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di Maurilio Ginex 09/09/2018

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Nel mondo magico esplorato da Ernesto De Martino (1908 - 1965) la crisi esistenziale, alla quale l’uomo viene continuamente esposto, rappresenta una forma di negativo che viene fronteggiata attraverso l’utilizzo del rituale magico.
Un elemento caratterizzante della crisi che invade l’uomo e lo rende inerme di fronte al negativo è rappresentato da ciò che l’antropologo napoletano, attraverso le analisi lucidissime a riguardo condotte da Pierre Janet (1859 - 1947), chiama «sentimento del vuoto».
Quest’ultimo identifica la totale perdita di rapporto positivo tra coscienza e volontà al fine di decidere per sé ciò che, su una scala di valori consolidata e collaudata, è giusto o sbagliato commettere. Nel momento in cui l’uomo si ritrova all’interno di una condizione critica, in cui non è più lui ad essere padrone di se stesso, ma diventa un’entità esterna, allora quel sentimento porta a allo sprofondamento l’uomo in quel vuoto in cui si riveste una condizione, totalmente negativa, che l’autore identifica con «l’essere-agito-da», cioè essere mosso da un’entità esterna che ti ripone in una posizione subalterna ad essa e che causa una crisi psicologica quasi irreversibile.
Su questa traccia, da cui emerge quest’orizzonte di crisi, la magia svolge un ruolo determinante, poiché ritrae quell’àncora di salvataggio in cui la finitezza dell’umanità può ancora avere speranza e giungere a un miglioramento di una determinata condizione vissuta. La spersonalizzazione e il sentimento del vuoto verso cui l’uomo si imbatte a causa di determinati e specifici traumi - come ci dimostra l’avvenimento luttuoso -, mettono in scena una serie di resistenze di cui, all’interno dell’universo magico, l’uomo si arma per fronteggiare l’orizzonte della crisi totalizzante.
Su questo livello si intrecciano l’esistenzialismo e l’analitica dell’esserci, che Martin Heidegger (1889 - 1976) ha sviluppato nel suo capolavoro Essere e tempo (1927), con ciò che è stata l’etnologia di De Martino. Il rapporto che intercorre tra i due, inizia a scorgersi a partire dall’ultima risposta di De Martino all’interno dell’antropologia, con termini mutuati dal linguaggio del filosofo tedesco. Concetti come «crisi della presenza» ricorrono all’interno delle analisi dell’orizzonte metastorico del magico Sud Italia. De Martino, nella decostruzione di questo mondo e nell’osservazione di ciò che quell’orizzonte di crisi genera, evidenzia come la vita, subalterna alla cultura egemonica che lo tratta come diversità da trascendere, sia continuamente esposta a quello che viene definito come «rischio radicale».
Per Heidegger l’esserci dell’uomo rappresenta lo «stare al mondo», o per dirla con il suo linguaggio, identifica un «essere-nel-mondo» (nota1), parlando così di esistenza, in quanto l’uomo viene gettato nel mondo con la capacità identificativa per la sua ontologia di progettare la sua vita nella realtà vissuta.
Nel momento in cui De Martino parla di presenza dell’uomo e di collaterale crisi di tale entità, si riferisce al rischio che quell’esistenza, che nel tedesco non subisce minaccia, corre continuamente. Per l’antropologo partenopeo la vita dell’individuo è continuamente esposta al rischio di una frattura della stabilità apparente: per cui il mondo magico, con le annesse categorie di interpretazione della realtà, esprime il modo più adatto per fronteggiare quella crisi che l’individuo potrebbe vivere e da cui potrebbe scaturire il crollo.
Dunque, nell’atto pratico, l’importanza del rituale (magico) risiede in questa intenzionalità, da parte del gruppo di appartenenza o della comunità, di far recuperare all’individuo la sua coscienza e la sua volontà, le quali, nell’ottica di un esistenzialismo applicato al mondo magico e a tutto ciò che comporta, devono ritrovarsi in un rapporto dialettico positivo senza complicazioni.
L’ethos , o per meglio dire il temperamento della magia, risiede in questo compito difficoltoso di protezione dell’individuo, che gettato nel mondo deve proteggere il suo Dasein (nota2) dalle minacce di «annientamento», in quanto nel suo «essere-agito-da» passa da una condizione in cui è il soggetto portante di quella presenza nel mondo a una condizione di soggetto di una non-presenza, parlando così di quell’annientamento dell’uomo stesso che non può più esprimere la sua volontà liberamente. Si viene a creare un dualismo del senso dell’Esserci, poiché diventa un punto focale d’incontro tra i due autori, ma allo stesso tempo in esso si manifestano due visioni dell’esistenza differenti. Mentre in Heidegger l’esserci è un qualcosa di garantito e certo, in cui la visione della realtà è una visione positiva; nel mondo magico di De Martino, questa condizione umana viene capovolta perché immersa profondamente nel nucleo del proprio dramma esistenziale di crisi dell’esserci e dunque di crisi della presenza. L’uomo magico è continuamente esposto al rischio della perdita del sé, l’annientamento, che rappresenta uno dei capisaldi prodotti dall’orizzonte di crisi, viene istituito dalle varie forme e tipologie di minaccia che possono spaziare dalla paura per il raccolto - che un contadino ha di fronte all’incombere di una tempesta -, fino ad arrivare a fronteggiare, per mezzo di rituali magici, entità definite esterne al sé: «L’uomo magico è esposto al rischio della labilità nelle sue solitarie peregrinazioni, allorché la solitudine, la stanchezza connessa al lungo peregrinare, la fame e la sete, l’apparizione improvvisa di animali pericolosi, il prodursi di eventi inaspettati ecc., possono mettere a dura prova la resistenza del ‘ci sono’. L’anima andrebbe facilmente ‘perduta’ se attraverso una creazione culturale e utilizzando una tradizione accreditata non fosse possibile risalire la china che si inabissa nell’annientamento della presenza».
In queste parole si sintetizza in maniera essenziale e chiara quanto sia incerto e indifeso il mondo magico, fatto di un velo di «superstizione» che funge da struttura portante per la credenza che alberga nella mente degli individui che fanno parte di quel mondo. Nella sua precarietà il mondo magico induce verso l’incertezza dell’essere, il quale durante lo svolgimento di un’attività come le «peregrinazioni solitarie» deve affrontare la realtà investendola di una serie di pericoli percepiti sotto forma di minaccia da attribuire a qualche entità soprannaturale. Sembra che nel mondo magico si evidenzi il totale divario tra uomo e natura: non vi è assolutamente un’identità tra le due cose, poiché l’uomo scorge nella natura una fonte di negatività e di rischio.
Su questo scenario si innesta quella differenza con l’analitica dell’esserci condotta da Heidegger, poiché in De Martino la realtà diventa «realtà condenda», ovvero, esposta continuamente alla negatività, all’annullamento, al male e al crollo psichico. Un realtà, quella dei contadini, in cui tutto è fonte di minaccia che può espandersi fino al diventare anche morte: «la natura in quanto minaccia è minaccia di morte, di disordine, di vuoto, di irrazionalità; il contadino in quanto agente di storia deve dare un ordine anche a questa minaccia, perché sia possibile la vita. Ed è vita riguadagnata attraverso l’assunzione della morte in cui si può dare ordine solo nella misura in cui viene inserita quale momento previsto di una dialettica di vita».
In queste parole che non sono di De Martino, ma di Lombardi Satriani (1936), riecheggia ancora Heidegger, poiché nel suo esistenzialismo prodotto da un rapporto ermeneutico con l’essere e l’esistenza, ritroviamo le situazioni limite di Karl Theodor Jaspers (1883 - 1969), le quali possono essere identificate nel mondo contadino attraverso la comprensione della dimensione metastorica che vive e attraverso la presa di coscienza della sua subalternità causata da una cultura egemonica che lo etichetta come primitivo, in quanto a cultura e religione.
L’orizzonte di crisi di fronte al quale il contadino viene esposto è totalizzante, poiché la minaccia che la natura-realtà genera può anche diventare morte. L’autoctono del mondo magico, vive una realtà labile sotto tutti i punti di vista: questa (realtà condenda) diventa un reale problema da fronteggiare con una tipologia di approccio in cui viene normalizzato il negativo del divenire e in cui si vive armandosi di tutte quelle possibilità di affrontarlo attraverso l’utilizzo dell’atto magico, qualsiasi sia l’entità di tale attività.
 
_Nota1: L’autore spiega come l’uomo è un essere-nel-mondo, in quanto ricopre la sua funzionalità esistenziale di “prendersi cura” (Besorgen) delle cose di cui necessita, dunque, cambiarle, plasmarle, manipolare, costruirle, dunque tale cura delle cose di cui ha bisogna diventa materiale puro per una progettualità del suo essere e della sua vita.
_Nota2: Il termine è stato utilizzato già in precedenza da Hegel, Jaspers, Feuerbach, ma Heidegger l’ha sviluppato in maniera più approfondita in Essere e tempo, rapportandolo al significato dell’esserci e dunque ponendolo all’interno di un’analitica dell’esistenza.
 
Per approfondimenti:
_E. De Martino, Sud e magia, Feltrinelli, Milano, 1959;
_E. De Martino, Morte e pianto rituale nel mondo antico: dal lamento pagano al pianto di Maria, Torino, Bollati Boringhieri, 1958;
_E. De Martino, Il mondo magico. Prolegomeni per una storia del magismo, Torino, Bollati Boringhieri, 1948;
_M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano, 1971;
_L. M. Lombardi-Satriani, M. Meligrana, Il ponte di San Giacomo, Sellerio Editore Palermo, 1989.
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

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di Maurilio Ginex 29/05/2018

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Nel campo dell’antropologia dedicata al concetto di morte, strutturato secondo un complesso sistema di segni e simbologie, assumono un importante ruolo le lacrime, in quanto rappresentano il “linguaggio della tristezza” e simboleggiano questo legame che si instaura tra i vivi che permangono, e i morti che passano verso una condizione di non-presenza. Una simbologia, quella delle lacrime, che rimanda all’importanza che ha il lamento funebre, in quanto lamento meramente sociale che collettivizza un dolore che nasce come individuale.

[caption id="attachment_10293" align="aligncenter" width="1000"] Ernesto de Martino (Napoli, 1º dicembre 1908 – Roma, 9 maggio 1965) è stato un antropologo, storico delle religioni e filosofo italiano.[/caption]

