norme penali in maniera conforme alla lettera e alla ratio degli obblighi internazionali. Pertanto, dovrà interpretare le norme in modo tale da armonizzarle con la Cedu (e con le altre norme internazionali), anche per non esporre lo Stato italiano a una responsabilità sul piano internazionale. Se il contrasto tra norma interna e norma Cedu non è superabile in via interpretativa, deve sollevare questione di legittimità costituzionale della norma interna per violazione dell’art. 117 Cost.
Il contrasto tra norma interna e norma Cedu non può quindi essere risolto dal giudice penale disapplicando la norma interna contrastante con la Cedu, come invece accade in caso di contrasto tra norma interna e diritto europeo: il giudice penale deve, in prima battuta, verificare se sia possibile risolvere il contrasto in via interpretativa con un’interpretazione della norma penale conforme alla Cedu e, laddove ciò non sia possibile, rimettere la questione alla Corte costituzionale.
5) Effetti espansivi ed effetti riduttivi del penalmente rilevante. Per quanto riguarda gli effetti concreti che il diritto europeo e le norme Cedu possono produrre sul diritto penale interno, possiamo individuare effetti espansivi ed effetti riduttivi delle condotte penalmente rilevanti (precetto) o dell’afflittività delle norme penali (sanzione).
Gli effetti riduttivi possono essere l’esito di un’operazione di interpretazione della norma penale interna conforme alle norme europee o alle norme Cedu o di una dichiarazione di incostituzionalità della norma nazionale per contrasto con la norma sovranazionale, e possono avere ad oggetto il precetto penale – circoscrivendo l’ambito applicativo della norma – o la sanzione.
Il giudice penale, ad es., deve interpretare restrittivamente le cause di giustificazione, che sottraggono determinati fatti alla sanzione penale in contrasto con le esigenze preventive e sanzionatorie sottese al diritto penale nazionale ed europeo: ciò comporta che la legittima difesa dovrà deve essere interpretata restrittivamente dal giudice penale per non consentire l’uccisione di chi attenti esclusivamente a beni patrimoniali, in omaggio alle esigenze di tutela del diritto alla vita ex art. 2 Cedu, che consente l’uccisione dell’aggressore soltanto quando la condotta risulti assolutamente necessaria per respingere una violenza illegittima, ossia un attacco alla persona.
Gli effetti espansivi possono essere prodotti:
• dagli obblighi di incriminazione di determinate condotte contenuti in norme europee o
norme internazionali;
•  dall’attività interpretativa dalle Corti europee;
• da un’interpretazione delle norme nazionali conforme alle norme sovranazionali.
 
Per approfondimenti:
Fiandaca- Musco : Manuale di diritto penale
Fornasari- Menghini: Diritto penale dell’unione europea
Pubblicazioni “Simone” sul diritto dell’unione europea
 
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di Miriana Fazi 06/02/2017

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Nell’ambito penalistico, la “legittima difesa” è universalmente riconosciuta come “causa di giustificazione”: anche l’Italia accoglie una simile posizione, tramite il disposto dell’articolo 52 del codice penale.
A tal proposito, un aspetto che accomuna i vari ordinamenti si può rinvenire in una clausola spesso utilizzata, ossia quella di “proporzione tra la reazione e l’offesa”. In Italia, Francia, Albania, Svizzera e Danimarca è prevista esplicitamente; in Slovenia e in Spagna è deducibile in via indiretta.
La Germania, invece, conta su una legislazione che non fa alcun cenno al requisito della proporzionalità: essa non è ricavabile dal dato normativo né direttamente, né indirettamente. Pertanto la prassi tedesca, informandosi riguardo ai principi generali dell’ordinamento, considera il requisito della proporzionalità come un fondamento implicito della legittima difesa, al fine di tutelare quei soggetti che, dopo aver commesso un illecito non eccessivamente grave, rischiano di essere puniti in maniera oltremodo aspra. Nel novero dei limiti etico- sociali della legittima difesa, inoltre, le posizioni assunte dai vari Paesi sono interessanti.
Il codice penale austriaco esclude che sia giustificato il fatto, allorché risulti evidente che il danno causato all’aggredito sia di minima entità e la sua reazione incidesse in modo eccessivo sui beni dell’aggressore, pur essendo presenti tutti i normali estremi della legittima difesa.
L’articolo 48 del codice norvegese fa eccezione all’applicabilità della scriminante quando, avuto riguardo alla gravità dell’aggressione, alla colpevolezza dell’aggressore e al diritto leso, debba essere considerato assolutamente inaccettabile cagionare con la reazione un danno grave quanto quello minacciato dall’azione. La dottrina tedesca si allinea su questa visione: reputa coessenziale alla natura della legittima difesa che la reazione debba essere particolarmente moderata di fronte a determinate caratteristiche:
_dell’aggressore (es. un minore, un malato di mente, un soggetto che agisce in errore o uno stretto parente)
_dell’aggressione ( es. quando essa consiste in un fatto bagatellare)
_o nel caso in cui l’atto lesivo sia stato provocato dall’aggredito stesso.
Un altro aspetto rilevante da tenere in considerazione è la “presunzione” di legittima difesa, che molti ordinamenti hanno scelto d’introdurre. Con questo espediente, si è voluto estendere la possibilità d’incriminazione alle aggressioni che si concretizzino in danno del domicilio e delle sue dipendenze. Come? In Italia la “novella del 2006” ha previsto l’ipotesi di “intrusione domiciliare”, ad esempio.
Il codice spagnolo propone una visione affine all’articolo 20.4; il codice francese tratta l’argomento nella rubrica dell’articolo 122.6.
Quanto alla situazione francese, tuttavia, la disciplina prescritta dall’art 122,6 subisce delle deroghe. Di fatto, i Tribunali e la Corte di Cassazione francese ritengono la suddetta “presunzione di legittima difesa” in termini relativi, non assoluti. Pertanto una simile presunzione difetta allorquando si dimostri che, al fine di difendersi, l’agente abbia commesso atti di violenza fuori dei casi di necessità attuale e in assenza di un pericolo grave e imminente.
Quindi si può desumere una regola generale, in virtù della quale l’eccesso rispetto ai limiti in cui è ammessa la reazione conduce alla punibilità dell’agente. Tuttavia la punibilità risulta esclusa, quando ,chi agisce per difendersi, eccede nella reazione a causa di motivi realativi a un turbamento, a un’eccitazione incontrollabile o a ingestibili situazioni di panico.
In ogni caso, la rinuncia all’inflizione della sanzione non discende dalla legittima difesa in sé, ma da una scusante particolare. I principali riferimenti normativi possono essere rinvenuti nei codici penali tedesco ( art 33 c.p.); sloveno (art. 11 c.p.); portoghese (art.33 c.p.); danese (art. 13,2 c.p.); polacco (art. 25 c.p.); svizzero (art 32,2 c.p.); turco (art 27,2 c.p.).
Con le eccezioni del tedesco, del turco e del danese, tutti i codici sopra citati prevedono anche, nel caso di eccesso punibile, una riduzione di pena, generalmente facoltativa, rispetto a quella che sarebbe normalmente applicabile per il fatto doloso realizzato in assenza degli estremi della scriminante.
Il codice polacco si spinge addirittura oltre: lascia al giudice l’opzione tra la mera diminuzione della pena e la sua esclusione. La mitigazione della pena, per altro, è tradizionalmente prevista anche dal sistema inglese.
Il sistema Irlandese, poi, si caratterizza per un aspetto peculiare: in caso di eccesso nella legittima difesa riferito a un caso di murder (omicidio di primo grado), si ha una derubricazione dell’accusa a “man- slaughter” (omicidio di secondo grado).
Si badi però, che le disposizioni adottate dagli ordinamenti esteri non corrispondono in toto all’articolo 55 del codice penale italiano e non ne costituiscono un riscontro. Esse infatti si riferiscono alla sola legittima difesa e non a tutte le scriminanti.
A proposito dell’eccesso di legittima difesa, molti Paesi si sono cimentati nell’elaborazione dottrinale di alcuni principi di fondo: ciononostante, gli ordinamenti stranieri non prevedono una specifica disciplina dell’eccesso colposo.Perché, questo? Probabilmente perché ,tali ordinamenti, si riservano di ricondurre la figura criminosa in questione entro la più ampia e ordinaria disciplina della colpa. Inoltre, i medesimi, si occupano dell’eccesso doloso e non di quello colposo.
 
