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di Jessica A. Liliane Tami e G. Baiocchi del 12-01-2024

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Figlio di un duca d’Aquitania, vescovo di Tongres, fondatore della città di Liegi, apostolo delle Ardenne piene di selvaggina, santo taumaturgo della rabbia, Monsignor Saint Hubertus delle Ardenne è venerato soprattutto come patrono dei cacciatori. Nel corso dei secoli, l’agiografia ha arricchito la sua breve biografia facendo emergere una storia leggendaria in cui, nell’interesse dell’edificazione cristiana, si combinano fatti storici ed invenzioni. La leggenda però ha preso il sopravvento sulla storia. Nonostante ciò, i secoli sono passati e i cacciatori si raccomandano ancora alla sua Santa protezione.
[caption id="attachment_13583" align="aligncenter" width="1024"] Museo del Prado, Madrid: Rubens Peter Paul, La visione di Saint Hubert, olio su tela, 1617-20 - 63x100 cm.[/caption] Le vite di Saint Hubertus sono numerose e la loro veridicità rasenta il meraviglioso trascendendo il dato meramente storiografico. La letteratura leggendaria è un terreno ingrato ma il raccolto non è assolutamente nullo. Intorno al 1520 è stato pubblicato, a Parigi, un libro dal titolo La Vie de Monseigneur Dardeine. Tratta da un manoscritto composto nel 1459 da Hubert il prevosto, che si è espirato a sua volta ad un testo scritto da un chierico nel 744. Nonostante le distorsioni storiche, gli elementi attorno a cui è stata costruita la sua leggenda, possono essere conservati. Hubertus nacque intorno al 665 nella Gallia orientale, nel pieno della cristianizzazione. Fu consacrato vescovo a Roma nel 709 e succedette a san Lamberto sul trono episcopale di Tongeren-Maastricht, che trasferì a Liegi nel 718. Continuando la sua opera pastorale nelle Ardenne, egli combatté contro i culti pagani e morì il 5 novembre 728. Il 3 novembre 744, il suo corpo fu traslato per la prima volta nella Chiesa Superiore di San Pietro a Liegi. Nell’825 i suoi resti furono posti nelle Ardenne, nell’Abbazia benedettina di Andage, che prese il suo nome. Divenne un importante luogo di pellegrinaggio e si sviluppò il mito hubertiano. Da quel momento in poi, la tradizione vuole che egli fosse un cacciatore colpito dalla grazia in mezzo alla foresta come San Paolo sulla via di Damasco. Molto presto i cacciatori iniziarono ad offrirgli, in occasione dell’anniversario del primo trasferimento del suo corpo, i frutti dell’inizio della stagione di caccia e la decima parte della selvaggina catturata durante il resto dell’anno. Già dalla fine del XV secolo, gli si attribuisce la visione del cervo crocifero di Sant’Eustachio che arde i cuori dei cacciatori. La sua genealogia viene delineata e lo si fa entrare a far parte dell’illustre famiglia dei Pipinidi, discendenti del “famoso Pharamond primo re dei Francesi”, pronipote di Clodoveo e figlio di Bertrando d’Aquitania. Allevato devotamente da sua zia, Sant’Ode, seguì fin da piccolo il padre nelle battute di caccia. Acquisì una tale abilità in questo esercizio che i Signori più abili erano spesso stupiti dalle sue osservazioni sagge e prudenti. All’età di diciotto anni entrò alla corte di Thierry, Re di Neustria, prima di emigrare in Austria dove il duca Pipino di Heristal, suo parente, lo nominò Gran Cacciatore. Lì Hubertus condusse una vita dissipata, abbandonandosi alla sua passione preferita: l’arte venatoria. Hubert aveva anche un grande successo con le signore e fu così che sposò Floribanne, la figlia del Re Dagoberto nel 682. La sua vita cambiera il giorno del Venerdì Santo del 683, quando Hubertus andò a caccia di cervi nella foresta delle Ardenne, con una decina di uomini, muniti di corni e cani. Dopo situazioni convulse legate all’inseguimento all’interno della selva, il cervo si fermò ed incredibilmente iniziò ad avanzare verso Hubertus. Il cacciatore, in quel momento, vide risplendere tra le corna dell’elegante animale un crocifisso in cui risplendeva il Cristo. Il suo cavallo si impennò e una voce risuonò nella foresta: “Hubertus, Hubertus, perché mi insegui? Fino a quando la tua passione per la caccia ti farà perdere la salvezza? Vai a Maastricht dal mio servo Lambert: ti dirà cosa devi fare”.
[caption id="attachment_13586" align="aligncenter" width="1000"] Miniatura medievale del Santo.[/caption]