Il pianto rituale, che costituisce il “lamento funebre”, risulta essere un rito antichissimo che affonda le sue radici in un periodo storico precedente al Cristianesimo, diffusosi in tutta l’area mediterranea. Sul tema del cordoglio e della crisi spirituale-psicologica che l’uomo vive durante la vita, Ernesto De Martino (1908 – 1965) porta avanti una lungimirante analisi. L’autore, in morte e pianto rituale (1958), evidenzia come la crisi vissuta dall’individuo, dopo la scomparsa di un caro, sia elemento costitutivo della natura umana. La crisi del cordoglio genera forme comportamentali che vanno a rappresentare una forma di negazione di un comportamento considerato umanamente “normale”. Queste forme comportamentali a-normali, potrebbero far sfociare il soggetto, che vive il dolore in prima persona, in una follia imperante identificata con la vendetta. Quando De Martino parla del concetto del “far morire i morti in noi” , si riferisce a una pratica interiore ed ideale abbastanza faticosa. Essa si può manifestare in forme anche improprie ed è qui che subentra l’esempio della vendetta, che veicola il soggetto accecato dal dolore e dalla rabbia verso il voler vendicare il morto. Su questo frangente verte il richiamo al Patroclo di Omero, ucciso dal re troiano Ettore, il quale viene vendicato da Achille che non troverà pace finchè non avrà ucciso il carnefice di suo cugino. Tale richiamo all’Iliade di Omero, serve a De Martino per spiegare come nell’oggi un comportamento folle e psicotico, in quanto privo di razionalità, come la vendetta, non potrebbe trovare uno spazio nell’etica universale e dunque non potrebbe essere considerato come “normale”. Il lamento funebre dunque rappresenta una pratica che “preserva” l’individuo dalla possibilità di assumere quei comportamenti anormali. La tipologia del pianto rituale consta di una particolare tecnica costituita da un codice linguistico che designa l’intenzionalità dell’azione rituale in sé , intesa come uno strumento per trasmettere significati. Quest’ultimi codificano il prodotto finale del rito che viene rappresentato da questa generale pratica che serve a preservare l’individuo. In questo modo il rituale diventa un modo per riplasmare culturalmente lo strazio naturale prodotto dal fenomeno . Questa tecnica risulta essere anche un modo per conservare una tradizione che si ricongiunge con i valori morali che la crisi del cordoglio potrebbe potenzialmente compromettere. De Martino elabora quest’analisi evidenziando l’aspetto rituale che si accosta a questo controllo che bisogna avere nei confronti del patire e che nel pianto collettivizzato si concretizza come ritualizzazione delle pulsioni vitali dell’individuo. Come se l’intenzione fosse quella di rendere docile e plasmabile l’impeto di chi in prima persona viene attraversato dalla perdita dell’individuo caro. Qi si dipana un conflitto tra intenzionale (razionale) e non-intenzionale (irrazionale), che viene manipolato dalle regole di un rito che plasma la coscienza. Questa da una condizione incontrollata viene trasformata e riplasmata su forme controllate. È ulla scia di questo senso che il lamento funebre rappresenta una pratica che “preserva” l’individuo. Vi è un rapporto tra cultura e natura, in cui la prima, intesa come insieme di regole che costituiscono la tradizione di un popolo, ha “potere” sulla natura dell’individuo, intesa in questo specifico caso come l’insieme dei fatti emotivi che lo compongono al livello psicologico. Il rischio della mancata negazione e trascendenza del delirio post-trauma, delinea la tipica situazione da crisi del cordoglio. La circostanza in cui bisogna elaborare il lutto deve essere sedata e accompagnata, poiché nell’elaborazione del lutto occorre un duro travaglio interiore che permette di giungere alla razionalizzazione di quella forma di assenza totale che risiede nella morte. In De Martino l’assenza totale è il limite estremo della crisi generata dal cordoglio. In Sud e Magia (1959) De Martino spiega come la fascinazione, la fattura e i riti magici, sono tutti elementi che servono come argine all’orizzonte della crisi che il cordoglio genera negli individui. L’autore evidenzia come i vicini del defunto, attraverso la costituzione del rito, riescano a combattere la temibile conseguenza della crisi che si identifica nel concetto di essere-agito-da. Nell’orizzonte della crisi viene smarrita una potenza che identifica l’uomo, ovvero, il suo esserci nel mondo, come soggetto individuale capace di scegliere e agire secondo valori da lui stesso collaudati. Nella crisi del cordoglio si presenta un fenomeno ambiguo che priva l’uomo di se stesso, portandolo ad essere manipolato da qualcosa di esterno, per l’appunto ad “essere-agito-da” per dirla nei termini utilizzati dall’autore. Dunque l’uomo, che vive il dramma psico-fisico del dolore, viene privato della sua personalità nella sua totalità, perdendo quella facoltà che gli conferisce di essere l’unica causa di se stesso. De Martino si sofferma su una tematica che rispecchia il fenomeno in questione: il “sentimento del vuoto”. Il vuoto interiore e psichico che la crisi del cordoglio genera, rappresenta un problema non soltanto per il soggetto in questione che, estraniato e spaesato, non coglie il fatto di essere dominato da un delirio, ma anche per la realtà che lo circonda, costituita da persone e situazioni che diventano spettatori della follia imperante. L’ortodossia verso le pratiche rituali risulta essere quella garanzia per preservare il soggetto estraniato. Quest’ultimo vive una condizione di oblio interiore che lo porta a consapevolizzare che l’essere-agito-da è in atto e non è più arrestabile per suo volere, ma soltanto attraverso l’aiuto di qualcuno che sta al di fuori di sé.

De Martino mette sullo stesso piano delle malattie mentali, quella crisi generata dal cordoglio poiché in quest’ultimo stato l’uomo può essere ugualmente condotto a commettere qualcosa che razionalmente non farebbe, se non nella condizione estrema dell’essere-agito-da. Condizioni come queste possono essere combattute attraverso vari modi per espiare il dolore, come sentimento del vuoto interiore, che poi sfocia nell’estremismo di questo fenomeno che vede il soggetto sofferente manipolato da pulsioni irrazionali. Quest’ultima un’esperienza che nell’universo del rito popolare consta di varie tappe come per esempio la vestizione del morto, l’accensione di candele per illuminare il viaggio dell’anima e il pianto rituale che rappresenta il momento più catartico del rito. La fatica a cui si alludeva precedentemente, riguardo alla pratica interiore di ciò che De Martino chiama “far morire i morti in noi”, risiede in questa estrema difficoltà che vive il soggetto nel razionalizzare che non deve assolutamente perdere il controllo consapevolizzando quel passaggio di status interno alla perdita. Una continua lotta tra razionale e irrazionale, dove l’individuo non deve perdere il compito che gli conferisce la qualità di uomo, ovvero, quella di essere un ente che agisce secondo propri valori e scelte. De Martino delinea una mappa del fenomeno nella sua totalità, costituita dal cordoglio con le sue possibili conseguenze, dal lamento funebre e dalla vestizione del corpo del defunto, evidenziando l’aspetto protettivo che tale rituale assume per gli individui colpiti. Un medium tra chi consapevolizza il fatto di essere stato colpito dal dolore e chi invece ha il compito di arginare quella crisi che attacca la psicologia di quell’individuo che deve razionalizzare e consapevolizzare.

Nel rituale si incorpora una tipologia specifica di linguaggio simbolico che si discosta dal linguaggio ordinario e parlato. Quando precedentemente parlavamo del “linguaggio della tristezza”, riferendoci alle lacrime, si intendeva dire che per l’appunto all’interno di esso si instaura un sistema di significazioni che rimandano a un comportamento convenzionale teso a comunicare come prodotto finale ciò che identifichiamo con il superamento della crisi del cordoglio. A tal riguardo sono di particolare importanze le cosiddette “prefiche”, figure che nell’universo folklorico del Meridione italiano, zona territoriale che ha interessato le ricerche più importanti di De Martino, sono state ampiamente analizzate da quest’ultimo. Le prefiche erano delle lamentatrici, appositamente ingaggiate per piangere durante il rito funebre. Rappresentano, o per meglio dire rappresentavano, delle figure “professionali” che erano adibite all’accompagnamento del dolore patito dai sopravvissuti della comunità di fronte al lutto per la perdita di un individuo caro. Alcuni studi hanno definito il ruolo delle prefiche come una vera ipocrisia convenzionalmente e socialmente accettata, poiché si tratta di donne che non sono imparentate con il morto e che sono estranee a un coinvolgimento diretto nella morte, ma De Martino, al contrario di questa tesi, vede nella figura della prefica una forma culturale, che non soltanto deve essere protetta, ma che allo stesso tempo racchiude una funzione importante, in quanto appartiene a un orizzonte su cui si dipana la tradizione. Nell’ottica dell’autore, che ha compreso che il rito funebre non soltanto rappresenta un elogio della tradizione, ma è anche una forma di salvaguardia per chi viene colpito dalla perdita di un caro, le prefiche devono piangere quasi forzatamente affinchè venga costituita un’atmosfera ideale per giungere al superamento del cordoglio. Per tale ragione nelle tradizioni di quei luoghi dell’entroterra dell’Italia Meridionale, quando si parla di prefiche si sta indicando ciò che un tempo fu una professione. Era delle figure che accompagnavano il rito ed erano pagate appositamente per vivere il dolore di quell’atmosfera. Esse rappresentano un aspetto del culto della morte nato nei tempi antichi e che si è poi sviluppato per tutta la storia nell’avvenire. Agli occhi di De Martino le prefiche sono espressioni culturali da salvaguardare e proteggere di fronte all’incombere del progresso tecnologico che tende più che altro a etichettare come obsoleto ciò che rappresenta lo scenario delle tradizioni popolari. Il loro piangere, il loro gettare urla di dolore, il loro percuotersi il petto di fronte al corpo del defunto, sono tutti dati che fanno capo al loro compito di essere mediatrici della ritualizzazione del pianto. Non dovrebbe assolutamente essere permesso che tratti così caratteristici di una tradizione fossero estinti dal processo evolutivo dei tempi. De Martino, dunque, è in quest’ottica che fa un quadro dei riti funebri, evidenziando come essi, praticati secondo ortodossia, rappresentano delle tecniche di protezione reale dell’individuo che si appresta a un necessario superamento del fenomeno della morte.

 
Per approfondimenti:
_E. De Martino, Morte e pianto rituale: dal lamento pagano al pianto di Maria, Bollati Boringhieri, Torino, 1958;
_E. De Martino, Sud e magia, Feltrinelli, Milano, 1959;
_E. De Martino, Il mondo magico: prolegomeni per una storia del magismo, Bollati Boringhieri, Torino, 1948;
_S. Tambiah, Rituali e cultura, Il Mulino, Bologna, 1995.
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

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di Maurilio Ginex 15/03/2018

