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di Michele Lasala 24-12-2019

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Aristotele, nella Metafisica, afferma che l’essere si dice in molti modi. Ciò potrebbe andar bene anche per il Dio della tradizione cristiana, che – a ben guardare – può essere detto e espresso in molteplici maniere. Una di queste è senz’altro l’arte, che è in grado, per sua stessa natura, di farci vedere ciò che normalmente sfugge alla percezione dei sensi. Essa può essere considerata a buon diritto come il punto di congiunzione tra il particolare e l’universale. Se da un lato infatti è qualcosa di fisico e di contingente, concretizzandosi particolarmente in un quadro, in una scultura, in un’architettura; dall’altro lato essa esprime pur sempre un concetto, un’idea, cioè qualcosa di universale. Per questo, si può affermare che essa attraversi le epoche e travalichi i confini, unificando così le culture in un linguaggio comune.
Il Dio cristiano è stato espresso mirabilmente nell’arte, e ciò grazie alla storia di Cristo, suo figlio, che ha reso visibile l’invisibile, il Trascendente, e che sfugge agli occhi di tutti, credenti e non credenti, rimanendo – utilizzando un lessico heideggeriano – innanzitutto e per lo più celato, nasco-sto dietro la coltre dell’apparenza; offuscato dall’esperienza spazio-temporale. Dio si fa così storia, narrazione. E non solo mediante la vita di Cristo, ma anche attraverso le vite dei santi. Primo fra tutti San Francesco, raccontato per esempio nel ciclo di affreschi della basilica superiore di Assisi dipinto da Giotto.
Nella storia dell’arte, questo Dio ha però assunto molteplici significati; o meglio, è stato espresso lungo i secoli in maniera sempre diversa. Ora come luce e ora come perfezione del Creato, ora come meraviglia e ora come forza della Natura. Ma tutto questo sino al Settecento, e parte dell’Ottocento; poi, gradualmente, l’arte ha smesso di raccontare Dio, nel senso che gli artisti hanno abbandonato il genere dell’arte sacra, per dedicarsi di più ad altri generi, come può essere quello di storia, oppure il paesaggio, la natura morta. E nel Novecento, accanto alla negazione della storia di Cristo, si assiste addirittura a un sempre più massiccio rifiuto della figurazione, e ciò grazie alle avanguardie. In questo periodo, ciò che gli artisti vogliono è distruggere la tradizione, determinando una frattura quasi insanabile col passato, per poter fondare un mondo del tutto nuovo, con linguaggi e valori estetici altri. Perché in effetti la realtà si può sovvertire, e i parametri con cui valutiamo le cose essere rovesciati, sovvertiti, ribaltati o sostituiti. Tuttavia, alcuni artisti hanno sentito l’esigenza, quasi il bisogno, di un ritorno alla dimensione spirituale; di recuperare, in altri termini, la sfera forse più autentica dell’uomo. Lo dimostra Kandinskij che attraverso l’astrattismo cerca di giungere via via all’essenza dell’arte, che è allo stesso tempo l’essenza dell’anima. Oppure Gauguin, dotatissimo pittore simbolista, che va alla ricerca di una umanità genuina spostandosi da Parigi alle isole della Polinesia, nella speranza di ritrovare quel Dio che l’Occidente aveva quasi del tutto negato, rifiutato, anzi ucciso.
Quello che l’arte attraversa sul finire dell’Ottocento e poi in tutto il XX secolo è, in sostanza, l’espressione e la manifestazione più lampante di quello che Nietzsche già chiamava “trasvalutazione di tutti i valori”, formula con la quale egli preannunciava l’avvento di quell’ospite inquieto chiamato nichilismo, quel senso del nulla che in effetti avrebbe poi caratterizzato e innervato con la sua fitta ombra tutto il Novecento. Nell’aforisma 125 de La gaia scienza (1882), il filosofo tedesco immagina che in pieno giorno al mercato, un folle, con la lanterna in mano, urli alla folla: «Dio è morto! Dio re-sta morto! E noi l’abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini?
Quanto di più sacro e di più possente il mondo possedeva fino a oggi si è dissanguato sotto i nostri coltelli – chi detergerà da noi questo sangue?».
Questo significa che l’uomo dell’età contemporanea vive in una dimensione che esclude Dio, esclude Cristo, e rifiuta tutti i vecchi valori. È infatti un uomo che crede nel profitto, nel guadagno, nello sviluppo economico e tecnologico; crede soltanto al dio danaro. In questa dimensione, l’anima fa fatica ad emergere, e conseguentemente l’arte – sua più diretta espressione – non può che rappresentare il nulla, la decadenza, la morte, il vuoto.
Con la fine degli anni Settanta del Novecento, poi, si assiste al tramonto di un’epoca, al tra-monto della modernità, grazie allo sgretolamento di quelle che Lyotard chiama “grandi narrazioni”, ovvero i grandi sistemi filosofici, come l’illuminismo, l’idealismo e il marxismo. Lo smantellamento di questi grandi sistemi avrebbe fatto emergere via via la pluralità e le differenze, un tempo appiatti-te e annullate dalle filosofie onnicomprensive; e gli uomini, dal canto loro, avrebbero sostituito il mero “dato” al significato, al simbolo, al concetto. Si è così passati da una visione simbolica del mondo a una visione prettamente materialistica. I grandi racconti, in un modo o nell’altro, offrivano dei punti di riferimento saldi per orientarsi nel mondo, ma soprattutto garantivano un orizzonte di senso entro cui l’uomo poteva dare forma e struttura alla propria vita. Ma quella della post-modernità si presenta in effetti come l’epoca del disincanto, dove valgono non già i fatti ma soltanto le interpretazioni. E dove non esiste nessuna eterna Verità, ma solo un caos senza strutture chiamato mondo.
Nel Medioevo invece il senso religioso riempiva le vite degli uomini; e questa religiosità è stata espressa molto bene nell’arte. In questo periodo, Dio viene rappresentato come luce, la stessa che in origine rese possibile il mondo. Questa luce la si può vedere bene sia nella miniatura, dove le figure sembrano brillare di luce propria, e sia nelle vetrate, che sfruttano i raggi del sole per raccontare in immagini policrome le storie narrate nelle Scritture. Oppure nelle tavole dai fondi oro e nei mosaici, dove la luce naturale viene riflessa e trasfigurata in luminosità divina, paradisiaca.
Tommaso d’Aquino ricordava che alla bellezza sono necessari tre elementi: la proporzione, l’integrità e la claritas, ovvero la chiarezza, la luminosità. Tommaso infatti scrive nella Somma di Teologia: «Come si può rilevare dalle parole di Dionigi [l’Areopagita], il bello viene costituito e dal-lo splendore e dalle debite proporzioni: infatti egli afferma che Dio è bello “come causa dello splendore e dell’armonia di tutte le cose”. Perciò la bellezza del corpo consiste nell’avere le membra ben proporzionate, con la luminosità del colore dovuto».
L’origine dell’estetica della claritas, che nel Medioevo si diffonde, può comunque essere ricondotta al fatto che in numerose civiltà antiche Dio veniva identificato con la luce; ne è un esempio l’Ahura Mazda dei Persiani. Queste divinità sono infatti personificazioni del sole o dell’azione bene-fica della luce stessa.
Giovanni Scoto Eriugena, dal canto suo, nel Commento alla Gerarchia celeste scrive: «Perciò avviene che questa fabbrica universale del mondo è un grandissimo lume composto dalle molte parti come di molte luci per rivelare le pure specie delle cose intelligibili e intuirle con la vista della mente, cooperando nel cuore dei sapienti fedeli la divina grazia e l’aiuto della ragione. Bene pertanto il teologo chiama Dio il padre dei Lumi, poiché da Lui sono tutte le cose, per le quali e nelle quali Egli si manifesta e nella luce del lume della sua sapienza le unifica e le fa». Anche nel Paradiso dantesco appaiono visioni luminose. Beatrice è, nella sua luminosità, la manifestazione di Dio, della bellezza divina.
La religiosità del Medioevo porta gli uomini a credere che ogni cosa nell’universo abbia un significato soprannaturale, metafisico. Il mondo viene visto come un vero e proprio libro scritto direttamente da Dio. Ogni animale, per esempio, ha una significazione di carattere morale, così come ogni altra cosa, dalle pietre alle piante. Da qui la diffusione di bestiari, lapidari, erbari. Si arrivava così ad attribuire un significato, positivo o negativo, anche ai colori. Il blu, per esempio, agli inizi del Medioevo, era considerato di scarso valore, mentre già sul finire del Duecento questo colore assume una valenza positiva, diventando un colore pregiato. Ma tra tutti i colori, è l’oro quello che domina. Basterebbe guardare all’Incoronazione della Vergine di Beato Angelico (1435, Firenze, Uffizi).
Dal punto di vista architettonico, possiamo dire che tra il secolo XI e il secolo XII comincia a svilupparsi e a diffondersi in maniera sempre più fitta in tutta Europa lo stile ‘romanico’. Lo storico francese Raoul Le Chauve (italianizzato come Rodolfo il Glabro), uno dei più importanti cronisti del Medioevo (nonché monaco di Cluny), descrive il fenomeno della massiccia attività edilizia che portò l’Europa medievale ad arricchirsi sempre più di chiese, cattedrali e monasteri, nelle sue Cronache dell'Anno Mille (1047). «Mentre si avvicinava il terzo anno dopo il Mille», egli scrive, «in quasi tutto il mondo, ma soprattutto in Italia e in Gallia, le chiese furono rinnovate. Benchè la maggior parte di loro, di solida costruzione, non avesse bisogno di essere restaurata, tuttavia i cristiani sembravano rivaleggiare tra loro per edificare chiese che fossero le une più belle delle altre. Era come se il mondo si fosse scosso e, liberandosi dalla sua vecchiaia, si fosse rivestito di un candido manto di chiese. I fedeli, in effetti, non soltanto abbellirono quasi tutte le cattedrali e le chiese dei monasteri dedicate a diversi santi, ma anche le piccole cappelle situate nei villaggi».
La chiesa doveva, in un certo senso, rappresentare una sorta di enciclopedia dell’universo, del Creato, e, attraverso immagini dipinte o scolpite dal portale all’abside, doveva accompagnare l’uomo nel suo percorso di comprensione e conoscenza del divino. Accostandosi alla chiesa, il fedele – come scrive anche Salvatore Settis – doveva cogliere immediatamente il salto fra il mondo e lo spazio sacro. E la porta doveva essere intesa come una vera e propria porta coeli.
Il Cinquecento è un secolo drammatico dal punto di vista filosofico, politico, religioso, artistico. È un secolo pieno di contraddizioni e, con la trasformazione di tutti i valori, esso è il secolo delle riforme. La Riforma protestante costringe la Chiesa cattolica a rivedere le sue stesse strutture. La religione non è più rivelazione di verità eterne, ma ricerca affannosa e ansiosa di Dio all’interno dell’anima umana. L’uomo capisce che può cercare Dio in maniera autonoma. E, allo stesso modo, la nuova scienza non è più sapienza tramandata dalle Sacre Scritture, ma indagine empirica e problema sempre aperto.
Se Dio è dentro l’uomo, è inutile continuare a cercarlo nell’armonia del Creato. Dio è nella lotta dell’anima per la propria salvezza. Un’anima in bilico tra il tormento e l’estasi.
Le ansie e il senso della problematicità della vita non nascono però con la lotta religiosa del XVI secolo, perché sono già presenti nel neoplatonismo fiorentino della seconda metà del Quattro-cento. Ficino, dal canto suo, aveva opposto una filosofia dell’anima alla filosofia della natura. Aveva descritto l’ansia come condizione tipica dell’uomo; aveva inoltre scritto che la conoscenza di Dio comincia con la conoscenza di sé e che ciascuno è l’artefice della propria natura. E in questo Ficino vedeva il principio della libertà.
La filosofia della natura si riflette molto bene nell’opera di Leonardo; mentre la filosofia dell’anima ha i suoi riflessi nell’opera di Michelangelo. Per Michelangelo, tra le varie forme d’arte, è la scultura quella più nobile e più spirituale. E questo perché la scultura si fa levando o distruggendo la materia, piuttosto che aggiungendo. Togliere materia significa astrarre; significa, per Michelangelo, liberare sempre più la figura dal blocco di marmo che la imprigiona e la occulta. E la figura è già di per sé il concetto che l’artista ha in mente. Cioè l’dea cui lui vuole giungere per esprimere e dare concretezza alla Bellezza. E raggiungere la Bellezza ideale significa vedere Dio. Michelangelo non a caso, in una delle sue Rime, scriverà: «Non ha l’ottimo artista alcun concetto / c’un marmo solo in sé non circoscriva / col suo superchio, e solo a quello arriva / la man che ubbidisce all’intelletto».
Tutte le opere del Buonarroti, dalla Madonna della Scala sino al David, dalla Pietà sino alla volta della Sistina, dal Giudizio universale sino alla estrema e tormentata Pietà Rondanini, sono l’esempio di questa ricerca affannosa di Verità, di Bellezza ideale; espressione di un’anima sempre tesa verso il Trascendente. Questo potrebbe spiegare il perché molte opere di Michelangelo sono non-finite. “Finire” un’opera significava per lui porre fine alla ricerca del Bello, e siccome il Bello in sé è assoluto, nessuna forma compiuta e de-finita avrebbe mai potuto esprimerlo e racchiuderlo. Nessun marmo perfettissimo avrebbe mai potuto essere l’immagine dell’Infinito, né dare la misura dell’Eterno.
Se, come si è visto, Michelangelo voleva esprimere col marmo l’universale; Leonardo, labirinti-ca mente da scienziato, voleva rappresentare, attraverso la pittura, la natura in quanto tale, in tutti i suoi particolari. Per Leonardo, Dio è già nelle cose, è già nella natura, nel miracolo della sua esistenza. Ogni fenomeno fisico per lui esprime la grandezza e il mistero di Dio. Anzi, si potrebbe perfino dire che la natura è essa stessa Dio, Deus sive Natura, esattamente come la Natura di cui parlerà Spinoza nel Seicento, cioè puro meccanicismo, mera concatenazione necessaria di cause ed effetti.
Per Leonardo, l’artista prende il posto del Dio della tradizione, in un certo qual senso, perché crea, anzi è capace di ricreare la natura, e di dare e conferire anima ai personaggi che ritrae. Se guardiamo la Gioconda, capiamo subito di non essere davanti a un semplice ritratto. Leonardo ha voluto esprimere infatti il mistero della esistenza, dalle cose naturali (il paesaggio sullo sfondo) alla donna in primo piano, che per lui rappresenta evidentemente il vertice nella scala ontologica degli enti mondani. Lo stupore e la meraviglia delle cose esistenti affiora anche nelle opere più prettamente sacre di Leonardo. L’Adorazione dei Magi, l’Annunciazione, la Vergine delle rocce, l’Ultima Cena nel refettorio di Santa Maria delle Grazie a Milano, ne sono la dimostrazione più evidente. In tutte queste opere le figure sono immerse nella natura e sono parte integrante di essa. Nell’Ultima Cena colpisce non solo la psicologia dei personaggi che animano la scena, quegli apostoli che si agitano non appena i loro orecchi percepiscono la frase “uno di voi mi tradirà”, ma colpisce soprattutto la figura di Cristo stesso, inscritta in un triangolo ideale, simbolo della Trinità. Un’apparizione, un corpo che è allo stesso tempo spirito, anima; un uomo che dubita e riflette è questo Gesù solitario. La sua figura è al centro della composizione, e rappresenta non solo il vertice della piramide prospettica dell’intera scena, ma anche il centro del mondo e del creato, così come l’uomo è, per i rinascimentali, un micro-cosmo che riflette e porta nella sua stessa anima la complessità dell’universo. L’uomo, punto di giuntura tra materiale e spirituale, particolare e universale; esattamente come l’arte. E Leonardo così in-tendeva la pittura: una finestra che ci consente di cogliere l’essenza delle cose attraverso la loro fenomenica presenza.
Nell’Europa del Seicento, soprattutto attraverso le vite dei santi, gli artisti realizzano rappresentazioni in grado di suscitare il senso del sacrificio, e nello stesso tempo l’importanza del penti-mento. Con l’esperienza esemplare dei martiri, e la loro raffigurazione, sembrava si volesse offrire una nuova visione della religione. Questa doveva essere basata sul dolore e sulla mortificazione e ciò doveva quindi riflettersi anche e soprattutto nell’arte. Federico Borromeo (1564 – 1631) arriverà in-fatti a scrivere De pictura sacra (1624), dove – seguendo i precetti in materia, dettati da suo cugino Carlo Borromeo – cercava di suggerire regole precise per la produzione di immagini sacre. Il concetto base, qui, era quello di decoro; le immagini dovevano persuadere, essere fonte di ispirazione e in-durre alla meditazione e alla preghiera. Le opere d’arte dovevano avere un forte impatto psicologico e poi dovevano coinvolgere emotivamente. Attraverso le immagini, dunque, la Chiesa poteva diffondere la sua dottrina, ma soprattutto poteva penetrare nel cuore dell’uomo.
Già Gabriele Paleotti, vescovo di Bologna, nel 1582, nel suo Discorso intorno alle immagini sacre e profane, in pieno clima controriformistico seguito al Concilio di Trento (1545 – 1563), scriveva che le immagini sono «istrumenti per unire gli uomini a Dio […] per persuadere il popolo e tirarlo col mezzo della pittura ad abbracciare alcuna cosa pertinente alla religione».
Ad essere rappresentata è l’esperienza mistica dei santi, come quella di santa Teresa d’Ávila, scolpita da Bernini (Transverberazione di santa Teresa d’Avila, Roma, Santa Maria della Vittoria, 1647-1652); e nella pittura – in modo particolare – abbondano le immagini di santi a cui appare la Vergine.
L’arte ha quindi una vera e propria funzione pedagogica e diventa a tutti gli effetti strumento per avvicinare l’uomo a Dio; un modo – in altri termini – per educare alla bellezza e alla virtù.
«Le nuove chiese», scrive Rudolf Wittkower, «imponevano, specie ai pittori, un compito immane. Essi dovevano non soltanto coprire di affreschi enormi superfici murali, ma dovevano soprattutto creare una nuova tradizione iconografica.
[caption id="attachment_11683" align="aligncenter" width="1000"] Rudolf Wittkower (Berlino, 22 giugno 1901 – New York, 11 ottobre 1971) è stato uno storico dell'architettura, storico dell'arte e saggista tedesco. [/caption]
Santi quali san Carlo Borromeo, sant’Ignazio, san Francesco Saverio e santa Teresa, dovevano essere glorificati: la loro vita, i loro miracoli, la loro missione terrena e spirituale, doveva essere solennizzata. Inoltre, di fronte alla sfida della religione pro-testante, i dogmi della Chiesa cattolica dovevano essere riaffermati in dipinti che rafforzassero la fede del credente e facessero presa sulla sua emotività. Infine, per quello che riguarda molte scene dell’Antico e Nuovo Testamento e della vita dei santi, fu avvertita la necessità di un cambiamento nella tradizione, per porre l’accento su soggetti eroici (Davide e Golia, Giuditta e Oloferne), su esempi di pentimento (San Pietro, il figliol prodigo), sulla gloria del martirio e su visioni ed estasi mistiche, oppure su particolari avvenimenti dell’infanzia di Cristo, finora sconosciuti» (Arte e architettura in Italia. 1600-1750).
Un’iconografia della controriforma, dunque, che poi si ritrova anche in Caravaggio. Il realismo brutale e spietato di Caravaggio, autore antiaccademico, è servito a far comprendere che Dio in fon-do è umano, vive nella quotidianità, così come nella miseria dell’uomo. La luce, nelle opere del Me-risi, è una luce naturale, non soprannaturale – come quella del Medioevo – e serve a descrivere e a far vedere la realtà per quello che essa è, senza reticenze, né stucchevoli abbellimenti. Le drammatiche figure che emergono dal buio, nei suoi dipinti, a cominciare dalla prima opera pubblica, la Vocazione di san Matteo (1599) nella cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi a Roma, sono santi, Madonne e Cristi; uomini e donne che mettono a nudo una verità umana, troppo umana. Basterebbe pensare alla Morte della Vergine (1605, Parigi, Louvre) o alla Madonna dei pellegrini (1604, Roma, Sant’Agostino), dove la figura e il volto della Madonna sono quelli di una prostituta.
Ma è proprio in questa misera umanità, con tutte le sue oscure inquietudini, sofferenze, miserie e contraddizioni, che, per Caravaggio, si annida la verità di Dio. Dio, per lui, non è qualcosa di tra-scendente, di distaccato dall’uomo, ma è dentro la storia, nella carne e nelle ossa degli uomini. Nel loro stesso sangue. E il superbo gioco di luci e di ombre, nelle sue teatrali composizioni, è un modo per esprimere le inquietudini dell’uomo sempre in lotta con se stesso, sempre in bilico tra il dubbio e la verità, tra il tormento e l’estasi; tra il visibile e l’invisibile.
 