Per approfondimenti:
_Fiandaca Musco, Manuale di Diritto Penale
_Marinucci , Manuale di Diritto Penale
_Forsasari Menghini, Percorsi europei di diritto penale
 
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di Miriana Fazi del 08/01/2017

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Ho l’onore di annunciare che Sua Eccellenza Antonio Guterres è stato nominato per acclamazione Segretario Generale delle Nazioni Unite dal 1 gennaio 2017 al 21 dicembre 2021” Con queste parole l’ambasciatore russo Vitaly Churkin ha reso noto il nome del nuovo Segretario Generale, successore del sud coreano Ban Ki Moon nella carica in parola. Dopo sei turni di voto informale, noti come “straw polls” (sondaggi di paglia, ndr), l’opinione dei 193 Paesi Membri in seno all’Assemblea Generale si è cristallizzata nell’elezione di un candidato, largamente appoggiato dal placet dell’intero Consiglio di Sicurezza. Antonio Guterres Nato a Lisbona il 30 aprile 1949, ed è una figura di spicco nella politica portoghese. Ha ricoperto l’incarico di Primo Ministro del Portogallo dal 28 ottobre 1995 al 6 aprile 2002. Allo spirare del suo mandato, gli è stata affidata la presidenza del Partito Socialista. È stato altresì Presidente del Consiglio Europeo dal 1 gennaio 2000 al 30 giugno 2000 venendo nominato presidente dell’UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) dal 15 giugno 2005 al 31 dicembre 2015.
[caption id="attachment_7370" align="aligncenter" width="1370"] António Manuel de Oliveira Guterres (Lisbona, 30 aprile 1949) è un politico portoghese, attuale segretario generale delle Nazioni Unite; è stato Primo ministro del Portogallo dal 28 ottobre 1995 al 6 aprile 2002. Fa parte del Partito Socialista e, dopo l'incarico di governo del suo paese, è stato presidente dell'Internazionale Socialista. Dal giugno 2005 fino al 2015 è stato a capo dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Nell'ottobre 2016 viene proposto ed eletto dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite come nuovo Segretario Generale dopo Ban Ki Moon.[/caption]

"Le civiltà sono colpite da una forza mortale. Donne, bambini e uomini morti e feriti, espulsi dai loro luoghi. Nessuno vince con queste guerre, tutti perdono. Facciamo in modo che il 2017 sia un anno in cui tutti, cittadini, governi, leader, si sforzino per superare le nostre differenze. La pace deve essere la nostra meta e la nostra guida. Tutto quello per cui ci sforziamo come famiglia umana, dignità e speranza, progresso e prosperità, dipende dalla pace, ma la pace dipende da noi", ha aggiunto. Nel primo tweet dell’anno, il Segretario Generale ha infatti esordito con parole ferme e intrise di speranza, supportate con passione da un fervente bisogno di pace: “Decidiamo di mettere la pace davanti a tutto in questo 2017”.

 

IN CHE MODO VIENE ELETTO IL SEGRETARIO GENERALE? Ai sensi di quanto disposto dall’articolo 97 della Carta ONU, “Il Segretario Generale è nominato dall’Assemblea Generale su proposta del Consiglio di Sicurezza. Egli è il più alto funzionario amministrativo dell’Organizzazione”.

Di conseguenza, le selezioni sono soggette al veto dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza (Regno Unito, Francia, Cina, Russia, Stati Uniti). La Carta ONU si limita a prescrivere una disciplina normativa inerente alla nomina e al processo di approvazione del Segretario Generale; ma non estende tali previsioni ai termini massimi e al processo di selezione. Di conseguenza le suddette materie sono regolate da varie consuetudini extra normative, consolidatesi nella prassi delle Nazioni Unite. Sono stati fissati pertanto dei punti cardinali orientativi: Il limite di due mandati di cinque anni, una rotazione regionale (per continenti) in base alla nazione di origine del candidato, e la regola che il candidato non deve essere cittadino di uno dei cinque membri del Consiglio di Sicurezza.