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Con il termine Gestalt si è voluto intendere, negli studi della psicologia, una scuola che basasse il suo operato sul rapporto percettivo tra l’individuo e la realtà circostante. Tale termine, rappresentante il participio passato di Von Auge Gestellt, che letteralmente significa “posizionato di fronte agli occhi”, sta ad indicare tutto ciò che percepiamo attraverso gli occhi della realtà che ci circonda. Quando menzioniamo la Gestaltpsychologie, dunque, ci riferiamo alla “psicologia della forma”, la disciplina che studia la realtà attraverso le forme con cui essa si manifesta.
La Gestaltpsychologie nasce a Berlino come scuola di pensiero che vede nella percezione della realtà non solo la somma di tutti i dati sensoriali ma, allo stesso tempo, anche una tipologia di approccio che permetta di captare la totalità degli oggetti dati alla nostra vista. Nell’approccio della Gestalt si istituisce un concetto di percezione che permette all’individuo di “intuire” nell’immediato qualcosa in più rispetto alla totalità delle parti della forma del corpo percepito; di fatto, il motto che contraddistingue tale scuola psicologica recita: «Il tutto è più della somma delle singole parti», sottolineando il procedere non riduzionistico della percezione visiva.
Sulla scia di questa dovuta introduzione sulla base teorica della psicologia della forma si identificano quelle caratteristiche dentro le quali si incastra la concezione della percezione che ha abbracciato la parte preponderante della filosofia di Maurice Merleau-Ponty, punto focale che caratterizzerà lo svolgimento di questo lavoro.
La filosofia di Merleau-Ponty rappresenta un approccio che è stato oggetto di innumerevoli interpretazioni e definizioni. Alcuni lo hanno definito “strutturalista” per via dell’utilizzo che fece del concetto di “struttura”; altri lo hanno definito “fenomenologo”, perché identificato come il degno erede francese della scuola fenomenologica husserliana; ma nel suo operato si scorge, in realtà, un importantissimo innesto tra le due correnti.
La tematica che attraversa tutta l’opera merleau-pontyana è il rapporto che l’autore ha voluto sviscerare tra l’organismo (inteso come il corpo dell’individuo), e l’ambiente che lo circonda (inteso come il mondo a cui lʼorganismo è legato). Tale rapporto viene inteso, dunque, come il rapporto che intercorre tra coscienza e natura, tra soggetto che percepisce e mondo percepito. In questo innesto tra coscienza soggettiva e mondo oggettivo percepito, Merleau-Ponty inserisce una determinata e circoscritta tipologia di esperienza che del mondo si fa, ovvero quella della percezione. Quest’ultima rappresenta una esperienza pre-discorsiva , nel senso che, in virtù del fatto che vi è un corpo vivente (Leib) che percepisce, la percezione diventa quel meccanismo che mette in rapporto immediato la coscienza con il mondo, precedendo ogni forma di oggettivazione scientifica. All’interno dell’immenso orizzonte della percezione, il corpo, come possiamo apprendere, viene istituito come il mezzo principale attraverso cui si dipana il mio punto di vista sul mondo di cui faccio parte. Il corpo in Merleau-Ponty, al fine dello sviluppo del suo concetto di percezione, occupa uno spazio immenso.
In Fenomenologia della percezione (1945), l’autore dedica una parte cospicua al corpo e vedendolo come il mezzo attraverso cui si istituisce il rapporto originario con la realtà, scrive:
il corpo proprio è nel mondo come il cuore nell’organismo: mantiene continuamente in vita lo spettacolo visibile, lo anima e lo alimenta internamente, forma con esso un sistema. Quando cammino nel mio appartamento, i diversi aspetti sotto i quali esso mi si offre non potrebbero apparirmi come i profili di una medesima cosa, se io non sapessi che ciascuno di essi rappresenta l’appartamento visto da qui o da lì, se non avessi coscienza del mio proprio movimento, e del mio corpo come identico attraverso le fasi di questo movimento.
È il corpo a mantenere lo spettacolo visibile, nel senso che è in esso che si identifica quell’ampio processo di percezione attraverso cui il soggetto dà senso alle cose della realtà. Ed è esattamente nel corpo che si incarna la base di ogni sapere: la percezione. Quest’ultima rappresenta la base materiale, in quanto corporea, della conoscenza. Come l’autore dice «la teoria dello schema corporeo è implicitamente una teoria della percezione» , poiché è attraverso esso che si istituisce il potere conoscitivo del mondo percettivo. Il corpo è lo strumento attraverso cui noi siamo al mondo, attraverso cui noi percepiamo il mondo e lo conosciamo. In Merleau-Ponty esso rappresenta la sintesi tra soggettività ed oggettività, acquisendo la caratteristica di ente “ambiguo”, poiché è in esso che si identifica l’unità indistinta dei due poli intesi come soggetto e oggetto. Il corpo, inteso per esempio come una mano che tocca, rappresenta sia il soggetto che sente toccando, sia l’oggetto sentito che viene toccato. Nella percezione del mondo attraverso il corpo noi ritroviamo noi stessi in quanto prendiamo coscienza della nostra esistenza nel mondo attraverso la presa di coscienza materiale e fisica della corporeità.
Ma riprendendo così contatto con il corpo e con il mondo, ritroveremo anche noi stessi, giacché, se si percepisce con il proprio corpo, il corpo è un io naturale e come il soggetto della percezione.
Ogni sensazione che l’oggetto esterno genera nel nostro corpo, come se fosse per l’appunto un io naturale, trova una sua specifica localizzazione corporea attraverso i sensi che ricevono l’impulso e generano il riflesso. La percezione, inoltre, nell’essenza di ciò che, come ci spiega lo stesso autore, non è il prodotto della somma di elementi isolati che costituiscono l’oggetto percepito, altrimenti diverrebbe una tipologia di percezione analitica, diversa da una tipologia prettamente spontanea e pre-discorsiva che ci permette, sempre e irreversibilmente attraverso il nostro corpo, di far luce sulla totalità di un oggetto da percepire. Tale totalità, si identifica con il concetto di “struttura” che in Merleau-ponty è determinante. Essa rappresenta un concetto attraverso il quale si può rientrare all’interno della tematica dell’ambiguità. Significa che la struttura, nell’oggetto percepito, risulta ambigua perché ha due valenze: lʼuna risiede nel contenuto materiale dell’oggetto per mezzo di un’analisi scientifica, qualsiasi sia la sua entità; l’altra risiede nella sfera trascendentale, dunque, nel parlare di tale struttura nell’oggetto percepito si parla di una rete di significazioni conoscitive, all’interno di un’unità di senso che attraverso la percezione sarà chiarificata.
In questa funzione chiarificatrice della percezione bisogna tener conto dell’importanza che riveste il “sentire”, perché è nel sentire che si incarna l’intenzionalità conoscitiva verso il mondo che percepiamo. È proprio questo concetto che l’autore vuole evidenziare: «Il sentire è quella comunicazione vitale con il mondo che ce lo rende presente come luogo familiare della nostra vita» . Nel sentire, la percezione porta l’individuo all’oggetto, ne scannerizza la struttura totale, perché nel sentire vi è una maniera diretta di essere afferrati da parte dell’oggetto . Ma nel sentire si interseca anche l’esercizio dell’intelligenza. Qui si istituisce la complessità del processo di percezione, definita da Merleau-ponty come “infrastruttura istintiva”, sulla quale si impiantano, per mezzo dell’intelligenza, altre “sovrastrutture” che rappresentano infine il vero e proprio legame tra coscienza e realtà circostante.
[caption id="attachment_10057" align="aligncenter" width="1000"] Maurice Merleau-Ponty (1908 – 1961) è stato un filosofo francese, esponente di primo piano della fenomenologia francese del Novecento.[/caption]
In questo legame si apre la via verso la verità tracciata dall’atto percettivo, nel quale il corpo rende l’intenzionalità (intesa come “predisposizione” verso l’oggetto da analizzare dopo averlo percepito) un qualcosa di motorio. Nella caratteristica motoria di tale intenzionalità si identifica il soggetto incarnato nel corpo, che tramite la percezione coglie la struttura del percepito come forma. Tale forma è «l’apparizione stessa del mondo e non la sua condizione di possibilità» . Dunque in essa, che si identifica come l’aspetto effettivo del mondo circostante, si dipana il senso della coscienza percettiva in cui interiore ed esteriore si uniscono, intendendo allo stesso tempo il soggetto e l’oggetto (cioè mondo circostante).
Merleau-Ponty nel lavoro di spiegazione del suo approccio fenomenologico alla realtà è riuscito a segnare un percorso complesso e articolato in cui l’individuo, come abbiamo potuto comprendere, entra in contatto con la struttura delle cose per mezzo della percezione. Su questo aspetto della struttura si dipana l’influsso della psicologia della Gestalt, di cui avevamo analizzato alcuni aspetti in principio del discorso descritto. Nel motto della Gestalt, «il tutto è più della somma delle singole parti», si identifica il concetto merleau-pontyano di struttura, intesa come un tutto che ha una forma, per mezzo della definizione caratteristica che l’autore dà della percezione. Quest’ultima è percezione di quel tutto al quale alludiamo, non è assolutamente una somma riduzionistica di elementi isolati.
La mia percezione non è una somma di dati visivi tattili o uditivi: io percepisco in modo indiviso con il mio essere totale, colgo una struttura unica della cosa, un’unica maniera di esistere che parla contemporaneamente a tutti i miei sensi.
Quindi, attraverso questo processo multiforme, la percezione muove l’intenzionalità esplicativa in funzione della conoscenza dell’oggetto attraverso la sensazione che si ha della struttura che lo costituisce.
Maurice Merleau-Ponty ha reso caratteristica una tipologia di approccio fenomenologico alla realtà, istituendo nel suo concetto di percezione un nuovo modo per conoscere il mondo circostante. Il suo importante contributo alla storia del pensiero filosofico è stato il prodotto della sua formazione fenomenologica di impronta husserliana che ha abbracciato nel suo lavoro altre discipline come la psicologia di Whertheimer o Koffka e la linguistica di De Saussure. Molteplici sono gli influssi nella sua ricerca del senso attraverso l’atto percettivo, molteplici a tal punto da trovar lecita l’intenzione di definirlo o un fenomenologo o uno strutturalista per via dell’utilizzo che fa del concetto di struttura, ma allo stesso tempo sembrerebbe restrittivo il cercare di definire un autore come questo solo in un modo o in un altro. In realtà, come affermato in precedenza, Merleau-ponty ha trovato il modo per applicare su un unico concetto, la percezione, un impianto sia fenomenologico, sia strutturalista, sia psicologico, sia linguistico, così da non poter essere circoscritto all’interno di un’unica corrente. Nello studio dei testi di Merleau-Ponty si possono ritrovare spunti gnoseologici volti allo studio delle discipline filosofiche e, soprattutto, è possibile ritrovare il senso di queste discipline, oggi intese come un lusso poiché non rientrano nelle logiche del mercato del lavoro odierno. Nel filosofo si manifesta il processo di apertura delle menti e dei cuori verso l’importanza del pensiero attivo. analizzando e indagando in maniera originale il mondo che ci circonda, tra strutturalismo e fenomenologia.
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di Danilo Serra 28/02/2018

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«Perché non avete il coraggio di fare veramente di voi stessi, completamente e in ogni caso, il centro, la cosa fondamentale?» Max Stirner, L’unico e la sua proprietà.

“L’unico e la sua proprietà” (Der Einzige und sein Eigentum) è l’opera capitale di Johann Kaspar Schmidt, meglio noto come Max Stirner (dal tedesco ‘stirn’, ovverosia ‘fronte alta’), pubblicata in una prima edizione nell’ottobre del 1844 presso l’editore Wigand di Lipsia. Nel testo, l’autore si scaglia polemicamente contro ogni posizione filosofico-teologica che pretende di descrivere oggettivamente l’essere umano comprendendone le esigenze e i più naturali bisogni. La sua è anzitutto una reazione allo hegelismo e una critica serrata a taluni concetti che, a parer suo, non hanno permesso all’uomo di riconoscersi e, anzi, hanno annientato progressivamente la sua individualità - la sua unicità - a favore di scopi più ‘alti’ e nobili: Dio, stato, patria, famiglia, umanità.
[caption id="attachment_10014" align="aligncenter" width="1000"] Johann Heinrich Wilhelm Tischbein, La lunga ombra 1805.[/caption]
Nell’apparato teorico elaborato da Stirner nelle quasi quattrocento pagine che compongo “L’unico e la sua proprietà”, l’uomo non è più concepito come oggetto di una rappresentazione, dal momento che per sua stessa natura è «indicibile». Egli è l’«Unico» (‘Einzige’ in tedesco) e, in quanto tale, ha nell’unicità il suo tratto distintivo. Questo non basta a definirlo; l’Unico infatti sfugge alle più argute definizioni, è indefinibile e, proprio perché indefinito, non ha bisogno di essere ‘etichettato’, determinato, definito. Nella definizione, ciò che è definito viene compreso, determinato, afferrato, diventa suo oggetto. La cosa definita è oggettivata, si fa etichetta e, in certo senso, si esaurisce nella definizione. La cosa è definita poiché ha acquisito una nomina, è stata nominata. La nomina esiste in quanto atto imposto, è il frutto dell’imposizione, impone il proprio statuto. Nominare è il verbo della chiamata. Quando si nomina, si chiama innanzi qualcosa. Io nomino te: ti chiamo. La definizione chiama a sé ciò che definisce, lo contrassegna, impone cioè un segno peculiare. Definire, in tal senso, vuole dire ‘segnare’, ‘imprimere’, imporre un segno, un marchio, un sigillo. La definizione è la ‘cosa marchiata’, ciò che ha ricevuto una determinata segnatura.
Per Stirner, l’Unico non può - e non deve - essere definito. La definizione, infatti, intaccherebbe la sua natura e, riducendolo in una definizione, svuoterebbe (annullerebbe) la sua unicità. L’Unico è in quanto indefinibile: questo è il segreto del suo essere se stesso, singolare, originale, irripetibile, unico. Non esiste un solo concetto in grado di nominarlo, esprimerlo: «Si dice di Dio: ‘Nessun nome può nominarti’. Ciò vale per me: nessun concetto mi esprime, niente di quanto viene indicato come mia essenza mi esaurisce: sono solo nomi» (M. Stirner, “L’unico e la sua proprietà”, p. 380). Ma l’Unico è tale in un senso ancor più forte. Egli fonda la sua causa su di sé, ha in sé il fondamento, nulla è all’infuori di sé. A tal proposito, Stirner è inequivocabile:
«Dio e l’umanità hanno fondato la loro causa su nulla, su null’altro che se stessi. Allo stesso modo io fondo allora la mia esistenza su me stesso, io che, al pari di Dio, sono il nulla di ogni altro, che sono il mio tutto, io che sono l’unico […] Io non sono nulla nel senso della vuotezza, bensì il nulla creatore, il nulla dal quale io stesso, in quanto creatore, creo tutto» (M. Stirner, “L’Unico e la sua proprietà”, p. 13).
Con uno stile dissacrante e provocatorio, il pensatore tedesco esalta il principio di autoaffermazione (o autodeterminazione) e si affida alla dialettica nulla-tutto per chiarire la sua posizione. Stirner scrive: «Io ho fondato la mia causa su nulla». Come ha fatto notare Franco Volpi nel saggio “Il nichilismo”, la tesi - che apre e chiude il libro di Stirner - secondo la quale ‘io’ ho fondato la mia causa su nulla (auf nichts in tedesco) esprime «la negazione e il rifiuto di ogni fondamento che trascenda l’esistenza originaria e irripetibile dell’individuo» (F. Volpi, Il nichilismo, p. 30). Non c’è nulla che sta sopra di me. Non c’è, ovvero, un fondamento o principio che sta alla base di me - dell’Unico. Perché? La risposta è nella proposizione: «io fondo allora la mia causa su me stesso». L’Unico si concepisce come causa di sé e, proprio perché fondatore di se medesimo, appare al contempo avvolto dal nulla e dal tutto. È il nulla di ogni altro: non è gli altri, non fonda gli altri. È il tutto di se stesso: sta a suo fondamento, è pura autoaffermazione. Il concetto di Unico è fortemente legato a quello di proprietà (in tedesco ‘Eigentum’).
«Proprietario del mio potere sono io stesso, e lo sono nel momento in cui so di essere unico […] Ogni essere superiore a me stesso, sia Dio o l’uomo, indebolisce il sentimento della mia unicità e impallidisce appena risplende il sole di questa mia consapevolezza» (M. Stirner, “L’unico e la sua proprietà”, p. 381).
[caption id="attachment_10017" align="aligncenter" width="1000"] Georg Friedrich Kersting, Uomo che legge alla luce della lampada.[/caption]
L’Unico è difatti per Stirner «proprietario» del suo potere, «potenza» integralmente ripiegata su di sé che, di conseguenza, non ha punti d’appoggio esterni, non si definisce nel rapporto con l’altro. È, al contrario, «egoismo», creatura auto-determinante, vale a dire ‘dominus’ del proprio stato, orgoglioso del proprio io.
L’Unico di Stirner è un concetto formidabile che provoca l’uomo e spinge a guardare la vita e a guardarsi nella vita, con altri occhi e altre prospettive. Il premio è il «nuovo paradiso», l’aprirsi di uno sguardo nuovo sul mondo. Egli è il ribelle che annienta tutto il resto per riaffermare la sua libertà, l’uomo in rivolta che è «negazione di tutto ciò che nega l’individuo e glorificazione di tutto ciò che lo esalta» (cfr. A. Camus, “L’uomo in rivolta”). Nell’Unico «ogni essere supremo, compresa l’umanità, viene annientato, e la teologia si ribalda in antropologia». C’è dunque da un lato una negazione, una parte distruttiva, un annientamento; dall’altro una vera parte costruttiva, un ribaltamento, un cambio di prospettiva che è essenzialmente un guadagno, il guadagno della propria individualità. L’individuo non è più schiacciato da esseri e concetti (Dio, stato, umanità…) che opprimevano e occultavano la sua natura. La battaglia contro ciò che vi era di più alto - e perciò lo calpestava e indeboliva il suo sentimento di unicità - è vinta. L’insurrezione è realizzata. L’io è finalmente pensato in tutta la sua potente unicità e ricondotto a se stesso. Stirner compie così il suo inno all’egoismo, a quell’egoismo capace di supportare e sostenere l’Unico, l’io vero, elevandolo a fonte, sorgente, centro, cosa fondamentale del proprio sé. Ad esistere è solo lui e ciò che conta per lui è lui stesso, nient’altro che sé: l’Unico, proprietario del suo potere, cosciente della sua unicità.
 
