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di Liliane Jessica Tami 08/02/2017

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Marsilio Ficino nel 1462, per incarico di Cosimo de’Medici, creò l’Accademia Neoplatonica presso la Villa "Le Fontanelle" -  successivamente traslata nella Villa di Careggi - dove vi restò sino al 1492, anno della morte di Lorenzo il Magnifico.
Il contesto culturale in cui l'Accademia si trovò ad operare era allora fortemente segnato dal platonismo, rinato in Italia verso la fine del XV secolo, attraverso l'umanesimo. Fu in particolare l'istituzione di cattedre di greco nelle principali università - dovuta a diversi episodi come la provvisoria riunificazione tra le Chiese d'Oriente e d'Occidente del 1438 - che permise l'uso diretto dei testi di Platone, pressoché sconosciuti nel Medioevo, i quali diedero avvio alle traduzioni in latino.
Studiosi ed artisti frequentavano assiduamente il luogo: Giovanni Pico dei conti della Mirandola e della Concordia, Angelo Poliziano, Sandro Botticelli, Cristoforo Landino, Leon Battista Alberti.
Dopo la scomparsa di Lorenzo il magnifico l’accademia si spostò presso la Villa di Bernardo Rucellai, assumendo posizioni anti-medicee e repubblicane, dove restò sino al 1524. Successivamente venne frequentata da uomini illustri come Niccolò Machiavelli, Iacopo da Diacceto e Luigi Alamanni. A differenza del rinascimento veneto - di stampo aristotelico e legato alla sensualità, raffigurata in campo artistico dalla tecnica della tonalità adoperata presso le botteghe dei pittori lagunari - il capoluogo toscano era invece fortemente influenzato dai testi di Platone e Plotino tradotti da Marsilio Ficino, nonché dall’opera letteraria di Dante Alighieri, che in arte si manifesta nei delicati ed eterei acquarelli del Botticelli.
[caption id="attachment_14571" align="aligncenter" width="1000"] Benozzo Gozzoli, Presunto ritratto di Lorenzo de' Medici da giovane, particolare dell'affresco del Corteo dei Magi nell'omonima cappella.[/caption]
A Firenze l'Accademia, significava la riapertura simbolica dell'antica Accademia di Atene, costituendo un importante cenacolo di artisti, filologhi e intellettuali. Difatti Platone era considerato il capostipite di concezioni filosofiche, appartenute anche ad autori successivi e cristiani, come Agostino o Boezio.
Cristoforo Landino, segretario della fazione Guelfa, nel 1481 curò personalmente la prima edizione a stampa fiorentina de "La Commedia" di Dante, arricchita da un suo commento generato da anni di profondi studi e riflessioni.
La prima edizione contava 19 disegni di Sandro Botticelli, che inizialmente comprendevano svariate scene della commedia su più fogli. In seguito, su richiesta di Lorenzo di Pier Francesco de’Medici - cugino del Magnifico - Botticelli eseguì tra il 1484 ed il 1490, 101 disegni su pergamena, di cui uno doppio per rappresentare ogni cantica. Delle opere eseguite con l’inchiostro - su schizzo in punta d’argento o grafite -, solamente tre sono state arricchite con il colore.
Alcune di queste pergamene sono state smarrite - ne restano solamente 92, di cui 7 vennero acquistate da Cristina di Svezia e successivamente (dopo la sua morte) donate alla Biblioteca Vaticana - e le restanti 95 furono acquistate da un ambasciatore inglese nel 1882, per il Governo Prussiano.
Sempre in quegli anni, nel 1490, il Landino scrisse "De Vera Nobilitate", rifacendosi al libro "De Nobilitate" pubblicato nel 1440 da Poggio Bracciolini, in cui asserisce che la vera nobiltà derivi esclusivamente dalla virtù e non dall’antichità della stirpe e dalla ricchezza. L’unica vera nobiltà possibile, secondo Landino, è la medesima espressa da Dante nel IV trattato de "Il Convivio": quella d’animo, che grazie alla sapienza permette di agire con modo coerente col raggiungimento del Sommo Bene. In modo affine a Dante, anche Landino ripropone l’idea della Monarchia universale, rappresentata dall’impero e dalla tradizione Romana, come unica cura per lenire tutti i mali del mondo.
Come Platone ne il "Simposio", l’oggetto centrale è il concetto di Bontà dell’Animo. Il testo "De vera Nobilitate", la cui fonte d’ispirazione politica si trova nel dantesco "De Monarchia", piacque così tanto alla famiglia De’Medici che onorarono il Landino donandogli una torre in Cosentino.
[caption id="attachment_7801" align="aligncenter" width="1024"] Domenico Ghirlandaio, dettaglio rappresentante Cristoforo Landino (il terzo da sinistra a destra), nella scena dell'Annuncio dell'angelo a Zaccaria - Cappella Tornabuoni, Santa Maria Novella, Firenze. [/caption] Secondo Marsilio Ficino esisteva una tradizione filosofica che andava - senza soluzione di continuità - da Pitagora all'orfismo, passando per Socrate, Platone e Aristotele fino a giungere al neoplatonismo. Le idee del filosofo toscano ebbero una straordinaria influenza nella cultura del tempo e vennero riprese anche in seguito, soprattutto da quei filosofi con forti interessi religiosi. L'uomo - come già teorizzato durante l'umanesimo della prima metà del secolo - era visto come copula mundi, ovvero quell'armonica interazione tra anima e corpo in cui ciascuno è padrone del proprio destino. Gli accademici riconoscevano come massima aspirazione umana la felicità, ma non vedevano come suo sbocco naturale l'azione, e in particolare la politica, ma piuttosto la speculazione filosofica. Grazie all'esercizio di essa infatti gli spiriti più nobili ed eletti possono sperimentare la felicità e raggiungere la conoscenza del vero dopo la morte.
A lungo la nobiltà è stata considerata una semplice titolarità acquisibile per mera nascita. Essa si è plasmata col patrimonio economico della famiglia ed il rango, di contro - seguendo il pensiero neoplatonico - la vera nobiltà è uno stato dell’anima acquistabile con la meticolosa introspezione e l’arguto operare nel mondo che ci circonda. I titoli nobiliari come il marchese ed il conte, acquistabili  all'epoca, sono stati una delle cause della lotta sociale e dei sanguinosi scontri tra fazioni di classi avverse. La vera nobiltà dovrebbe essere estesa a quante più persone possibili, le quali studiano e dedicano la propria esistenza verso il linguaggio del Bello e del Buono: trama seguita dalla scuola Neoplatonica.