 
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La disfatta referendaria di dicembre 2016, ha fatto dimettere Matteo Renzi, nonostante l'ampia maggioranza, all’incarico di Primo Ministro. L’esecutivo italiano, non è nuovo a turbolenze di tal genere, tanto che a seguito del governo Berlusconi si sono succeduti soltanto governi tecnici, riparatori - composti ad hoc - per traghettare la nazione fino alla successiva legislatura. Di fatto, l'insediamento del governo Monti ha posto fine a una delle più brevi crisi di governo che la storia recente vanti: soli tre giorni. Le crisi più lunghe, al contrario, sono seguite al governo Dini (1996, 127 giorni), all'Andreotti I (1972, 121), all'Andreotti V (1979, 126), fino al Prodi II (2008, 104 giorni). Nei succitati casi, tutte le crisi hanno causato lo scioglimento ante tempus delle Camere e hanno posto fine alla legislatura.
Occorre rilevare che il periodo intercorrente fra le dimissioni di un Esecutivo e l'entrata in carica del successivo permette al governo uscente di svolgere solo funzioni di “ordinaria amministrazione” (o “affari correnti”). Nei 23.845 giorni trascorsi dalla nascita della Repubblica all'ultimo giorno di “proroga” del quarto governo Berlusconi, ben 2.004 giorni sono stati gestiti da governi limitati nei loro poteri e nelle loro funzioni. In questa scheda cercheremo di evidenziare i dati statistici e politici più significativi di queste 61 crisi ministeriali, utilizzando in parte le classificazioni dello studio “L'instabilità governativa nell'Italia repubblicana” (Roma, 1992, a cura di G. Negri e L. Tentoni) e ricalcolando – aggiornandole – le cifre relative all'intero periodo e in particolare agli anni della cosiddetta “Seconda Repubblica”.

Il primo elemento significativo sta nella sostanziale continuità – nel periodo 1946-1992 – delle formule politiche a fronte di un susseguirsi di governi spesso molto simili per composizione ai precedenti (lo Spadolini II era identico, tranne che per un sottosegretario) e per i partiti che lo componevano. Talvolta, la crisi non ha portato alla sostituzione del Presidente del Consiglio. Fra il 1945 e il 1953 Alcide De Gasperi ha governato ininterrottamente per 2.808 giorni (record ineguagliato) attraversando però sette crisi ministeriali per un totale di 116 giorni. Sono rimasti al proprio posto anche Amintore Fanfani (1962, fra il suo terzo e il suo quarto governo), Aldo Moro (1964 e 1966, dal primo al terzo governo), Mariano Rumor (1969 e 1970, per i suoi primi tre governi), Giulio Andreotti (1972, fra il primo e il secondo) poi di nuovo Rumor (1974, per il quarto e quinto governo), ancora Moro (1976, quarto e quinto governo), Andreotti (1978 e 1979: terzo, quarto e quinto), Francesco Cossiga (1980, per i suoi due governi), Giovanni Spadolini (1981: il primo premier non DC della Repubblica, primo e secondo governo), Bettino Craxi (1986, fra il suo primo e il secondo governo), ancora Andreotti (1991, fra il sesto e il settimo governo), Massimo D'Alema (1999, fra il primo e il secondo), Silvio Berlusconi (2005, fra il secondo e il terzo governo).