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

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di Michele Lasala 28/06/2019

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Umberto Galimberti una volta ha sostenuto che se togliessimo la parola “Dio” al Medioevo, non saremmo più in grado di comprenderlo; mentre se la togliessimo alla nostra epoca, continueremmo a comprenderla ugualmente. La dimensione del sacro, in effetti, non trova più spazio nel nostro tempo e le nostre stesse vite sono prive quasi del tutto di spiritualità. Nel Medioevo il senso religioso caratterizzava ogni azione dell’uomo e l’arte ne era il riflesso più immediato: la mano dell'artista era guidata da Dio. Dalla maestose cattedrali ai magnifici codici minati, dalle stupende tavole dai fondi oro alle sculture che ornavano chiese e monasteri, l’arte ha sempre cercato di rappresentare e rendere visibile ciò che agli occhi non è dato vedere: lo spirito. L’arte così era in grado di aumentare l’esistenza e far comprendere che la realtà non è riducibile al solo «dato» sensibile.
Speculum Iustitiæ: Olio su specchio e legno dorato, perle ed incisioni a bulino, 200 X 120 cm, 2018. Collezione privata. Image copyright © Archivio Luciano e Marco Pedicini.
Essa allora elevava l’anima e la avvicinava a Dio. E il cielo, quale luogo del Paradiso, così come era inteso dagli stessi artisti, era lo spazio infinito verso cui lo sguardo dell’uomo era indirizzato, la sede della beatitudine e della salvezza.
Oggi però le cose, nella vita, e nell’arte, sono un po’ cambiate rispetto all’età medievale. Gli uomini non sono più abituati a guardare verso il cielo, ma in basso, verso la terra, verso l’asfalto, verso i rifiuti e gli escrementi. Non essendoci più Dio, non c’è più neppure la luce celeste. Regnano soltanto le tenebre dell’incoscienza.
Quando Nietzsche, ne La Gaia scienza, faceva urlare, nella chiara luce del mattino, il folle con in mano una lanterna accesa «Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso», il folle era al mercato. Il mercato infatti è la dimensione più naturale entro cui si muove e trova agio l’uomo contemporaneo. Nietzsche scriveva sul finire dell’Ottocento, ma già guardava al secolo che stava per aprirsi. La trasvalutazione di tutti i valori e il crepuscolo degli idoli erano i prodromi di quella che sarebbe stata la tragica cifra del secolo XX: il nichilismo. Cartesio, Hegel, Marx con l'idealismo hanno sostituito l'uomo a Dio: il Novecento infatti è stato attraversato, lungo l’intera sua parabola, da una sola idea martellante e inquietante: la vita è sospesa sul nulla. E l’arte ha smesso così di rappresentare il sacro. Decadute e dissolte le grandi narrazioni – di cui poi avrebbe parlato Jean-François Lyotard (1924 - 1998) nel suo La condizione postmoderna all’imbrunire degli anni Settanta – che in qualche modo offrivano orizzonti di senso e creavano i presupposti per costruire e sviluppare discorsi o comunque conferire significato alle cose, terrene e ultraterrene, il mondo si è svuotato via via di contenuti.
L’uomo finalmente si è scrollato di dosso un universo simbolico fatto di immagini e di parole e ha cominciato a vedere tutta la realtà attraverso la logica malsana e sterile dell’utile. La poesia ha lasciato spazio al numero, e il bello al brutto. Il cretinismo economico, di gramsciana memoria, secondo cui tutto deve essere calcolato e misurato nei minimi dettagli, è il prodotto più naturale della perdita sistematica di valori, nello spazio comune del mercato, dove il reale si riduce a un insieme di merci da scambiare e il materialismo diventa l’unica vera religione cui avere fede. Credere nell’utile e nel profitto, perseguire idiotamente il principio dello sfruttamento delle risorse, guardare le cose attraverso l’ottica heideggeriana della utilizzabilità, sono la litania dell’uomo che vive nell’era della tecnica. In questo terrificante scenario, dove l’anima fa fatica ad emergere e a esprimersi, e dove l’uomo ha perduto se stesso, anche l’arte si è svuotata di senso e si è così ridotta a puro prodotto commerciale. Se un tempo gli artisti creavano per resistere al tempo e esprimere concetti assoluti, trascendenti, ma fondanti il mondo stesso e la vita, oggi pare che l’artista persegua l’ideale del transeunte. Le sue opere nascono già morte e sono destinate ad essere dimenticate. Basterebbe dare un rapido sguardo alla Biennale di Venezia da poco inaugurata.
Sembra inoltre che gli artisti abbiano oramai rinunciato a dipingere, a fare buona pittura. La figurazione è cosa ritenuta antiquata e appartenente al passato. Oggi l’arte deve passare attraverso un astrattismo delle installazioni, dei video o delle performance delle più imprevedibili, delle più impensabili, delle più estreme.
San Nicola di Bari schiaffeggia l'eresiarca Ario (particolare). Olio su tela, 100 X 120 cm, 2016. Image copyright © Archivio dell'Arte / Luciano Pedicini.
Ma perché l'epoca odierna insiste sul concetto dell'astratto? Semplicemente perché dagli inizi del Novecento è iniziato quel processo che ha portato alla distruzione del volto umano e dell'identità, figurativa appunto, dell'Europa. L'appiattimento etnico si è mosso parallelo all'estirpazione delle radici cristiane in Europa e l'arte, così come l'architettura, sono state le discipline principali per lo svolgimento di tale processo storico pianificato.
Chi oggi usa il pennello e la tela, rischia di restare fuori dal circuito internazionale della grande arte contemporanea. Ancor peggio poi se tenta di dipingere il sacro in un mondo oramai privo di spirito.
Ma c’è chi – al di là delle mode e della tendenza generale dell’arte del nostro tempo – riesce a resistere e a imporsi coraggiosamente come artista figurativo, per giunta di arte sacra. Questi è Giovanni Gasparro (1983). Per nulla provinciale o marginale, egli è uno degli artisti italiani contemporanei più illustri sulla scena mondiale. La sua pittura, che affonda le radici nella tradizione artistica del Seicento italiano, olandese e spagnolo, avendo punti di riferimento impareggiabili che vanno da Mattia Preti (1613 - 1699) a Rembrandt Harmenszoon van Rijn (1606 - 1669), passando per Diego Rodríguez de Silva y Velázquez (1599 - 1660), è l’espressione di uno spirito che arde e che cerca di esprimere l’invisibile attraverso il visibile. L’immagine per Gasparro diventa lo strumento per comunicare l’Eterno, per esprimere il Verbo, anche quando nei suoi dipinti non vediamo né santi e né Cristi. Il sacro è infatti nelle cose stesse, nella luce, perfino nelle fitte ombre che richiamano il linguaggio estetico dei caravaggeschi. Oppure negli sguardi, nelle mani, nella carne degli uomini rappresentati. Nel corpo. Il volto dell’uomo è di per sé epifania dell’Infinito, nei suoi lavori, esattamente come intendeva il filosofo lituano Emmanuel Levinas (1906 - 1995). Per l'artista pugliese il sacro non è solo spirito, è anche corpo. Anzi si potrebbe perfino dire che proprio attraverso il corpo è possibile giungere allo spirito, a quelle che egli stesso chiama «verità di sempre», soprattutto in un mondo che vede oramai la carne soltanto come materia, o addirittura merce di scambio.
Con Gasparro possiamo capire finalmente che l’arte contemporanea non è solo quella che fa mostra di sé tra i padiglioni della Laguna, che dipingere non è un atto sorpassato, che la figurazione non è accademismo, che l’arte sacra non appartiene solo alla storia delle arti, che il corpo non è soltanto un complesso di cellule e molecole, e che il nome di Cristo non deve destare nessuna vergogna. Capiamo inoltre che lo spirito non è morto. Esso piuttosto sonnecchia, e aspetta soltanto di essere illuminato, chiamato, in qualche modo risvegliato dal sonno dogmatico dell’imbecillità.
San Francesco d'Assisi ricevuto da papa Innocenzo III (particolare). Olio su tela, 199 X 165 cm, 2016. Trani, Chiesa di San Francesco d'Assisi. Image copyright © Archivio dell'Arte / Luciano Pedicini.
Crediamo che l’arte sia il mezzo più adeguato per risvegliare la coscienza dell’uomo e spalancare i suoi occhi sulla eterna bellezza del Creato. Per questa, e per altre ragioni, abbiamo pensato di dialogare col Maestro, ringraziandolo per il tempo che ci ha donato e per le belle e illuminanti parole con cui ha risposto alle nostre domande.
 