Essendo le arti strumento di dialogo con il popolo, per educarlo ed elevarlo verso alla nobiltà, un forte rilievo venne concesso agli artisti, che si assursero ad interpreti e divulgatori della conoscenza esoterica filosofica. Le botteghe di Antonio Pollaiolo (1431-1498) e di Andrea Verrocchio (1435-1488), furono fondamentali per la diffusione degli ideale neoplatonici nelle belle arti.
La bottega di Andrea Verrocchio in cui si eseguivano opere d’oreficeria, pittura e scultura, fu il luogo d’istruzione dei più grandi artisti rinascimentali: il Perugino, Botticelli, Leonardo da Vinci. L’amore per le teorie neoplatoniche e per il mito del Verrocchio è testimoniato dalla sublimazione dei temi trattati negli anni: legato ad una concezione monoteista, cristiana e semitica della filosofia, ci ha lasciato splendide Madonne ornate d’oro ed un giovane e volitivo David biblico di Bronzo, conservato al museo del Bargello. Grazie a Botticelli  - suo allievo - l’amore per la Sapienza nelle arti figurative, abbandona l’angusta gabbia biblica per concedersi al paganesimo con il capolavoro della  "Nascita di Venere". L'opera trasuda tutto quell’erotico anelare verso la perfezione che ha agitato i cuori dei Fedeli d’Amore neoplatonici e dei Grandi Iniziati descritti da Lorenzo de Medici, il quale volle che tale conoscenza - attraverso l’arte - venisse diffusa in tutta la penisola italica.
L'elemento della Venere-Humanitas viene esortato in una precedente lettera di Marsilio Ficino a Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici. A partire da questo spunto, lo storico dell’arte Ernst Gombrich intuì che la "Venere" di Botticelli, non rappresentava soltanto la Bellezza e non alludeva semplicemente al giardino delle delizie decantato da Poliziano, ma era la personificazione del principio neoplatonico dell’armonia. La presenza della Dea ne "la nascita di Venere", rimanda alla duplice natura dell’amore descritta nel Simposio di Platone e rielaborata da Ficino: Venere Urania (l’amore divino), e Venere Pandemia, (l’amore terreno).
A questo si aggiunge la concezione ficiniana dell’amore secondo i tre aspetti di Piacere (Voluptas), Castità (Castitas) e Bellezza (Pulchritudo), perfettamente esemplificati dai personaggi a destra: l’impeto amoroso di Zefiro, la Voluptas, travolge la Castitas di Clori provocando la sua trasformazione in Flora, che genera una rigogliosa primavera su tutta la terra, rappresentando così la Pulchritudo. Le Grazie rappresentano il principio vitale dell’universo, mentre la temperanza di Mercurio all’estrema sinistra si oppone all’impetuosità di Zefiro; il suo gesto di “togliere il velo delle nubi” alluderebbe, secondo lo storico dell’arte Edgar Wind (1900-1971), al “dis-velare“, cioè all’interpretare il mistero del cosmo.
La lettura neoplatonica del dipinto è solamente una delle molteplici possibilità di lettura, ma certamente la sua profondità e organicità col contesto storico in cui visse Botticelli la rendono una delle più affascinanti e plausibili.
[caption id="attachment_7802" align="aligncenter" width="1280"] Sandro Botticelli, La nascita di Venere - 1482–1485 - tempera su tela, 172×278 cm, Galleria degli Uffizi, Firenze. [/caption]
Lorenzo de Medici commissionò a Luca Signorelli - allievo di Piero della Francesca -  un’opera esoterica importantissima: l’educazione di Pan. Questo quadro, raffigurante la divinità campestre Pan, è stato però distrutto dagli anglo-americani durante i bombardamenti a Berlino del 1945. Gli altri personaggi attorno a Pan alludono a vari temi filosofici dell’Accademia neoplatonica, in cui i miti antichi sono ripresi in chiave filosofica e cristiana. Gli anziani ad esempio rappresentano la saggezza derivata dall’esperienza e la meditazione, la fanciulla a sinistra è un simbolo di bellezza e perfezione, e i musici ricordano la trasposizione delle armonie naturali in armonie musicali grazie all’attività della mente.
Un altro dipinto di grande rilievo per il suo contenuto esoterico ci proviene da Tiziano - artista veneziano che ha saputo rielaborare le dottrine filosofiche fiorentine -  "Amor Sacro ed Amor profano". Il volto della donna è il medesimo, seppur impersonata in due diversi corpi: come l’amore carnale e l’amore spirituale trovano la loro apoteosi sommandosi l’un’altro ed intersecandosi perfettamente, anche la filosofia monoteista cristiana di matrice giudaico-africana, se interpretata ed apprezzata in qualità di esercizio letterario di un popolo semitico (non di dogma universale), può esser serenamente vissuta accanto alla filosofia pagana ed all’eroismo dei miti europei.
[caption id="attachment_7803" align="aligncenter" width="1449"] Tiziano Vecellio, L'Amor sacro e Amor profano - olio su tela (118 × 279 cm) 1515 circa, Galleria Borghese, Roma. [/caption]
Come insegna Marsilio Ficino - depositario delle più grandi tradizioni iniziatiche antiche -  è proprio l’Eros, descritto dalla Sacerdotessa Diotima a Socrate, dell’opera "Simposio" di Platone, che funge da tramite tra il mondo sensibile e quello delle idee. Non è un caso che la Divina Commedia - massima descrizione delle dottrine cristiane - inizi proprio con Publio Virgilio Marone, grande cantore dell’Eneide e della volontà degli uomini pagani di assurgere allo stesso piano degli Dèi mediante l’eroismo. Finché il clero, figlio del monoteismo nato tra le dune del deserto, continuerà - di contro - ad imporsi come unica realtà possibile escludendo a priori ogni discorso ariano e pagano, pena la scomunica e l'eresia, non resta che l'attesa nel pianto. 
 