[caption id="attachment_7149" align="aligncenter" width="1000"]copertina-per-sito Da sinistra a destra: Alcide De Gasperi, Amintore Fanfani , Aldo Moro, Mariano Rumor , Giulio Andreotti, Francesco Cossiga, Bettino Craxi.[/caption]
Ben 37 governi sui 62 che si sono alternati fino al 16 novembre 2011 si sono “concatenati”: hanno avuto, cioè, continuità nella premiership rispetto al gabinetto ministeriale precedente o successivo. Questa cifra esprime bene il “cambiamento senza rinnovamento” che spesso ha caratterizzato le crisi, originate il più delle volte non dall'esaurirsi di un ciclo politico e neppure dalla contestazione all'operato o alla figura del Presidente del Consiglio, ma da altri fattori spesso interni alla coalizione o – in certi casi – al partito di maggioranza relativa (la DC, fra il '46 e il '94). Dunque il famoso riadattamento della frase presente nel "Gattopardo" di Giuseppe Tomasi di Lampedusa sembra essere sempre attualissima: "tutto deve cambiare perché tutto resti come prima".
Il secondo elemento degno di nota – per certi versi collegato al primo – sta nel numero di dicasteri formati dai Presidenti più “longevi” al governo (31 sono stati formati dai primi cinque: De Gasperi, Andreotti, Moro, Berlusconi e Fanfani, contro i 31 governi degli altri 20 Premier; per i primi cinque l' “ordinaria amministrazione” è durata 1.094 giorni contro i 910 degli altri, soprattutto perchè Andreotti detiene il record di “proroga”: è stato per ben 454 giorni a Palazzo Chigi per il disbrigo degli affari correnti, gestendo da solo il 22,7% di tutta l'ordinaria amministrazione della storia repubblicana). Fra i più presenti a Palazzo Chigi (definizione non del tutto propria, perchè il trasferimento della presidenza al Viminale nell'attuale sede è avvenuto solo nel 1961) ben tre dei primi dieci sono personalità riconducibili alla “Seconda Repubblica” (Berlusconi, Prodi, Amato); fra i primi sei sono addirittura due (Berlusconi e Prodi). Fra i più presenti al governo in veste di Premier figurano Silvio Berlusconi (3.330, 4 governi), Alcide De Gasperi (2.808 giorni, 8), Giulio Andreotti (2.669, 7), Aldo Moro (2.277, 5), Amintore Fanfani (1.660, 6), Romano Prodi (1.608, 2), Bettino Craxi (1.351, 2), Mariano Rumor (1.098, 5), Antonio Segni (1.087, 2), Giuliano Amato (717, 2). Fra gli undici Presidenti della Repubblica (De Nicola, Einaudi, Gronchi, Segni, Saragat, Leone, Pertini, Cossiga, Scalfaro, Ciampi, Napolitano), quattro sono stati Premier, ma solo Segni per più di mille giorni. Nessuno di loro (Segni, Leone, Cossiga, Ciampi) ha guidato più di due governi (Ciampi solo uno) e, in genere, per periodi non molto lunghi.
Un terzo elemento interessante riguarda il rapporto fra la durata dei governi e i giorni di crisi. Mentre la durata media delle crisi di governo è di 32,85 giorni, quella dei dieci più duraturi è di 23,4 (in otto casi è addirittura inferiore ai 20 giorni) per il 2,6% della durata complessiva dell'Esecutivo (in carica e in ordinaria amministrazione) contro l'8,4% del periodo 1946-2011. Formare un governo “longevo” è stato spesso molto difficile. Solo 14 su 61 sono rimasti in carica almeno 18 mesi, contro i 15 che sono rimasti in carica meno di sei mesi (due sono durati addirittura rispettivamente 32 e 23 giorni).
Una differenza significativa per quanto riguarda la durata dei governi e delle crisi, può essere riscontrata dividendo la storia della Repubblica in periodi:
1) L'Assemblea Costituente (1946-1948). Caratterizzata da governi – almeno inizialmente – di grande coalizione, ha avuto Esecutivi di scarsa durata (media 170 giorni compresa l'ordinaria amministrazione) ma crisi brevi (media 10,5 giorni).
2) Primo centrismo (1948-1953). E' il quinquennio degasperiano, della formula DC più alleati minori (PRI, PLI, PSDI). I governi durano di più (627 giorni) e le crisi sono ancora brevi (14 giorni).
3) Secondo centrismo (1953-1960). La formula politica (DC più alleati minori: PRI e PSDI, ma anche PLI e monarchici) è stabile ma va logorandosi: governi e premier si alternano più spesso. La durata media diminuisce a 302 giorni dei quali 14 di crisi.
4) Transizione (1960-1962). Sono i governi della crisi centrista e della transizione verso il centrosinistra. Se il governo Tambroni è uno dei più brevi (116 giorni più 7 di crisi), il terzo governo Fanfani è più duraturo (556 più 19 di crisi), perchè è la vera e propria prova generale del centrosinistra.
5) Primo centrosinistra (1962-1968). E' l'esordio dell'alleanza fra DC, PSI, PRI e PSDI, che segna l'avvio di un nuovo ciclo dopo quello centrista (1948-1960). Ogni governo dura in media 434,4 giorni più 29,6 per gli affari correnti (in tutto: 464 giorni). In questo periodo Moro vara l'Esecutivo che resterà a lungo (fino ai tempi di Craxi) il più longevo della storia repubblicana: 833 giorni (più 19 di crisi) fra il 1966 e il 1968.
6) Secondo centrosinistra (1968-1972). E' una fase di declino del quadripartito, durante la quale la durata media dei governi scende sotto i 200 giorni e quella delle crisi sale verso quota 50.
7) Transizione (1972-1976). Fra il ritorno del centrismo e la preparazione di una nuova stagione (il “compromesso storico” fra DC e PCI) si susseguono cinque governi che restano in carica 297 giorni, 43 dei quali in “proroga”.