Per approfondimenti:
_A. Camus, L’uomo in rivolta (1951), Bompiani, trad. it. di L. Magrini, Milano 2017;
_M. Stirner, L’Unico e la sua proprietà (1844), trad. it. di L. Amoroso, Adelphi, Milano 1979;
_F. Volpi, Il nichilismo, Laterza, Roma-Bari 2009.
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di Maurilio Ginex 28/12/2017

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Quando pronunciamo la parola “crisi”, oggi, primariamente pensiamo all’aspetto economico che tale concetto abbraccia. Ci soffermiamo, quasi inconsciamente, solo sull’idea che la crisi, intesa a livello globale, sia un fenomeno solamente economico e che intacchi solo e soltanto la vita occupazionale e lavorativa dell’individuo. Certamente la crisi economica mondiale che il mondo sta affrontando, da più di dieci anni, è un qualcosa la cui concretezza risulta ineluttabile, ma dietro di essa vi è un immenso scenario che comporta anche una crisi a livello morale che mina lo spirito del tempo, plagiando la mente dell’uomo.
La crisi morale del nostro tempo, più post-moderna che mai, risulta essere la ragione che manteneva in auge il pensiero illuministico (1). Il postmodernismo, che risulta essere il prodotto finale di un cambiamento di rotta del modernismo, è strutturato su concetti come l’effimero, il fugace, l’incerto, il frammentato e discontinuo, tutte idee che fanno capo alla rappresentazione universale di un individuo che da un punto di vista esistenziale viene definito come “nomade”.
Lo stato di nomadismo è identificativo del postmoderno, il non essere mai fermi, stanziati e strutturati in un’unica posizione, questo prevede la condizione postmoderna. Tale condizione però bisogna circoscriverla all’interno di un immaginario concettuale che prevede una condizione esistenziale incerta. L’uomo, vivendo la condizione di nomade, all’interno di una società che in questa sede definiamo come post-moderna, ma che allo stesso tempo, in virtù delle tesi di Zygmunt Bauman, definiamo anche come “liquida” (2), vive una condizione di un’incertezza assoluta.
Tale entità è generata dalla consapevolezza di un continuo cambiamento, di una realtà in divenire in cui si è immersi e di un’impossibilità da parte dell’individuo nel cercare di mantenere intatta una propria forma esistenziale statica.
C’è una certa affinità tra la liquidità della società di Bauman, che vede un uomo gettato in un mondo che tende a rendere obsoleto ogni risultato raggiunto, e la condizione esistenziale del postmoderno che tende sempre a distruggere tutto ciò che siamo, abbiamo e conosciamo in virtù di una società caratterizzata da un’implicita tendenza alla continua trasformazione. Le due posizioni sono due facce della stessa medaglia che si implicano perché condividono una matrice comune che è identificata da una condizione esistenziale che non poggia su basi sicure. Ma tale incertezza, di cui dipaniamo l’ontologia, da cosa sembrerebbe radicata?
Vi è un autore di matrice neo-marxista, Fredric Jameson, che riporta tutta la condizione postmoderna a un’evoluzione ideologica del tardo capitalismo globalizzato: “Tutta questa cultura postmoderna, mondiale e tuttavia americana, è l’espressione interna e sovrastrutturale di tutto il nuovo corso del dominio economico e militare dell’America nel mondo". (3)
Non è una posizione errata quella del pensare di poter accomunare la condizione incerta che vive l’uomo postmoderno a un eccessivo e pervasivo capitalismo che si muove verso il mondo, plagiando l’uomo nel processo di legittimazione (e dunque, normalizzazione) dei campi di sapere che costituiscono l’identità delle società.
Su questa scia si innesta la morte di uno sfondo ideologico che aveva caratterizzato la condizione moderna, la quale prevedeva l’egemonia di una razionalità illuministica volta al progresso. Il post-modernismo si identifica con tutta una fenomenologia della sovversione di quegli ideali che avevano caratterizzato la modernità e che nel loro dileguarsi hanno portato con sé il dileguarsi di quel periodo storico. La condizione postmoderna, avendo disgregato una precedente razionalità che muoveva la coscienza dell’uomo, ha gettato gli individui nell’assoluta mancanza di punti di riferimento, causata da una società totalmente decentralizzata da un punto di vista politico, dunque, identitaria e morale.
[caption id="attachment_9742" align="aligncenter" width="1000"] Fredric Jameson (Cleveland, 14 aprile 1934) è un critico letterario e teorico politico statunitense.[/caption]
Il capitalismo incalzato più che mai da uno sviluppo tecnologico della società, che necessita di un immenso processo economico che la sorregga, ha portato lo stato sociale ad essere come un fiume senza argine che nel suo continuo divenire del flusso dell’acqua è come se variasse in ogni punto e in ogni momento. L’uomo non ha la possibilità di alimentare la propria soggettività, dunque, per stare al passo il continuo cambiamento dell’assetto sociale sopprime il proprio sé.
Jean-François Lyotard, autore de “La condizione postmoderna” (1983), spiega come la nascita del postmoderno sia identificata con l’avvento delle società industriali, a capitalismo avanzato ed eccessivamente informatizzate. Questa tesi identificativa viene collaudata da qualsiasi processo analitico nei confronti della costituzione di questo periodo storico, poiché le condizioni economiche e tecnologiche in continuo sviluppo quantitativo hanno plasmato la società in cui la comunicazione è dominata dal potere dei media. Lyotard, nel momento in cui sviscera le componenti costitutive del postmodernismo prende una posizione critica nei confronti di ciò che precedentemente erano stati i grandi racconti filosofici: illuminismo, idealismo e in fine marxismo. Racconti filosofici che l’autore chiama “metanarrazioni”. Queste, che si sono identificate come vie di salvezza per l’uomo, al fine di trovare un’emancipazione e un progresso per quest’ultimo, in realtà agli occhi di Lyotard hanno rappresentato un colossale fallimento, poiché l’uomo alla fine non si è ritrovato in una condizione emancipata e libera da quei problemi socio-politici, ma anche esistenziali, che quei racconti filosofici cercavano di combattere. Roberto Mordacci, autore de “la condizione neo-moderna” (2017), sostiene che il postmoderno sia morto e che la diagnosi dei post-modernisti sia fallita, ma vi sono varie posizioni che potrebbero contestare una tale tesi. Della razionalità, intesa in maniera illuministica come risveglio dal sonno della mente, vi è una traccia sbiadita, nel senso che se vi è una ratio che muove l’uomo verso le cose e le azioni è il prodotto di un qualcosa che da sovrastruttura è diventato struttura, ovvero, l’economia. La razionalità economica è l’unica razionalità che oggi identifica la logica esistenziale dell’uomo, a discapito di una razionalità di fondo che in altra maniera dovrebbe stimolare il sé. Dunque, se attraverso Lyotard notiamo come il postmoderno nasce nel momento in cui vi è quell’enorme sviluppo delle società industrializzate e a capitalismo avanzato, si potrebbe pensare, in maniera legittima, che sia impossibile che il postmoderno sia deceduto come riporta Mordacci nella sua tesi. Quest’oggi, con un capitalismo che ha trasceso la materia fino ad arrivare allo spirito di ogni singolo, il postmoderno è più vivo che mai.
Che una condizione tale sia viva e vegeta non è certamente un bene per l’uomo, poiché la pervasione di questa unica dimensione economica in virtù di questo violento capitalismo non può che finire per influenzare e veicolare la direzione delle forme di sapere che identificano una società. Se il capitalismo si manifesta come un potere che ha la possibilità di influenzare il sapere, allora, in virtù di questi tratti antropologici dettati da tale società, il linguaggio diventa una forma di legittimazione e normalizzazione di quel sapere, diventando funzionale al potere che manipola i soggetti stimolandoli unicamente verso quelle forme di sapere legittimate. Con il termine sapere si intende una vasta gamma di significati, in cui notiamo come si alluda al “…saper fare, saper vivere, saper ascoltare…” (4); dunque il linguaggio diventa la forma di legittimazione di una modalità d’essere determinata da questo sapere che viene normalizzato.
“La comunicazione funzionale è soltanto lo strato esterno dell’universo ad una sola dimensione in cui l’uomo è addestrato a dimenticare, a tradurre il negativo nel positivo in modo da poter continuare a funzionare, ridotto nelle sue facoltà ma atto alla bisogna e ragionevolmente efficiente.” (5)
Queste parole che Marcuse utilizza nel suo capolavoro “l’uomo a una dimensione” (1967), si ricollegano al discorso precedentemente affrontato riguardo al fallimento illuministico in una società postmoderna. La ragione non viene gestita dal soggetto, ma è un qualcosa che dall’esterno riduce le facoltà soggettive dell’uomo. La comunicazione, che nel sistema postmoderno viene gestita dalla potenza dei media, diventa il veicolo attraverso cui si istituisce l’ineluttabile doppia implicazione tra potere e sapere. Oggi, riattualizzare Marcuse sarebbe indicativo al fine di fare una diagnosi della realtà tangibile che viviamo. Gianni Vattimo, filosofo torinese, studioso del postmoderno, attua una vera e propria ripresa del pensatore francofortese, ritenendo funzionale riapplicare tutto il concetto di unicità della dimensione esistenziale dell’uomo che immerso in questa tecnologia - portata all’eccesso -, caratterizza il postmodernismo, il quale non possiede vie di fuga.
[caption id="attachment_9743" align="aligncenter" width="1000"] Gianteresio Vattimo, detto Gianni (Torino, 4 gennaio 1936), è un filosofo e politico italiano.[/caption]
Riesumare Marcuse, che a detta di Vattimo era stato troppo dimenticato negli ultimi tempi, si manifesterebbe come una maniera ideale per comprendere come l’uomo si ritrova a vivere, senza esser portato a pensare e ragionare, quella dimensione estetizzante della realtà che i mass-media profilano come unica e migliore di qualsiasi altra. Questo aspetto che riguarda la potenza della comunicazione è l’elemento caratteristico del sistema post-moderno, in cui la razionalità viene dall’esterno e gestisce le capacità soggettive dell’individuo, il quale viene portato a pensare solo ciò che si può pensare, sulla scia di ciò che i media (intesi come televisione, libri, giornali) propongono alla gente che ascolta.
I grandi racconti filosofici hanno fallito durante la modernità, non hanno emancipato l’uomo liberandolo - come ha sostenuto Lyotard -, ma hanno eliminato progressivamente quella razionalità soggettiva che gli permetterebbe di esser tale. Probabilmente ripensare quelle “metanarrazioni” al fine di un superamento dell’imposizione implicita di questa realtà retta sul giogo comunicativo, non risulterebbe negativo nei confronti del sé, ma al contrario potrebbe ri-stimolare le pulsioni dell’uomo alimentandone la coscienza. Dovrebbe esser vista come priorità l’intenzionalità di un ritorno al soggetto che viene scosso di fronte all’oggettivazione della realtà.
Le contraddizioni del postmoderno potrebbero essere trascese a partire da una presa di coscienza del proprio essere all’interno di una società in quanto tale. I media, le industrie, il capitalismo, la tecnologia, tutti dati identificativi di un profilo sociale, tendono in univoco verso l’omologazione, senza ammettere resistenze. Questa non consiste nel rendere tutti uguali secondo un canonico profilo antropologico che identifica l’essere sociale, ma si tratta di un processo più subdolo e implicito che attraverso i media propone un’idea di realtà come unica e sola. In un contesto così alienante, in cui la potenza dei media si identifica nel costituire l’essere nelle società tecnologiche, attraverso le notizie e le interpretazioni del reale, quei grandi racconti filosofici, che per i postmoderni rappresentano racconti metafisici ormai superati, risulterebbero invece come una maniera per mettere in gioco il proprio Io attraverso l’alimentazione del proprio spirito. In virtù del fatto che il nostro presente è totalmente privo di forze protese verso il nuovo, il ripensare il passato in termini di progresso per il nostro presente potrebbe essere una via d’uscita da questa assenza di propulsione che alberga nella vita dell’uomo. Ripensare il passato, senza però copiarlo per cercare di riattualizzarlo in maniera ortodossa, ripensarlo al fine di reinterpretarlo secondo gli schemi concettuali dell’epoca attuale (6).
Quest’ultima è un periodo storico privo di soggetto, di razionalità, di pensiero e in questo caso il ripensare quel passato, che agli occhi dei post-modernisti è risultato un totale fallimento, serve a trascendere e superare il ristagno e lo stallo esistenziale che ha generato quest’idea continua di progresso senza un effettivo sviluppo umano.
 