Per approfondimenti:
_René Guenon, l’esoterismo di Dante, Atanor Editrice, Roma
_Dante, templare ed Alchimista, Primo Contro, editrice Bastogi, Biblioteca massonica
_I pittori italiani del rinascimento, Bernard Berenson, edizioni BUR
_Dante Alighieri, Convivio, a cura di Giorgio Inglese, edizioni BUR
 
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di Liliane Jessica Tami del 28/10/2016

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Il filosofo Walter Benjamin con le sue tesi sulla filosofia dell'estetica, ha segnato la storia della percezione del gusto e del bello in rapporto col capitalismo. Nel post-moderno, l’arte concettuale e decostruttivista, ha introdotto la serialità come principio di un’opera d’arte: dunque l’originale viene riprodotto in serie, conferendo al manufatto artistico quella bruttezza estetica e spirituale senza precedenti. Questa modalità pare aver preso il sopravvento e soprattutto il monopolio del mercato, grazie alla sua facilità di produzione. Sicuramente discutibili appaiono le opere d’arte dei vari Ai Wewei o Maurizio Cattelan etichettati dai più come “artisti decadenti”. Dunque, lo scopo di questa riflessione sull’arte sarà proprio quella di interrogarsi sul senso del bello.
[caption id="attachment_6568" align="aligncenter" width="1000"] Walter Bendix Schoenflies Benjamin (Charlottenburg, 15/07/1892 – Portbou, 26/09/1940) è stato un filosofo, scrittore e traduttore tedesco di origini ebraiche. [/caption]

Walter Benjamin ci offre un ottimo metro per giudicare il valore “estetico” di un’opera d’arte senza cadere nell’assolutismo totalitarista. A parer suo vi sono due tipi di creazioni artistiche: Quelle aventi un’aura e quelle che senza questa, per colpire l’osservatore, devono avvalersi dell’impatto. “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” saggio apparso completo nel 1936, è l’opera più importante di Walter Benjamin. Nel periodo in cui il partito nazista emana le nuove regole sull’arte tedesca volute da Adolf Hitler, lo scrittore stila questo scritto. Se pur in maniera differente e per ragioni diverse, il nazional-socialismo e il filosofo ebreo condannavano aspramente l’arte del capitalismo ritenuta una forma degenerativa dell’arte.