Ciò che fu ordinato, fu eseguito. Uberto implorò la protezione del Cristo e annunciò il suo desiderio di conversione. Prese i voti dopo la morte della moglie Floribane, avvenuta dando alla luce Floribert1. Si ritirò quindi come eremita nella foresta, che lasciò unicamente per un pellegrinaggio a Roma. Il giorno del suo arrivo, nel 709, San Lamberto viene assassinato. Papa Sergius I (650 - 701), avvertito e consigliato in sogno, nomina Hubertus Vescovo. Sostenendo di non essere degno, cerca di fuggire, ma così come scrivono alcune testimonianze, un angelo gli dona il bastone pastorale, i paramenti di San Lamberto e una stola tessuta dalla Vergine. Non gli resta che sottomettersi alla decisione papale e, durante l’incoronazione, San Pietro stesso gli consegna una chiave d’oro. Saint Hubertus, che voleva cacciare e prendere, si ritrova cacciato e preso. Le circostanze della conversione di Saint Hubertus si rifanno a quelle di sant’Eustachio2, il cui culto si diffuse in Francia nel XI secolo.

La leggenda Aurea racconta la storia di Placido, un generale al servizio di Traiano, che un giorno, mentre era a caccia, “incontrò un branco di cervi, tra i quali ne notò uno più bello e più grande degli altri. Dopo una corsa affannosa, il cervo urtò una roccia. Placido lo osservò e vide un crocifisso tra le corna, ed è Cristo che gli parla «Placido, perché mi perseguiti? Io sono il Cristo che voi onorate senza saperlo: la vostra elemosina è salita prima di me, ed è per questo che sono venuto; era per inseguirvi io stesso per mezzo di questo cervo che correvate. Placido fu quindi battezzato con il nome di Eustachio. Venuto a conoscenza della sua conversione, l’Imperatore Adriano condannò lui e la sua famiglia a essere bruciati in un toro di bronzo. Confusione di date, usurpazione di un miracolo, “trasferimento epico” o “trasferimento politico”, le ragioni del dirottamento della leggenda di Sant’Eustachio a favore di Sant’Uberto restano oscure. L’ipotesi oggi più credibile è quella di Colette Beaune (1943), la quale osserva che Eustachio «fu sostituito, in seguito all’occupazione inglese, da Sant’Uberto, protettore di Liegi, tradizionale alleato del Re di Francia contro la Borgogna3». La leggenda non scelse impunemente il cervo come araldo della parola divina. Fin dalla notte dei tempi, è stato sacro e venerato come animale psicopompo. La sua pelle, ritenuta imputrescibile, permetteva il passaggio dalla vita alla morte e i primi cristiani credevano di scorgere sulla sua fronte il segno del tau, il segno della croce. La Santa Chiesa riprese l’immagine del cervo come simbolo di Cristo. San Girolamo paragona la sete religiosa al cervo che si disseta4. La caduta annuale dei suoi palchi, poi la loro ricrescita, è assimilata alla resurrezione e gli conferisce un simbolo di longevità, eternità e perennità, correlata all’istituto monarchico.

Presentato da Plinio come l’implacabile nemico del serpente, è anche un feroce avversario del male. Infine, le dieci punta dei suoi palchi ricordano i Dieci Comandamenti e, in quanto animale da caccia sacrificato secondo un rituale codificato, la sua uccisione non è forse un’immagine della Passione di Cristo? «I Padri e i teologi ne fanno [...] un attributo o un sostituto di Cristo allo stesso modo dell’agnello o in altri settori dell’unicorno. Per fare questo non esitano a giocare con le parole e a stabilire un legame tra cervus e servus, dove il cervo è il salvatore»5.

«Il ruolo degli ecclesiastici in questa promozione del cervo era essenziale. Per la Chiesa, che da tempo si opponeva a tutte le forme di caccia, il cervo era il male minore. Questo simbolismo fece del cervo il gioco reale dei principi cristiani, che si distinguevano così dalla forza bruta che i re barbari usavano contro le bestie selvatiche, gli orsi, i cinghiali e i lupi»6. La visione di un cervo, portatore di un messaggio divino, è un tema ricorrente nelle leggende cristiane, profane e nei romanzi. San Giuliano l’Ospitaliere, la cui leggenda ha ispirato Flaubert, viene fermato durante una caccia da un cervo che gli predice che distruggerà suo padre e sua madre. Un altro episodio ci perviene da San Meinulphe, il quale fondò il convento di Böddeken nel luogo in cui gli apparve un cervo. La seconda traslazione delle reliquie di Sant’Uberto, nell’825, diede al suo culto un notevole impatto, poiché la sua devozione divenne molto comune anche in ambito terapeutico.