D: Giovanni Gasparro, la tua prima mostra personale risale al 2009, a Parigi, l’ultima invece è di quest’anno e ha sede nel Museo della casa natale di Cima da Conegliano, "Giovanni Gasparro. Tra uomo e Dio", a cura di Grazia Maria Curtarelli, aperta sino al 30 giugno. Dieci intensi anni separano le due mostre, anni costellati da importanti riconoscimenti, esposizioni personali e collettive, in Italia e nel mondo. Il giovane ragazzo di Adelfia si è fatto strada e ha varcato i confini nazionali. Quanto Gasparro, uomo e artista, è cambiato in questo breve, ma pur sempre ricco, arco cronologico?
R: Le vicissitudini della vita e dell'arte sono state talmente pregnanti da cambiarmi radicalmente. Credo questo sia percepibile nei miei dipinti, sia nel valori cromatici e luministici, che in quelli iconografici e contenutistici. Il cambio di rotta è di tutta evidenza nella mostra di Conegliano. Essendo un'antologica, con ben trentaquattro opere, analizza e mette in scena il mio percorso creativo dal 2004 ad oggi. I saggi in catalogo di Grazia Maria Curtarelli, così come quelli di Jacopo Scarpa, Cesaremaria Glori, Carlo Manetti e Cristina Siccardi, chiariscono le ragioni delle mie scelte stilistiche ed artistiche in genere.
D: Non molto tempo fa ti viene assegnata la cattedra di Tecniche pittoriche all’Accademia di Belle Arti di Lecce, incarico molto prestigioso, che tu però rifiuti. Hai preferito investire tutto il tuo tempo nel fare pittura piuttosto che insegnarla, come se la didattica in qualche modo avrebbe potuto uccidere l’artista. Quale significato assume per te il dipingere? È solo questione di tecnica o c’è dell’altro?
R: La scelta di rinunciare alla cattedra di Tecniche pittoriche dell'Accademia di Belle Arti di Lecce è stata dettata dalla mia scarsa attitudine e propensione verso l'insegnamento. Da tempo ero in graduatoria ma non ho mai insegnato. Temo di non essere portato per questa nobile professione, allo stesso modo in cui supponevo e prefiguravo che l'insegnante avrebbe mortificato l'artista, il docente avrebbe dovuto sacrificare troppo tempo al lavoro in studio. Per mia natura, quando sposo un progetto o assumo un incarico, cerco di prodigarmi in modo totalizzante e serio. Non avrei potuto continuare a dipingere con l'afflato e la dedizione attuale, se avessi accettato di insegnare in Accademia. C'è chi ci riesce perfettamente. Grandissimi artisti del passato lo hanno fatto. Io accetto il mio limite e rinuncio. Preferisco dedicarmi interamente alle mie opere, almeno per il momento, perché il dipingere è uno spazio vitale che merita totale abnegazione, ricerca, riflessione. La mera realizzazione tecnica dell'opera, non è che la sezione terminale del lavoro del pittore. Gran parte dell'esecuzione è pregressa, concettuale, progettuale, ideale. La fase tecnica è strumentale a traslare visivamente l'idea primigenia. Non sarebbe possibile scindere le due componenti e i due momenti della creazione. Per questo molta parte dell'arte contemporanea che ha enfatizzato in modo ipertrofico e preponderante il dato concettuale, a scapito di quello tecnicistico, ha tradito il linguaggio dell'arte e risulta incomprensibile. L'arte deve avere un canale di fruizione visivo e tattile, non può rinunciare a questo, altrimenti sarà destinata ad un elitarismo autoreferenziale che la renderà sterile. Per le summenzionate ragioni, molte presunte avanguardie ed espressioni del postmodernismo sono destinante, inevitabilmente, ad essere archiviate dopo l'attuale stagione di consensi di critica e mercato.
Amoris laetitia. San Giovanni Battista ammonisce l'adulterio di Erode Antipa ed Erodiade (particolare). Olio su tela, 100 X 150 cm, 2017. Bari, Collezione privata. Image copyright © Archivio Luciano e Marco Pedicini.
D: Gran parte della tua produzione è fatta di immagini sacre. E la tua stessa vita è intrisa di senso religioso. La fede alimenta la tua pittura o è la pittura ad accrescere la fede? Detto in maniera diversa: credere in Dio è una forza che permette la creazione artistica o è proprio la creazione artistica che dimostra e manifesta l’esistenza del Trascendente?
R: Nella mia esperienza, la fede ha alimentato costantemente l'ispirazione artistica che ha beneficiato delle infinite declinazioni iconografiche, derivanti dalle narrazioni neo e vetero testamentarie, così come dalle vite dei santi. La fede ha donato anche un senso in termini di militanza, ha strutturato la pittura nei codici apologetici, per divenire essa stessa strumento di propagazione della Verità rive-lata. La mia pittura sacra non vuole essere esercizio di stile, non cede alla rievocazione di iconografie stanche e sedimentate nella memoria collettiva per ripercorrere in senso citazionistico le imprese artistiche della grande arte antica. Dipingo per testimoniare le verità di sempre, in quanto eterne ed immutabili, nell'unico vero Dio, la Santissima Trinità, così come codificate nel Credo cattolico, niceno-costantinopolitano. Posso attestare come dipingere nell'alveo della Tradizione iconografica cattolica abbia accresciuto la mia ispirazione e non abbia mai costituito un limite angusto.
 