Per approfondimenti:
Nota 1: David Harvey, La crisi della modernità, il Saggiatore, Milano, 1993, pag. 59-60. Harvey sostiene che la ragione, strumento che il pensiero illuministico aveva utilizzato per l’emancipazione dell’uomo, in virtù del fatto che la morale attraversa il crollo di tale impostazione illuminista, nell’epoca postmoderna essa viene utilizzata come strumento per sottomettere gli altri senza alcun fine spirituale o etico;
Nota 2: Zygmunt Bauman, Vita Liquida, Editori Laterza, Bari, 2008, introduzione, pag. VII. L’autore scrive: «vita liquida» e «modernità liquida» sono profondamente connesse tra loro. «liquida» è il tipo di vita che si tende a vivere nella società liquido-moderna. Una società può essere definita «liquido-moderna» se le situazioni in cui agiscono gli uomini si modificano prima che i loro modi di agire riescano a consolidarsi in abitudini e procedure.” Come si può notare dalle parole dell’autore, il concetto di nomadismo esistenziale in cui l’individuo postmoderno si trova immerso è molto affine all’idea che l’uomo che abita la società liquida sia soggetto, in una simile maniera, ad essere nomade di fronte a un’identità statica;
Nota 3: Fredric Jameson, Il postmoderno, o la logica culturale del tardo capitalismo, Garzanti, Milano, 1989, p.15;
Nota 4: Jean Francois Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano, 1985, p.38. L’autore spiega come con il termine “sapere” si intende una ampia gamma di significati, che attraverso il linguaggio vengono normalizzati identificando quasi il modo di essere dell’uomo nella società. Esempio questo di rapporto tra sapere e potere;
Nota 5: si veda Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino, 1967, p.121;
Nota 6: Esempio è il ripensamento di un marxismo trascendendo la lotta di classe che Marx presupponeva alla base di una società. Oggi si potrebbe ripensare Marx in termini critici nei confronti della condizione alienante dei lavoratori in conseguenza di questa crisi che abbraccia il mondo da più di dieci anni. Non vi è più l’esistenza di classi all’interno della società ma vi è una società addirittura ultra-capitalista, dunque un pensiero come quello marxista potrebbe risultare funzionale al risveglio dal sonno della ragione che l’uomo vive in una condizione esistenziale come quella di oggi.
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di Maurilio Ginex 03/12/2017

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Il grande atto della storia che è fatta da noi è l’atto della trasformazione radicale della società: il corso della storia umana è l’interazione dei numerosi momenti storici, consci e inconsci, volontari e involontari”.
 
L'epoca odierna vuole la soppressione di ogni pulsione vitale e soggettiva mirando ad omologare le masse verso un’unica via in cui trovare la realizzazione materiale e ideale del sé. L’uomo ha il dovere di rivestire un ruolo in cui è necessario alimentare la coscienza partendo dal proprio Io e non degenerando verso il "fuori di sé". L'individuo vive una crisi inconscia, poiché non è consapevole della sua matrice antropologica, la quale è vitalmente attiva e sfugge al meccanismo contorto della società articolata: questa genera individui assoggettati che diventano monadi di un pensiero unico connaturato.
Probabilmente il problema dell’assoggettamento psicologico degli individui rappresenta una questione che andrebbe decostruita partendo dalla mancanza di punti di riferimento ideologici. Un'assenza, che funge da dato peculiare di una realtà contraddittoria, la quale porta l’uomo al non possesso di una coscienza critica nei confronti di ciò che viene dettato come unica legge per una realizzazione. I media hanno sempre operato il loro corso, rappresentando lo strumento del potere, funzionale alle logiche del sistema odierno, portando difficoltà verso critiche costruttive su una loro funzione fattiva.
In questa sede non parleremo di analisi semiotiche a riguardo, ma ciò che bisogna evidenziare - ai fini di una ricerca scientifica di un fenomeno come il nostro (che vede l’uomo, con tutto il suo vitalismo, ridotto a oggetto passivo di una realtà che lo travolge) -, è rappresentato dal tentativo di recupero di una scelta libera da parte dell’individuo. In sintesi bisogna evidenziare come l’uomo, avendo perso la sua forza spirituale critica e cosciente, si ritrovi a divenire oggetto passivo di fronte alla realtà immutabile. È esattamente questo il punto in cui bisogna, probabilmente, ripensare un approccio alla realtà attraverso alcune linee teoriche che hanno caratterizzato il post-strutturalismo.
Quest’ultimo vede l’avvento di quella che fu la cosiddetta Nietzsche-Renaissance, in cui si ripensava Nietzsche per ricostituire l’importanza della volontà di potenza dell’uomo, con l'obiettivo di riportarlo da "oggetto di una struttura", come lo pensavano gli strutturalisti, a "soggetto agente di fronte alla realtà", che riesce a trascendere quella forma.
Oggi, ripensare Nietzsche con le stesse finalità potrebbe essere fuorviante per la comunità umana, data l’importanza che forzatamente hanno fatto rivestire alle scienze umanistiche, ma al di là degli schemi concettuali che fanno capo solamente a un finanz-capitalismo(2) che alimenta l’ideologia unica del denaro, un ripensamento del post-strutturalismo con una particolare attenzione alle posizioni nietzschane potrebbe risultare come un modo per prendere coscienza, da parte dell’uomo, dall’annientamento pulsionale che vive.
[caption id="attachment_9683" align="aligncenter" width="1000"] Friedrich Wilhelm Nietzsche (Röcken, 15 ottobre 1844 – Weimar, 25 agosto 1900) è stato un filosofo, poeta, saggista, compositore e filologo tedesco.[/caption]
Un processo che in partenza potrebbe risultare possibile, ma che in atto trova ogni forma di argine a partire dall’uomo stesso. Oggi, il processo hegeliano di autocoscienza che prevede una  alterità rivestita dall’altro, non trova modo di dar vita al particolarismo differenziale, che gli uomini potrebbero vivere se avessero modo di scegliere senza aver esperienza di quell’angoscia della libertà dal sapore sartriano.
L’autocoscienza sembra mediata da un unico pensiero omologante che si serve di una psicologia inversa secondo la quale l’uomo non può scegliere al di fuori di ciò che viene normalizzato come unica via possibile. Si prende coscienza di se stessi unicamente in base ad un personale allontanamento dallo schema imposto: il compromesso viene rappresentato dal fatto che si viene percepiti come diversi nel momento in cui si sceglie diversamente.
Nell'ottica di uno scenario così alienante per la propria identità, il ripensamento di Nietzsche - che vede l’uomo a metà tra un nichilismo passivo (inteso come una presa di coscienza della crisi morale dell’epoca, senza cambiamento di una situazione così degenerante) e un nichilismo attivo (che invece prevede l’azione dell’uomo come esercizio di forza distruttiva) -, diventa funzionale per dar una possibile forma all’ontologia sociale.
Su questa scia si può osservare come il richiamo verso una volontà di potenza - la quale permette all’individuo il suo adattamento, secondo le proprie inclinazioni pulsionali, verso una struttura basata su un sistema funzionale, che riporti in auge la vera antropologia vitalistica -, potrebbe muovere l’uomo secondo la propria coscienza: proprio in tale ambito bisogna ri-pensare un innesto con Nietzsche.
Di fronte a una generale e disarmante crisi del capitale, non solo monetario, ma anche sociale - proveniente da un corroborante avallo da parte di un individuo antropologicamente assoggettato -, bisogna  con educazione rimettersi in gioco senza rivestire le convenzioni sociali subdolamente dettate attraverso gli strumenti mediatici.
Per sovvertire un caos che funge da struttura manipolante, identificata nella materialità delle istituzioni che tendono a omologare più che a differenziare, bisogna prendere coscienza del fatto che l’uomo dovrà essere il soggetto operante di quella trasformazione radicale della società a cui si alludeva in principio del discorso. Se i fondamenti strutturali della società dominate, sono manipolatrici di coscienze, come può l’uomo scegliere e garantire una trasformazione sociale radicale? Nelle relazioni umane, se non si è allineati con il politicamente corretto, si è fuori luogo: come può ritornare in auge l’uomo, a discapito di un sistema che ci vuole come attori sociali del mito globalizzato?
Un ripensamento di Nietzsche, dunque, potrebbe essere funzionale per rispondere in maniera veemente a quesiti del genere. Un ripensamento, tra l’altro, che riprende le redini di quell’atmosfera culturale che aveva caratterizzato l’ambiente post-strutturalista, come precedentemente evidenziato, e che prevedeva una reinterpretazione anche di figure come Freud e Marx, poiché oggi più che mai ci si ritrova a vivere i drammi esistenziali, economici e morali che identificano la struttura di un’epoca immersa totalmente in una crisi di valori, oltre che pragmaticamente economica e politica, che deteriora fino all’essenza le funzioni di un sistema sociale.
[caption id="attachment_9685" align="aligncenter" width="1000"] Nietzsche soggiornò a Torino tra l'aprile del 1888 e i primi giorni del 1889, precisamente in un appartamento all'ultimo piano del palazzo in angolo tra via Carlo Alberto n.6 e la piazza.[/caption]
Dunque, se Nietzsche fosse ripensato e proposto come un nuovo punto di riferimento per riaccendere le pulsioni vitali dell’uomo ai fini di un principio di auto-realizzazione, l’uomo potrebbe prendere coscienza critica di fronte a una realtà che non vede assolutamente nessun punto di riferimento, se non ciò che l’unica dimensione economica globalizzata permette di vedere: un sistema economico che struttura le menti degli individui, professando come unico profilo quello antropologico dell’uomo economico, che come ci spiega Gallino, ormai è diventato un profilo in carne e ossa(3).
Come precisa Freud, quando numerosi individui mettono un unico e medesimo oggetto al posto del proprio ego ideale, dipendono e sono rafforzati dal ripetersi di un atteggiamento simile da parte degli altri membri del gruppo(4). Dunque, ciò detto, una normalizzazione tipologico-mentale su scala globale, come succede nell’oggi ultra-capitalistico, non può che creare uguali soggetti, i quali agiscono nella totale mancanza di quel vitalismo nietzschano che bisogna riesumare.
 
Per approfondimenti:
Nota 1: Il ruolo della coscienza nella storia è stato analizzato da Marx e Engels nel Manifesto del partito comunista, e in altre opere successive. Citazione riportata L. Krader, nella Storia del marxismo, Einaudi Torino, 1978, pag. 221, I tomo;
Nota 2: Si veda, Finanzcapitalismo, Luciano Gallino, Einaudi Torino, 2011-2013;
Nota 3: Ibidem, pag. 139;
Nota 4: Si veda, Antropologia come critica culturale, George E. Marcus e Michael M.J. Fischer, Anabasi Spa Milano, 1994, pag. 194.
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di Maurilio Ginex 04/10/2017

