Nel campo dell’antropologia dedicata al concetto di morte, strutturato secondo un complesso sistema di segni e simbologie, assumono un importante ruolo le lacrime, in quanto rappresentano il “linguaggio della tristezza” e simboleggiano questo legame che si instaura tra i vivi che permangono, e i morti che passano verso una condizione di non-presenza. Una simbologia, quella delle lacrime, che rimanda all’importanza che ha il lamento funebre, in quanto lamento meramente sociale che collettivizza un dolore che nasce come individuale.
Il pianto rituale, che costituisce il “lamento funebre”, risulta essere un rito antichissimo che affonda le sue radici in un periodo storico precedente al Cristianesimo, diffusosi in tutta l’area mediterranea. Sul tema del cordoglio e della crisi spirituale-psicologica che l’uomo vive durante la vita, Ernesto De Martino (1908 – 1965) porta avanti una lungimirante analisi. L’autore, in morte e pianto rituale (1958), evidenzia come la crisi vissuta dall’individuo, dopo la scomparsa di un caro, sia elemento costitutivo della natura umana. La crisi del cordoglio genera forme comportamentali che vanno a rappresentare una forma di negazione di un comportamento considerato umanamente “normale”. Queste forme comportamentali a-normali, potrebbero far sfociare il soggetto, che vive il dolore in prima persona, in una follia imperante identificata con la vendetta. Quando De Martino parla del concetto del “far morire i morti in noi” , si riferisce a una pratica interiore ed ideale abbastanza faticosa. Essa si può manifestare in forme anche improprie ed è qui che subentra l’esempio della vendetta, che veicola il soggetto accecato dal dolore e dalla rabbia verso il voler vendicare il morto. Su questo frangente verte il richiamo al Patroclo di Omero, ucciso dal re troiano Ettore, il quale viene vendicato da Achille che non troverà pace finchè non avrà ucciso il carnefice di suo cugino. Tale richiamo all’Iliade di Omero, serve a De Martino per spiegare come nell’oggi un comportamento folle e psicotico, in quanto privo di razionalità, come la vendetta, non potrebbe trovare uno spazio nell’etica universale e dunque non potrebbe essere considerato come “normale”. Il lamento funebre dunque rappresenta una pratica che “preserva” l’individuo dalla possibilità di assumere quei comportamenti anormali. La tipologia del pianto rituale consta di una particolare tecnica costituita da un codice linguistico che designa l’intenzionalità dell’azione rituale in sé , intesa come uno strumento per trasmettere significati. Quest’ultimi codificano il prodotto finale del rito che viene rappresentato da questa generale pratica che serve a preservare l’individuo. In questo modo il rituale diventa un modo per riplasmare culturalmente lo strazio naturale prodotto dal fenomeno . Questa tecnica risulta essere anche un modo per conservare una tradizione che si ricongiunge con i valori morali che la crisi del cordoglio potrebbe potenzialmente compromettere. De Martino elabora quest’analisi evidenziando l’aspetto rituale che si accosta a questo controllo che bisogna avere nei confronti del patire e che nel pianto collettivizzato si concretizza come ritualizzazione delle pulsioni vitali dell’individuo. Come se l’intenzione fosse quella di rendere docile e plasmabile l’impeto di chi in prima persona viene attraversato dalla perdita dell’individuo caro. Qi si dipana un conflitto tra intenzionale (razionale) e non-intenzionale (irrazionale), che viene manipolato dalle regole di un rito che plasma la coscienza. Questa da una condizione incontrollata viene trasformata e riplasmata su forme controllate. È ulla scia di questo senso che il lamento funebre rappresenta una pratica che “preserva” l’individuo. Vi è un rapporto tra cultura e natura, in cui la prima, intesa come insieme di regole che costituiscono la tradizione di un popolo, ha “potere” sulla natura dell’individuo, intesa in questo specifico caso come l’insieme dei fatti emotivi che lo compongono al livello psicologico. Il rischio della mancata negazione e trascendenza del delirio post-trauma, delinea la tipica situazione da crisi del cordoglio. La circostanza in cui bisogna elaborare il lutto deve essere sedata e accompagnata, poiché nell’elaborazione del lutto occorre un duro travaglio interiore che permette di giungere alla razionalizzazione di quella forma di assenza totale che risiede nella morte. In De Martino l’assenza totale è il limite estremo della crisi generata dal cordoglio. In Sud e Magia (1959) De Martino spiega come la fascinazione, la fattura e i riti magici, sono tutti elementi che servono come argine all’orizzonte della crisi che il cordoglio genera negli individui. L’autore evidenzia come i vicini del defunto, attraverso la costituzione del rito, riescano a combattere la temibile conseguenza della crisi che si identifica nel concetto di essere-agito-da. Nell’orizzonte della crisi viene smarrita una potenza che identifica l’uomo, ovvero, il suo esserci nel mondo, come soggetto individuale capace di scegliere e agire secondo valori da lui stesso collaudati. Nella crisi del cordoglio si presenta un fenomeno ambiguo che priva l’uomo di se stesso, portandolo ad essere manipolato da qualcosa di esterno, per l’appunto ad “essere-agito-da” per dirla nei termini utilizzati dall’autore. Dunque l’uomo, che vive il dramma psico-fisico del dolore, viene privato della sua personalità nella sua totalità, perdendo quella facoltà che gli conferisce di essere l’unica causa di se stesso. De Martino si sofferma su una tematica che rispecchia il fenomeno in questione: il “sentimento del vuoto”. Il vuoto interiore e psichico che la crisi del cordoglio genera, rappresenta un problema non soltanto per il soggetto in questione che, estraniato e spaesato, non coglie il fatto di essere dominato da un delirio, ma anche per la realtà che lo circonda, costituita da persone e situazioni che diventano spettatori della follia imperante. L’ortodossia verso le pratiche rituali risulta essere quella garanzia per preservare il soggetto estraniato. Quest’ultimo vive una condizione di oblio interiore che lo porta a consapevolizzare che l’essere-agito-da è in atto e non è più arrestabile per suo volere, ma soltanto attraverso l’aiuto di qualcuno che sta al di fuori di sé.