[caption id="attachment_7150" align="aligncenter" width="1280"] Enrico Berlinguer segretario del partito comunista italiano e un giovanissimo comunista a suo fianco: Massimo D'alema. Segue Achille Occhetto.[/caption]
8) Solidarietà nazionale (1976-1979). E' la stagione in cui il PCI sostiene di nuovo un governo (trent'anni dopo essere uscito dalla maggioranza con DC e PSI). Al governo si susseguono due monocolori DC: il primo vede PCI, PSI, PSDI, PLI e PRI astenersi (“la non sfiducia”), poi ('78) votare a favore (tranne il PLI). E' una stagione segnata da gravi crisi sociali ed economiche e dal terrorismo (il rapimento di Moro). I governi durano mediamente 367 giorni – più che nel recente passato – ma le crisi sono lunghe (76 giorni).
9) Transizione (1979-1981). Fallito il compromesso storico, si riparte dall'accordo fra DC e PSI, in vista di una nuova stagione (il “pentapartito”). In 594 giorni si susseguono tre governi (durata media: 198 giorni) durante i quali ben 70 sono occupati dalle crisi (consultazioni, trattative fra i partiti) .
10) Pentapartito (1981-1991). E' una lunga stagione durante la quale DC, PSI, PRI, PLI e PSDI governano insieme. Si inaugura un'alternanza alla guida del governo. Dal 1983 al 1991 fra DC e PSI, ma già nel 1981-1982 il leader repubblicano Spadolini è premier, dopo 46 anni di governi a guida DC. Fra il 1981 e il 1987 la durata media dei governi “è di 440 giorni, se si escludono i ministeri pre-elettorali presieduti da Fanfani” mentre “negli anni 1987-1991 la media scende a 414 (Goria, De Mita, Andreotti VI)” (Negri, Tentoni, cit.). I giorni di crisi, che fra l'83 e l'87 sono 57, scendono a 44 nella legislatura successiva (1987-'92). Fra il 1983 e il 1986 Craxi resta al governo per 1092 giorni (compresi 33 di crisi) battendo il record di Moro.
11) Transizione (1991-1994). Col settimo governo Andreotti si consuma la fine del pentapartito: il PRI rifiuta di parteciparvi; nella successiva legislatura (1992-1994) il sistema è travolto da Tangentopoli. Si susseguono due brevi governi: il primo di Giuliano Amato e quello del tecnico Ciampi. Si tratta di Esecutivi che restano mediamente in carica per un anno. La crisi del governo Amato dura appena sette giorni.
[caption id="attachment_7151" align="aligncenter" width="1000"] Il procuratore Antonio di Pietro durante una delle ultime udienze del processo Enimont, 1994.[/caption]
12) Seconda Repubblica (1994-2011). E' caratterizzata dall'alternarsi al governo di due coalizioni, una di centrodestra guidata da Berlusconi e una di centrosinistra guidata da Prodi (e da altri leader che assumono la presidenza del Consiglio, nel periodo 1998-2001). Mentre i governi della “Prima Repubblica” (1946-'94) restavano in carica circa 342 giorni, 33 dei quali in proroga, nella Seconda è aumentata la durata media (625,7 tranne il governo Monti) anche se le crisi sono solo un po’ meno lunghe (30,5 giorni). A onor del vero, va detto che la cosiddetta “Seconda Repubblica” ha avuto due legislature brevi (1994-'1996 e 2006-2008).
La percentuale dei giorni di crisi su quelli totali di governo è del 20,6% (crisi del governo Berlusconi I e del governo Dini) nel 1994-1996 e del 14,4% nel 2006-2008 (crisi del governo Prodi II).
Le due legislature portate a compimento, però, una dal centrosinistra (1996-2001) e una dal centrodestra (2001-2006) fanno registrare alte durate medie dei governi (rispettivamente 462 e 901) e mediamente solo 8,5 giorni di crisi per ogni Esecutivo (nel decennio '96-2006 meno dell'1,5%). Anche il governo Prodi II, che caratterizza l'intera XV legislatura (è la prima volta che ad una legislatura corrisponde un solo Esecutivo) resta in carica per 618 giorni nella pienezza delle funzioni e 104 per l'ordinaria amministrazione. La stabilità della Seconda Repubblica è confermata dall'esiguo numero dei governi (undici fra il '94 e il 2011 contro i 51 dei 48 anni precedenti). Il governo più lungo (anche dell'intera storia repubblicana) è il Berlusconi II (1412 giorni, dei quali 2 di crisi).
[caption id="attachment_7152" align="aligncenter" width="1000"] Governo Berlusconi 2011 - Photo Mauro Scrobogna[/caption]
Un'ultima notazione: se nel periodo iniziale (1946-1948) e in quello finale (1992-1994) della “Prima Repubblica” le crisi sono state di rapida soluzione - in media rispettivamente 11 giorni e 16 giorni -, con lo stabilizzarsi del sistema politico sono diventate sempre più lunghe, con l’eccezione della legislatura corrente. Nella prima e nella quarta legislatura della “Seconda” ('94-'96 e 2006-'08) le crisi sono state più lunghe, mentre nella seconda, nella terza (1996-2006, con una stabilità di formula più o meno pari a quella di centrismo, centrosinistra e pentapartito ma anche con leadership e coalizioni più forti) e nella quinta (2008-2011, governo Berlusconi, poi governo “tecnico” con Monti) le crisi sono state brevissime.
Ora - tornando alle dimissioni di Matteo Renzi - è arrivato il tempo del Governo Gentiloni: quanto durera? Riuscirà a governare il tempo sufficiente per operare gli obiettivi che si è posto?
 