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Se c’è un tema su cui oggi bisogna interrogarsi è proprio quello di capire che posto occupa la cultura in società. Dalla comprensione del grado di importanza che riveste la cultura per una società si può scorgere un metro valutativo che permette di comprendere su quale direzione essa si sviluppa e quali siano le inclinazioni verso cui si dirige.
Per condurre tale indagine bisogna capire in principio, il grado dell’istruzione del sistema sociale, dunque quali sono i campi del sapere scientifico su cui si investe, quali sono i valori ai quali vengono esposti gli individui una volta posti di fronte alla grande scelta della loro vita e quali sono i profili professionali socialmente e razionalmente utili. Attraverso la comprensione di questi fattori si può cominciare a delineare il profilo strutturale di un sistema sociale.
Una persona appena uscita dalla scuola, subisce uno spaesamento come quello di un naufrago che in mezzo al mare non può basarsi su nessun punto di riferimento.
La conseguenza che l’angoscia può generare da una scelta drastica, porta l’individuo a farsi influenzare dai bombardamenti psicologici della struttura sociale, la quale coercitivamente viene percepita come utile e ideale. E’ proprio questo il momento in cui l’individuo subisce la persuasione del sistema che lo invoglia ad abbracciare quei valori basati sulle uniche (e universali) offerte di formazione che si conformano alle logiche del sistema.
Nell’attuazione di una divisione del sapere, facendo una scala di importanza, non vi è spazio per scelte che vertono su campi di apprendimento umanistico, poiché questi campi non sono conformi alla logica di mercato, la quale si identifica con quei valori che portano l’uomo unicamente verso la cosiddetta prosperity, ovvero, quella prosperità economica che porta all’accumulo di denaro. Intorno agli ’70 del secolo passato, Ivan Illich, un intellettuale austriaco di fama mondiale, scriveva un libro intitolato “Descolarizzare la società” (1971) e alcune delle sue parole sono queste:
La scuola vende un corso di studi: vale a dire, un pacco di merci simili per struttura e metodo di fabbricazione a qualunque altra mercanzia. La produzione di questi corsi nasce nella maggior parte delle scuole da una ricerca cosiddetta scientifica, partendo dalla quale i tecnici dell’istruzione prevedono, nei limiti fissati dai bilanci e dai tabù, la futura richiesta di utensili umani per la catena di montaggio... Si insegna agli allievi-consumatori a conformare i propri desideri ai valori suscettibili di essere messi sul mercato. In tal modo si ottiene che si sentano colpevoli se non si comportano secondo le predizioni delle indagini di mercato procurandosi i voti e i diplomi che permetteranno loro d’accedere a quella categoria professionale cui sono stati indotti ad aspirare”.
[caption id="attachment_9500" align="aligncenter" width="1000"] Ivan Illich (1926 – 2002) è stato uno scrittore, storico, pedagogista e filosofo austriaco. Personaggio di vasta cultura, viene citato spesso come teologo, poliglotta, per la sua vasta conoscenza di svariati idiomi, e storico. Viene però più spesso ricordato come libero pensatore, capace di uscire da qualsiasi schema preconcetto e di anticipare riflessioni affini a quelle alter-mondiste. Estraneo a qualsiasi inquadramento precostituito, la sua visione è strettamente affine all'anarchismo cristiano. Vice rettore dell'Università di Porto Rico e fondatore in Messico del Centro Intercultural de Documentación (CIDOC), ha focalizzato gran parte della sua attività in America Latina.[/caption]
L’autore scriveva in un periodo storico in cui già si percepivano gli aloni del cambiamento strutturale della società. I tecnicismi facevano il loro ingresso nella quotidianità dell’individuo modellando la mente di quest’ultimo, secondo valori che si conformassero all’unica etica basata sul consumo e su una polarizzazione della società attraverso scelte professionali e profitto di quest’ultime.
L’analisi di Illich parte dalla scuola americana vista come uno dei poli che alimenta il sistema capitalistico. Già a scuola l’individuo viene manipolato, attraverso subdole logiche che portano il ragazzo-individuo a scegliere da sé ciò che è socialmente utile. Però al di là della società americana - che per essenza divide il popolo in base al reddito -, in un mondo ultra-capitalistico al livello globale come quello di oggi, vediamo come le contraddizioni che evidenziava a suo tempo l'autore austriaco abbiano subìto un ampliamento portato all’eccesso. Già a scuola la persona sa cosa scegliere ai fini di una aderenza al tessuto sociale. Alla domanda di quest’ultimo, si attua una selezione dei vari campi di ricerca ai fini di una perfetta e adeguata collocazione futura. Adeguata, certamente, alle logiche di mercato, che mercificano l’apprendimento, rendendo gli individui “(...) umani per la catena di montaggio”.
E’ alienante come si sia sviluppato con tanta naturalezza un sistema sociale così settoriale e implicitamente autoritario, come diceva Simone Weil: “(...) la società è diventata una macchina che comprime il cuore”.
Non vi è lo spazio per ascoltare il sordo richiamo delle pulsioni e delle proprie inclinazioni, poiché nell’aridità dello spirito si strutturano griglie concettuali e schemi sociali ben saldi e compatti che difficilmente trovano il modo di inserirsi in discussione. La descolarizzazione della società ha portato la cultura in un cunicolo buio rinchiuso dentro uno sgabuzzino che viene aperto soltanto all’occorrenza, quando qualcuno decide di farlo. La cultura non è visibile sull’orizzonte della una realizzazione poiché questa non è mercificabile e non è in perfetta linea con la tipologia di intenzionalità alimentata dalle istituzioni: soltanto se questa viene ricercata al di fuori di schemi prestabiliti dai tecnici dell’istruzione, per continuare a dirla con Illich, la si può abbracciare e utilizzare come risorsa. Ma una società descolarizzata, tende a far credere di essere un estraneo o un diverso a chiunque voglia imboccare la via del "pensare altrimenti", a ciò che viene convenzionalmente pensato come ideale.
[caption id="attachment_9502" align="aligncenter" width="1000"] La scuola obbligatoria, la scolarità prolungata, la corsa ai diplomi, l'università di massa: differenti aspetti di quel medesimo falso progresso che consiste nella preparazione di studenti orientati al consumo di programmi scolastici e di merci culturali studiate per imporre il conformismo sociale, l'obbedienza alle sue istituzioni e ai suoi manager. Anche la strutturazione del profilo degli insegnanti, per promuovere una didattica basata sul modello della trasmissione delle conoscenze, ha lasciato l'uomo della società dell'informazione e dei consumi privo di strumenti e ancora più esposto al rischio di una mistificazione strumentale delle sue qualità migliori. A tutto ciò, Ivan lllich aveva opposto la sua visione, una quarantina di anni fa, con un testo che è una pietra miliare del pensiero occidentale alle prese con la grande trasformazione culturale e tecnologica in atto. E con un'idea di scuola ben precisa. Descolarizzare la società vuol dire, per il suo autore, sostituire un'educazione autentica ai rituali dell'educazione di massa per imparare finalmente a vivere attraverso la propria vita e nell'incontro con l'altro. Non sì tratta solo di una rottura radicale e necessaria con un sistema di poteri e di saperi, ma di restituire all'uomo il gusto di inventare, creare e sperimentare la propria vita partecipando alla sfida della vivibilità del pianeta in questo tempo.[/caption]
Per comprende più a fondo questo sistema sociale che aliena le pulsioni soggettive e rende estranee tutte le forme di alternativa a ciò che viene proposto (e imposto), bisogna far luce su alcune analisi che Michel Foucault condusse riguardo all’ordine del discorso e sul rapporto che intercorre tra sapere e potere. Secondo l’intellettuale francese di Poitiers, la produzione dei discorsi è veicolata e controllata attraverso una serie di processi che poi avranno a loro volta potere e controllo sul sapere. Foucault parlava di un potere che principalmente fosse una forza positiva, la quale agendo dall’interno dell’individuo crea un profilo antropologico assoggettato e che per definizione non resiste all’imposizione, dunque un potere che produce e fabbrica individui.
Attraverso quest’ottica, la quale vede evidenziate le logiche di un potere che normalizza una coscienza assoggettata, rapportando il problema dell’esistenza di tale potere alle logiche precedentemente analizzate, attraverso l’acume di Illich, possiamo notare e comprendere il perché oggi vi siano discipline che risultano non funzionali al sistema, che per l’appunto accetta e promuove figure professionali che siano perfettamente scollate da un ideale di società scolarizzata.
Dunque, il potere che agisce sul sapere porta a una settorializzazione del lavoro e nel particolarissimo periodo storico attuale, privo di punti di riferimento intellettuali, vi è attuata una separazione enorme tra lavoro pratico (e utile) e il lavoro intellettuale. In questa separazione si può quasi scorgere l’eliminazione della seconda tipologia di lavoro, poiché non rappresenta un impiego al servizio delle logiche di mercato: questa situazione non mina soltanto l’individuo singolo che probabilmente si ritroverà a scegliere una formazione professionale in base a ciò che risulta come convenzionalmente sociale, ma mina anche l’istituzione primaria che rappresenta la formazione dell’individuo, ovvero, l’università.
[caption id="attachment_9503" align="aligncenter" width="1000"] Paul-Michel Foucault (1926 – 1984) è stato un filosofo, sociologo, storico, accademico e saggista francese. Filosofo, "archeologo dei saperi", saggista letterario, professore al Collège de France, tra i grandi pensatori del XX secolo, Foucault fu l'unico che realizzò il progetto storico-genealogico propugnato da Friedrich Nietzsche allorché segnalava che, nonostante ogni storicismo, continuasse a mancare una storia della follia, del crimine e del sesso.[/caption]
Tornando a Illich, vediamo come nel testo sopracitato, viene affrontato anche il tema della decadenza delle Università, che inizialmente rappresentavano i poli culturali in cui il dibattito tra individui generava autocoscienza, pensiero, riflessione, in cui vi si costituiva l’identità delle indagini scientifiche, in cui si ritrovavano luoghi di propaganda culturale e che già al tempo dell’autore subirono un cambiamento nella loro funzionalità. Illich fa un paragone di varie società con la società americana: in quest’ultima lo studente è visto come un qualcosa che alimenta lo sviluppo del sistema e quindi in tale logica si osserva l’individuo come capitale sociale per il sistema. Era più funzionale puntare sulla quantità di studenti impiegati in determinati settori più che sulla qualità che poteva fuoriuscire dalle decisioni soggettive secondo particolari inclinazioni.
Oggi, questo stato di cose, non è cambiato, anzi ha visto il suo sviluppo. Il discorso sull’istruzione universitaria e sull’impiego ha generato un processo di esclusione di determinati settori, tale processo ha generato quel discorso che a sua volta genera potere sul sapere. Attraverso Foucault vediamo come in una società come la nostra, il discorso generi quel processo di esclusione che porta a riconoscere il carattere di verità solo di determinati discorsi, che sarebbero quelli che vengono diffusi dagli apparati istituzionali. Il discorso sull’istruzione è uno di quei discorsi che tipicamente viene colpito dalle convenzioni sociali, dunque vi saranno continuamente pareri discordanti sulle scelte acquisite di fronte a un progetto di vita. Nello specifico vi è un conflitto tra facoltà universitarie.
Oggi, principalmente, si opera per assicurarsi l’accumulo di denaro futuro, non correndo rischi legati al compromesso tra ciò che è più rassicurante e ciò che rappresenta invece il proprio reale desiderio: una situazione che in alcuni casi snatura anche della sua nobile essenza alcune scelte di vita, come iscriversi a medicina. Il medico, missione di vita per eccellenza, non può subire la privazione del suo reale significato venendo limitato a un lavoro in quanto tale.
Hannah Arendt, in “Nel deserto del pensiero”(1950-1973) scriveva: “Il lavoro serve sempre ad assicurare il sostentamento. Se faccio il medico per guadagnarmi da vivere, la Τέχνη della guarigione è degradata al rango di lavoro. Il mondo moderno ha trasformato ogni attività in lavoro, ha spogliato tutto della sua dignità”. 
Parole che fanno luce sullo spirito che alberga nella società attuale, che seleziona in base a un utile, che degrada la nobiltà delle cose e priva di dignità l’uomo senza permettergli di scegliere. Una situazione conflittuale che vede una maggioranza a sostegno dell’utilità immediata delle scelte prese e conseguentemente una minoranza che di contro difende le proprie posizioni fatte di inclinazioni e pulsioni.
Questa scissione tra individui, mina la collettività che rappresenta la "conditio sine qua non" per cui vi siano le possibilità per non vivere angosciati nella paura di non imboccare la via definita giusta.
Kierkegaard prima, Sartre dopo, si sono espressi sul concetto di "scelta" - generante angoscia e paura di aver preso la giusta decisione - secondo gli schemi convenzionali. Kierkegaard parla di un’angoscia generata dall’esperienza dell’ignoto e inconoscibile, Sartre parla dello stesso elemento da un punto di vista diverso, cioè l’uomo in assoluta libertà, il quale può scegliere davanti alla vita e attraverso il quale ne viene evidenziato proprio questo particolare carattere di libertà, senza influenze, che genera l’angoscia e lo spaesamento dell’uomo.
Da chiedersi è dunque, che posto ha lo spirito soggettivo dell’uomo? In un mondo dove l’unica ricerca è quella dell’utile, dove non vi è l’idea di sbracciarsi per giungere a un obiettivo che ci si prefissa di raggiungere, un mondo dilaniato dall’idea dell’arrivare subito e sicuramente, senza ostacoli, una realtà che non ammette il pensiero razionale e che preferisce far “scegliere” nell’assoluta irrazionalità l’uomo.
Quella compiuta è tutta un’analisi che si ricongiunge al testamento che Ivan Illich ha lasciato all’umanità. Un testamento che si identifica nel ripercorrere, in questo caso specifico, la struttura dell’istruzione all’interno della società e il ruolo che hanno i propagatori della cultura e della conoscenza. Gli insegnanti, gli intellettuali, gli studiosi, in una società descolarizzata che tende a quantificare al posto di qualificare, non è assolutamente vero che non hanno il loro posto, poiché rappresentano quel progresso intellettuale che combatte contro un’irrazionalità totalizzante che rema ai danni dello spirito, rappresentano quella fetta di progresso che ha il potere e la posizione di combattere e resistere contro l’oggettivazione dei futuri, rappresentano quel principio di speranza dal sapore blochiano, rappresentano quella mano tesa al naufrago disperso nel mare.
 