Walter Benjamin, ha criticato le nuove forme d’arte distinguendo l’arte avente un’Aura, da quell’arte senz’aura definendo quest’ultima “shokkante”. Alcune avanguardie che creavano, a detta di Benjamin, opere scadenti hanno costretto la società, fratturata tra democrazia e totalitarismo, a confrontarsi con una nuova concezione di Bello.
Nell’ottobre del 1935 Walter Benjamin scrisse una lettera a Max Horkheimer in cui asseriva che «Per noi l’ora del destino dell’arte è scoccata e io ho fissato la sua cifra in una serie di riflessioni provvisorie che recano il titolo "L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica"». Tali riflessioni, condivise inizialmente con Adorno, sono frutto di un’acuta analisi su come l’evoluzione dei mass-media abbia causato dei mutamenti ontologici dell’arte stessa.
In questa griglia vi è il riassunto delle teorie estetiche di Benjamin, in cui si espone il concetto di choc, che stando esattamente agli antipodi del termine aura, decreta la morte dell’arte. Le principali differenze tra i concetti di aura e di choc qui sono esposte in modo semplice, e di fronte ad una qualsiasi opera d’arte possiamo usarla per interrogarci sul suo reale valore estetico ed etico.
Per chiarire tale teoria l’autore si avvale di un esempio concreto: i dadaisti scrivendo poesie definibili "insalate di parole" e contenenti locuzioni oscene, vogliono solamente suscitare l’indignazione del pubblico.
Durante le epoche che il filosofo definisce decadenti, l’arte si riveste di stravaganze e col pretesto dell’innovazione e dell’avanguardia può dar sfogo agli impulsi più barbari che s’annidano negli artisti. Nelle loro teorie soggettive, i movimenti artistici d’avanguardia mirano a superare sé stessi cercando di imitare un’altra forma d’arte. Nel caso del Dadaismo o del Futurismo si avvia un tentativo di ottenere gli stessi risultati di dinamicità e velocità dati dalla cinematografica disprezzando così invece i mezzi e la tecnica dell’arte pittorica convenzionale e accademica.
[caption id="attachment_6570" align="aligncenter" width="1064"] manifesto Dadaismo. [/caption]
Il risultato così ottenuto da artisti come Jean Hans Arp, il quale scagliava pallottole di carta straccia in aria lasciando che si incollassero su dei cartoncini, sono un radicale annientamento dell’arte. Analogo è anche il caso della poesia d’avanguardia: non dovendo più somigliare a se stessa (per tentare di scimmiottare la velocità e la manipolazione del dato spazio-temporale che invece nell'ambito cinematografico sono consentite) rinnega la sua forma classica e diventa qualcosa di nuovo. Di fronte alle poesie colme di spazi vuoti, monologhi insensati e onomatopee confuse di August Stramm (uno dei primi espressionisti) è impossibile raccogliersi in silenzio a meditare.
Tornando al concetto di Benjamin, “l’arte viva” con la sua “aura”, grazie al suo rasserenante esistere in un luogo per volta, possiede una fissità nello spazio e nel tempo che consente all’osservatore quelle azione statiche della contemplazione e della critica ragionata, essenziali per concepire un’opera d’arte in quanto tale.
L’arte d’avanguardia, per via del suo dato dinamico, irruente e aggressivo, è uno spettacolo che non consente una concentrazione contemplativa perchè mira, volutamente, a voler essere inutilizzabile a quei fini artistici tipici della pittura, della scultura e dell’architettura.
[caption id="attachment_14575" align="aligncenter" width="1000"] Michelangelo-Buonarroti - La Cappella Sistina (Particolare).[/caption]
Infatti l’arte dei dadaisti, nata più per dissidio politico nei confronti della società che per semplice e genuino amore per il bello, ha l’esigenza di suscitare la pubblica indignazione. Questa sua essenza violenta, sia nell’esecuzione che nel risultato finale, colpisce l’osservatore come un proiettile di pistola e lo investe travolgendolo proprio come le sequenze di fotogrammi che dallo schermo ghermiscono l’attenzione del pubblico riducendolo in uno stato costante di choc. L’effetto di choc causato dal cinema, per mezzo dei mutamenti dei luoghi dell’azione e delle inquadrature, è colto dalle masse con una maggior presenza di spirito, nel senso che esso, a differenze delle poesie di Rilke o dei dolci idilli dipinti da Derain, è più coinvolgente, ma anche più estraniante dalla realtà.
L’opera d’arte avente un’aura per essere goduta e apprezzata necessita di tempo, introspezione e riflessione su di essa. L’osservatore attento e predisposto al raccoglimento, in questo caso, penetra nell’opera, vi si immerge. Al contrario la massa distratta e disattenta fa sprofondare l’opera d’arte in sé perché la sua ricezione avviene tramite la collettività e in maniera disattenta e superficiale. Benjamin espone l’esempio dell’architettura: essa, la più atavica fra tutte le forme d’arte è circonda da tutti i cittadini della città, eppure la maggior parte di questi assuefattasi ad essa, hanno cessato di percepirla come un’opera d’arte e ne fruisce nella distrazione, senza più percepirla come tale.
In modo analogo anche le masse, assuefatte all’arte cinematografica e alle nuove creazioni statiche, assorbono le creazioni circostanti senza più prestar loro la dovuta attenzione e senza più avvertire il bisogno di contemplarle, commentarle e quindi criticarle. Benjamin, con una notevole lungimiranza, parlando delle opere d’arte create a fini altri rispetto a quelli artistici e usate in modo disattento, anticipa la nascita del design.
La fruizione tattile dell’opera d’arte a cui le masse vengono addestrate, le getta in uno stato di totale acriticità e passività nei confronti dell’opera d’arte stessa e ciò permette agli individui di fruirne pur eseguendo altri compiti nel medesimo istante.
È proprio la televisione, appendice tentacolare del cinema, che insinuandosi in tutte le case ha apportato questa radicale metamorfosi della percezione umana, rendendola inconsapevole. L’aesthesis senza consapevolezza di sé è il più grande trionfo del cinema, che trasforma il pubblico in un esaminore disattento. Il cinema, grazie al suo effetto di choc a cui il pubblico si è abituato in fretta, conduce l’osservatore a un atteggiamento avalutativo, esonerandolo dall’impegno di darvi l’attenzione che invece richiede un’opera d’arte avente l’aura.
Attuando un piccolo salto ancor più nel passato, Platone già asseriva come la più grave piaga che può uccidere un popolo è proprio la licenziosità. Nelle università pubbliche vi sono professori che sono autori di libri che elogiano la pornografia come inevitabile conseguenza della democrazia, facendosi paladini dell’estrema libertà, è questo è un grave pericolo morale. Esistono associazioni culturali che usano il termine “Pop” per banalizzare ogni aspetto culturale con la speranza che un pubblico maggiore affluisca in massa ai loro eventi. Credo che tutto ciò abbia intrinsecamente una grande modestia: l’arte non può e non deve mai essere banalizzata.
L’art pour l’art”, motto dei poeti parnassiani, è la ghigliottina che separa l’arte contemporanea dall’arte neoclassica, il bello dal brutto, l’etico dall’orrido, il bene dal male. Affermare che l’arte sia fine a se stessa significa porre la personalità dell’artista in primo piano ed eclissare così le sue caratteristiche accademiche, tecniche ed educative nei confronti del pubblico che l’osserva.
Agli albori dell’XIX secolo le creazioni estetiche, ammorbate dalle prime teorie sulla libertà democratica di Tocqueville e Benjamin Constant, sovvertirono le forme tradizionali d’espressione artistica e le usuali tecniche accademiche. Così, l’arte, iniziò a divenire il riflesso del mondo interiore degli artisti, assumendo toni sempre più personali e soggettivi, sia nella forma dell’esecuzione che nei contenuti.
Il capitalismo è il morbo da cui s’è propagato il relativismo che più ha messo in crisi le vecchie istituzioni morali, dal clero ai codici d’onore legati alle tradizioni cavalleresche, dalle istituzioni scolastiche al semplice buon gusto.
Nell’Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des metiers, editto nella Parigi monarchica tra il 1751 ed il 1772, sotto la voce “educazione” si trova il seguente testo: “i fanciulli che vengono al mondo devono formare un giorno la società nellaquale dovranno vivere; la loro educazione è dunque lo scopo più importante: per loro stessi che l’educazione deve rendere tali che siano utili a questa società...per le loro famiglie, che essi devono sostenere e a cui devono conferire lustro; per lo Stato stesso, che deve raccogliere i frutti della buona educazione ricevuta dai cittadini che lo compongono”.
[caption id="attachment_6567" align="aligncenter" width="1000"] Giovanni Paolo Pannini, Galleria di vedute di Roma antica, 1758, olio su tela. [/caption]
Denis Diderot (1713-1784), che con Jean Le Rond d’Alambert (1717-1783) realizzò la celebre enciclopedia, è erroneamente ricordato come un sostenitore della libertà assoluta di espressione. In realtà, pur difendendo tesi politiche a favore della democrazia, mito oramai sfatato dalla realtà fenomenica che ci circonda, Diderot fu un sostenitore della censura in ambito artistico. Le opere d’arte che rappresentano comportamenti diseducativi, tali atteggiamenti deviati, pornografici, esplicitamente perversi, autolesinisti o omosessuali, a parer suo, non debbono comparire in pubblico, giacchè influenzano in modo negativo la crescita dei fanciulli ed instillano nell’adulto il tarlo del soggetivismo morale. Il relativismo morale, che confonde il bello col brutto, il buono col cattivo, è il primo nemico del buon funzionamento di una nazione illuminata dal lume della ragione. L’artista, secondo Diderot, dev’essere un “philosophe et honnête homme” che, per mezzo dei suoi capolavori, educhi moralmente la società. “Rendere la virtù attraente, il vizio odioso: È questo lo scopo di ogni persona onesta che prende in mano la penna, il pennello o lo scalpello".
 
