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31° incontro DAS ANDERE

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Riportiamo l'ottavo evento della stagione culturale 2017 della associazione Das Andere "Futuro-Passato. Oltre il già detto".
Ospite dell'incontro - introdotto dalla dottoressa Paola Monaco e moderato dall'arch.Giuseppe Baiocchi - è stato il Dott.Luca Steinmann, il quale ha raccontato al pubblico le sue esperienze giornalistiche dei suoi ultimi viaggi.
Il titolo dell'incontro "In fuga dalla Corea del Nord" riprende i racconti vissuti di Luca all'interno del territorio cinese, dove ha scortato due ragazze coreane fuggite dal regime - definito dai coreani del Nord "socialista" - e la successiva salvezza in Laos e Corea del Sud, dove hanno richiesto asilo politico. Grazie a testimonianze dirette, Steinmann ha compiuto l'operazione mirabile di definire una realtà, sempre più preclusa al mondo occidentale. 
Parte della conferenza è stata dedicata anche al viaggio siriano, il quale ha delineato altre atrocità, legate ad una matrice diversa, ma pur sempre terribile: quella della guerra.
Bellissimo dibattito finale - come di consueto - con il pubblico, sempre numerosissimo, ed al quale va il nostro ringraziamento. 
L'associazione ringrazia tutti i partner istituzionali che hanno appoggiato l'iniziativa: _Fondazione Carisap _Regione Marche _Comune di Ascoli Piceno
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

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di Luca Steinmann del 05/05/2017

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Quale futuro si prospetta per i giovani palestinesi dei campi profughi? Di fronte alla guerra, allo sradicamento e all’assenza di una patria a molti non resta altro che l’opzione migratoria. A partire dal 2015, infatti, sono tantissimi i ragazzi che hanno approfittato dell’apertura delle frontiere garantita da Angela Merkel per attraversare il Mediterraneo e stabilirsi in Europa. Quasi ogni famiglia di palestinesi dei campi profughi della Siria e del Libano ha almeno un proprio figlio che oggi vive nel vecchio continente.

E’ il caso della famiglia di Leena, ragazza di 20 anni palestinese nata e crescita nel campo profughi di Yarmouk, a Damasco, in Siria. Dopo che parte di Yarmouk è caduta sotto il controllo dell’Isis diventando conseguentemente obiettivo dei bombardamenti del regime siriano, la sua famiglia è fuggita in Libano. Suo fratello, poi, ha deciso di non fermarsi e di continuare il proprio viaggio fino in Germania, dove oggi vive in un campo profughi di Berlino insieme a tanti suoi connazionali. La storia della famiglia di Leena è la stessa di quella di milioni di altri siriani-palestinesi. Oggi il Libano ospita circa un milione di profughi provenienti dalla Siria, oltre al milione di palestinesi già precedentemente presenti sul territorio e a un terzo milione di esuli provenienti prevalentemente da Iraq (400mila), Eritrea e Somalia (200mila), Bangladesh, Afghanistan e Filippine.

Molti dei palestinesi in fuga dalla Siria non si fermano in Libano, ma continuano il viaggio verso l’Europa. Il motivo? Innanzitutto le conflittualità in corso all’interno di alcuni loro campi profughi. Ma anche le difficili condizioni di segregazione e abbandono che questo popolo vive nel Paese dei Cedri ormai da decenni. A raccontalo è Samaa Abu Sharar, giornalista e ricercatrice palestinese-libanese di base a Beirut e animatrice della fondazione Majed Abu Sharar.

I palestinesi del Libano sono apolidi” spiega “non hanno nazionalità ma solo un documento che attesta che sono dei rifugiati”. Lo Stato del Libano, però, non ha mai voluto concedere la nazionalità a queste persone a causa soprattutto della conflittualità interna al mondo musulmano. La concessione della cittadinanza ai palestinesi, popolazione prevalentemente sunnita, genererebbe infatti uno squilibrio demografico all’interno di un Paese fragilmente diviso tra sciiti e sunniti e in cui gli equilibri tra le parti sono molto precari. Non essendo titolari della nazionalità libanese ai palestinesi è preclusa ogni forma di partecipazione politica, di impiego, di istruzione e di sanità pubblica. Le scuole, gli ospedali e ogni forma di welfare all’interno dei campi sono garantiti dalle Nazioni Unite, che non sono però mai riuscite a promuovere una vera forma di integrazione della comunità palestinese nella società libanese.