D: Il 2016 è l’anno della importante mostra Giovanni Gasparro versus Mattia Preti, a cura di Fabio de Chirico. Questo dialogo serrato tra te e il Cavalier Calabrese solleva la questione dell’eternità dell’arte, della sua capacità di attraversare i secoli e di trascendere il contingente. Un artista contemporaneo che duella e si confronta con un maestro del passato. Tutta l’arte può essere definita “contemporanea”?
R: Tutta l'arte è da ritenersi contemporanea se considerata nell'accezione della fruizione, ovvero del frangente temporale in cui è conosciuta da chi la osserva. Molti autori che oggi non esitiamo a definire geni indiscussi del loro tempo, per decenni o secoli interi sono stati eclissati dalla critica o ignorati dagli studi. Si pensi a Caravaggio riscoperto nel secolo XX o all'opera di studio sugli artisti dell'Ottocento italiano, da sempre negletti nel nostro Paese, per colpa del pregiudizio settario degli storici dell'arte influenzati da Giulio Carlo Argan (1909 - 1992). Potrei portare innumerevoli esempi ma mi basterà citare il paradigma archeologico per antonomasia. Pompei ed Ercolano ebbero una rinascita nel XVIII secolo per l'impulso degli scavi borbonici ed i riverberi si propagarono nell'arte neoclassica italiana, francese, inglese, così come in tutta l'Europa e le Americhe. La Pompei romana divenne arte contemporanea in pieno Settecento, non solo in pittura, scultura ed architettura, ma persino nelle arti applicate, nella moda, nelle porcellane. Le linee di demarcazione sono strutture storico-critiche buone per creare sistemi di studio e catalogazione, eccellenti sul piano della conoscenza, meno efficaci su quello dell'analisi della fenomenologia artistica contingente. In Italia, oggi, è ancora molto vivo il pregiudizio critico secondo cui un musicista non possa più comporre musica tonale, un artista d'arti visive non debba dipingere arte figurativa, uno scrittore non possa che allinearsi al sistema narrativo di Joyce e così via discorrendo per tutte le arti. Eppure grandi geni come Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1898 - 1957), Fausto Calogero Pirandello (1899 - 1975), Nino Rota (1911 - 1979), Carl Orff (1895 - 1982), Sergei Vasilyevich Rachmaninoff (1873 - 1943), attestano l'esatto contrario e smontano le sovrastrutture ideologiche post-moderniste. Si può ancora dipingere, scolpire, comporre e scrivere, con codici legati alla tradizione, calando queste espressioni d'arte nel nostro tempo. Senza citare pedissequamente le opere antiche, ci si può educare al gusto ed al senso intellettuale che le ha animate. Nel mio caso, per bontà di grandi e generosi direttori di musei e storici dell'arte che hanno curato le mie mostre, è stato quasi naturale affiancare i miei dipinti a quelli degli antichi e dei moderni, da Bernardo Strozzi (1581 - 1644) a Felice Casorati (1883 - 1963), da Guido Reni nel Casino dell'Aurora di Palazzo Pallavicini Rospigliosi sino alla Madonna della Pace del Pinturicchio a San Severino Marche ed ovviamente la grande monografica in Galleria Nazionale di Palazzo Arnone, a confronto con Mattia Preti, perché la pittura barocca della stagione controriformista napoletana e padana, fiamminga, olandese e spagnola, resta il mio più immediato termine di paragone.
Pio VI Pontefice Massimo (particolare). Olio su tela, 90 X 70 cm, 2016. Bruxelles, Collezione privata. Image copyright © Archivio dell'Arte / Luciano Pedicini. Pio VI dopo essere stato rapito dai giacobini francesi, trascorse l'ultima porzione della sua dura carcerazione, per essersi opposto al potere dell'anti-Cristo Napoleone, a Valence-sur-Rhône in Francia. Il 19 agosto Pio VI si ammalò gravemente. Morì nel pomeriggio del 29 agosto. Il suo corpo rimase insepolto per ordine delle autorità comunali giacobine. Il 29 gennaio 1800 Pio VI fu sepolto, come un comune cittadino, nel cimitero civico. Sulla cassa fu scritto: «Cittadino Giannangelo Braschi - in arte Papa». Dopo quasi due anni il nuovo pontefice, Pio VII, riuscì a persuadere il municipio a consegnargli le spoglie. Il corpo venne riesumato il 24 dicembre 1801. La salma fu imbarcata a Marsiglia per Genova e fu esposta più volte alla venerazione dei fedeli. Giunta a Civitavecchia il 10 febbraio 1802, ottenne finalmente le esequie ufficiali il 17 febbraio, in una cerimonia presieduta dallo stesso Pio VII. Il giorno dopo, la salma del pontefice ricevette degna sepoltura nella Basilica di San Pietro. Per decreto di papa Pio XII, nel 1949, i resti di Pio VI vennero spostati dalla Cappella della Madonna di San Pietro nelle Grotte Pontificie, posti in un antico sarcofago romano di marmo ritrovato durante gli scavi. Sopra la sua tomba, appesa al muro, venne posta una lapide con la seguente iscrizione: «I resti mortali di Pio VI, consumati in un ingiusto esilio, per ordine di Pio XII vennero deposti in una degna e decorosa collocazione, illustre per arte e storia, nel 1949».
D: Nei tuoi lavori ci sono delle costanti, degli elementi ricorrenti, come le mani che si moltiplicano, gli specchi, i volti che si sdoppiano.. Ciò che li lega è proprio il fatto di raddoppiare la realtà, aumentarla. Ma è anche vero che lo specchio come le mani o i volti sono lo strumento attraverso cui traspare l’anima dell’uomo. Ci vuoi parlare di questa caratteristica della tua pittura?
R: Nei miei dipinti d'arte sacra e profana, le figure intere o almeno gli arti sono ripetute più volte, rimandando idealmente ad antiche iconografie sacre del XV secolo. Ho sempre guardato alle Arma Christi di area fiorentina e fiamminga, alla Pietà di Lorenzo Monaco (1370 - 1425) e del Maestro della Madonna Strauss, di Domenico di Michelino (1417 - 1491) al Musée des Beaux-Arts di Chambéry o agli affreschi del Beato Angelico nel convento fiorentino di san Marco. Il riferimento alle visioni estetiche avanguardiste del Futurismo e del Cubismo, che in tanti hanno evidenziato, non corrisponde ad un mio proposito ideale. A contrario, nella pittura di Balla, Severini e Boccioni, insieme all'esaltazione meccanica del movimento fisico, è sottesa l'ideologia modernista di rinnegamento e disprezzo della tradizione, tanto quanto nella scomposizione stilizzata di Braque e Picasso è presente, in nuce, il concetto di multiformità della visone e quindi quello di relativismo. Il carattere rivoluzionario del Futurismo, a scapito della tradizione, del museo, dall'accademia, è così evidente che fu lodato trasversalmente dai belligeranti fascisti mussoliniani come dal comunista ateo Gramsci che ne lodava il fervore distruttivo e dissacratorio. In ultima istanza, Futurismo e Cubismo possono essere ascritte nell'alveo del pensiero di Rivoluzione, la mia pittura e le mie molte mani in quello di Controrivoluzione.
D:Ecce Ancilla Domini, bellissima opera del 2014, rappresenta la Vergine Annunciata con le braccia alzate. Sulla parete posta alle sue spalle, un cordone, un rametto e un’asta di legno formano una croce ideale. Su questa croce si stampa netta l’ombra di Maria: chiara prefigurazione della Crocifissione. Tu dimostri così di possedere quella virtù che gli artisti oggi hanno purtroppo perduto: l’inventio. Virtù che nasce solo quando si possiede una adeguata conoscenza di ciò che i grandi maestri del passato hanno fatto. Ci spieghi quanto è importante conoscere il passato per poter fare il nuovo? Quanto è importante imitare per poi reinventare?
R: L'arte contemporanea ha peccato d'orgoglio. Da Duchamp in poi gli artisti hanno preteso di operare con una cesura netta, se non in pieno disprezzo formale ed ideale, verso la tradizione. Ma essa non è altro che una lunghissima sequenza di modelli creativi che nel corso del tempo si sono sedimentati, in costante equilibrio fra innovazione e sequela del passato. Talvolta, istanze "progressiste" e "passatiste", così definite per mera semplificazione, si trovano a coesistere nel medesimo corpus creativo. Nella stessa cappella ed allo stesso ciclo di affreschi, potevano dipingere assieme il pittore tardo gotico Masolino da Panicale e l'innovatore Masaccio, seguito da Filippino Lippi. L'artista del nostro tempo deve comprendere che senza una piena conoscenza del passato non può costruire nulla che abbia un senso compiuto, così come chi volesse discettare dei fenomeni politici e sociali o antropologici odierni, non potrebbe razionalizzare compiutamente senza una consapevolezza delle storia passata, scevra da ideologizzazioni di sorta. D'altronde è sempre stato così. Rodin studiava Michelangelo che a sua volta guardava a Donatello e a ritroso sino alla statuaria ellenistica, Delacroix iniziò imitando Watteau e copiando Rubens, Tiepolo rinverdiva i cromatismi e le composizioni del Veronese. Nessun grande artista è nato senza radici. Hanno saputo continuare un percorso evolvendolo e declinando modelli passati, da cui sono stati soggiogati creativamente, al loro tempo, senza rotture brutaliste. Per questo, nelle chiese antiche, c'era un'armonia di fondo anche quando si sommavano elementi di epoche differenti. Gli interventi contemporanei d'arte sacra, sovente, sono in pieno disaccordo di volumi, cromie ed intenti con le opere preesistenti, salvo rarissime eccezioni.
Ecce Ancilla Domini (particolare). Olio su tela, 110 X 170 cm, 2014. Image copyright © Archivio dell'Arte / Luciano Pedicini.
D: «La bellezza salverà il mondo». Frase oramai sulla bocca di tutti sino a svuotarsi di significato. Vorrei che tu ci parlassi del bello e della sua importanza per lo spirito dell’uomo, per la sua vita così come per la società.
R: Il bello è lo splendore del vero, del bene e del ben fatto. San Tommaso d’Aquino, sommo filosofo e teologo domenicano, chiarisce che è una sintesi di vero e di bene. Verum, bonum, pulchrum, verità, bene e bellezza, sono proprietà immutabili di Dio. San Tommaso, sviluppando l'aristotelismo, afferma che non vi sia nulla nell’intelletto che non sia percepito aprioristicamente dai sensi. L'uomo ha anche la facoltà, attraverso la sensibilità, di saggiare la bellezza, provandone diletto, a contrario degli esseri irrazionali come gli animali. La volontà, naturalmente protesa verso il bene che l’intelligenza gli propone come vero, trova compiacimento nella conoscenza. Attraverso la bellezza dell’arte, intesa come rappresentazione del vero rivestito del bello, l'uomo è condotto più agilmente verso la verità ed il bene. Per questo le arti visive dovrebbero essere figurative, rigettando l'aniconismo tanto caro all'Islam, all'Ebraismo ed al Protestantesimo, sino alla parabola dell'arte astratta del Novecento, mostrando il bello del vero, in senso aristotelico-tomista. Le arti visive possono concorrere ad elevare l'uomo contemporaneo, con una ricaduta in termini sociali, etici, politici e spirituali, scardinando i sistemi criminali e di abbrutimento morale ed intellettuale. Se le nuove generazioni fossero adeguatamente educate alla conoscenza dell'arte, ed ancor di più della grande arte sacra, avrebbero un supporto concreto ed imperituro contro tutto ciò che consideriamo malvagio e deprecabile nella nostra società.
 
Per approfondimenti:
_Cristina Siccardi, L'arte di Dio - Cantagalli, 2017.
 
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

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di Michele Lasala 08/05/2019

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Tra i pittori lombardi del Rinascimento, Callisto Piazza (1500 - 1561) è certamente uno dei più grandi e più autorevoli. «Fu creato appositamente per quel secolo in cui visse», scriveva Gaspare Oldrini, ma il destino ha voluto che il Piazza non fosse sempre apprezzato da morto.
[caption id="attachment_11350" align="aligncenter" width="1000"] Callisto Piazza da Lodi (1500-61) - Gruppo musicale (particolare). [/caption]
Dopo una lunga e ingiusta fase durante la quale la critica si è espressa in maniera non proprio positiva sulla sua figura, e dopo la stroncatura romantica da parte di Alexis François Rio (1797 - 1874) e di quelle successive di Joseph Archer Crowe (1824 - 1896) e Giovanni Battista Cavalcaselle (1819 - 1897), il Piazza viene finalmente rivalutato dal grande Roberto Longhi (1890 - 1970) sul finire degli anni Venti, riacquisendo così quel primato e quella importanza che aveva purtroppo perduto in passato, relegato com’era a figura secondaria rispetto ai grandi nomi della cultura artistica lombarda, oltre che considerato come una specie di pedissequo imitatore di Giorgione (1478 - 1510).
Pittore multiforme e – come è stato anche detto – “camaleontico”, egli ha lavorato instancabilmente sino agli ultimi giorni della sua vita, spostandosi da Lodi a Milano, da Crema ad Alessandria, e a Brescia. Artista prolifico e grande ritrattista, Piazza guarda con ardore i veneti come Giorgione, Tiziano Vecellio (1488 - 1576), Jacopo Palma il Vecchio (1480 - 1528); segue la maniera dei lombardi come il Giovanni Gerolamo Savoldo (1480 - 1540), Alessandro Bonvicino (1498 - 1554 - il Moretto), Girolamo Romani (1485 - 1566 - il Romanino); capta la genialità perfino di Albrecht Dürer (1471 - 1528). Ma la sua curiosità sempre viva lo porta ad apprezzare pure l’eccentrico Pordenone, Boltraffio, Altobello Melone, Leo-nardo, Raffaello e Dosso Dossi.
Le diverse e molteplici suggestioni derivanti da questi modelli si sono fuse le une nelle altre nella mente sensibile del Piazza, senza però condurlo verso un facile e stucchevole manierismo. Anche quando riprende il Moretto o il Romanino, il pittore lombardo risulta infatti essere meravigliosamente originale, oltre che inconfondibile. Strano fenomeno! Callisto Piazza indossa vesti sempre diverse, come se amasse il piacere sottile derivante dall’inganno del travestimento, eppure la sua mano è sempre (o quasi) riconoscibile. Diciamo “quasi”, perché in effetti il Piazza – soprattutto quando la sua personalità non era ancora così del tutto definita – poteva essere confuso per il meno noto caravaggino Francesco Prata da Caravaggio (1485 – metà XVI secolo); pittore, quest’ultimo, quasi del tutto sconosciuto e poco studiato, tanto da non comparire neppure ne La Pittura Italiana dell’Electa curata da Giuliano Briganti (1918 - 1992). Una Adorazione di gusto romaniniano, per esempio, conservata in San Michele a Bedulita (Bergamo), oscilla ancora tra il Preti e il Piazza.
Membro di una famiglia di artisti, Callisto è figlio di Martino e nipote di Albertino, anch’essi pittori e titolari della bottega più importante nel lodigiano. Con molta probabilità nacque a Lodi, la città del più noto Giovanni Agostino (1470 - 1519), che fu sorprendente maestro di scene sacre e dotato di un gaudente linguaggio che richiama la sospensione di Leonardo e la misura di Bartolomeo Suardi (1456 - 1530, detto Bramantino). Di Callisto si hanno notizie certe a partire soltanto dal 1524, quando fu a Brescia a contatto con le follie del Romanino e con le inquietudini e le malinconie di Alessandro Bonvicino, (1498 - 1554, detto il Moretto), e qui resterà sino al 1529, quando realizza la pala di Cividale.
La Santa Caterina d’Alessandria (Roma, Palazzo Venezia) risente fortemente del clima leonardesco e rimanda non a caso a Giovanni Antonio Boltraffio (1467 - 1516). Ma quando il Piazza sarà a Brescia cambierà registro e modo di vedere le cose.
[caption id="attachment_11345" align="aligncenter" width="1000"] Callisto Piazza, San Giorgio e la principessa (particolare), dipinto murali in Santa Maria del Restello, Erbanno. [/caption]
Non si conoscono i motivi che spinsero il pittore a recarsi in questa città, probabilmente lo fece su consiglio del padre che, avendo conosciuto Romanino, pensò di educare il gusto del figlio sulle novità manieriste del geniale maestro bresciano; qui dipingerà l’Adorazione del Bambino tra i santi Simone e Giuda, la Madonna adorante il Bambino tra i santi Stefano, Clemente e un angelo. In quest’ultima, lo spazio è scandito, come nel Romanino, dagli elementi dell’architettura: l’arco a tutto sesto in pietra, come a creare una nicchia o addirittura un immaginario ortus conclusus, isola l’elegante ed esile figura della Vergine e la separa dall’ambiente dove invece stanno i due santi coi rispettivi attributi iconografici. Ma a legare i due mondi sono il Bambino e l’angelo dalle ali spiegate, uniti a formare un ideale triangolo, simbolo della Trinità. L’edificio classico oramai in abbandono sta a significare che un mondo, quello pagano, è finito, scomparso, inghiottito dalla storia. Un rudere, quale simulacro melanconico e solitario di una civiltà che un tempo fu grande e che sembrava non conoscere tramonti. Ma il Cristo bambino giacente al suolo è la testimonianza della vita che rinasce, sotto altra forma e sostanza, e che riprende il suo corso, arricchendosi di valori nuovi, diversi, più umani.
Altre due opere bresciane sono la Visitazione e poi la drammatica Decollazione del Battista del 1526, la prima più vicina ai modi del Moretto, se non altro per le vesti dalle lumeggiature metalliche; la seconda più aderente alle forme romaniniane, come dimostra la testa quasi totalmente sferica dell’uomo al centro e in secondo piano nella composizione; ma risente anche degli influssi veneti che vanno da Giorgione a Tiziano, da Palma il Vecchio a Bonifacio Veronese (M. Pavesi, 2015).
Della seconda metà degli anni Venti è anche il bellissimo Concerto oggi conservato a Philadelphia. Qui l’armonia della musica suonata con strumenti a fiato e a corda si riflette negli abiti e nei copricapi delle figure che occupano tutto lo spazio della tela. Le morbide curve dei cappelli eleganti sembrano seguire le note carezzevoli dei flauti, mentre gli sbuffi e le pieghe delle vesti accompagnano il ritmo pizzicato e dolce dei liuti. Le ombre e le luci, in questa affollata composizione dove i bruni e le terre dominano accanto ai bianchi, sembrano già essere quelle del primo Caravaggio, a cavallo tra Cinquecento e Seicento. Un altro Concerto, dello stesso periodo, compare tra le foto di Federico Zeri e sarebbe conservato a New York, ma pare che il grande studioso non fosse così certo della attribuzione al Piazza, nonostante i tipi umani raffigurati siano aderenti ai modelli del lodigiano.
Nel Martirio dei santi Gervasio e Protasio, il Piazza dimostra di essere stato con ogni evidenza suggestionato sia dal Vecellio sia dalle evanescenze del ferrarese Giovanni di Niccolò Luteri, (1489 - 1542, detto Dosso Dossi). Misterioso e onirico, colto e intelligente, inventore di mondi paralleli grazie a una mente simile a quella dell’Ariosto, Dosso dimostra come il mito, la religione, la storia e la favola possono convivere magnificamente nella dimensione della pittura contribuendo ad aumentare, accrescere, amplificare il reale oltre i confini del tempo, al di là degli orizzonti troppo stretti della contingenza; e Callisto Piazza in qualche modo eredita questa visione fantastica e fiabesca di Dosso, certamente letteraria, poetica, lirica, ma essa in lui non esplode come nel ferrarese e non sarà una componente determinante nelle sue opere, né sarà fonte di dubbi, di incertezze o di misteri intorno ai soggetti che egli rappresenta. Da questo punto di vista, si può dire che il Piazza resti fedele al gusto del vero e del naturale, tipico del resto dei lombardi, da Bramantino ai Campi, da Savoldo all’elegante Moroni, sino a Caravaggio e oltre. Nel Martirio, il cielo livido e cupo, dalle nubi gonfie e basse, la vegetazione rigogliosa sullo sfondo, i corpi possenti e maestosi dei santi e del carnefice, farebbero infatti pensare a un dipinto di Dosso, ma la corda che tiene legato san Gervaso al tronco d’albero, affondando nel suo braccio, e la testa esanime di san Protasio oramai staccata dal corpo e giacente al suolo, così come il sangue che tinge di rosso la terra battuta, tradiscono lo spirito di un pittore attento al dramma della realtà e alla verità delle cose.
L’attività di Callisto Piazza prosegue instancabilmente in Valcamonica, tra Esine e Breno. Nascono lavori magistrali come la Madonna col Bambino tra i santi Pietro e Paolo, due Deposizioni, la Vergine e santi. Nel santuario di Santa Maria del Restello a Erbanno, poi, eseguirà alcuni affreschi. Ma dopo questa prolifica e intensa esperienza bresciana, Callisto ritorna a Lodi, dove, coi fratelli Scipione e Cesare, porta a termine il polittico con la Strage degli innocenti, e comincia gli importanti lavori all’Incoronata, che dal 1530 si protrarranno sino al 1561 con alterne riprese; e quando Callisto morirà, nel ’62, l’impresa sarà portata avanti dal figlio Fulvio.
[caption id="attachment_11351" align="aligncenter" width="1000"] Callisto Piazza, Madonna con il Bambino tra i Santi Giovanni Battista e Gerolamo XXIII (particolare), Tempera su pannello, 1526.[/caption]
In questi anni realizza anche un’Assunzione per il duomo di Codogno, e in seguito sarà attivo a Milano, dove nella seconda metà degli anni Quaranta lascerà degli affreschi con putti in volo. Ad Azzate invece realizza il Matrimonio mistico di santa Caterina tra san Gerolamo e un donatore (1542). A Crema, per Santa Trinità, porta a compimento col fratello Scipione una Natività con santi e un Battesimo di Cristo (oggi a Brera), che rievoca Jacopo Palma il Vecchio (1480 - 1528) di Alzano Lombardo. Tra il 1548 e il 1551 è il polittico con l’Assunzione della Vergine per Santa Maria degli Angeli a Lugano, oggi smembrato tra sedi diverse e ricomposto per l’occasione in una mostra recente tenutasi a Rancate (Mendrisio) dedicata al Rinascimento nelle terre ticinesi. Bellissimo lo scomparto centrale, dove la Madonna e Cristo, nella parte alta della composizione, sorretti da una nuvola, sono accompagnati da angeli musicanti. Spicca il forte chiaroscuro dei panneggi di questi personaggi, in evidente contrasto con le vesti meno appariscenti della calca degli uomini in basso, che si agita introno al sarcofago mariano scoperchiato e oramai vuoto.
Al 1552 risale la pala con la Caduta di san Paolo per la Scuola Grande di San Paolo di Lodi, opera che in un certo senso segna una ulteriore e definitiva svolta nello stile del Piazza, ma si nota già una certa rilassatezza nelle forme che denota una altrettanta rilassatezza fisica e spirituale del pittore. La qualità dei lavori degli ultimi dici anni sarà infatti meno alta rispetto a quella che aveva caratterizzato la produzione precedente. Il Piazza dipinge sino alla fine, ma si capisce che ha perduto le forze. Nonostante sia stato in grado di rinnovarsi ogni volta, come Tiziano, e stare al passo dei tempi, non è però riuscito da vecchio a sbalordire con un tocco di genio, come invece farà il Vecellio, che nelle opere ultime, dipingendo con le mani, non solo prefigurerà l’impressionismo, ma anche l’informale. Callisto Piazza invece non ha più le forze per sollevarsi e ripete stancamente se stesso, non potendo più riprendere motivi da altri artisti. Si nasconde dietro la sua stessa maschera e si confonde solo con la sua stessa immagine. Non più seguace di Giorgione, di Pordenone o del Moretto, ma seguace della sua stessa gloria passata, quando sembrava essere uno, nessuno, ma anche centomila.
 