[caption id="attachment_13587" align="aligncenter" width="1000"] Alcune statue di Saint Hubertus (da sinistra a destra): complesso scultoreo presente nella città di Praga; statua di Saint Hubertus e il giovane cervo del XVIII sec., alta 184 cm; statua di Saint Hubertus nella chiesa di Saint-Martin d'Arc-en-Barrois.[/caption]

Dopo la conversione e lasciata la caccia, il Santo delle Ardenne divenne esorcista e moltissimi pellegrini andarono alla sua abbazia, dove i miracoli si moltiplicarono. Il suo potere antirabbico, legato al suo passato di cacciatore, per tradizione gli attribuisce anche poteri taumaturgici alla stola che un angelo gli donò7: «Questa stola che Dio vi manda avrà un potere efficace sui demoni, sui posseduti, sui frenetici e sui poteri infernali. Chiunque sia stato morso da animali rabbiosi sarà preservato dalla rabbia grazie alla sua virtù, che si perpetuerà di secolo in secolo nella tua memoria». La stola e la chiave d’oro divennero presto oggetti di venerazione e strumenti di guarigione. Una delle pratiche più diffuse era la “potatura”, praticata dai monaci del Santo. Il malato veniva inciso con un coltellino e il sacerdote sollevando l’epidermide, inseriva un filamento della stola santa. La ferita veniva poi coperta con una benda che il paziente si impegnava a tenere per nove giorni, durante i quali non doveva radersi né lavarsi il viso e le mani, doveva astenersi dal vino, dormire da solo in un letto con lenzuola bianche e infine confessarsi e fare la comunione. Oltre alla “potatura”, la “tregua” era praticata anche per le persone morse da un animale che mostrava solo lievi segni di rabbia o il cui morso era poco profondo. La tregua poteva essere concessa dai Cavalieri di Sant’Uberto. «Come il cervo crocifero, la creazione dell’Ordine di Saint-Hubert de Barrois nel 1422 [...] fa parte del rinnovato fervore che circonda il santo patrono dei cacciatori»8. Anche le confraternite di Sant’Uberto, ponendosi sotto la sua protezione, giocarono un ruolo importante nella crescita della credenza popolare. Le imitazioni in ferro della chiave di San Pietro, nota anche come chiave di Sant’Uberto, consacrate dai monaci di Andage, venivano utilizzate per marchiare i cani e “vaccinarli” contro la rabbia.

Ai cani veniva poi dato del pane benedetto per nove giorni. Questo rito si diffuse e si diversificò. Fu così che venne istituita un rito per proteggere i cani dalla scabbia, dai vermi e soprattutto dalla rabbia. Alla fine dell’Ancien Régime, l’usanza rimase in alcuni luoghi in forme semplificate. Nel 1784, il re decise che l’usanza di distribuire focacce ai cani da caccia il giorno di Saint Hubertus venisse abolita. Ormai la celebrazione di Saint Hubertus del 3 novembre è solo un rituale in cui si associano arte venatoria e banchetti. Il santo delle Ardenne è stato sostituito da Saint Marcel o Saint Martin de Porrès nei calendari e dall’ottava di Ognissanti nel rituale. «Questa cerimonia religiosa, che ci saremmo guardati bene dall’immaginare, non era più empia per coloro che vi partecipavano di quanto debba esserlo per noi che la riportiamo con la stessa innocenza di spirito. Inoltre, aveva uno scopo: si trattava di pregare il cielo di tenere lontani dai cani i morsi dei serpenti, le punture delle piante velenose, le ferite dei cinghiali e soprattutto la rabbia» . La messa di Saint Hubertus, così come è praticata oggi, deriva dal parziale ripristino, tra il 1832 e il 1848, di questo uso. Nella seconda metà dell’XI secolo furono composte numerose messe: la più famosa delle quali è quella di Obry del 1860. Napoleone III celebrò il giorno di Saint Hubertus a Compiègne con una fredda fiaccolata nel cortile del castello in cui invitò i guardiacaccia che si occupavano dei cani, guidati dal barone Lambert. I fedeli andarono alla messa delle 4:00 del mattino, ma senza i cani. San Giovanni di Matha e San Felice di Valois crearono il capo dell’Ordine trinitario quando videro arrivare un cervo bianco con una croce rossa e blu tra le corna. Luogo di divertimento profano dove il cacciatore insegue con passione il trofeo, la foresta è anche un luogo di ricerca spirituale, di rivelazione e di epifania. L’anima in preda alle passioni si confronta con le forze della natura e trova la salvezza. Rendendo sacra la caccia, essa diventa un percorso iniziatico. La foresta è per certi versi isomorfa al deserto, il luogo in cui l’uomo trasgredisce i limiti della condizione umana, disprezzando il proprio corpo, ma a vantaggio di un rapporto privilegiato con l’oltre. Dalla scoperta del vaccino antirabbico da parte di Pasteur nel 1881 sino alle moderne forme di devozione, i simboli legati a questo Santo restano nella memoria collettiva, ben vivi.