Per approfondimenti:
_W. Benjamin, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica – Edizioni Einaudi
_W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia, Frammenti, Mimesis edizioni, Milano-Udine,2012
_F. Desideri, M. Baldi, Benjamin, cit.
_W. Benjamin , Aura e Choc, saggi sulla teoria dei media – Edizioni Piccola Biblioteca Einaudi
 
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di Liliane Jessica Tami  del 18/10/2016

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Il XIX secolo, se osservato attraverso la cruna d’un’ago sartoriale, è stato una parabola sorta con la Jeunesse Dorée, rivali dei Sans Culottes della Rivoluzione Francese (letteralmente “senza culottes” i tipici pantaloni sotto il ginocchio indossati dalla nobiltà e dall'alta borghesia durante l’antico regime. Prende il nome di "patrioti", cioè i più radicali tra i partigiani della rivoluzione a partire dal 1791, soprattutto a Parigi), e conclusasi col primo stilista moderno Paul Poiret, che ha aperto la sua rivoluzionaria casa di moda nel 1903. Il 1800 è stato un anno di profondi cambiamenti, dati dal fatto che con la Rivoluzione Francese l’abito ha cessato di essere un’etichetta che intrappolava le persone all’interno di una classe sociale.
L’ottocento è sorto con l’introduzione della democrazia in Francia ed è morto con l’Hoch Capitalismus globale, che ha reso i capi d’abbigliamento una merce apolide riproducibile in serie sradicata quindi da ogni cultura e tradizione. 
[caption id="attachment_6477" align="aligncenter" width="1000"] Louis-Léopold Boilly - Incredibile-parata[/caption]
Se fino alla rivoluzione francese dall’abito di una persona se ne poteva evincere il ceto d’appartenenza, con la fine del vecchio regime, dalla presa della Bastiglia del 14 luglio 1789 in poi, esso divenne un modo con cui esprimere pubblicamente la propria posizione politica. Il motto “Liberté, Egalité, Fraternité” non piaceva per nulla ai controrivoluzionari monarchici e vandeani, che decisero d’opporsi all’avanzare dell popolo ed al mal costume dei sans-culottes attraverso una raffinata ricerca estetica. I giovani monarchici, sovente di fede cattolica, aborrivano la democrazia, che definivano un’opera massonica perpetrata con l’ausilio degli americani ed in particolare del generale La Fayette, il quale diede un diverso gusto e una nuova moda. Egli disegnò di suo pugno le divise del corpo militare volontario chiamato Guardia nazionale francese, a cui Napoleone Bonaparte nel 1812, contrappose il corpo militare Guardia Municipale Francese. Il marchese de La Fayette, nato in Francia ma avente la cittadinanza Americana, amava vestirsi all’inglese e ben presto i giacobini, che sostenevano le sue  idee democratiche, presero a seguire i dettami della moda anglo-americana.
[caption id="attachment_6465" align="aligncenter" width="1000"]liliane2 a destra: Gilbert du Motier de La Fayette - a sinistra: Louis-Léopold Boilly, Ritratto di un sanculotto[/caption]
I giovani monarchici si potevano distinguere facilmente dal popolo che aveva acriticamente preso parte alla rivoluzione perchè vestivano con un gusto estremamente raffinato, a volte persino un po’ caricaturale. Inizialmente cercarono di opporsi al crollo dell’ancien régime anche con le armi, ma in seguito al fallimento dell’insurrezione dei realisti del 13 vendemmiaio si limitarono a perpetrare la loro guerra attraverso pizzi e merletti, ed in particolare con la cipria, che essendo fatta di farina alimentare veniva definita uno sfregio nei confronti di chi non poteva permettersi il pane. Gli appartenenti alla gioventù dorata, così chiamati proprio per il loro cospicuo uso di accessori dorati, tra cui occhiali a pinza sul naso e grosse fibbie preziose sulle scarpe, amavano indossare capi sartoriali appartenenti alla tradizione francese, come il frac con falde quadrate, i culottes aderenti ed un colletto nero, da cui ne deriva anche il nomignolo collets noir. Questi giovani che manifestavano il loro estremismo politico nel ben vestire, anche definiti Incroyables e Merveilleuses a dipendenza del sesso, a volte portavano i capelli lunghi sul davanti e corti sulla nuca, come i condannati alla ghigliottina e, benchè fedeli difensori dell’uso della cipria, del pizzo e del profumo al muschio (da cui un altro nomignolo, muscadins) amavano accompagnarsi d’un lungo bastone decorato con motivo a spirale, che usavano a guisa d’un manganello per malmenare i nemici politici.
[caption id="attachment_6463" align="aligncenter" width="1000"] Frederic Hendrik Kaemmerer. Corteo nuziale olandese.[/caption]