Ai giovani sono vietate le professioni specializzate e intellettuali, per esempio quella giornalistica. E’ per questo che spinge la gran parte di loro a vivere nell’eterna opzione migratoria. “I giovani palestinesi non hanno generalmente un’idea precisa dell’Europa” continua Samaa Abu Sharar “l’emigrazione rappresenta per loro soprattutto un mezzo per ottenere condizioni migliori di quelle che hanno in Libano, dove altrimenti resterebbero”.

E’ proprio per garantire loro condizioni migliori che Samaa organizza corsi di giornalismo all’interno dei campi profughi palestinesi. “Il nostro obiettivo è quello di dare ai giovani una formazione nel campo mediatico che altrimenti non avrebbero perché possano informarsi e scrivere autonomamente e diventare padroni del proprio destino”. L’obiettivo della sua fondazione, infatti, non è quello di incentivare i palestinesi alla fuga verso l’Europa, ma di fornire loro gli strumenti perché possano avere successo anche sul territorio in cui sono nati. Un messaggio, questo, di grande attualità per tutta l’Europa. I massicci flussi migratori, infatti, stanno incidendo profondamente sulle società in cui sono diretti e causando forti squilibri politici. Che, col tempo, potrebbero aumentare. E’ cosa poco nota, per esempio, che tra le centinaia di migliaia di siriani entrai in Germania negli ultimi anni ci sono anche tantissimi palestinesi, registrati dalle autorità tedesche come siriani proprio perché molti di loro sono effettivamente nati e cresciuti in Siria. Una presenza palestinese così massiccia in Germania potrebbe influenzare profondamente tutta l’Europa. La Germania è infatti il Paese leader nel processo di formazione di un’identità europea condivisa. Tale Paese è, per ovvi motivi storici, molto vicino alla sensibilità ebraica e fonda la propria identità nazionale anche e soprattutto sui rapporti con lo Stato d’Israele.

La presa di coscienza dell’ingresso in terra tedesca di così tanti palestinesi, persone visceralmente avverse a Israele, potrebbe portare a un profondo dibattito e a forti accuse di chi ha permesso l’affermazione di questa presenza, cioè Angela Merkel e il suo governo. E con loro anche tutto il processo di integrazione europea. La mancata risoluzione del conflitto arabo-israeliano e la destabilizzazione del Medio Oriente sono dunque questioni che riguardano direttamente tutta l’Europa, perché sono uno dei più forti motori dei flussi migratori.

 
Note:
_Su gentile concessione del quotidiano svizzero "Il Corriere del Ticino" pubblichiamo questo reportage andato in stampa nel febbraio del 2017, scritto da Luca Steinmann: corrispondente in Italia del Corriere del Ticino e reporter reduce di un recente viaggio in Libano, dove ha tenuto una serie di corsi di giornalismo all'interno dei campi profughi palestinesi.
 
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di Luca Steinmann del 15/04/2017

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La conflittualità tra sciiti e sunniti che sta insanguinando tutto il Medio Oriente ha certamente fondamenta teologiche. Ma non solo: essa è soprattutto la conseguenza della contrapposizione tra diversi Paesi, in primis tra l’Iran e l’Arabia Saudita, che si contendono il potere e la titolarità del comando della regione. Per farlo non esitano a finanziare e supportare gruppi di combattenti in reciproco conflitto. E’ così che in Siria gli sciiti di Hezbollah combattono Jabhat al Nusra e l’Isis. Quando però gli interessi di entrambe le parti sono convergenti esse sono in grado di fermare la conflittualità e trovare un compromesso, mostrando dunque quanto in tutto ciò la componente teologica sia estremamente marginale.
 