De Martino mette sullo stesso piano delle malattie mentali, quella crisi generata dal cordoglio poiché in quest’ultimo stato l’uomo può essere ugualmente condotto a commettere qualcosa che razionalmente non farebbe, se non nella condizione estrema dell’essere-agito-da. Condizioni come queste possono essere combattute attraverso vari modi per espiare il dolore, come sentimento del vuoto interiore, che poi sfocia nell’estremismo di questo fenomeno che vede il soggetto sofferente manipolato da pulsioni irrazionali. Quest’ultima un’esperienza che nell’universo del rito popolare consta di varie tappe come per esempio la vestizione del morto, l’accensione di candele per illuminare il viaggio dell’anima e il pianto rituale che rappresenta il momento più catartico del rito. La fatica a cui si alludeva precedentemente, riguardo alla pratica interiore di ciò che De Martino chiama “far morire i morti in noi”, risiede in questa estrema difficoltà che vive il soggetto nel razionalizzare che non deve assolutamente perdere il controllo consapevolizzando quel passaggio di status interno alla perdita. Una continua lotta tra razionale e irrazionale, dove l’individuo non deve perdere il compito che gli conferisce la qualità di uomo, ovvero, quella di essere un ente che agisce secondo propri valori e scelte. De Martino delinea una mappa del fenomeno nella sua totalità, costituita dal cordoglio con le sue possibili conseguenze, dal lamento funebre e dalla vestizione del corpo del defunto, evidenziando l’aspetto protettivo che tale rituale assume per gli individui colpiti. Un medium tra chi consapevolizza il fatto di essere stato colpito dal dolore e chi invece ha il compito di arginare quella crisi che attacca la psicologia di quell’individuo che deve razionalizzare e consapevolizzare.
Nel rituale si incorpora una tipologia specifica di linguaggio simbolico che si discosta dal linguaggio ordinario e parlato. Quando precedentemente parlavamo del “linguaggio della tristezza”, riferendoci alle lacrime, si intendeva dire che per l’appunto all’interno di esso si instaura un sistema di significazioni che rimandano a un comportamento convenzionale teso a comunicare come prodotto finale ciò che identifichiamo con il superamento della crisi del cordoglio. A tal riguardo sono di particolare importanze le cosiddette “prefiche”, figure che nell’universo folklorico del Meridione italiano, zona territoriale che ha interessato le ricerche più importanti di De Martino, sono state ampiamente analizzate da quest’ultimo. Le prefiche erano delle lamentatrici, appositamente ingaggiate per piangere durante il rito funebre. Rappresentano, o per meglio dire rappresentavano, delle figure “professionali” che erano adibite all’accompagnamento del dolore patito dai sopravvissuti della comunità di fronte al lutto per la perdita di un individuo caro. Alcuni studi hanno definito il ruolo delle prefiche come una vera ipocrisia convenzionalmente e socialmente accettata, poiché si tratta di donne che non sono imparentate con il morto e che sono estranee a un coinvolgimento diretto nella morte, ma De Martino, al contrario di questa tesi, vede nella figura della prefica una forma culturale, che non soltanto deve essere protetta, ma che allo stesso tempo racchiude una funzione importante, in quanto appartiene a un orizzonte su cui si dipana la tradizione. Nell’ottica dell’autore, che ha compreso che il rito funebre non soltanto rappresenta un elogio della tradizione, ma è anche una forma di salvaguardia per chi viene colpito dalla perdita di un caro, le prefiche devono piangere quasi forzatamente affinchè venga costituita un’atmosfera ideale per giungere al superamento del cordoglio. Per tale ragione nelle tradizioni di quei luoghi dell’entroterra dell’Italia Meridionale, quando si parla di prefiche si sta indicando ciò che un tempo fu una professione. Era delle figure che accompagnavano il rito ed erano pagate appositamente per vivere il dolore di quell’atmosfera. Esse rappresentano un aspetto del culto della morte nato nei tempi antichi e che si è poi sviluppato per tutta la storia nell’avvenire. Agli occhi di De Martino le prefiche sono espressioni culturali da salvaguardare e proteggere di fronte all’incombere del progresso tecnologico che tende più che altro a etichettare come obsoleto ciò che rappresenta lo scenario delle tradizioni popolari. Il loro piangere, il loro gettare urla di dolore, il loro percuotersi il petto di fronte al corpo del defunto, sono tutti dati che fanno capo al loro compito di essere mediatrici della ritualizzazione del pianto. Non dovrebbe assolutamente essere permesso che tratti così caratteristici di una tradizione fossero estinti dal processo evolutivo dei tempi. De Martino, dunque, è in quest’ottica che fa un quadro dei riti funebri, evidenziando come essi, praticati secondo ortodossia, rappresentano delle tecniche di protezione reale dell’individuo che si appresta a un necessario superamento del fenomeno della morte.