Le ragazze appartenenti alla Jeunesse Dorée, definite Merveilleuses (meraviglioso), mosse un po’ dal ribrezzo per vesti delle contadine ed un po’ da un malinconico anelare all’età dell’oro, prediligevano invece abiti lunghi dalla foggia leggera che richiamavano lo stile dell’antica Grecia. Durante i Balli delle Vittime, a cui si poteva accedere solamente se si affermava d’avere degli amici o dei parenti uccisi dai rivoluzionari, le ragazze potevano sfoggiare i loro travestimenti da Diana o Minerva, abbinati ai sandali alla greca chiamati Cothurnes o ad una vezzosa borsetta chiamata balantine, in onore della lingua ellenica che i rivoluzionari non conoscevano. Alcune Merveilleuses, per incrementare il livello di provocazione presente nell’abito squisitamente neoclassico, a volte si coprivano solamente con una tunica in leggerissima garza per lasciare intravedere la biancheria intima sottostante. Assai meno provocatorie erano le donne girondine, sempre contro-rivoluzionarie ma non estreme quanto le ragazze della Jeunesse Dorée. Sovente vedove di uomini della vandea ingiustamente accusati presso al tribunale della Rivoluzione e sterminati a migliaia attraverso la tecnica dell’annegamento, esse portavano i guanti bianchi a dimostrazione della loro innocenza e si cingevano il collo con un nastro rosso, che stava a rappresentare il sangue sgorgato dalle vittime della ghigliottina. La repressione violenta perpetrata dai democratici – e secondo Hanna Harendt legittimata moralmente dai testi di Jean Jacques Rousseau- fu tale da poter essere paragonata ad un genocidio, ed è per questo che le donne portavano spesso le vesti e le scarpe nere e bordate di rosso, in segno di lutto. È importante ricordare che il Regime del Terrore (1793- 1794) voluto dai giacobini e dai Sans-Culottes contro i preti, i vandeani ed i fedeli alla corona. Si era istituito il fittizio Tribunale Rivoluzionario con cui eliminare in massa gli oppositori politici attraverso una serie di processi-farsa, in cui gli accusati non avevano nè un giudice né un avvocato. Fu l’unico caso della storia, in cui gli imputati vennero giudicati con un “processo” per la loro fede politica di fatto non anti-giuridica. Il tribunale Rivoluzionario venne soppresso il 31 maggio 1975 e secondo la scrittrice Anne Bernet le vittime di quest’istituzione, tra cui figura anche Maria Antonietta, sono state circa 300 000. Per via di quest’onda di sangue che ha travolto la neonata Repubblica Francese anche chi si dichiarava neutro prediligeva indossare funesti capi di colore nero e rosso.

[caption id="attachment_6484" align="aligncenter" width="1000"] Il Tribunale rivoluzionario (Tribunal révolutionnaire) era un tribunale speciale del 1793 a Parigi, dalla Convenzione Nazionale durante la rivoluzione francese. Giudicava gli oppositori politici. Divenne, in breve, il più potente mezzo del Regime del Terrore (1793-1794), sentenziando la pena di morte per molte personalità illustri.[/caption]
Non appena il bianco giglio della famiglia reale dei Borboni è stato estirpato dalla Francia - ma non dall’Europa: oggi gli eredi della corona francese, altezza Reale Henri Albert Gabriel Félix Marie Guillaume Granduca di Lussemburgo e Filippo di Borbone e Grecia (Filippo VI) Re di Spagna, governano ancora - l’abito ha cessato di essere una questione di classe sociale ed è diventato un fatto personale.
Aprendo una piccola parentesi sulla bandiera reale francese, del 1661, Il campo bianco, senza stemma, di solito seminato di gigli d'oro, era stato introdotto verso il 1598 da Enrico IV. Il bianco, invece, era apparso come colore nazionale nel secolo XV e l'uso di bandiere bianche, di solito abbellite con ricami in oro e azzurro, risale appunto al XVI secolo. Era considerato il colore del vessillo di Giovanna d’Arco, della Gerusalemme celeste e delle vesti del Signore e degli angeli; per la tradizione medievale era associato ai Galli, dei quali era il simbolo e il nome stesso (in greco gala = latte).
Lo stendardo reale (fondo bianco in gigli oro con stemma reale) diventa bandiera di stato nel 1632, come insegna del comandante supremo della marina da guerra e in seguito riservata al re. Fu abolita nel 1790 e ripresa da Luigi XVIII il 14 aprile 1814 come stendardo reale in mare. Infine fu definitivamente soppressa nel 1830. Il disegno dello stemma di stato, corrispondente alle armi medie, era di esecuzione complicata e costosa, spesso soggetto a varianti. Lo scudo era sorretto da due angeli, spesso di aspetto infantile (forse a causa di un disegno commissionato dallo stesso Luigi XIV nel 1689), sormontato dalla corona con o senza fodera rossa e circondato dai collari degli ordini di San Michele e del Santo Spirito
Tornando alla storia del costume, alcuni individui potenti o di nobile lignaggio iniziarono a vestirsi in malo modo per una semplice questione di Weltaschauung (concezione del mondo). Il rivoluzionario Jean-Paul Barat, per comprarsi l’amicizia del popolo si vestiva di proposito come una persona molto povera. In nome del principio d’uguaglianza sia i sans-culottes che i Repubblicani si privarono di orpelli preziosi ed anche i nobili cessarono di tingersi i capelli. A partire dal 1792 divenne d’obbligo indossare la coccarda tricolore oppure ornamenti e nastri che ne ricordassero il colore.
[caption id="attachment_6467" align="aligncenter" width="1000"] Nel 2015 al Palazzo del Senato di Milano è avvenuta una mostra di ventisei manichini di grandezza naturale riguardanti la storia militare reale francese. A cura del sarto di fama internazionale Gabriele Mendella i figurini sono stati completi di uniformi, equipaggiati con armi originali che hanno offerto un’immagine viva dei corpi di guardia civili e militari che componevano La "Maison du Roi", ovvero i soldati della Guardia del Re di Francia. A sinistra due figurini della Gardes du Corps di Luigi XVI a Versailles che nelle funeste giornate del 5-6 ottobre 1789, sacrificarono la vita nello sforzo di salvare la regina Maria Antonietta dalla folla che aveva invaso gli appartamenti reali a Versailles (a destra: dettaglio della cotta ricamata indossata dalle Gardes de la Manche nel 18° secolo). In alto a destra i due vessilli reali francesi - 1632-1790 e 1814-1830.[/caption]

La frangia più povera della popolazione legata agli ideali neo-liberisti giacobini non possedeva né i soldi né la voglia di acquistare abiti dal taglio e dai tessuti inglesi (come la moda di La Fayette prevedeva), così gli operai, i marinai ed i contadini fecero della loro divisa da lavoro il loro vessillo. Questa milizia spontanea e scoordinata, mossa più dalla fame che dalla visione razionale della politica, si vestiva in modo semplice, soprattutto senza Culottes. Le Culottes sono le tipiche braghe bianche indossate dai borghesi dell’epoca. I proletari indossavano le bretelle e sovente un gilet senza giacca, che accostavano ad un fazzoletto al collo, simbolo adottato nei secoli successivi dai partigiani. Oltre agli zoccoli di legno i sans-culottes portavano una redingote scura dal colletto rosso, il berretto frigio (ripreso poi dal belga Pierre Culliford per la creazione del cappello dei Puffi), su cui appuntavano la coccarda tricolore e la carmagnola, una tipica giacca da operaio diritta e corta.