Per approfondimenti:
_ Ivan Illich, Vedi, Descolarizzare la società - Edizioni Mondadori, 1971, pag. 67-68;
_Michel Foucault, L’ordine del discorso - Edizioni Einaudi, 1971;
_Hannah Arendt, Nel deserto del pensiero - Edizioni Neri Pozza, Vicenza, 2007;
_Ernst Bloch, Il principio speranza - Edizioni Garzanti, Milano, 1994.
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di Maurilio Ginex 21/08/2017

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Uno dei temi più discussi all’interno della corrente esistenzialista che ha attraversato il Novecento, viene rappresentato dal tema della libertà e dal rapporto che quest’ultima ha con l’uomo. Il progetto del proprio sé davanti all’essere, si configura come un arduo “ostacolo” da “superare”. Tale virgolettatura sta ad indicare quanto sia continuamente in movimento il dipanarsi del progetto della vita di ogni uomo ed evidenzia quanto in realtà sia complesso il meccanismo che intercorre tra le scelte dell’uomo che guarda il suo futuro (imminente o prossimo) e le possibilità che si prospettano per ricongiungersi ai propri obiettivi.
Nel 1943, una delle figure più illustri dell’ambiente intellettuale francese, Jean-Paul-Charles-Aymard Sartre, scrive il suo capolavoro che gli diede la fama internazionale: L’essere e il nulla. Quest’opera, rappresentante di uno dei capisaldi dell’esistenzialismo novecentesco, affronta tutte le dinamiche della dimensione umana, sotto il punto di vista dell'esistenza.
[caption id="attachment_9288" align="aligncenter" width="1000"] Jean-Paul-Charles-Aymard Sartre (Parigi, 21 giugno 1905 – Parigi, 15 aprile 1980) è stato un filosofo, scrittore, drammaturgo, critico letterario francese, considerato uno dei più importanti rappresentanti dell'esistenzialismo, che in lui prende la forma di un umanesimo ateo in cui ogni individuo è radicalmente libero e responsabile delle sue scelte, ma in una prospettiva soggettivista e relativista. In seguito Sartre diverrà un sostenitore dell'ideologia marxista e del conseguente materialismo storico.[/caption]
All’interno del testo confluiscono le molteplici influenze che hanno costituito gli studi dell’autore a monte della stesura dell’opera, da una parte la matrice husserliano-heideggeriana sul tema del rapporto coscienza-mondo ed essere umano-essere delle cose, da un’altra parte quella hegeliana sulla Fenomenologia attraverso la mediazione di Kojève che ha permesso all’autore di sviluppare la contrapposizione tra l’essere dell’uomo e l’essere delle cose, insomma una quantità di matrici che hanno permesso a Sartre di arrivare fino alla radice dei problemi esistenziali che accompagnano l’uomo nella propria vita e di indagare sul nocciolo dei perché dell’esistenza.
Un’opera , dunque, densa e carica di temi, che porta alla luce in maniera molto preponderante quel tema iniziale su cui era stata fatta menzione, ovvero, il tema della libertà dell’uomo dinanzi alle scelte. Sartre attua una differenziazione tra l’essere in-sé delle cose, visto come un qualcosa di immutabile, fermo, statico; e l’essere per-sé della coscienza, ovvero, l’essere umano (Sartre 2002) visto ovviamente come elemento di irrequietezza e in movimento perenne.
Su questo frangente, vediamo chiaramente come la matrice husserliana fa il suo corso, poiché attraverso Husserl apprendiamo come la coscienza è sempre "coscienza" di qualcosa.
L’essere in-sé in Sartre rappresenta quel mondo di elementi auto-sufficienti di fronte alla coscienza dell’uomo, e che rivelano il mondo dato, nella sua manifestazione immediata, intravedendo la non-essenzialità umana.
L’in-sé , dunque, nell’ottica sartriana, non è mai diverso da ciò che è, rappresentando il reale essere nella sua essenza. Di contro l’essere per-sé, nella sua mobilità e irrequietezza, assume le caratteristiche di una negazione di se stesso su cui si apre il nulla dell’essere. Qui vediamo come la matrice hegeliana subentra all’interno dello sviluppo del concetto, l’essere per-sé della coscienza dell’uomo genera la negazione di se stesso, proprio perché nel continuo movimento attua un logoramento di sé a partire da sé. Perché questo? Per rispondere al quesito, Sartre evidenzia come l’essere umano (l’essere per-sé) essendo diretto continuamente verso un progetto futuro, non è mai ciò che è (in funzione del proprio passato), ma è sempre ciò che non è (in funzione di un futuro che deve ancora arrivare). Si ha constatazione della negazione hegeliana, nel momento in cui si prende coscienza che l’essere del "per-sé essendo" è volto verso il futuro e  non verso qualcosa di concreto e definito come "l’essere in-sé delle cose" che sono immutabili e statiche. Esso è condannato ad essere sempre qualcosa di diverso ed estraniato da se stesso, proprio per questa sua caratteristica di essere volto verso il futuro che ancora non è. Giunti alla consapevolezza che l’essere concreto si sintetizza nelle cose, nell’in-sé, Sartre evidenza come al di fuori ciò, non vi sia altro che il nulla - come poc’anzi riportavamo all’interno del discorso.
Diversamente, il nulla non può essere un prodotto delle cose, che staticamente, sono ferme e inermi lì davanti all’uomo, poiché il nulla è un prodotto della coscienza dell’uomo che "è", come dice l’autore, “presenza alle cose” e in quanto presenza ha la mansione di dar senso a quegli elementi che costituiscono il mondo, poiché all’interno della loro qualità di essere concretamente, sono allo stesso tempo inermi e prive di coscienza, dunque senza senso e significato.
Sartre pone in analisi, dunque, il fatto che l’uomo, attraverso un processo di autocoscienza con le cose del mondo, comprende quel processo di annullamento del sé, estraniandosi. Allo stesso tempo quel processo di annullamento è anche delle "cose" e "dell’in-sé", proprio per via del potere di dar senso e significato a tali elementi: è il concetto di poter scegliere la differenzia "dell’in-sé", dal "per-sé". Il "per-sé" della coscienza dell’uomo assume la propria libertà in questa negazione, o meglio, in questo annullamento doppio che attua nei confronti di sé, in quanto non è mai ciò che è ma soltanto ciò che sarà, e parallelamente delle "cose", in quanto padroneggiando il loro senso e significato, può anche optarne l'annullamento. Con questa duplice mansione si scorge il fatto che in fondo l’uomo, proiettato nella sua condizione esistenziale in cui fa esperienza di questo nulla nullificante, si ritrova ad essere protagonista di una libertà che lo accompagna nelle sue scelte, nei sui progetti, nel suo divenire. La libertà, evidenzia Sartre - sulla scia segnata precedentemente da Kierkegaard -, rappresenta l’angoscia su cui l’uomo si affaccia. Essere padrone delle proprie azioni, valutando da sé e senza intercessioni, la qualifica delle nostre scelte prese a monte, risulta per l’uomo angosciante. L’opera di Sartre che affronta questo tema della libertà, alla quale l’uomo è impossibilitato a sottrarsene, dà la possibilità di scorgere la traccia di quella lettura dettagliata, condotta dall’autore nei confronti di Heidegger e del suo "Essere e tempo" (1927).
L’uomo di Heidegger prende coscienza dell’angoscia nel momento in cui di fronte ai progetti che si prefissa fa esperienza del suo essere gettato nel mondo e della nullità dell’essere a cui si espone, cosa che può essere superata tramite una presa di coscienza nel cosiddetto, heideggerianamente, essere-per-la-morte, in Sartre all’interno di questa “gettatezza” l’uomo ha il dovere di prendere coscienza dell’angoscia come una condizione dell’essere di fronte allo scegliere del futuro. Lungi dall’essere determinati da valori precostituiti (idealismo), l’uomo genera il progetto di sé attraverso la libertà verso cui è condannato: conoscere sé stesso.
[caption id="attachment_9290" align="aligncenter" width="1000"] Simone de Beauvoir e Jean Paul Sartre: si conoscono a luglio alla Sorbona. Lui, 24 anni, basso, vestito senza cura, strabico, con scarsa propensione all’igiene personale. Grande affabulatore. Lei, la ragazza dell’alta borghesia. Bella, dalla pelle chiarissima, che viene subito attratta dal magnetismo dell’intellettuale.[/caption]
L’angoscia è dettata da questa consapevolezza, dal sapere che si è liberi di fronte all’essere, poiché si è, per dirla con Jaspers, naufraghi dell’essere, senza quei punti di riferimento che ti veicolano verso una decisione. Nell’azione l’uomo genera se stesso, la libertà nasce dall’atto concreto che si manifesta attraverso l’intenzione umana, “ogni azione deve essere intenzionale” , dice Sartre, “essa deve, effettivamente, avere un fine e il fine a sua volta si riferisce a un motivo”(5). Mediante la consapevolezza della propria libertà, si prende consapevolezza agendo senza influenze e senza condizionamenti, si acquista coscienza del progetto scelto per il mio sé - dice nuovamente Sartre a riguardo: "(...) Io sono infatti un esistente che impara la sua libertà mediante i suoi atti” -, mediante l’agire dunque comprendo di essere libero. Non essendoci strutture basate su valori che determinano le mie intenzioni e non essendo agito da nient’altro che me stesso, i valori rappresentano qualcosa che assume senso nel momento in cui progetto me stesso, sono i valori che diventano il prodotto del mio progettare.
Però questa totale libertà, assume dei tratti che conducono ad una accezione negativa di questa libertà: Sartre parla propriamente di un essere condannato ad essere libero. In espressioni simili, diventa chiaro il fattore che non vi sia una totale felicità alla base di questa libertà, poiché nella libertà di scelta - facendo quest’esperienza diretta dell’angoscia, generata dall’ignoto che si prospetta di fronte alla scelta stessa -, si cela un approccio all’angoscia che porta l’uomo a fuggire da sé e da tale libertà. Sartre definirà questa fuga con il termine “malafede", che deve essere intesa come forma di menzogna nei confronti di se stessi: essere nei confronti di noi stessi in malafede.
Nel momento in cui pratichiamo la menzogna verso noi stessi, sfuggendo, per paura, all’angoscia generata dalla libertà verso cui siamo condannati, ci sottraiamo al tenere testa alle difficoltà, ai mali, che ontologicamente sono costitutivi della nostra esistenza. Su tale discorso Sartre, edifica un ragionamento che differenzia le funzioni che nell’agire umano, assumendo la volontà e le passioni. Nel capitolo dell’opera, intitolato, “Essere e fare: la libertà”, l’autore ci introduce il rapporto che intercorre in forma soggettiva da due diversi fronti: la volontà, le passioni dell’individuo e la libertà.  Scrive l’autore: “(...) la realtà-umana, nel suo stesso nascere, decide di definire il suo essere proprio mediante i suoi fini”. Dunque nel raggiungimento intenzionale e volontario del proprio fine si scorge, l’individuo in quanto tale, si svela il suo essere. In questo gioco di volizioni, la libertà diventa il fondamento pre-intenzionale dei fini personali dell'uomo, raggiungibili attraverso la volontà e tramite le passioni irrazionali, tutti elementi che già agiscono sull'uomo.
Diversamente c’è da sottolineare come Sartre evidenzi il fatto che nel momento dell’atto, dell’azione, della messa in pratica della scelta, la libertà sia un momento contemporaneo alla volontà o alla passione: vi è soltanto da capire quali entità - tra la volontà e passioni irrazionali -, giochino in questa libertà nell’agire. L’uomo è libero di lasciarsi abbandonare alle passioni, alla paura, al sentimento, alla gioia e farsi trasportare da questi elementi, per giungere a finalità prodotte da questi fattori inconsci. Di contro l'uomo può ritrovarsi ad essere volontariamente libero di assumere un determinato comportamento ed essere intenzionato a raggiungere un fine prestabilito. Si parla di modalità dell’essere o come Sartre stesso dice espressamente: “(…) in rapporto alla mia libertà non vi è alcun fenomeno psichico privilegiato. Tutte le mie maniere di <<essere>> la manifestano ugualmente (…)”.
Si parla di vere e proprie modalità di essere, in cui si manifesta la libertà di scelta del come agire: allora si potrà scegliere di essere volontà o passione, si optare un fine partendo da un punto scelto dal singolo, oppure scegliere ugualmente e in ogni caso l'auto-progettarsi della propria soggettiva libertà.
 