«Perché non avete il coraggio di fare veramente di voi stessi, completamente e in ogni caso, il centro, la cosa fondamentale?» Max Stirner, L’unico e la sua proprietà.
Questi sviluppano le loro teorie in un contesto socio-politico che ha segnato la storia del Novecento. È l’Europa della Seconda Guerra Mondiale, dell’avvento dei totalitarismi, della crisi della ragione che produce scempi come la Shoah e Auschwitz, l’epoca dello sviluppo tecnologico mosso dall’incombere di un capitalismo pervasivo portato all’eccesso. Un periodo storico in cui agisce Adorno e la scuola di Francoforte tutta, in cui le contraddizioni diventano l’essenza che è alla base della vita della società. Nell’ottica critica di Adorno, queste contraddizioni non possono essere superate solo attraverso l’approccio neopositivista nei confronti della realtà. Adorno critica al neopositivismo di fermarsi solo alla manifestazione dei fatti, quasi come se l’obiettivo finale nella ricerca della verità fosse la superficie delle cose. Nel momento in cui si parla di contraddizioni che costituiscono il reale sembra quasi illogico l’arrestarsi di fronte a un fenomeno senza che ci sia una decostruzione dell’essere in sé, criticando ai neopositivisti proprio questa legittimazione del reale. Le contraddizioni sociali, politiche, etiche della realtà che viviamo possono essere messe in risalto, quasi come se ci servissimo di una lente di ingrandimento, unicamente dal metodo dialettico. Sono propriamente queste le tesi che Adorno sostiene e difende al Congresso di Tubinga nel 1961. Nella Logica delle scienze sociali, entra in conflitto con i neopositivisti e in particolar modo con Karl Popper, il quale sosteneva che la scienza e la sociologia non potevano essere analizzate attraverso un metodo differente da quello deduttivo tipico appunto di ogni scienza. Adorno in contrapposizione alle tesi di Popper, evidenzia come il metodo dialettico fosse alla base di una corretta analisi del sistema sociale, poiché soltanto attraverso tale metodo potevano essere messe in risalto le contraddizioni del mondo reale e riuscire così a risolverle.
[caption id="attachment_8533" align="aligncenter" width="1280"] Sir Karl Raimund Popper (Vienna, 28 luglio 1902 – Londra, 17 settembre 1994) è stato un filosofo e epistemologo austriaco naturalizzato britannico.[/caption]La dialettica adorniana si ritrova, dunque, ad essere definita come “negativa” per questa sua caratteristica peculiare di avere l’intenzione di smascherare il contraddittorio senso della realtà sociale e di mettere in luce la magmatica mole deteriorante di contraddizioni che lacerano l’uomo. La negatività in questione è rappresentata da una realtà che è costituita da contraddizioni etiche e morali contemporaneamente. Risulta così essere l’incarnazione di quel “non-identico” a quell’identità originaria priva di contraddizioni. Alla base di tale critica, nel tentativo adorniano di istituire un metodo di indagine vi è la soggettività dell’individuo che ha trovato il suo crollo in un universo oggettivato dal capitalismo più imperante. Una dialettica negativa, che per dirla con Gramsci diviene filosofia della prassi che scova l’assenza di logica. La critica che Adorno muove al neopositivismo trova le sue radici in questa concezione di ricerca della verità che risiede unicamente nella dialettica, dunque, logicamente non può essere accettata dal filosofo una metodologia come quella dei neopositivisti che si basano unicamente sulla descrizione del fatto per come è e non giungono all’essenza e al perché di quel determinato fatto. In un contesto sociale come quello in cui vive Adorno, un’Europa sbiadita dal terrore, dalle strategie di tensione, dagli uomini di potere che dominano la ragione e la utilizzano come strumento per esercitare il male più oscuro, un’Europa dilaniata dalla disperazione causata dai totalitarismi, da un capitalismo pervasivo e subdolamente orwelliano che atomizza la società rendendo gli individui solo tasselli uguali di un mosaico illogicamente strutturato, questo è il compito di una scienza sociale che attraverso la dialettica, identifica e localizza le negatività che contraddicono l’identità originaria di un sistema che risulta essere l’ultimo prodotto di uno sviluppo senza progresso di un male. Quella del neopositivismo, che per Adorno, dunque, legittima la realtà per come essa è e si presenta, non poteva che essere considerata una filosofia al servizio del sistema da combattere.