 
Per approfondimenti:
_Gabriele Mendella, La Maison Du Roy 1690-1792
_Giorgio Marangoni, Evoluzione storica e stilistica della moda-Vol.2
_Vittorio Vidotto, Storia Moderna - Edizioni Laterza
 
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

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di Liliane Jessica Tami del 05/09/2016

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Dopo la tremenda guerra dei trent’anni, che dal 1599 al 1649 disintegrò l’europa con le sue insurrezioni e guerre civili, le grandi monarchie si impegnarono per cercare di ridare ordine ad una società lasciata nell'incertezza e nel disordine. La Francia del Re sole, l’Impero Asburgico nella Mittel Europa, La reggia du Madrid del re Carlo III, gli Hohenzollern in Prussia che resero Berlino “L’Atene d’Europa", l’Inghilterra di Giacomo II Stuart diventata grande grazie ad Oliver Cromwell e la piccola casata dei Savoia ebbero l’onere, ma anche l’onore, di redimere il popolo dalla miseria e dalla povertà in cui i conflitti l’avevano gettato.
[caption id="attachment_15041" align="aligncenter" width="1000"] da sinistra a destra: Luigi XIV di Borbone, detto il Re Sole - Carlo Sebastiano di Borbone III, Re di Spagna - Federico II Hohenzollern, Re di Prussia - Giacomo II Stuart, Re d'Inghilterra, Carlo Emanuele I di Savoia.[/caption]
Fu così che le grandi Monarchie scelsero lo stile del  Rococò, ancor più del Barocco, per tentare di inaugurare un’era di “democratizzazione” degli usi e dei costumi dei grandi signori. Oro e pietre preziose, educazione e filosofia del buon gusto, ideale di vita colta e raffinata non potevano restare lussi esclusivi per le élites ed i nobili.
Così les philosophes e i grandi sovrani illuminati si impegnarono affinchè anche la media borghesia potesse aver accesso ad oggetti di grande bellezza e qualità, prodotti per la prima volta nella storia del mondo, su scala industriale. Sempre più spesso anche il sapere accademico inerente le belle arti, fino al settecento monopolizzato dall’Académie Royale di re Luigi XIV , veniva divulgato alle masse, permettendo così la nascita della figura del “dilettante” di pittura, ossia un amateur o connaisseur,
ben distinto dall’accademico.
[caption id="attachment_5861" align="aligncenter" width="1000"] Jean-Léon Gérome, ricevimento del Gran Condé da parte di luigi XIV a Versailles nel 1674.[/caption]
Nei trattati di Jonathan Richardson (The connaisseur, 1719) e nel saggio sopra la pittura di Francesco Algarotti, in cui si espone il perchè il connaisseur è in grado di consigliare meglio gli artisti rispetto all’accademico, viene appunto elogiata la cultura libera degli appassionati autodidatti. Sempre in quegli anni nell’ambito della filosofia prendono vita le prime teorie sulla filosofia estetica ed il gusto, ed in particolare ricordiamo Baumgarten e Montesquieu. Filosofi come Hogart, nella sua "Analisi della bellezza" scritta nel 1753, coglie nella linea curva dei riccioli la vera essenza del sublime, ed è proprio nella fluidità degli elementi naturali che ha sede l’anima del Rococò, che appunto deriva dal termine Rocaille, figura con ghirigori e conchiglie di pietra.
Fondamentale per il Rococò sono le pietre preziose che uniscono la vita delle donne d'epoca: oltre ai primi accenni di emancipazione sessuale e libertinismo nei disegni di Francois Bucher e nelle licenziose pulzelle di Honoré Fragonard, i gioielli composti da finte pietre preziose, che finalmente possono ornare le chiome anche di quelle donne troppo povere per potersi permettere rubini e diamanti veri.
Nella storia della frivolezza del gentil sesso, l’invenzione della pasta di vetro agli inizi del 1700 permise anche alle dame della media borghesia di agghindarsi di quei colori che fino ad allora erano loro proibiti per una mera questione economica. La pasta di vetro, inventata nel 1676 da George Ravenscroft, proprietario della Savoy Glass House di Londra, scoprì che aggiungendo dell’ossido di piombo al normale vetro di silice poteva ottenere pietre finte brillanti quasi come quelle vere.
Di fronte alla bellezza di tali creazioni alchemiche nemmeno le dame più ricche, come Madame du Barry, potevano tirarsi in dietro: celebri sono infatti i suoi orecchini celesti forgiati proprio in umilissima pasta di vetro. Il più celebre orafo che adoperò la pasta di vetro fu George Frederic Strass ( 1701-73), che nel 1730 andò a Parigi a scatenare la gran moda dei gioielli finti. Nel 1767 nacque anche l’associazione dei Bijoutiers-faussetiers, che contava ben più di 300 membri. E, per il dispiacere di quei gioiellieri come Pouget, che producevano solo per i nobili, venne a crollare il binomio gioiello=ricchezza.
Madame de Pompadour, la favorita del Re di Francia, nel 1763 promosse l’attività della manifattura di Sèvres, affinché tutti i suoi cittadini potessero beneficiare di un’educazione estetica che iniziava proprio col pranzo del primo mattino servito in piatti di degna bellezza. Graziosi piatti decorati con motivi floreali, tazzine fini e delicate da lasciar passare la luce tra le loro pareti e brocche smaltate finalmente a portata di tutti i medio borghesi: le grandi rivoluzioni, se non mirano a portare pace tra le classi sociali offrendo anche agli ultimi gli stessi privilegi estetici ed etici del Re, non servono proprio a nulla. E la porcellana, in virtù dell’ottimo rapporto tra qualità, bellezza e prezzo, era lo strumento perfetto per iniziare a portare un po’ di bellezza anche nella greve casa d’un contadino.