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Un primordiale meccanismo di di protezione dei diritti umani è stato articolato sulla scorta d’una complessa costruzione giuridica, quale fu quella ideata e prevista nella Carta ONU. A tal proposito, considerata la rilevanza della suddetta “rete protettiva”, non è d’uso far passare sotto silenzio le vicende storiche e geopolitiche, delle quali la sua elaborazione fu spettatrice. Di fatto, dietro alla Carta delle Nazioni Unite si cela un animato dibattito che ha visto schierati sui più disparati fronti i maggiori Stati firmatari, sovente in forma di coalizioni latrici d’un unico intento comune.
[caption id="attachment_6798" align="aligncenter" width="1000"] Nella foto di sinistra, la conferenza di Dumbarton Oaks dal primo agosto al sette Ottobre del 1944 presso Washington, D.C., Stati Uniti[/caption]
Il foro che prestò voce alla disquisizione fu senz’altro la Conferenza di Dumbarton Oaks, alla quale presenziarono i rappresentanti di Stati Uniti, Unione Sovietica, Gran Bretagna e Cina. Il fine astratto e unanimemente perseguito si risolveva nel delineare i profili fondamentali che – di lì a poco - sarebbero valsi ad attribuire un nuovo volto all’organizzazione in procinto d’essere creata, l’Onu, atta a rimpiazzare l’ormai acclaratamente decaduta “Società delle Nazioni”.
Nel corso delle discettazioni, tuttavia, non tardarono a presentarsi forti incongruenze tra le manifestazioni di volontà operate da uno Stato e le sue prese di posizione giuridicamente vincolanti. Le prime, munite di mero carattere programmatico, non obbligavano il Paese che le avesse rilasciate ad attenervisi strettamente senza possibilità di deroga. Per contro, le seconde, figuravano come elementi normativi lesivi del principio della piena sovranità statale. A tal proposito, il concetto di Comunità Internazionale, a quel tempo, era ancora agli albori della propria esistenza e ogni Stato, fino ad allora, era sempre stato inteso come dotato del potere di non riconoscere superiori a sé (c.d. superiorem non recognoscentes, ndr).
Tuttavia, la necessità d’istituire meccanismi di tutela giurisdizionale in seno a un’organizzazione “imparziale” fu il moto propulsore che spinse ogni Stato a limare in parte le proprie pretese autocratiche, almeno riguardo alcuni profili specifici d’interesse collettivo.
Pertanto, fin dalla Conferenza di Dumbarton Oaks, la posizione iper garantista degli Stati Uniti – cristallizzata in una proposta di disposizione sui diritti umani - si pose inizialmente in contrasto con quella di Gran Bretagna e URSS, che presentavano mozioni decisamente più caute sull’argomento.
Le prime scintille di disaccordo presero una forma meno fumosa in un secondo momento, ovvero nella Conferenza di San Francisco: entro quest’ultima si delinearono nettamente tre schieramenti di vedute antitetiche. Da un lato emergevano i Paesi Latino Americani (in special modo Brasile, Colombia, Cile, Cuba, Repubblica Dominicana, Equador, Messico, Panama, Uruguay), congiuntamente ad alcuni Stati Occidentali (Australia, Nuova Zelanda, Norvegia) e ad altri Paesi come l’India. Il primo schieramento in parola avanzò la proposta di sancire un vero e proprio obbligo internazionale ai fini del rispetto dei diritti umani.
[caption id="attachment_6797" align="aligncenter" width="1000"] San Francisco, Stati Uniti. Si svolge la Conferenza delle Nazioni Unite per l'Organizzazione Internazionale (UNCIO), la quale vide partecipi i delegati provenienti da 50 nazioni Alleate che ha avuto luogo dal 25 aprile al 26 giugno 1945. In questa conferenza i delegati riesaminarono e riscrissero gli accordi di Dumbarton Oaks. La conferenza ha portato alla creazione della Carta delle Nazioni Unite, che fu aperta alla firma dal 26 giugno.[/caption]
In seconda istanza, un altro schieramento tentò di stemperare la forza delle dichiarazioni rilasciate dal primo. I Paesi del Secondo schieramento, ossia i Paesi Occidentali, non mancarono di dirsi favorevoli al piano congegnato per lo sviluppo dei diritti umani, ma si ritraevano di fronte al carattere della sua vincolatività. Il malumore che attanagliava tali Stati era legato al rischio di un’eccessiva delega di poteri alle Nazioni Unite; delega dalla quale sarebbe inevitabilmente derivata un’espansione della sfera d’azione in seno all’ONU.
Capofila del secondo schieramento furono senz’altro gli Stati Uniti, che si opposero vigorosamente a un ampliamento dell’art.56 della Carta delle Nazioni Unite. L’effetto di tale serrata ebbe le sue ripercussioni nella formulazione del medesimo articolo, il quale venne orientato in chiave programmatica e non obbligatoria. Peraltro, gli Stati Uniti proposero l’inserimento di una “clausola di tutela della sovranità degli Stati”, contro eventuali ingerenze dell’ONU. Quest’ultima richiesta si è concretata nella stesura dell’art 2 par 7, in virtù del quale le Nazioni Unite non possono intervenire su questioni annoverabili entro il margine della competenza interna di uno Stato.
Idee ancora differenti vennero adottate nell’ambito del terzo gruppo di Stati, quelli Sovietici (Bielorussia, Cecoslovacchia e Ucraina) capeggiati dall’URSS. Costoro, pur allineandosi sul comportamento restrittivo del secondo gruppo, imperniava la propria linea dialettica sulla rivendicazione di un “diritto all’autodeterminazione dei popoli”, vieppiù fortemente avversato da parte dei Paesi Occidentali, affiancati da alcune ex potenze coloniali come il Belgio.
Benché finora si sia tentato di analizzare il nucleo essenziale delle pretese di ogni fazione, è assai arduo saper enucleare una linea concettuale comune che sappia efficacemente esprimere il concetto di “diritti umani nel 1945”. Infatti, mentre l’URSS propugnava un’esplicita menzione dei “diritti al lavoro e all’istruzione”, gli Stati Uniti si mostravano recalcitranti all’idea di tipizzare legislativamente una categoria tassonomica di diritti meritevoli di tutela, ritenendo che un inevitabile corollario di tale specificazione sarebbe stata la declassazione implicita e la subordinazione gerarchica di altri diritti parimenti rilevanti, quali - a titolo esemplificativo - erano stimati il diritto alla libertà di informazione e alla libertà religiosa.
A un’attenta analisi, persino nell’attuale versione della Carta ONU manca un catalogo che acclari quali siano i “diritti umani” tutelati di fatto, per quanto la voce “diritti umani” figuri ben sette volte nella Carta ONU medesima. Con buona approssimazione, si può ipotizzare che una così evidente lacunosità derivi dalle vedute contrapposte di USA e URSS fin dal secondo dopoguerra.