Per approfondimenti:
_Jean Paul Sartre, "L’essere e il nulla" - Edizioni Il Saggiatore, Milano 2002;
_Ernst Bloch, "Teoria ontologica del non-essere-ancora";
_G. Fornero e S. Tassinari, "Le Filosofie del Novecento" - Edizioni Bruno Mondadori, 2002;
_M. Heidegger, "Essere e tempo" - Edizioni Longanesi, Milano.
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di Maurilio Ginex 21/07/2017

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Nell’epoca del nichilismo più radicale e consolidato, l’uomo nel suo impatto con l’essere trova il dispersivo senso di vuoto, poiché non potendo disporre di punti di riferimento scelti e individuati secondo inclinazione, si ritrova ad essere oggetto di una logica pervasiva che sceglie al posto suo. Tale logica pone le sue radici in un processo storico, che oggi converte l’inclinazione pulsionale dell’individuo in arido asservimento di fronte a una forzata settorializzazione del lavoro, che a sua volta settorializza le scelte dell’uomo non permettendogli di rispondere a una domanda interiore su una ipotetica larga scala di possibilità, ma ponendolo in una condizione tale in cui si perde l’autenticità di qualsiasi scelta che sarà inconsapevolmente veicolata dai limiti posti dall’ odierna realtà.
La scrittrice francese Simone Adolphine Weil,  negli anni ’30 del Secolo passato, filosofa e attivista impegnata a tal punto da abbandonare la sua professione di insegnante e studiosa e entrar a lavorare come operaia alla Renault di Parigi, attraverso le sue a-sistematiche analisi della realtà pose in rilievo, parallelamente allo sviluppo dell’economia, il metodo di sviluppo della settorializzazione lavorativa e l'analisi della mancata variazione delle condizioni dell'uomo sul lavoro.
[caption id="attachment_9142" align="aligncenter" width="1000"] Simone Adolphine Weil (Parigi, 3 febbraio 1909 – Ashford, 24 agosto 1943) è stata una filosofa, mistica e scrittrice francese, la cui fama è legata, oltre che alla vasta produzione saggistico-letteraria, alle drammatiche vicende esistenziali che ella attraversò, dalla scelta di lasciare l'insegnamento per sperimentare la condizione operaia, fino all'impegno come attivista partigiana, nonostante i persistenti problemi di salute.[/caption]
Gli anni in cui opera Simon Weil, si configurano come lontani soltanto per categorie di interpretazione e temporalità, ma nello specifico risultano essere le radici della realtà, la quale progressivamente è andata sviluppandosi arrivando alla contemporaneità. La nostra realtà - parafrasando Nietzsche risulta essere quella di un nichilismo radicale -, ingloba nella sua essenza capitalistica i destini dei singoli individui, che non hanno inconsapevolmente nessun potere decisionale di fronte allo scegliere sul sé individuale. Oggi i limiti del possibile sono veicolati dall’economia, intesa non come spiegazione di processi che portano al progresso o al regresso di una nazione, ma intesa come “ideologia” che veda come unico scopo la mercificazione di tutto per una finalità unica che è l’accumulo di denaro.
Tale finalità intesa come unica e sola non può ammettere certamente il concetto di auto gratificazione che l’individuo vivrebbe nel momento in cui fosse posto nelle condizioni di scegliere una qualsiasi posizione che si adatti alle sue inclinazioni, poiché in questo caso sarebbe possibile scindere la felicità scaturita dalla bellezza di ciò in cui ci si impegna lavorando e la felicità derivata dal guadagno finale.
Il sistema di cui siamo individui costituenti non permette questa scissione, dato che il progresso della tecnologia misto a quella forma di economia aberrante promuove le tesi di un capitalismo che - nell’ottica di Simone Weil -, pone l’uomo in una condizione incontrollata di asservimento a un qualcosa di normalizzato e imposto. Un esempio tangibile potrebbe risiedere nelle Università, le quali oggi sono scelte in base a ciò che per l’individuo, ragazzo o adulto che sia, sembra più conveniente ai fini di una “sicurezza” nella propria collocazione futura.
L’annientamento pulsionale viene normalizzato plagiando l’individuo verso l’idea che soltanto alcune tra le scelte possibili, siano le giuste e adeguate: l’uscir fuori dai dettami di un sistema imposto renderebbe l'individuo come "diverso" e lo porrebbe come estraneo agli occhi di una collettività cieca. E’ proprio su questo contesto che si dipana la contrapposizione tra campi scientifici e campi umanistici, che vede in auge i primi a discapito dei secondi. Simone Weil , a suo tempo, nello scontro effettivo e pratico con il lavoro, quasi come se fosse una ricerca antropologica sul campo, lavorando all’interno della Renault, comprese come l’individuo gettato dentro quelle fabbriche non avesse la possibilità di sovvertire un sistema che lo schiacciava, sulla scia di questa alienazione definì la società come una macchina, la quale nella sua essenza comprime il cuore dell’individuo.
Sulla scia di tale lezione e alla luce della comprensione delle contraddizioni della nostra realtà, non possiamo che ri-definire l’odierna società nello stesso modo in cui a suo tempo la definì la Weil, poiché oggi non c’è spazio per il cuore, non c’è spazio per le inclinazioni, non c’è spazio per le passioni autentiche, ma bisogna sopperire alla datità oggettiva di un sistema che gioca su un unico perno che è, per come direbbe Edmund Husserl, la prosperity.
Quest’ultimo, un concetto che rappresenta in un’unica parola questo unico fine che gli individui difendono accuratamente tramutando il denaro da mezzo per lo stare al mondo a un fine unilaterale, sotto il quale tutto diventa sovrastruttura dipendente. Ma tuttavia , nelle parole e nelle analisi di Simone Weil, nonostante vi fosse questa idea che l’uomo non avesse prospettive di miglioramento della propria condizione, si potrebbe inserire l’idea che un testamento, in fondo, sia stato lasciato all’umanità. Un testamento da approfondire accuratamente, attraverso una comprensione che passa tramite l'analisi dell’uomo stesso, il quale viene sottomesso al giogo di un potere, difatti la Weil a suo tempo non riuscì a vedere nessuna prospettiva di miglioramento delle condizioni lavorative di quegli impiegati nelle fabbriche della Renault. Di contro la scrittrice non sta asserendo che non si debba combattere, dato l’abbattimento della legittimità nell'avere i diritti, ma esorta a disertare il concetto di asservimento in forma implicita.
Un asservimento, che deve essere combattuto in ogni forma, nella speranza che possa mutare - dal lavoro senza sosta degli operai degli anni ‘30 - verso l’imposizione gratuita di una scelta, di fronte a un percorso universitario da iniziare.
Tale procedura non deve essere percepita e acquisita come tale , ma di contro deve risultare come quella forza che spinge il vitalismo dell'antropologia umana. Nel combattere bisogna far penetrare e rendere visibile chi siamo, mettendo in gioco pulsioni e inclinazioni, così da rendere inerme ogni forma di sopore imposta. Per concludere riprendo le parole del grande Albert Camus: “mi rivolto dunque sono”.
 
 Per approfondimenti:
_Simone Weil, acuta e lucida interprete della realtà e delle sue contraddizioni, attraverso le sue teorie risulta difficile collocarla all’interno di canoniche correnti filosofiche;
_G. Fornero e S. Tassinari, “Le filosofie del Novecento” - Edizioni Bruno Mondadori, Milano;
_Edmund Husserl, “la crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendetale” - Edizioni il Saggiatore, Milano;
_Albert Camus, “l’uomo in rivolta”, Edizioni Bompiani, Milano, 1951.
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di Maurilio Ginex 29/04/2017

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Adorno nella storia della speculazione filosofica e sociologica del Novecento rappresenta una delle figure più illustri del Secolo, nonché uno dei padri fondatori della Scuola di Francoforte. La sua ricerca è veicolata da una grande versatilità nei vari campi del sapere come quello della musica e dell’estetica dove risiede una acutissima lucidità di analisi di un sistema sociale e politico che si è sviluppato tra gli anni ‘20 e gli anni ’40 del Secolo passato.
[caption id="" align="aligncenter" width="1000"] Theodor Ludwig Wiesengrund-Adorno ( 1903 – 1969) è stato un filosofo, musicologo e sociologo tedesco.[/caption] Per comprendere determinate caratteristiche peculiari della ricerca adorniana bisogna partire dalle critiche alla matrice speculativa dei neopositivisti. Adorno considera illogico che i neopositivisti rifiutino ogni forma di lettura totalizzante della realtà. Da questo rifiuto dipana le sue posizioni, chiaramente contrarie, poichè difensore del metodo dialettico. Questo, rappresenta un dato importante per comprendere l’essenza delle posizioni filosofiche di Adorno e anche degli altri intellettuali francofortesi, come Herbert Marcuse e Max Horkheimer. [caption id="attachment_8563" align="aligncenter" width="1000"] Theodor Adorno e Max Horkheimer. I due hanno costituito un connubio intellettuale durata quasi tutta la vita dei due intellettuali francofortesi.[/caption]

Questi sviluppano le loro teorie in un contesto socio-politico che ha segnato la storia del Novecento. È l’Europa della Seconda Guerra Mondiale, dell’avvento dei totalitarismi, della crisi della ragione che produce scempi come la Shoah e Auschwitz, l’epoca dello sviluppo tecnologico mosso dall’incombere di un capitalismo pervasivo portato all’eccesso. Un periodo storico in cui agisce Adorno e la scuola di Francoforte tutta, in cui le contraddizioni diventano l’essenza che è alla base della vita della società. Nell’ottica critica di Adorno, queste contraddizioni non possono essere superate solo attraverso l’approccio neopositivista nei confronti della realtà. Adorno critica al neopositivismo di fermarsi solo alla manifestazione dei fatti, quasi come se l’obiettivo finale nella ricerca della verità fosse la superficie delle cose. Nel momento in cui si parla di contraddizioni che costituiscono il reale sembra quasi illogico l’arrestarsi di fronte a un fenomeno senza che ci sia una decostruzione dell’essere in sé, criticando ai neopositivisti proprio questa legittimazione del reale. Le contraddizioni sociali, politiche, etiche della realtà che viviamo possono essere messe in risalto, quasi come se ci servissimo di una lente di ingrandimento, unicamente dal metodo dialettico. Sono propriamente queste le tesi che Adorno sostiene e difende al Congresso di Tubinga nel 1961. Nella Logica delle scienze sociali, entra in conflitto con i neopositivisti e in particolar modo con Karl Popper, il quale sosteneva che la scienza e la sociologia non potevano essere analizzate attraverso un metodo differente da quello deduttivo tipico appunto di ogni scienza. Adorno in contrapposizione alle tesi di Popper, evidenzia come il metodo dialettico fosse alla base di una corretta analisi del sistema sociale, poiché soltanto attraverso tale metodo potevano essere messe in risalto le contraddizioni del mondo reale e riuscire così a risolverle.

[caption id="attachment_8533" align="aligncenter" width="1280"]karlpopper Sir Karl Raimund Popper (Vienna, 28 luglio 1902 – Londra, 17 settembre 1994) è stato un filosofo e epistemologo austriaco naturalizzato britannico.[/caption]

La dialettica adorniana si ritrova, dunque, ad essere definita come “negativa” per questa sua caratteristica peculiare di avere l’intenzione di smascherare il contraddittorio senso della realtà sociale e di mettere in luce la magmatica mole deteriorante di contraddizioni che lacerano l’uomo. La negatività in questione è rappresentata da una realtà che è costituita da contraddizioni etiche e morali contemporaneamente. Risulta così essere l’incarnazione di quel “non-identico” a quell’identità originaria priva di contraddizioni. Alla base di tale critica, nel tentativo adorniano di istituire un metodo di indagine vi è la soggettività dell’individuo che ha trovato il suo crollo in un universo oggettivato dal capitalismo più imperante. Una dialettica negativa, che per dirla con Gramsci diviene filosofia della prassi che scova l’assenza di logica. La critica che Adorno muove al neopositivismo trova le sue radici in questa concezione di ricerca della verità che risiede unicamente nella dialettica, dunque, logicamente non può essere accettata dal filosofo una metodologia come quella dei neopositivisti che si basano unicamente sulla descrizione del fatto per come è e non giungono all’essenza e al perché di quel determinato fatto. In un contesto sociale come quello in cui vive Adorno, un’Europa sbiadita dal terrore, dalle strategie di tensione, dagli uomini di potere che dominano la ragione e la utilizzano come strumento per esercitare il male più oscuro, un’Europa dilaniata dalla disperazione causata dai totalitarismi, da un capitalismo pervasivo e subdolamente orwelliano che atomizza la società rendendo gli individui solo tasselli uguali di un mosaico illogicamente strutturato, questo è il compito di una scienza sociale che attraverso la dialettica, identifica e localizza le negatività che contraddicono l’identità originaria di un sistema che risulta essere l’ultimo prodotto di uno sviluppo senza progresso di un male. Quella del neopositivismo, che per Adorno, dunque, legittima la realtà per come essa è e si presenta, non poteva che essere considerata una filosofia al servizio del sistema da combattere.

 
 Per approfondimenti:
_Theodor W. Adorno, Dialettica Negativa, Torino, 2004
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