La storia della porcellana europea è un grande esempio di come, nel 1700, si verificò il grande passaggio dall’artigianato all’arte industriale.
Qualcuno attribuisce la venuta della porcellana in Europa a Marco Polo, ma di fatto è stato il progredirne del commercio, inaugurato dai portoghesi nel XVI secolo con le terre dell’est, che ne diffuse l’uso. Grandi sforzi fece poi Francesco Maria De’Medici per promuovere la creazione della porcellana ed altrettanti ne vennero fatti nelle manifatture francesi di Saint-Cloud a Ruen, in Francia, ma ancora non si conosceva l’ingrediente segreto della porcellana più pregiata ed essa era ancora relegata al rango di arte minore. Per scoprire il segreto per forgiare la porcellana perfetta ci volle un alchimista: Johann Friedrich Böttger, alchimista esperto nello studio di terre colorate, dedicò la sua vita al tentativo di creare l’oro in laboratorio.
[caption id="attachment_5866" align="aligncenter" width="1000"] Johann Paul Adolf Kiessling, Olio su Tela, Scoperta a Meissen[/caption]
In realtà la sua vita, nonostante riuscì a scoprire il segreto per forgiare l’oro bianco, fu estremamente straziante: a soli diciotto anni venne preso come amico-prigioniero del Re di Sassonia Augusto II e rinchiuso in una meravigliosa ala del castello in cui poteva beneficiare di ogni tipo di lusso e ricchezza, al prezzo della libertà.
Il sovrano, storico coltissimo e collezionista d’oggetti di ogni genere, voleva quel giuovin talento tutto per sé per consacrarlo, ed immolarlo totalmente, alla ricerca della formula perfetta per ottenere una porcellana ancora più bella e pura di quella cinese. Dopo anni di tentativi ed esperimenti tra alambicchi ed atanor (i forni alchemici) che scatenarono non poche polemiche tra il popolo, giacché il sovrano svuotò le casse di stato per finanziare questo progetto, Böttger finalmente scoprì l’ingrediente perfetto per ottenere tazzine così lisce e delicate da sembrare prodotte dagli Dei. L’alchimista, nei suoi laboratori, mettendo a punto un impasto a base di caolino, feldspato e quarzo, sostanze che conferiscono alla materia bianchezza, traslucidità e consistenza, riuscì a far cuocere nel “Gran fuoco” a 1550° gradi gli elementi e poi nel “piccolo fuoco" a 900 gradi, riuscì ad ottenere i primi servizi da tavola dell’ambito oro bianco.
Il 25 gennaio 1710 viene fondata a Meissen la prima manifattura europea di porcellana, i cui prodotti vengono finalmente divulgati sul mercato nel 1713 a Lipsia, in occasione della festa pasquale, ottenendo un successo strepitoso. La ricetta della porcellana, essendo frutto di decenni di lunghi lavori, era ovviamente segreta ed il Re Augusto II, che voleva tenere il monopolio di questo commercio, aveva imposto a Böttger, oramai divenuto uno schiavo coperto d’oro rinchiuso nello Jungfernbaste, di non divulgarla a nessuno.
Ma si sa: il mestiere più antico del mondo, dopo la dispensatrice d’amore, è il dispensatore di notizie: un’abile spia, nel 1719, forse in veste d’artigiano, riuscì ad insinuarsi nel palazzo del Re e nei laboratori di porcellana per rubarne la ricetta segreta. In breve tempo vendette a carissimo prezzo la formula segreta alla Manifattura di Vienna da dove poi venne divulgata in tutta Europa, inaugurando un fiorente commercio. Le più celebri manifatture di porcellana nacquero poco dopo: nel 1743 Carlo di Borbone, a Napoli, nello splendido palazzo Capodimonte, diede vita all’omonima fabbrica, e nel 1775 anche Carlo Teodoro del Palatinato, a Frankenthal, aprì la sua celebre manifattura. Nel 1763 Federico il grande, ricalcando le orme di Madame de Pompadour a Sèvres, inaugurò a sua volta un laboratorio di porcellana. Il mercato di queste creazioni, non essendo forgiate esclusivamente per le fasce più ricche della popolazione, fu amplissimo ed ancora oggi molte manifatture storiche come quella del marchese fiorentino Carlo Ginori producono ancora oggetti di qualità e grande bellezza. Peccato che da una cinquantina d’anni a questa parte la porcellana, producibile in modo eco-compatibile e di rara bellezza, sia stata sostituita dalle brutture in plastica usa-e-getta prodotte col petrolio ed il lavoro nei paesi del terzo mondo.
 
Per approfondimenti:
_Storia dell'Arte, dal quattrocento al settecento, Atlas, 2008, Gillo Dorfles, Stefania Buganza, Jacopo Stoppa
_Guida al piccolo antiquario, Paolo de Vecchi, Edizione CDE, Milano
_Storia dei gioielli, Anderson Black, istituto geografico De Agostini, Novara
_Antiquariato, Alessandra Migliorati , riconoscere gli stili, atlanti universali Giunti, Milano, 2003
 
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L’eurogendfor è una superpolizia sovranazionale nata nel 2007 grazie al Trattato di Valsen. Firmato da Francia, Italia, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna, Romania e Polonia, tale accordo ha come scopo di reprimere i moti indipendentisti ed anti-austerity che sempre di più stanno scuotendo l’europa.
In Italia, per il momento, ha solo una sede a Vicenza.