Ciò è particolarmente evidente osservando le divisioni all’interno dei palestinesi dei campi profughi. Frammentati in diversi gruppi, alcuni fedeli all’asse sciita altri ai sunniti, alcuni di essi sono il vero e proprio braccio armato di organizzazioni o Stati terzi, che sfruttano le divisioni dei palestinesi per tentare di promuovere i propri interessi ed estendere il proprio controllo territoriale. Parte del campo di Ein el Hilwee, per esempio, è oggi caduta sotto il controllo del gruppo terroristico di Jabhat al Nusra, il cui nucleo locale è capeggiato dal giovane ed emergente leader Bilal Bader. Classe 1989, capelli lunghi fino alla vita, viso glabro e abbigliamento semplice: Bader si è messo alla testa di un gruppo di 60 jihadisti che stanno dando battaglia ai palestinesi che non accettano la loro presenza e non condividono i loro obiettivi. Come sta avvenendo in tutto il Medio Oriente, anche qui i gruppi radicali sunniti si fronteggiano con quelli sciiti. Gli equilibri interni ad ogni campo profughi, però, sono del tutto particolari.
A Ein el Hilwee, ad esempio, il gruppo di Bilal Bader - quindi di al Nusra - ha raggiunto un’intesa con Ansar Allah, braccio armato palestinese degli sciiti di Hezbollah. Mentre in Siria, a pochi kilometri di distanza, il Partito di Dio attacca le postazioni jihadiste in nome della difesa dal terrorismo, in questa zona tale formazione non esita ad acconsentire un accordo strategico con quelli che dovrebbero essere i propri principali nemici sul campo di battaglia.
[caption id="attachment_8423" align="aligncenter" width="1000"] Hezbollah o Ḥizb Allāh (in arabo: حزب اﷲ‎), ossia Partito di Dio, è un'organizzazione paramilitare libanese, nata nel giugno del 1982 e divenuto successivamente anche un partito politico sciita del Libano. Foto di Mahmoud Zayyat[/caption]
Una situazione del tutto inedita che mostra come la descrizione di questo conflitto sia molto difficile per chi non lo vive in prima persona. Ciò che è certo è che, all’interno del conflitto tra sciiti e sunniti, tantissimi attori stanno tentando di strumentalizzare i gruppi palestinesi per promuovere i propri interessi, armandoli e finanziandoli. I fucili che Bilal Bader ha in dotazione, ad esempio, costano circa 3000 dollari l’uno: difficile pensare che dietro il loro acquisto non ci siano dei ricchi finanziatori esterni. Chi questi siano, però, è difficile da stabilire con certezza. Non sarebbe la prima volta, che dei gruppi terroristici vengono assistiti e finanziati da governi stranieri o da partiti politici che siedono in parlamento. L’amministrazione americana è da tempo accusata - da diverse fonti - di avere supportato gruppi di cosiddetti “ribelli moderati” in Sira, molti dei quali sono risultati essere terroristi, col fine di destabilizzare il regime di Assad.
Altri governi, soprattutto quello dell’Arabia Saudita e quelli dei Paesi del Golfo, non hanno per lo meno mai messo in atto accurati controlli perché dei finanziamenti privati partissero dai propri Paesi per finire nelle tasche del sedicente Stato Islamico.
Un’operazione non dissimile avvenne ancor prima in Libano, proprio tra i palestinesi. Nel 2007 un gruppo di 300 jihadisti del gruppo di Fatah al Islam, legati ad al Qaeda e provenienti da tutto il mondo, si impossessò del campo profughi palestinesi di Nahr el Bared a Tripoli, nel nord del Libano. Si trattava di persone provenienti dall’esterno del campo originarie soprattutto da Siria, Kuwait, Arabia saudita, Marocco, Giordania e Afghanistan. Pesantemente armati, vi fecero ingresso e iniziarono a imporre le proprie regole ma anche a tentare di farsi accettare dalla locale popolazione palestinese regalando dolci ai bambini e tentando di prendersi come spose delle giovani donne del posto.
Da lì essi tentarono un colpo di mano contro lo Stato libanese: in nome della causa palestinese, attaccarono prima una banca nel centro di Tripoli, in seguito iniziarono a prendere di mira le postazioni dell’esercito libanese, dando vita ad una guerra che durò diversi mesi e che generò tantissimi morti prima che i terroristi venissero sconfitti e cacciati. Molti di loro vennero uccisi, altri riuscirono a fuggire, lasciando dietro di sé solo macerie. Per cacciarli, infatti, le truppe libanesi utilizzarono bombe e missili che, dall’esterno, riversarono sulle case di Nahr el Bared, costringendo la popolazione alla fuga e demolendo gran parte dell’area urbana. Secondo molti degli abitanti del campo quanto avvenne nel 2007 fu un tentativo di strumentalizzazione della causa palestinese da parte dei terroristi per mettere in atto una rivolta contro le autorità in modalità analoghe di quanto avverrà a partire dal 2011 in Siria.
 