Peraltro, la riottosità generale dei Paesi a operare una delega di poteri esclusivamente appartenenti allo Stato ha ingenerato una depressione a tratti patologica, nel funzionamento dell'Assemblea Generale e dell’ECOSOC (Comitato Economico e Sociale). Le funzioni ad essi riconosciute si ascrivono entro la possibilità di “intraprendere studi” e di "indirizzare raccomandazioni agli Stati” (c.d. norme Soft law).
Ad aggravare il quadro già precario si è aggiunta l’ecumenica pretesa – in danno dell’Onu - di potersi esprimere soltanto mediante delibere di carattere generale e astratto, senza rivolgersi direttamente contro uno Stato, che si sia reso eventualmente responsabile di una violazione dei diritti umani.
Ne “I diritti umani oggi”, Antonio Cassese saluta la Dichiarazione Universale come “il frutto di più ideologie: il punto d’incontro e di raccordo di concezioni diverse dell’uomo e della società”. Di fatto, la travagliata genesi del succitato documento annovera tra le proprie fonti ideali la matrice giusnaturalistica, l’influenza dello statalismo dei paesi socialisti, il principio nazionalistico della sovranità (supportato, quest’ultimo, con largo favore da tutti gli stati).
[caption id="attachment_6799" align="aligncenter" width="1000"] Antonio Cassese (Atripalda, 31 marzo 1937 – Firenze, 22 ottobre 2011) è stato un giurista, scrittore e giudice italiano, docente universitario di Diritto Internazionale. Fra i suoi incarichi vi sono stati quello di Presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani o degradanti e di primo presidente del Tribunale Penale Internazionale per l'ex-Jugoslavia.[/caption]
La Carta ONU, per quanto densa di precetti garantistici, presentava una lacunosità rilevante e inescusabile, considerati i fini che le Nazioni Unite si erano prefissate di perseguire. Da tali manchevolezze sul piano del diritto positivo derivava un’impasse procedurale inaggirabile. Pertanto la comunità internazionale nella sua interezza aveva avvertito la necessità di emanare un nuovo documento, che sanasse i profili deficitari della Carta ONU, in vista di attribuire una maggiore effettività ai meccanismi di tutela dei diritti già debitamente e precedentemente declamati.
A tal fine, nel 1946 il Consiglio Economico e Sociale, esercitando i poteri conferitigli dall’art 68 della Carta ONU, provvide alla creazione di una “Commissione di diritti umani”, organo composto da 18 Stati, rappresentativi dei compositi schieramenti insediatisi in seno all’Assemblea Generale.
All’epoca dei dibattiti preliminari alla costituzione della Dichiarazione, i Paesi coinvolti non formulavano voci concordi sulla natura della stessa, né sulla valenza giuridica che avrebbe dovuto esserle stata accordata. Tali discrepanze prendevano le mosse da presupposti di partenza notevolmente divergenti, dai quali i Paesi medesimi facevano derivare le proprie posizioni. Dalle prime discettazioni, a tal proposito, emerse uno scenario popolato da quattro schieramenti: Paesi Occidentali, America Latina, Europa Socialista, Paesi Asiatici.
[caption id="attachment_6800" align="aligncenter" width="1200"] Anna Eleanor Roosevelt (New York, 11 ottobre 1884 – New York, 7 novembre 1962) è stata un'attivista e first lady statunitense. Qui, nel 1948, mostra la Dichiarazione dei Diritti Umani.[/caption]
La tesi occidentale era imperniata su poche pretese, ma perentorie. Tra queste, figurava la proposta di proclamare sul piano interstatuale le concezioni giusnaturalistiche, che avevano permeato e ispirato i grandi testi giuridici interni. Infatti, secondo la testimonianza di Joseph P. Lash, pare che John P. Hendrick (rappresentante del Dipartimento di Stato USA) avesse affermato che - “la politica degli Stati Uniti consisteva nel produrre una Dichiarazione, che fosse la copia in carta carbone della Dichiarazione americana d’indipendenza e della Dichiarazione americana dei diritti dell’uomo” -. Eppure, a una seconda analisi, la posizione degli occidentali sembrava viziata da alcune incongruenze: in effetti, secondo i programmi propinati, alle laute dichiarazioni di tutela non avrebbe fatto seguito una piena effettività. Questo perché si riteneva di voler proclamare a livello mondiale soltanto i diritti civili e politici, nel limite della loro connotazione sostanzialmente individualistica, che essi avevano rivestito nel Settecento e nell’Ottocento. I paesi Latino Americani e Socialisti riuscirono a temperare il rigore occidentale, orientando la sua visione in senso migliorativo. Si postulò così anche l’inserimento di una serie di diritti economici e sociali, in parte ignoti ai testi occidentali presi a riferimento.
Per quanto i paesi socialisti si fossero mostrati ben disposti alla recezione del messaggio di Roosevelt del 1941, essi miravano verso orizzonti più lontani di quelli circoscritti alla tutela della “libertà dal bisogno e dalla paura”, baluardo dei riferimenti occidentali.
L’azione dei Paesi in parola fu rilevante nella fase deliberativa, ma non spiegò i suoi effetti al momento della firma. Tali stati, infatti, si astennero dall’esprimere un voto sull’insieme della Dichiarazione, dacché gran parte degli emendamenti da essi proposti non erano stati accolti.
Per ragioni d’altra natura si astennero dal voto anche Sud Africa e Arabia Saudita. Ad ogni modo, le direttrici d’azione proposte dai Paesi Socialisti furono varie. Anzitutto questi ultimi sostennero l’inserimento - nella Dichiarazione - di diritti rilevanti, come il diritto di ribellione contro autorità oppressive; il “diritto di manifestare nelle strade” come parte della libertà di associazione; il diritto delle “minoranze nazionali” a vedersi riconosciute e tutelate; il diritto all’autodeterminazione dei popoli coloniali; il principio d’eguaglianza (che si sostanziava nel divieto di discriminazioni basate su razza, sesso, colore, lingua, religione, opinioni politiche, origini nazionali, statut et cetera). Altresì, l’attenzione dei Paesi socialisti si focalizzò sull’urgenza di dare attuazione ai diritti sanciti nella Dichiarazione con meccanismi ad hoc; affinché nessuno stato firmatario avesse potuto aggirare il loro carattere vincolante in un futuro prossimo.
Quanto alla “libertà di pensiero”, i Sovietici ritennero di volerla inibire agli apologeti del fascismo e ai suoi proseliti, tacciati d’essere flagello della libertà e dunque indegni di poterla esercitare in questo senso.
 