Per approfondimenti:
_Gaspare Oldrini, Callisto, Il Pomerio - 1990.
 
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

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di Michele Lasala 06/02/2018

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Romanino è un pittore composto, misurato, «bonissimo pratico e buon disegnatore», come scrive Vasari; ma anche bizzarro, fantasioso, innovativo. Nato tra il 1484 e il 1487 a Brescia, si forma tra la sua città natale e Venezia, guardando con molta attenzione il più intimo tra i pittori lagunari: Giorgione, rimanendone estasiato. La prima testimonianza della sua aderenza ai modi del maestro di Castelfranco è una vaporosa e poetica Madonna col Bambino (Parigi, Louvre), in cui tutto sembra così evanescente, così onirico: dalle carni alla verzura, dalle vesti al paesaggio che si apre sullo sfondo, un paesaggio che sembra per un momento evocare i paesi sognati da Klee. Ma già nel Compianto di qualche anno dopo, Romanino dimostra di aver appreso anche la lezione di Tiziano, e quell’intimismo di matrice giorgionesca si smorza quasi del tutto.
[caption id="attachment_9846" align="aligncenter" width="1012"] Girolamo Romani, detto il Romanino (Brescia, 1484 – 1562), è stato un pittore italiano.[/caption]
Dopo una breve sosta nell’Eremo di Sant’Onofrio a Bovezzo, dove esegue alcuni affreschi a contatto diretto con Altobello Melone, Romanino giunge a Padova nel 1513 e vi realizza la Pala di santa Giustina, un’opera che presenta delle affinità con la più nota Pala Martinengo di Lorenzo Lotto, realizzata a Bergamo tra i 1513 e il 1516. Una grande tavola, questa del Lotto, con cui il pittore introduce un linguaggio del tutto nuovo, mai visto prima, mai pensato in terra orobica: quello caldo e suadente della serenissima pittura veneziana, con l’aggiunta però di qualche elemento ironico e scherzoso, cifra inequivocabile della sua mano. E Romanino deve averla certamente osservata.
La Pala di Santa Giustina ha infatti uno schema simile a quello della pala lottesca. Due opere simili, somiglianti, ma quanto lontane l’una dall’altra! Tanto dinamica e giocosa quella del Lotto, quanto composta e concentrata quella del Romanino. Tanto libera nella sintassi la prima, quanto rigorosa la seconda. Lotto si permette di riscrivere la grammatica dell’iconografia tradizionale della sacra conversazione e risistema nello spazio della pittura, a proprio piacimento, tutti gli elementi. Gli angeli che sorreggono la corona non stanno semplicemente a mezz’aria, ma galleggiano attraversati da un fresco vento che muove le loro vesti leggere così come i loro capelli; la Madonna si scompone un po’ e con un gesto della mano cerca di tenere calma la folla di santi lì in basso; il Bambino si contorce e dà la benedizione quasi distrattamente a quei signori incappucciati e in maschera sotto di sé; san Sebastiano si distrae e languido ci guarda perché accortosi della nostra presenza; i puttini ai piedi del trono si divertono perché non riescono a sistemare il lenzuolo sul basamento di marmo bianco. Tutto questo manca nella pala del Romanino: la Madonna sta in alto pensosa sul suo trono; i santi sono concentrati, silenziosi, immobili, soli; gli angeli, ai lati della Vergine, sorreggono la corona e sembrano stanchi per le troppe ore di posa, senza poter batter ciglio né poter sgranchire le gambe; ai piedi del trono non ci sono puttini schiamazzanti, ma un angelo musico, dalle belle forme paffute, con in mano un tamburello che forse non ha mai suonato. Anche l’architettura, nella pala del Romanino, entro cui fanno la loro comparsa le figure, sembra troppo rigida, classica: memoria del Bramante milanese. In Lotto, invece, le forme architettoniche sono più morbide, e i pennacchi ben visibili in alto accompagnano con l’eleganza delle loro geometrie la lirica danza degli angeli.
[caption id="attachment_9847" align="aligncenter" width="1000"] Pala di Santa Giustina - Padova, Musei civici agli Eremitani. [/caption]
Romanino qui attinge a piene mani agli schemi della tradizione lombarda, e a un’aria colma di umori, tipicamente lagunare, preferisce così un’atmosfera più solenne, più aulica, più formale, dove il sacro rimane sacro e il profano resta profano. Senza possibilità di confondersi e di fondersi l’uno nell’altro. Romanino guarda sì Tiziano e Giorgione, oltre che al Lotto, ma in verità la sua pittura non sarai mai puramente tonale. L’accordo e l’equilibrio che Romanino cercherà di realizzare tra maniera lombarda e colorismo veneto avrà però esiti sorprendenti e inaspettati. La luce resterà per il pittore un elemento superficiale, capace di far risaltare la brillantezza delle stoffe e il metallo delle armature; e le scene saranno affollate da uomini analfabeti che parlano il dialetto; un variopinto repertorio di visi e di profili preso direttamente dalla strada. Così, se il Romanino nelle prime opere è composto e sobrio, quasi marmoreo, e dove le figure sono statiche quasi quanto le architetture, in quelle della maturità è popolare, vernacolare, al limite del caricaturale. E ciò lo vediamo chiaramente nei maturi affreschi realizzati nella chiesa della Madonna della Neve a Pisogne nella prima metà del quarto decennio, dove, nella scena della Crocifissione, una Maddalena dalle forme tozze e per nulla eleganti, e dal viso imbambolato, vacante e incantato, si aggrappa come fosse un koala alla croce, e pare fatta non di carne ma di gommapiuma; una marionetta. Si noti anche il gruppetto di quei balordi, all’estrema destra della composizione, che giocano ai dadi perché hanno scommesso qualcosa e sono stoltamente indifferenti al dramma che si sta compiendo.
Ma già negli affreschi del duomo di Cremona del 1519, il pittore acquisisce una certa libertà nell’esecuzione. Nel duomo cremonese, il carattere di Romanino si può rapportare a quello del manierista ed esplosivo Pordenone, che lavorerà nel medesimo luogo. Le sue storie della Passione di Cristo sono la perfetta antitesi di quelle del de Sacchis. Se Pordenone riempirà tutto lo spazio a disposizione con figure robuste e non lascerà respirare, colto da una sorta di horror vacui, Romanino preferisce spazi scanditi da classiche architetture, e fa uso di una luce chiara e cristallina per descrive meticolosamente le superfici degli archi e dei colonnati eburnei, così come per descrivere quelle dei corpi di ogni singola figura agghindata o seminuda. C’è molta verità in queste drammatiche scene del Romanino, e da buon lombardo quale è, egli si esprime senza alcuna reticenza; indugia, piuttosto, alla Dürer, sul più piccolo difetto riscontrabile nelle cose reali e lo accentua, ce lo fa vedere, non lo nasconde. Comprese le smorfie e le più meschine abitudini della gente rozza e popolana. Ed ecco allora il muschio, ora qua e ora là, deturpare romanticamente gli edifici; occhi curiosi affacciati ai parapetti per vedere fin dove la cattiveria dell’uomo arrivi; abiti alla moda e dalle pregiate stoffe occupare quegli spazi freddi che parlano solo di decadenza e di morte, e che sembrano abbandonati anche da Dio. E questo realismo, così schietto e così evidente, arriva a concentrarsi nello sguardo obliquo del Cristo alla colonna mentre viene flagellato. Solo Romanino poteva dare al Redentore un’espressione così umana. Veloce corre il pennello del bresciano in queste storie, come a voler rincorrere un pensiero subitaneo, un’idea improvvisamente spuntata nella sua testa accesa di immaginazione. Una rapidità che egli non perderà mai. In alcuni momenti della sua lunga e prolifica attività pare addirittura anticipare la pittura impressionista, ossessionato com’è nel catturare ogni attimo, ogni aspetto, ogni particolare, ogni variazioni di tono e ogni ombra della natura.
[caption id="attachment_9848" align="aligncenter" width="1000"] Il pannello illustra uno dei più famosi episodi biblici. Il Romanino, che ha affrescato la navata centrale del Duomo di Cremona illustrando le Storie della Passione di Cristo, ha però calato la scena in un contesto rinascimentale: la struttura architettonica che fa da sfondo e i costumi dei personaggi che animano l'affresco sono infatti di gusto cinquecentesco. La coppia di uomini nell'angolo sinistro sfoggia un particolare completo: l'ampio soprabito in damasco nero è forse una schaube, priva però di maniche. Le più miti temperature della penisola italiana permettono abiti smanicati e più leggeri, rispetto a quelli più pesanti visibili nei ritratti fiamminghi. Il taglio smanicato e scampanato della schaube, mette in mostra il saione rosso indossato dall'uomo dai capelli grigi. Le maniche lunghe e dritte, la gonna a pieghe lunga fino al ginocchio e il collo orizzontale e squadrato sono i tratti caratteristici di questo indumento maschile. Il saione è molto più lungo e coprente del tradizionale farsetto, motivo per cui gli uomini abbandonano le attillatissime calzebrache, preferendo ora delle più virili calzette, chiuse all'interno di un paio di scarpe a zampa d'orso. Lo scollo basso del saione permette alla camicia, accollata e sempre finemente lavorata, di essere vista. Il bianco della camicia, dell'orlo della gonna e del collo richiama il colore dei guanti, piuttosto insoliti in questa stagione della storia del costume. Un cappello con tesa rovesciata e legata sulla fronte completa il costume del personaggio. [/caption]
Dopo l’esperienza cremonese, Romanino è al fianco del Moretto per dipingere le tele della cappella del Sacramento in san Giovanni Evangelista a Brescia tra il 1521 e il 1524. E anche qui egli è drammatico e aspro. Poi saranno gli affreschi del castello del Buonconsiglio di Trento, negli anni Trenta, dove Romanino lavora accanto ai fratelli Dossi e al Fogolino, e dove la sua pittura vira finalmente verso una sensualità libera, sprigionata da quei corpi michelangioleschi che morbidi si stagliano sul cielo azzurro. Qui sono rappresentate diverse scene veterotestamentarie, Dalile e Giuditte alle prese con i loro Sansoni e Eoloferni. Figure gonfie d’aria che sembrano avere la stessa consistenza delle nubi.
Nella successiva tela con lo Sposalizio della Vergine, datata tra il 1540 e il 1545, quindi dopo l’esperienza in Valcamonica, Romanino ritorna alla sobrietà dei primordi, ma non rinuncia in alcun modo alla verità del dato naturale. Il momento è solenne, san Giuseppe e la sua sposa si scambiano sguardi profondi e colmi d’amore, eleganti le stoffe coi riflessi sulle pieghe, curiosi gli astanti. Sul margine sinistro della tela un ragazzo spezza sul ginocchio una verga, perché la sua non è fiorita come quella di Giuseppe e quindi non può sposare Maria. E tutte le teste, virili e muliebri, sono di una commovente bellezza.
Seguiranno, dopo questo Sposalizio, altri interessanti lavori tra Verona, Brescia e Modena. Sino agli ultimi anni Romanino esprimerà la sua poetica visionaria, instancabilmente. E l’ultima impresa sarà un affresco con la Predica di Gesù alle turbe in San Pietro a Modena nel 1557. Cinque anni più tardi Romanino si spegnerà, a Brescia, la città da cui tutto è partito e da cui ha avuto inizio la sua lunga e sorprendente avventura.
 