Note:
_Su gentile concessione del quotidiano svizzero "Il Corriere del Ticino" pubblichiamo questo reportage andato in stampa il 01/03/2017, scritto da Luca Steinmann: corrispondente in Italia del Corriere del Ticino e reporter reduce di un recente viaggio in Libano, dove ha tenuto una serie di corsi di giornalismo all'interno dei campi profughi palestinesi.
 
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

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di Luca Steinmann del 04/10/2016

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Oggi volevo farvi partecipi di una riflessione destinata a tutti coloro che stanno per concludere gli studi o che abbiano da poco iniziato il precorso lavorativo.
Lo farò ponendomi due domande distinte:
_Come si può salvaguardare l’obiettivo che ci si è dati nella vita senza che questo venga inquinato da fattori esterni?
_Come si può difendere la propria persona e la purezza (perlomeno presunta) dei propri ideali senza che questi vengano contaminati?
Queste sono domande che ogni giovane professionista, ogni ragazzo che passa dal percorso di studio a quello lavorativo si pone (o dovrebbe farlo). Ognuno di noi in gioventù ha avuto dei sogni, degli ideali, delle passioni che avrebbe voluto diventassero il proprio lavoro, oppure che il proprio lavoro diventasse il mezzo per realizzarle.
In molto pochi ci riescono. O peggio. In molto pochi, arrivati in quella fase della vita in cui si può tentare di determinare il proprio destino, provano a farlo.
La maggior parte getta la spugna senza neanche rendersene conto. Michel Houllebecq spiega magistralmente questa resa nel primo capitolo di ‘Sottomissione’, libro che come pochi riesce a mettere a nudo le contraddizioni a cui il tipo umano contemporaneo va incontro.
[caption id="attachment_6235" align="aligncenter" width="1000"] L'attimo fuggente è un film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams[/caption]
La laurea, secondo Houllebecq, segna per questo tipo umano il momento in cui una parte della propria vita, generalmente quella migliore, si conclude, e con essa anche la lotta per raggiungere i propri sogni.
Questi lasciano spazio alla brama di denaro per alcuni, altri rimangono invece ipnotizzati dal desiderio di mettersi alla prova, di ritagliarsi una posizione invidiabile e sicura in un mondo che si augurano essere competitivo. Così, senza accorgersene, la laurea e l’affermazione professionale conducono alla perdita di qualcosa di inestimabile: la libertà.
Che cos’è la libertà? Secondo Nietsche essere liberi non significa fare tutto ciò che si vuole senza avere confini, ma amare ciò che si fa. Essere liberi è dunque un impegno costante, una lotta quotidiana per rendere ciò che si ama la propria vita, pr trasformare le proprie passioni nel proprio mestiere. Chi rinuncia a ciò rinuncia ad essere libero. Chi rinuncia a sogni, passioni e ideali per una professione fine a se stessa potrà anche diventare ricco, ma rimarrà schiavo. In tanti rinunciano. Quasi nessuno, però, riconosce il proprio stato di schiavitù. E’ difficile e doloroso ammettere di avere abbandonato ciò che più si è amato, mettendo dunque in dubbio le scelte fatte e in gioco l’intero senso della propria esistenza. Per questo molti iniziano a trovare giustificazioni, a cercare scuse per la propria percepita mancanza di libertà.