Per approfondimenti:
_Antonio Cassese, I diritti umani oggi - Editore Laterza
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L’Unione europea sta attraversando momenti difficili, ai quali reagisce con una serie di risposte che confondono la sua immagine agli occhi dei cittadini. Mentre il mercato unico è ancora governato dal metodo comunitario – che vede il Parlamento europeo codecidere con il Consiglio e attribuisce piena autorità di supervisione alla Corte europea di giustizia – l’unione economica e monetaria e la politica di sicurezza e difesa comune sono fondamentalmente delegate ad accordi fra Stati membri.
Fin qui, potrebbe sembrare che la consueta distinzione “politica bassa” (le questioni economiche e sociali che possono essere regolate congiuntamente) e “politica alta” (le questioni legate ai compiti fondamentali dello stato sovrano che sono regolate intergovernativamente) determini ancora questo diverso modo decisionale.
Tuttavia, anche nell’ambito della politica alta si assiste a una crescente differenziazione. L’intensificazione del metodo intergovernativo che ha caratterizzato la gestione delle crisi – al plurale, e cioè la crisi economica e finanziaria, le crisi libica, siriana e ucraina, e la crisi dei rifugiati – è stata accompagnata da significative innovazioni istituzionali specialmente nell’ambito della politica economica e monetaria (l’Eurogruppo all’interno del Consiglio, gli Euro Summit all’interno del Consiglio europeo), mentre le questioni estere sono ancora gestite esclusivamente dai ministri degli esteri nazionali e dai capi di Stato e di Governo con l’aiuto dell’alto rappresentante e del presidente della Commissione.
Queste innovazioni istituzionali hanno indotto alcuni studiosi a parlare di una “doppia costituzione” che sarebbe alla base dell’Unione; altri di un nuovo “intergovernativismo deliberativo”; altri ancora di una serie di decisioni intergovernative descritte come “fallimenti in avanti”, cioè , come decisioni emergenziali che hanno innovato istituzionalmente alcune aree di competenza dell’Ue, che hanno poi determinato altre emergenze e quindi sollecitato nuove decisioni in cicli ripetuti di risposte ad hoc e insufficienti. La domanda che anima il dibattito al momento è “In quale direzione evolverà, o dovrebbe evolvere, questa complessa architettura istituzionale”, anche in risposta alla crescente disaffezione e, ormai, aperta ostilità alle politiche europee in ambito di politica monetaria, di bilancio e dei rifugiati – per citarne solo tre questioni che hanno dominato le cronache recentemente – se non all’Unione europea nel suo complesso. Incombe su tutti questi argomenti l’interrogativo se l’Unione europea sia democratica o meno, domanda alla quale un numero crescente di cittadini europei sta rispondendo negativamente con conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti (vedi Brexit).
Che forma avrà l’Unione in futuro è ciò su cui tutti si interrogano in questi giorni. Le risposte, ovviamente, sono diverse. La posizione ufficiale delle istituzioni europee è criticata da alcuni per essere troppo simile a quanto già visto (integrazione compiuta “all’insaputa” dei cittadini e progressione verso uno Stato federale europeo) mentre è criticata da altri per essere del tutto in controtendenza con l’opinione pubblica che sembra invece reclamare la restituzione di quote crescenti di sovranità nazionale. Quanto inadeguate siano entrambe queste risposte è evidente a tutti. La questione più importante – con cui la presente generazione di studiosi deve misurarsi – è piuttosto come riformare l’Unione in modo da riconciliare il suo funzionamento con una nozione di democrazia adatta ai nostri tempi, ricordando che quello di democrazia non è un concetto statico ma che la sua forma e il suo funzionamento, e le aspettative che essa genera nei cittadini, sono cambiati nel corso del tempo in seguito a significative trasformazioni sociali, economiche e geopolitiche. La sfida attuale è ridefinire la democrazia per contesti altamente interconnessi come l’Unione europea nella quale la sovranità deve essere necessariamente condivisa e responsabile.
Dunque non discriminazione e cittadinanza dell'Unione: facciamo chiarezza, dissertando su alcuni articoli.
_Articolo 18 (ex articolo 12 del TCE)
Nel campo di applicazione dei trattati, e senza pregiudizio delle disposizioni particolari dagli stessi previste, è vietata ogni discriminazione effettuata in base alla nazionalità.
Il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria, possono stabilire regole volte a vietare tali discriminazioni.
_Articolo 19 (ex articolo 13 del TCE)
1. Fatte salve le altre disposizioni dei trattati e nell'ambito delle competenze da essi conferite all'Unione, il Consiglio, deliberando all'unanimità secondo una procedura legislativa speciale e previa approvazione del Parlamento europeo, può prendere i provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l'origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la disabilità, l'età o l'orientamento sessuale.
2. In deroga al paragrafo 1, il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria, possono adottare i principi di base delle misure di incentivazione dell'Unione, ad esclusione di qualsiasi armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri, destinate ad appoggiare le azioni degli Stati membri volte a contribuire alla realizzazione degli obiettivi di cui al paragrafo 1.
_Articolo 20 (ex articolo 17 del TCE)
1. È istituita una cittadinanza dell'Unione. È cittadino dell'Unione chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro. La cittadinanza dell'Unione si aggiunge alla cittadinanza nazionale e non la sostituisce.
2. I cittadini dell'Unione godono dei diritti e sono soggetti ai doveri previsti nei trattati. Essi hanno, tra l'altro:
a) il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri;
b) il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni del Parlamento europeo e alle elezioni comunali nello Stato membro in cui risiedono, alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato;
c) il diritto di godere, nel territorio di un paese terzo nel quale lo Stato membro di cui hanno la cittadinanza non è rappresentato, della tutela delle autorità diplomatiche e consolari di qualsiasi Stato membro, alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato;
d) il diritto di presentare petizioni al Parlamento europeo, di ricorrere al Mediatore europeo, di rivolgersi alle istituzioni e agli organi consultivi dell'Unione in una delle lingue dei trattati e di ricevere una risposta nella stessa lingua.
Tali diritti sono esercitati secondo le condizioni e i limiti definiti dai trattati e dalle misure adottate in applicazione degli stessi.
_Articolo 21 (ex articolo 18 del TCE)
1. Ogni cittadino dell'Unione ha il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, fatte salve le limitazioni e le condizioni previste dai trattati e dalle disposizioni adottate in applicazione degli stessi.
2. Quando un'azione dell'Unione risulti necessaria per raggiungere questo obiettivo e salvo che i trattati non abbiano previsto poteri di azione a tal fine, il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria, possono adottare disposizioni intese a facilitare l'esercizio dei diritti di cui al paragrafo 1.
3. Agli stessi fini enunciati al paragrafo 1 e salvo che i trattati non abbiano previsto poteri di azione a tale scopo, il Consiglio, deliberando secondo una procedura legislativa speciale, può adottare misure relative alla sicurezza sociale o alla protezione sociale. Il Consiglio delibera all'unanimità previa consultazione del Parlamento europeo.
_Articolo 22 (ex articolo 19 del TCE)
1. Ogni cittadino dell'Unione residente in uno Stato membro di cui non è cittadino ha il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali nello Stato membro in cui risiede, alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato. Tale diritto sarà esercitato con riserva delle modalità che il Consiglio adotta, deliberando all'unanimità secondo una procedura legislativa speciale e previa consultazione del Parlamento europeo; tali modalità possono comportare disposizioni derogatorie ove problemi specifici di uno Stato membro lo giustifichino.
2. Fatte salve le disposizioni dell'articolo 223, paragrafo 1, e le disposizioni adottate in applicazione di quest'ultimo, ogni cittadino dell'Unione residente in uno Stato membro di cui non è cittadino ha il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni del Parlamento europeo nello Stato membro in cui risiede, alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato. Tale diritto sarà esercitato con riserva delle modalità che il Consiglio adotta, deliberando all'unanimità secondo una procedura legislativa speciale e previa consultazione del Parlamento europeo; tali modalità possono comportare disposizioni derogatorie ove problemi specifici di uno Stato membro lo giustifichino.
_Articolo 23 (ex articolo 20 del TCE)
Ogni cittadino dell'Unione gode, nel territorio di un paese terzo nel quale lo Stato membro di cui ha la cittadinanza non è rappresentato, della tutela da parte delle autorità diplomatiche e consolari di qualsiasi Stato membro, alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato. Gli Stati membri adottano le disposizioni necessarie e avviano i negoziati internazionali richiesti per garantire detta tutela.
Il Consiglio, deliberando secondo una procedura legislativa speciale e previa consultazione del Parlamento europeo, può adottare direttive che stabiliscono le misure di coordinamento e cooperazione necessarie per facilitare tale tutela.
_Articolo 24 (ex articolo 21 del TCE)
Il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando mediante regolamenti secondo la procedura legislativa ordinaria, adottano le disposizioni relative alle procedure e alle condizioni necessarie per la presentazione di un'iniziativa dei cittadini ai sensi dell'articolo 11 del trattato sull'Unione europea, incluso il numero minimo di Stati membri da cui i cittadini che la presentano devono provenire.
Ogni cittadino dell'Unione ha il diritto di petizione dinanzi al Parlamento europeo conformemente all'articolo 227.
Ogni cittadino dell'Unione può rivolgersi al Mediatore istituito conformemente all'articolo 228.
Ogni cittadino dell'Unione può scrivere alle istituzioni o agli organi di cui al presente articolo o all'articolo 13 del trattato sull'Unione europea in una delle lingue menzionate all'articolo 55, paragrafo 1, di tale trattato e ricevere una risposta nella stessa lingua.
_Articolo 25 (ex articolo 22 del TCE)
La Commissione presenta una relazione al Parlamento europeo, al Consiglio e al Comitato economico e sociale, ogni tre anni, in merito all'applicazione delle disposizioni della presente parte. Tale relazione tiene conto dello sviluppo dell'Unione.
Su questa base, lasciando impregiudicate le altre disposizioni dei trattati, il Consiglio, deliberando all'unanimità secondo una procedura legislativa speciale e previa approvazione del Parlamento europeo, può adottare disposizioni intese a completare i diritti elencati all'articolo 20, paragrafo 2. Tali disposizioni entrano in vigore previa approvazione degli Stati membri, conformemente alle rispettive norme costituzionali.
 
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