Per approfondimenti:
_Alessandro Ballarin, La salomè del Romanino - Bartoncello Arti grafiche;
_Giovanni Reale, Romanino e la sistina dei poveri a Pisogne;
_Piazzoli Angelo e Larovere Fabio, Romanino. Il testimone inquieto - edizioni 2016.
 
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di Michele Lasala 28/06/2017

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Con Cimabue si è soliti far iniziare la grande avventura della pittura italiana. È con questo artista che per la prima volta assistiamo a una vera rivoluzione iconografica, nonostante l'artista sia fortemente legato agli stilemi e al linguaggio dell’arte "grecula". Ma il probabile allievo di Coppo di Marcovaldo evidentemente ha qualcosa in più rispetto ai suoi contemporanei, ed è l’umanità che traspare dalle sue Madonne e dai suoi Cristi, inseriti all’interno di uno spazio pur sempre bizantino, arcaico, ma già caratterizzato da un leggero senso del volume. Questa la vera rivoluzione. Le Madonne di Cimabue sono donne che cominciano ad abitare un mondo che assomiglia già al nostro. Lo possiamo notare nella Madonna col Bambino in trono e due angeli (1300 ca.) in Santa Maria dei Servi a Bologna, dove la Vergine, elegante, delicata e malinconica, ci fissa stando seduta su un trono tridimensionale. Qui la prospettiva non è ancora quella di Paolo Uccello o di Piero della Francesca, quella di Brunelleschi o di Lorenzo Ghiberti; ma quella assonometrica che denuncia la mancanza di ogni regola matematica e geometrica, di ogni numero e misura.
Tuttavia, all'interno le figure si caricano di umanità: la Vergine non è più uno schema, ma un corpo che si muove; gli angeli sono capaci di provare passioni, e il Bambino comincia ad essere irrequieto, tanto da toccare la spalla della Madre quasi come a voler attirare la sua attenzione. Con Cimabue, dunque, la pittura sta per diventare racconto.
Più o meno negli stessi anni, il pittore toscano realizza uno dei testi più significativi della storia dell’arte italiana: la Madonna di Santa Trinita, dove continua a parlare sì un linguaggio antico, però dimostra allo stesso tempo una certa scioltezza, e non manca di modificare la sintassi degli elementi raffigurati per creare qualcosa di mai visto prima, mai concepito. Lo si può capire chiaramente dalla rappresentazione del trono su cui siede la Madonna col Bambino; una architettura complessa e originale tutta giocata sui pieni e sui vuoti, al punto da ricordare qualcosa di Borromini. In basso, il trono infatti presenta tre aperture, in cui sono disposte, come in un trittico, le figure di quattro profeti: Abramo e David nella cavità centrale, Geremia in quella di sinistra, e Isaia nell’apertura di destra. Ad ambo i lati del trono, invece, come a volerlo sollevare verso la luce celeste, una schiera di angeli dalle vesti leggere e dalle ali policrome. Essi rievocano quelli dipinti da Pietro Cavallini nel Giudizio Universale in Santa Cecilia in Trastevere a Roma (1293 ca.), ma rispetto a quelli sembrano essere meno materiali. Vere e proprie intelligenze galleggianti nella luce dorata di Dio.
[caption id="attachment_8963" align="aligncenter" width="1000"] Cimabue, pseudonimo di Cenni (o Bencivieni) di Pepo (Firenze, 1240 circa – Pisa, 1302), è stato un pittore italiano. Nella immagine centrale: La Maestà di Santa Trinita, 1290-1300 - 385×223 cm, Galleria degli Uffizi, Firenze; Pietro Cavallini: Giudizio Universale in Santa Cecilia in Trastevere (particolare), Roma 1293. [/caption]
Con Cimabue assistiamo a un primo, serio tentativo di rompere con la tradizione, poi sarà la volta di Duccio di Buoninsegna, che però allo spazio e alla forma preferirà la poesia della linea. Sulla sua Maestà del 1308-1311 per il Duomo di Siena valgono le parole di Longhi: «Guardate ora per un istante la rappresentazione sacra di Duccio: se vi cercaste spazio e forma, ancora una volta resterete delusi. Le mani della Vergine non sostengono il Bambino ma quale molle ondeggiamento è impresso, per tal modo alle dita! I santi e gli angeli non scortano e non hanno posizione nello spazio, ma, per questa ragione, quanto abilmente decorano tutta la superficie della tavola dall’alto al basso con uno svolgersi lento dal vertice della cuspide centrale. Tutto quello che ci appare deficiente come forma e come spazio riappare, per la stessa ragione, sovranamente delizioso come linea floreale». E in virtù di questa «linea floreale», tale perché ricorda «lo stelo incurvato dal vento» o «un’alga insinuata dalla corrente», Duccio risulta più lirico di Cimabue.
Ma ancor più lirico di Duccio e di Cimabue è Simone Martini, raffinatissimo fino all’inverosimile e capace di trasfigurare ogni cosa in pura essenza, in pura idea. Si pensi alla Annunciazione del 1333 (Uffizi), dove non compaiono né architetture né rocce e né paesi, perché ciò che a Simone interessa è rendere visibile alla mente ciò che agli occhi rimane invisibile: il dogma. Solo il vasetto coi gigli è un richiamo al mondo profano; tutto il resto appartiene allo spazio dell’assoluto, inaccessibile all’uomo. Simone è un pittore concettuale, utilizza la linea per creare non già storie, ma teoremi; non racconti, ma pensieri.
La sua Maestà in palazzo Pubblico a Siena, inoltre, riprende quella di Duccio, ma si trasforma in un ideale politico: «La Maestà di Simone Martini (1315) propone […] un’immagine riformulata in termini più esplicitamente politico-cerimoniali. Dopo l’esempio di Duccio, il soggetto richiedeva uno spazio larghissimo, una posizione centrale: il passaggio del tema dalla tavola all’affresco può spiegarsi anche così. […] Più scopertamente dunque la Civitas Virginis chiama la sua patrona nella sala del Consiglio del suo Palazzo Pubblico, circondandola degli stessi santi che la accompagnavano nel Duomo, sotto un larghissimo baldacchino sorretto da otto santi. […] Di regina coeli, com’era ancora nel Duomo […] Maria s’è fatta sovrana terrena, partecipa al Concistoro del Comune».
[caption id="attachment_8965" align="aligncenter" width="1000"] Simone Martini e Lippo Memmi: "L'Annunciazione tra i santi Ansano e Margherita", tempera e oro su tavola (305x265 cm), del 1333, presso gli Uffizi a Firenze. Si tratta di un trittico ligneo dipinto a tempera, con la parte centrale ampia il triplo dei due scomparti laterali. Considerato il capolavoro di Simone Martini, della scuola senese e della pittura gotica in generale, venne realizzato per un altare laterale del Duomo di Siena. Simone Martini: "La Maestà del Palazzo Pubblico di Siena", affresco (970x763 cm) che occupa tutta la parete nord della Sala del Mappamondo (detta anche Sala del Consiglio) del Palazzo Pubblico di Siena. L'affresco è datato 1315 ed è considerato una delle principali opere dell'artista, nonché una delle opere più importanti dell'arte trecentesca italiana. [/caption]
La vera rivoluzione dello spazio nella pittura del Trecento in Italia (e da qui poi in tutta Europa) si ha comunque con un pittore lontanissimo da Simone e opposto rispetto a Duccio: Giotto. Prima del grande maestro toscano infatti le forme sembravano delle silhouette ritagliate e inserite in un ambiente che aveva tutta l’aria di essere più ideale che reale. Giotto invece colloca i suoi personaggi, vere e proprie persone e non certo archetipi, all’interno di uno spazio architettonico e paesaggistico tratto dalla realtà, quella stessa realtà che il pittore vede coi propri occhi e sente nella sua anima, anticipando così il realismo di Masaccio. Uno spazio fisico, vero, vissuto. Tuttavia, Giotto non si limita a riprodurre fedelmente quello che osserva, ma cerca piuttosto di esprimere il senso delle cose, e conferisce inoltre agli oggetti più vari, alle rocce sullo sfondo di un paesaggio, ai cieli azzurri delle città e delle campagne, agli animali e agli uomini vestiti alla moda, una qualche identità. Tutto è per Giotto pieno di vita, perché tutto è frutto della creazione di Dio. Lo spazio che egli rappresenta è lo spazio fisico e mondano dove tutto ha il carattere del transeunte, perché con la Creazione del mondo ha avuto inizio anche lo scorrere del tempo. Giotto è stato ciò che Dante è stato in letteratura e Duns Scoto in filosofia.
Da Giovanni Boccaccio a Cennino Cennini, da Filippo Villani a Lorenzo Ghiberti, non c’è intellettuale tra XIII e il XIV secolo che non abbia visto in Giotto il rinnovatore dell’arte dopo una secolare decadenza cominciata con la fine dell’Impero romano. Il pittore toscano finalmente avrebbe liberato l’arte dalla «rozeza de’Greci», come scrive Ghiberti nei suoi Commentarii, alludendo egli alla stile dei bizantini, considerato appunto rozzo, vecchio, statico, per nulla gentile rispetto alla raffinatezza di quello “moderno”. Mentre Boccaccio – mettendo in rilievo il naturalismo del pittore – diceva nel Decameron che Giotto «ebbe uno ingegno di tanta eccellenzia, che niuna cosa dà la natura […] che egli con lo stile e con la penna o col pennello non dipingesse sì simile a quella, che non simile, anzi più tosto dessa paresse» sino a ingannare l’osservatore.
Questo naturalismo e questa capacità di conferire volume e spessore alle cose emergono con molta evidenza nella città più spirituale d’Italia, Assisi, e in particolare nel cantiere degli affreschi della basilica superiore di san Francesco, dove il giovane Giotto, assieme ad altri dotati maestri, come Jacopo Torriti, narra la storia del santo in una serie di riquadri che corrono lungo le pareti inferiori della chiesa. Ma le storie francescane sono solo una parte della decorazione ad affresco della basilica cui Giotto pose mano, perché accanto ai ventotto episodi della vita del santo, il maestro toscano dipinse con ogni probabilità anche le storie di Isacco. Sulla giusta attribuzione a Giotto di questo o quell’episodio la critica è ancora oggi divisa e il problema circa le storie da lui effettivamente dipinte rimane infatti tuttora aperto. Sta di fatto, però, che le maestranze che operarono nel cantiere assisiate cominciarono a parlare una lingua nuova nella pittura, giocando sul rapporto tra architettura dipinta e architettura reale, tra spazio vero e spazio raffigurato, e conferendo inoltre ai personaggi un certo espressionismo.
[caption id="attachment_8967" align="aligncenter" width="1000"] Giotto da Bondone: "Il Giudizio universale", affresco del 1306 circa e facente parte del ciclo della Cappella degli Scrovegni a Padova. Occupa l'intera parete di fondo e conclude idealmente le Storie. Viene di solito riferito all'ultima fase della decorazione della cappella e vi è stato riscontrato un ampio ricorso di aiuti, sebbene il disegno generale sia riferito concordemente al maestro. [/caption] Espressionismo che poi tornerà negli affreschi della Cappella degli Scrovegni a Padova, il luogo in cui ha avuto inizio veramente la pittura moderna e – oseremmo dire, senza alcun timore di smentita – il Rinascimento. Qui Giotto racconta lungo le pareti laterali dell’Arena le storie di Anna e Gioacchino, di Maria e di Gesù entro riquadri che sembrano quasi dei monitor; mentre nella controfacciata realizza il grandioso Giudizio Universale. Natura e architettura, in questi episodi, convivono in stretto rapporto con gli uomini e con le bestie. In tutte le scene gli ambienti sono descritti con estrema precisione, e la storia sacra entra in intima relazione con la dimensione del quotidiano; gli edifici infatti sono contemporanei a Giotto e i cieli e le campagne sono i medesimi che si possono vedere una volta usciti dalla cappella. Anzi si può perfino dire che i riquadri entro cui il pittore ha rappresentato magistralmente gli episodi biblici non siano altro che delle finestre da cui osservare, al di là delle pareti, ciò che sta accadendo proprio ora su questa e su quella roccia, sotto questo e quell’albero, o davanti a questa e a quella povera capanna. Spazio interno e spazio esterno non si confondono, ma comunicano, determinando una sorta di contemporaneità tra il nostro tempo e quello neotestamentario; come a voler suggerire che in fondo la storia di Cristo non appartiene al passato, ma al presente, perché è qualcosa che sempre accade e sta accadendo anche ora. La scena dell’Incontro alla Porta dell’Oro, dove Anna e Gioacchino si baciano fondendo i loro visi in uno solo, l’azione avviene davanti alla porta aurea della città di Gerusalemme alla presenza di alcune pie donne e di un pastore, che Giotto pone all’estrema sinistra del riquadro. Il ponte su cui Anna e Gioacchino si uniscono nell’amore è l’elemento che mette in relazione due mondi, due realtà: quello rurale dominato dal silenzio e dalla lentezza, e quello urbano fatto di rumori, suoni e innumerevoli voci. Due spazi che dialogano fra loro non soltanto grazie al medium architettonico, ma anche in virtù dei sentimenti, che dai genitori di Maria si ripercuotono nell’animo delle donne sotto l’arco e in quello del pastore con la cesta in mano poco più in là, a dimostrazione che l’umanità trascende le classi e unisce le vite di ciascuno in un unico corpo. In pochi centimetri quadri Giotto, in questo episodio come in tutti gli altri, è stato in grado di raccontare quello che uno scrittore come Pavese avrebbe fatto in un romanzo. Anche in Pavese la campagna e la città sono i luoghi dove si soffre e si ama, ma i tempi in cui tutto questo viene narrato sono più lunghi. In Giotto invece tutto accade nel presente. Qui e ora.