Scuse che queste persone spesso trovano nella moneta con cui è stata pagata la rinuncia ad essere liberi: nei soldi e negli agi ad essi connessi. Così chi solo poco tempo prima sognava di cambiare il mondo quasi improvvisamente si trova a passare le proprie (poche) giornate libere entrando in negozi e spendendo cifre sproporzionate per prodotti inutili e costosi che spera (invano) possano colmare il proprio vuoto; senza rendersene conto si inizia a frequentare locali, a consumare cene e a trascorrere serate di lusso insieme soltanto ai “propri pari”, cioè a persone che abbiano fatto gli stessi tipi di scelte e abbiano il portafogli altrettanto gonfio, persone a cui solo fino a poco tempo prima non si avrebbe avuto nulla da dire, con cui adesso ci si trova a condividere lo sperpero della propria incompletezza.
[caption id="attachment_15050" align="aligncenter" width="1000"] Jean Béraud - Au Bistro (1891)[/caption]
In poco tempo ci si trova ad essere persone che non si voleva essere e che prima si disprezzava. Se non si vive come si pensa si inizia a pensare come si vive. E si diventa quel tipo umano di cui scrive Hoillebecq che mai si sarebbe voluti diventare. La rinuncia alla propria libertà è una scelta di comodo e di agio. E’ una fuga. Che in quanto tale non potrà durare per sempre, andrà invece a scontrarsi contro ciò da cui si fugge: insoddisfazione, tristezza, solitudine, incompletezza, nichilismo e assenza di un dovere superiore sono i principali motivi per cui le persone tra i 30 e i 55 anni si rivolgono agli psicologi o per cui queste intraprendono viaggi verso Oriente alla ricerca di un’esperienza interiore che colmi la propria insoddisfazione. “In Europa sento la mancanza di qualcosa che sono venuto a cercare qui” dicevano a Tiziano Terzani i pellegrini sulla via per il Tibet. Questa ricerca dell’indefinito non è altro che il tentativo di rimediare alla libertà perduta. Il cui ricordo e desiderio rimangono però per sempre dentro ognuno di noi. Se è vero che la natura dell’essere umano è una ed eterna – e il fallimento degli esperimenti totalitari volti alla creazione di nuovi tipi di uomini sembra confermarlo – allora rimarrà per sempre dentro di noi il desiderio per ciò che un tempo abbiamo amato, che abbiamo sognato e in cui abbiamo creduto. Non riusciremo mai a dimenticare ciò che un tempo ci faceva sentire liberi, ciò a cui le convenzioni sociali, l’affermazione professionale e il desiderio di ricchezza e sicurezza economica ci hanno spinto ad abbandonare. La letteratura è ricca di narrazioni che raccontano questo Streben: Gabriel Garcia Màrquez in ‘Cent’anni di solitudine’ descrive l’immutabilità della natura umana (venendo poi ripreso da Fabrizio d Andrè che gli dedicò la canzone di ‘Sally’); James Joyce nell’ultima storia dei racconti di ‘Gente di Dublino’ mostra come ciò che si ha amato e che ci ha dato la libertà rimanga sempre nascosto dentro di noi, per poi emergere con forza quando meno ce lo si aspetta e mettendo in crisi tutte le piccole sicurezze costruite per non doversi guardare dentro; Ezra Pound riprende Joyce scrivendo: "Ciò che ami davvero non ti verrà strappato. Quel che ami davvero è la tua eredità”.