Il naturalismo di Giotto verrà immediatamente recepito dai pittori locali, e poi dai numerosi maestri lungo tutta l’Italia, dalle Alpi alla Sicilia, ma verrà declinato in molteplici maniere a seconda dell’area geografica o addirittura della città in cui si manifesterà, presentando così particolari e singolari inflessioni dialettali. E così la pittura riminese si distinguerà da quella bolognese, così come quella padovana da quella veneziana, quella milanese da quella fiorentina, quella napoletana da quella fabrianese, quella pugliese da quella sicula. I pittori riminesi, e più in generale i pittori emiliani, furono coloro che aderirono fedelmente al nuovo linguaggio codificato da Giotto, e in particolare a quello assisiate; ciò fu possibile anche grazie alla presenza del maestro toscano nella Chiesa di san Francesco a Rimini, dove egli lasciò una meravigliosa croce dipinta (1297-1305), caratterizzata particolarmente dalla potenza anatomica del Cristo.
Neri da Rimini dimostrerà di aver compreso la lezione giottesca, e lo farà nelle figure delle sue iniziali miniate, dove avrà modo di conferire eleganza e raffinatezza ai personaggi collocati entro spazi a metà strada tra il sogno e la realtà.
Ma ad aderire al giottismo ortodosso furono già Giuliano da Rimini e il cosiddetto Maestro del 1302. Quest’ultimo, negli affreschi realizzati nel Battistero di Parma, inerisce i personaggi all’interno di uno spazio in cui compaiono architetture moderne e cieli azzurri. Stessi spazi si ritroveranno negli affreschi dell’Abbazia di Chiaravalle della Colomba (Piacenza) di un anonimo maestro emiliano e poi in quelli di Sant’Antonio in Polesine a Ferrara, realizzati dal cosiddetto Primo Maestro di Sant’Antonio in Polesine. Mentre Giovanni da Rimini si spingerà più avanti; elaborerà infatti architetture più complesse e profonde per conferire maggiore verità alla scena rappresentata. È il caso della Presentazione al Tempio nella Chiesa di Sant’Agostino a Rimini, dove i personaggi «si collocano con straordinaria plausibilità fisica e spaziale sullo sfondo dello svettante colonnato del tempio, sul pavimento sostenuto da robuste mensole prospettiche di chiarissima ascendenza assisiate, in uno spazio intriso da un’atmosfera arcana e antichizzante, delimitato da due colonne tortili che sono tra le più belle di tutto il Trecento pittorico italiano». Nella medesima chiesa, nel 1315, invece, il cosiddetto Maestro del coro di Sant’Agostino (ma forse più verosimilmente la bottega dello stesso Giovanni da Rimini) realizzerà una scena alquanto concitata: il Terremoto di Efeso. Uno straordinario fotogramma che racchiude in maniera superba tutta la tragedia e la disperazione di una città che sta crollando a causa della forza tellurica della terra. Si vedono infatti gli edifici cadere a pezzi e frantumarsi; la gente disperata fuggire confondendosi coi muri colorati della città oramai distrutta. Una scena in grado di evocare le città cubiste di Picasso, dove l’ordine e la misura sono andati irrimediabilmente perduti.
Diversa e singolare maniera di declinare il giottismo oramai dilagante in tutta Italia è quella dello Pseudo Jacopino di Francesco, che dalla Natività e Adorazione dei Magi di Raleiht alla Crocifissione di Avignone, dalla Morte di san Francesco di Roma al Polittico con la Pietà e la Presentazione al Tempio di Bologna, pur aderendo a un certo naturalismo, pare non rinunciare allo sfondo dorato di marca evidentemente bizantina; così rocce, animali, architetture e uomini sembrano inseriti in uno spazio per così dire surreale.
Stesso discorso varrebbe anche per un altro interessantissimo maestro emiliano, Vitale da Bologna. La sua maestosa e monumentale Madonna dei denti (1345, Bologna, Museo Davia-Bargellini) siede elegantemente su un trono gotico, e potente si staglia su di uno sfondo bizantineggiante, che crea un forte contrasto col suo manto scuro. Vitale ha però conferito alla Vergine una certa volumetria e un ceto spessore, e ha così evitato di appiattire il blocco della Madonna col Bambino sulla astratta foglia d’oro. Inoltre ha dato vita alle figure: così il ricciolo Gesù tocca con delicatezza estrema il trasparente velo sul volto della Madre, e quest’ultima inclina la testa verso il Figlio guardandoci languidamente come se fosse stata dipinta da Modigliani. L’umanità di Vitale si riscontra, tra l’altro, in altri maestri lungo tutto il Trecento italiano, e numerose infatti sono le tavole a fondo oro con la Madonna e il Bambino piene di candore e tenerezza.
Bellissima la tavoletta di Nicolò da Voltri (conservata nella Chiesa di San Rocco a Genova), dove Gesù si tocca il piedino come se stesse grattandosi; un gesto che si ritrova anche in una tavola conservata a Francoforte del poeticissimo Barnaba da Modena. Per non parlare poi della Madonna col Bambino di Bernardo Daddi (1320, Pinacoteca Vaticana), o di quella di Maso di Banco del 1340, dove il piccolo Gesù sembra voler immergere la mano nella veste di Maria in corrispondenza del seno, oppure del Polittico di Badia (1295-1300, Uffizi) dello stesso Giotto, realizzato poco prima dell’impresa assisiate. In tutte queste tavole lo spazio è ancora astratto, luminoso, ma le figure acquistano movimento e vitalità.
Ritornando a Vitale da Bologna, possiamo affermare che se da un lato egli non si scolli completamente da una certa tradizione iconografica, non volendo rinunciare allo schema ormai consolidato della Madonna assisa su un trono stagliata su un uno sfondo oro; dall’altro lato, il maestro emiliano sembra assumere un atteggiamento di apertura nei confronti del nuovo, e negli affreschi dell’Oratorio di Mezzaratta le cose sembrano infatti cambiare nella direzione di un realismo tutto moderno. La scena della Natività è in effetti un tripudio di corpi colorati in movimento gravitanti intorno alla capanna, che occupa il centro della intera rappresentazione. Gli angeli danzano e suonano, mentre il bue e l’asino assistono incuriositi al grande evento sacro. San Giuseppe versa contorcendosi dell’acqua nella stessa bacinella dove Maria bagna le sue dita aristocratiche. L’atmosfera è animata, il clima è quello della festa; e le figure sono corpi che si muovono in uno spazio non più celeste e irreale, ma fisico e mondano. Vitale ha reciso finalmente ogni possibile legame col mondo bizantino, e la sua lingua non è più il greco ma il latino.
Così come latina e non più greca è la lingua parlata dai Lorenzetti. Pietro e Ambrogio avranno Duccio di Buoninsegna come punto di partenza, anche se poi le strade che essi seguiranno si allontaneranno dai dettami ducceschi, sino a raggiungere esiti originali. I loro rispettivi percorsi a lungo andare divergeranno e fu il grande Toesca nel 1951 a definire i due fratelli come «tra loro diversi ma uniti nell’orbita dell’arte gotica in cui ciascuno trovò il proprio cielo». E l’arte gotica è proprio quella nata con Giotto sotto il segno della rivoluzione spaziale: «Proprio l’atteggiamento nei confronti della rappresentazione dello spazio è uno dei tratti per cui i pittori della nuova generazione si distinguono più nettamente dal loro maestro [Duccio], sostituendo al suo sovrano disinteresse un’attenta ricerca» .
Nella Crocifissione del 1320 (San Francesco, Siena) questa attenta ricerca porta Pietro a dipinge un Cristo dalla anatomia fortemente accentuata inchiodato su una croce che è l’asse portante di tutta la scena. Ai piedi della stessa sono i corpi dolenti delle Marie e di Giovanni Battista, ma in alto, intorno ai suoi bracci, ruotano gli angioletti straziati dal dolore galleggiando in uno spazio fatto soltanto di aria. Il giottismo di Pietro però è già presente negli affreschi con le storie della Passione del 1315-19 nella Basilica inferiore di San Francesco ad Assisi. Nella scena della Cattura di Cristo «lo sfondo è dipinto con il tradizionale azzurro ultramarino che nella pittura murale medievale era equivalente al fondo oro delle tavole dei mosaici; tuttavia nel cielo notturno appaiono stelle a distanze irregolari, che riprendono l’effettiva disposizione delle costellazioni, mentre la falce della luna tramonta dietro un costone roccioso» . È questo uno dei primi e lirici notturni della storia dell’arte.
Più moderno di Pietro è Ambrogio, che raggiunge esiti di grande originalità nella resa spaziale degli ambienti che va dipingendo dalle tavole ai muri. Una ricerca ossessiva, quella di Ambrogio, che va verso la conquista dello spazio e che avrà come punto più alto gli affreschi sul malgoverno e sul buongoverno in Palazzo pubblico a Siena, realizzati tra 1338 e il 1339. Nell’affresco con gli Effetti del buongoverno in città e campagna viene rappresentata la turrita città di Siena, rielaborata dalla fantasia del pittore, coi suoi palazzi moderni, i suoi scorci e le sue mura merlate che la dividono dalla vasta campagna. Una città animata in cui tutto funziona come dovrebbe: c’è il maestro che impartisce la lezione ai suoi studenti all’interno di un’aula universitaria; dei muratori al lavoro; delle fanciulle che danzano a suon di tamburello; ma anche dei contadini raccogliere il grano nell’agro limitrofo. Lo studio, il lavoro, il gioco, nella loro reciproca armonia, sono l’effetto più immediato di una politica retta dalla Giustizia e dal Bene.
Diversi saranno invece gli scenari cinematografici, quasi da colossal, concepiti da Altichiero da Zevio, il più grande tra i veronesi. Si pensi alla magnifica e drammatica Crocifissione, realizzata insieme a Jacopo Avanzi, nella Cappella di San Giacomo della Basilica di Sant’Antonio a Padova tra il 1372 e il 1379.
[caption id="attachment_8970" align="aligncenter" width="1000"] Altichiero da Zevio: "La Crocifissione" è dipinta entro tre arcate, ma le diverse scene sono trattate come un unico spazio. Al centro la Croce, isolata in alto e contornata da angeli, ricorda il medesimo soggetto di Giotto nella Cappella degli Scrovegni, al pari del gruppo delle pie donne. Ma straordinario è il dispiegarsi della folla attorno al Golgota, con un campionario di stati d'animo e di scene di vita quotidiana che non ha paragoni in un soggetto del genere: soldati indifferenti, passanti, spettatori incuriositi o inconsapevoli, madri coi bambini alla mano, persone che commentano... e poi le scene secondarie, come quella degli sgherri che rientrano in città, o quella delle vesti tirate a sorte, il tutto con una tale vividezza che pare di trovarsi di fronte ad un vivido spaccato di una piazza trecentesca, con un'amplissima gamma di tipi umani e di atteggiamenti emotivi. [/caption]  
Ariose e complesse architetture, che sembrano ricostruite direttamente a Cinecittà, compaiono poi negli affreschi che Altichiero realizzerà qualche anno più tardi nell’Oratorio di San Giorgio, sempre a Padova. Si veda la scena coi Funerali di santa Lucia oppure la Decollazione di san Giorgio, dove le lance dei soldati anticipano quelle che si vedranno, circa settant’anni dopo, nella Battaglia di san Romano di Paolo Uccello. E anche il paesaggio sullo sfondo sembra anticipare, nelle rocce e nelle architetture, qualcosa della pittura quattrocentesca. È con Altichiero che lo spazio diventa il protagonista della narrazione; ed è con gli occhi di Altichiero che possiamo già vedere in largo anticipo le sperimentazioni di Masaccio e Piero della Francesca. Ma con Masaccio e Piero siamo già nel pieno Quattrocento.
Per approfondimenti:
_G. Ragionieri, Pietro e Ambrogio Lorenzetti, Dossier d’Art, Giunti, Firenze-Milano 2009;
_A. Tartuferi, I giotteschi, Dossier d’Art, Giunti, Firenze-Milano 2011;
_Cfr. M. Tomasi, L’arte del Trecento in Europa, Einaudi, Torino 2012;
_S.Settis, Iconografia dell’arte italiana. 1100-1500: una linea, Einaudi, Torino 2005;
_R. Longhi, Breve ma veridica storia della pittura italiana (intr. C. Garboli), Rizzoli, Milano 1994;
 
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di Michele Lasala 09/04/2017

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Il lungo percorso di riscoperta della pittura e della personalità di Artemisia Gentileschi inizia - se si esclude il contributo di Imparato del 1889 sull’«Archivio storico dell’arte» - nel 1916, anno in cui lo storico d'arte italiano Roberto Longhi – il quale ha avuto il merito di aver ridato ossigeno alla figura di Caravaggio, attraverso una grandiosa mostra dedicata al pittore lombardo al Palazzo Reale di Milano nel 1951, quando di Michelangelo Merisi si sapeva poco e niente – scrive un articolo per la rivista "Arte", dal titolo "Gentileschi padre e figlia". In questo breve scritto Longhi ci dice che Artemisia fu: «L’unica donna in Italia che abbia mai saputo che cosa sia pittura e colore, e impasto, e simili essenzialità […] nulla in lei della peinture de femme che è così evidente nel collegio delle sorelle Anguissola, in Lavinia Fontana, in Madonna Galizia Fede, eccetera».
[caption id="attachment_8378" align="aligncenter" width="1000"] Nella foto di sinistra: Roberto Longhi (1890 – 1970) è stato uno storico dell'arte italiano. Nell'immagine di destra: Amerigo Bartoli, ritratto di Roberto Longhi. [/caption]
Questo scritto rappresenterebbe il «primo serio tentativo di analizzare la produzione dell’artista nel più vasto contesto del caravaggismo e, soprattutto, di tentare una prima, accurata distinzione delle opere della figlia rispetto a quelle del padre» . Dall’articolo di Longhi ad oggi numerosi sono stati gli studi condotti sulla figura e sulla produzione di Artemisia. Accanto a questi non mancano biografie romanzate e film che raccontano il percorso artistico ed esistenziale della pittrice. E non sono mancate le mostre a lei dedicate. Tra le più recenti, quella parigina del Museo Maillol, nel 2011, e quella pisana del palazzo BLU, nel 2013. E oggi si ritorna a parlare dell’artista romana grazie alla mostra Artemisia Gentileschi e il suo tempo, aperta al Palazzo Braschi di Roma sino al prossimo 7 maggio (a cura di Nicola Spinosa, Francesca Baldassari e Judith Mann); esposizione che mette in relazione la produzione della Gentileschi coi grandi nomi della pittura italiana e europea, ripercorrendo un arco cronologico che va grossomodo dal 1610, anno in cui muore Caravaggio e in cui Artemisia realizza la Susanna e i vecchioni, al 1652, anno in cui la Gentileschi si spegne a Napoli.
[caption id="attachment_8381" align="aligncenter" width="1000"] Situato nel cuore rinascimentale di Roma, tra Piazza Navona e Corso Vittorio Emanuele II, palazzo Braschi viene progettato dall'architetto imolese Cosimo Morelli (1732-1812) per incarico di Papa Pio VI (1775 - 1799) che vuol farne dono al nipote, Luigi Braschi Onesti.[/caption]
Lungo il percorso espositivo della mostra romana è possibile pertanto ammirare un ampio repertorio di dipinti, dalla Giuditta di Paolo Borghese Guidotti alla Cleopatra di Antiveduto Gramatica, dal Giuseppe e la moglie di Putifarre del Cigoli al Battista di Nicolas Regnier, dalla Maddalena di Ribera al magnifico Noli me tangere di Battistello Caracciolo, dalla Giuditta di Andrea Vaccaro alla bella Santa Lucia di Cavallino, dalla Lucrezia di Simon Vouet al Cristo e l’adultera di Paolo Finoglio, sino al Tobiolo dell’olandese Hendrick Van Somer, per un totale di 95 opere. Un percorso che restituisce al visitatore non solo l’itinerario che effettivamente Artemisia ha compiuto lungo la sua vita – da Roma a Firenze, da Genova a Londra e poi Napoli – ma offre anche la possibilità di cogliere le evidenti influenze che gli artisti, tutti diversi fra loro, hanno vicendevolmente subito, rompendo così per la prima volta, mossi anche e soprattutto dalla forza del dilagante caravaggismo, i confini territoriali d’appartenenza e dando vita a una pittura per così dire “europea”. Il caravaggismo infatti è stata «una grande febbre» che ha attraversato «i corpi e le menti di tutti i pittori moderni tra il 1600 e il 1630 con esiti spesso sorprendenti» .
Tra le opere della Gentileschi esposte, oltre che alla già ricordata Susanna e i vecchioni, è presente il magnifico Ritratto di gonfaloniere di Bologna, quadro del 1622, e le due versioni di Giuditta che decapita Oloferne.
Il misterioso gonfaloniere ritratto da Artemisia sarebbe con molta probabilità Costanzo di Giasone. Sino a qualche anno fa l’identità dell’uomo raffigurato era però quasi del tutto sconosciuta, anche se ci fu chi tentò di identificare l’uomo con un membro della famiglia Pepoli, nonostante lo stemma che compare sul tappeto accanto all’uomo – come ravvisò Giovanni Papi – non sia quello della grande casata bolognese. Oppure chi, come Bassel, vide nel gonfaloniere il nobile genovese Pietro Maria di Cesare Gentili. Il ritratto, ad ogni modo, «è potente e riesce a esprimere con ammirevole efficacia l’energia militaresca: ciò deriva con ogni probabilità dall’abilità della pittrice nel rappresentare la figura come una massa di forza al centro di un volume ben definito […] dall’uso di toni diversi dello stesso colore ocra scuro, mentre il resto della composizione sembra inscritto nella luce, che divide il pavimento dal muro e circonda, ammanta ed esalta il gonfaloniere tra la sua stessa ombra e il tavolo adombrato».
[caption id="attachment_8383" align="aligncenter" width="1000"] Artemisia Gentileschi, Giaele e Sisara (particolare), 1620. Museo di Belle Arti di Budapest[/caption]
La Giuditta che decapita Oloferne invece è l’immagine – in accordo con quanto già affermato anni fa da Judith W. Mann – cui maggiormente si lega il nome di Artemisia. In effetti questa rappresentazione non soltanto manifesta la grandezza della pittrice dal punto di vista stilistico e formale per il raggiunto caravaggismo, ma esprime anche la sua tormentata psicologia, perché Artemisia qui arriva a dare al volto di Giuditta il suo stesso volto, e al volto di Oloferne morente nella sua ultima notte quello di Agostino Tassi, il pittore – amico del padre e suo stesso maestro – che nel 1611 la stuprò. Artemisia dipinse, come si è detto, due versioni della Giuditta, una nel 1612-13, conservata al Capodimonte, e l’altra nel 1620, conservata agli Uffizi; e in entrambi i casi si ha quasi la sensazione di avere davanti agli occhi una istantanea fotografica di quello che poteva essere il desiderio che animava la pittrice in quegli anni turbolenti: decapitare il Tassi per il male che le aveva fatto.
artemisa-gentileschi2 Nel dipinto di sinistra viene rappresentato "Giuditta e Oloferne" un olio su tela (145x195 cm) realizzato nel 1599 circa dal pittore italiano Michelangelo Merisi detto Il Caravaggio. Segue centralmente il dettaglio della decapitazione di Oloferne. Nel dipinto di destra viene mostrato "Giuditta che decapita Oloferne" dipinto a olio su tela (199x162,5cm) realizzato nel 1620 circa dalla pittrice italiana Artemisia Gentileschi. È conservato nella Galleria degli Uffizi di Firenze.
La scena della decapitazione avviene in un ambiente indistinto. Una luce proveniente da sinistra illumina violentemente l’azione del delitto nel momento più drammatico, nel momento cioè in cui Giuditta ha già operato il primo taglio sulla gola di Oloferne e il vivido sangue del tiranno comincia a sgorgare macchiando le bianche lenzuola del suo letto. Oloferne si dimena disperatamente, ma viene subito bloccato da un’altra donna, la fantesca Abra, complice segreta di Giuditta. E l’assassinio si compie in un tempo brevissimo, in pochi secondi. Quello che la Gentileschi ha immortalato in questa drammatica scena è un momento cruciale, perché è l’attimo in cui Oloferne non è né vivo né morto, al punto da evocare la famosa foto di Robert Capa Il miliziano morente, dove un soldato, appena colpito da un proiettile, sta per cadere al suolo ed è tra la vita e la morte. Nella versione degli Uffizi, dove l’eroina biblica indossa una sontuosa veste giallo oro, Artemisia firma il suo capolavoro sulla spada insanguinata di Giuditta. «EGO ARTEMITIA/LOMI FEC.», vi si legge: Artemisia Lomi, come la pittrice firmava le sue opere durante il soggiorno fiorentino, e non Gentileschi, quasi a voler suggerire una rinascita, dopo gli anni inquieti che seguirono la violenza patita. L’oltraggio viene così «riscattato conquistando con nome luminoso nella pittura, senza imbarazzi e timidezze, se pensiamo che Lavinia Fontana, poco prima di lei, si sentiva così limitata da firmare, conquistato qualche riconoscimento, le sue opere “Lavinia figlia Prospero”, continuando a riprodurre il nome del padre come se in esso fosse scritto il suo destino. Artemisia avanza con il proprio nome, rinnega il padre. Si afferma prima di tutto come eroina della pittura; è, anzi, un pittore che non dipende, che non deve chiedere niente a nessuno. Solo in ambito caravaggesco poteva nascere una figura di tale forza e con tale volontà di affermazione» .
A Firenze, giunta alla corte del granduca Cosimo II col marito Pietro Antonio Stiattesi subito dopo il processo che seguì allo stupro, la pittrice romana vuole infatti dimostrare di essere una donna nuova, e riprendersi quella dignità che aveva quasi del tutto perduta a causa della troppa ignoranza e delle malevoli lingue di quanti la vedevano oramai soltanto come una donna di facili costumi. E armata di autentico talento e profonda passione, finalmente Artemisia può ricoprire quel ruolo che le era stato troppe volte misconosciuto, troppe volte negato: quello di vero maestro. Gigante tra i giganti sulla scena artistica del suo tempo.
 
Per approfondimenti:
_Susan Vreeland, La passione di Artemisia - Edizioni Beat
_Autori vari per catalogo mostra, Artemisia Gentileschi e il suo tempo - Edizioni Skira
_Donatella Bindi Mondaini, Il coraggio di Artemisia. Pittrice leggendaria - Edizioni El
_Roberto Longhi, Gentileschi padre e figlia, Edizioni L’arte
_T. Agnati, Artemisia Gentileschi, Dossier d'art n° 172, Edizioni Giunti
_Vittorio Sgarbi, Il fuoco di Caravaggio, in Caravaggio e l’Europa. Il movimento caravaggesco internazionale da Ca-ravaggio a Mattia Preti, catalogo della mostra
 
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