Tentare di fare di ciò che si ama il proprio mestiere è molto difficile, ma è anche ciò che può evitare la solitudine della schiavitù. La vita professionale, ciò che da piccoli veniva chiamato “il mondo dei grandi” è piena di ostacoli, di influenze esterne, di pressioni che rendono complicato difendere la fedeltà a ciò che si ama. A questo si aggiungono le nostre debolezze, i nostri limiti e i nostri errori. Eppure riconoscere e determinate il proprio destino è possibile. Come? Per esempio avendo un grande ideale o l’esempio di una persona, magari un nonno o un maestro, i cui comportamenti siano un modello che funga da stella polare nella velocità e nel disordine della vita contemporanea. Nonostante si viva in un mondo in cui l’individualismo è sfrenato, in cui viene insegnato che la competitività tra individui è il massimo valore, in cui i rapporti umani sono amichevoli finché non diventano concorrenziali, rimangono forti ed eterni quegli ideali di amore e di identificazione disinteressata nel bene comune, nella comunità, nella patria. Rimane l’esempio di quelle persone che hanno anteposto il proprio piccolo interesse personale a qualcosa di più grande. Non importa che fine abbiano fatto o di che morte siano caduti, non importa che epilogo abbiano avuto le società ispirate ai nostri ideali, ciò che importa non è per cosa si combatte ma come lo si fa. L’esempio di chi ha avuto il coraggio di rinunciare alle proprie piccole sicurezze per impegnarsi in qualcosa di più grande e di altruista rimane eterno. “Aiuta gli altri e aiuterai anche te stesso” diceva Confucio ai suoi discepoli. Certo non è facile. Per rinunciare a se stessi a favore degli altri ci vuole coraggio, lo stesso che manca a coloro che rinunciano a sogni passione e ideali una volta finiti gli studi. Per Ernst Jünger coraggio significa “professare fede in quel che si pensa”, quindi rimanere fedeli a passioni, sogni e a quanto si sente essere un dovere. Chi riesce a farlo abbraccia valori eterni e indistruttibili e diventa lui stesso un esempio da ricordare. Le sue scelte diventano eterne, non scompariranno con la sua morte fisica ma vivono in coloro che ne colgono l’esempio.
[caption id="attachment_6234" align="aligncenter" width="1000"] Scena tratta dal film "Il Club degli imperatori" diretto da Michael Hoffman del 2002.[/caption]
Essere coraggiosi significa rendere immortale il proprio esempio e scacciare le paure. Finché l’uomo è solo vive esclusivamente di paura. Proviamo paura perché sappiamo di andare incontro all’ignoto, alla certezza della morte. Ma quando troviamo il coraggio di sciogliere noi stessi nel nostro ideale, nelle nostre passioni e nei nostri sogni allora diventiamo un esempio di cui andar fieri. Un esempio che non invecchierà con il decadimento fisico, ma che colmerà il vuoto che sentiranno invece coloro che per paura hanno scelto di perdere ciò che amano. Nonostante sia difficile, nonostante possa portare alla povertà economica è sempre meglio scegliere di lottare per ciò che si ama. E anche se si verrà sconfitti, anche se si farà la fame, anche se verremo spogliati di tutte le ricchezze materiali avremo sempre con noi l’eredità di chi ci ha preceduto e dato l’esempio. Avremo sempre con noi ciò che amiamo e che abbiamo scelto di difendere. Chi avrà preso un’altra strada, quella della rinuncia, potrà invece solo nascondere la solitudine sotto costosi vestiti , grosse automobili ed eventi mondani. Terminati i quali tamponerà la propria solitudine tornando a spiare noi, che viviamo davvero. E comunque non è detto che verremo sconfitti. Lo scopriremo solo vivendo.
 
Per approfondimenti:
_http://www.laconfederazioneitaliana.it/?p=4448
 
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12° incontro DAS ANDERE

[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1471094013483{padding-top: 45px !important;}" el_class="titolos6"]Come da programma, si è svolto il secondo evento culturale del tema Costruire Abitare Pensare, proposto per l'anno 2016.