[caption id="attachment_13585" align="aligncenter" width="1000"] L' Ordine di Sant'Uberto del Ducato di Bar è un ordine cavalleresco creato nel 1422 da Luigi I , cardinale - duca di Bar per sostituire l' Ordine del Levriero. Con l'installazione della Repubblica francese, l'Ordine è stato abolito e quindi si è estinto.[/caption]

Nel giorno di Saint Hubertus, il 3 novembre, si svolge ancora la distribuzione del pane e la benedizione degli animali, che però adesso non possono più entrare nelle chiese. Quasi ovunque in Francia, nonostante la scristianizzazione delle campagne, le chiese e le foreste risuonano dell’amore verso questo Santo Signore, inneggiato col suono dei corni da caccia. Per molto tempo la devozione dei cacciatori è rimasta però nell’ombra. Il santo vescovo delle Ardenne non doveva forse la sua salvezza proprio all’abbandono della caccia? Il culto legato all’arte venatoria è un’interpretazione contemporanea di questo Santo. La visione del cervo cristoforo, del Venerdì Santo del 683, ha perso il suo significato: i cacciatori ora ricordano solo la giovinezza di Hubertus, quando era un esuberante cacciatore, prima della conversione, riscrivendone così a loro volta la leggenda . Un secolo dopo la sua morte, nell’anno 825, una parte delle reliquie di Saint Hubertus fu data al monastero di Andage nelle Ardenne belghe. L’abbazia e il villaggio presero il nome di Saint Hubert. La leggenda di Sant’Uberto si sviluppò più tardi in questa regione. Purtroppo, la chiesa e il monastero furono saccheggiati e bruciati nel 1568: da allora non si sa che fine abbiano fatto i resti di Saint Hubertus. Il santo divenne il patrono dei cacciatori (ma anche dei forestali) in quasi tutti i paesi, indipendentemente dalle affinità e dalle appartenenze religiose. Infatti, la parola “Santo”, “Sankt”, “Sanctus” o “St” spesso non viene nemmeno usata: si parla solo di Hubert o Hubertus.

Come molti altri dipartimenti francesi, i cacciatori della Vandea rimangono, ancora oggi, molto legati al loro santo patrono, Hubertus. Questa fedeltà si esprime in vari modi. Sono molte le compagnie di caccia che portano il suo nome e non è raro vedere che le squadre di cacciatori di segugi dedicano ogni anno uno o due giorni di caccia a Saint Hubertus. Qualche occasione speciale, evento o vero e proprio rito? Questo attaccamento si concretizza in una messa solenne dedicata al patrono dei cacciatori e celebrata prima della partenza per la caccia. I cani del branco vengono poi benedetti e posti sotto la sua protezione proprio come i bottoni della ciurma e del loro seguito. Queste messe vengono celebrate in piccole chiese di campagna, in luoghi straordinari come il Parc Soubise a Mouchamps, a volte anche ai margini delle foreste. I cani che possono mordere vengono tenuti verso la fila vicino all’altare. L’ufficio è scandito dal suono dei corni da caccia. Questo rispetto per le tradizioni di caccia fa parte di una storia più antica in Vandea, dove la presenza di Saint Hubertus appare nelle chiese, nei libri o nelle opere d’arte. Saint Hubertus negli edifici religiosi della Vandea. Molte chiese della Vandea avevano o hanno ancora oggi cappelle dedicate a Saint Hubertus. L’opera dell’abate Aillery, Pouillé de l’eveché de Lucon, consente di stilare un elenco più o meno esaustivo di questi edifici religiosi per i quali il culto di Saint Hubertus era di particolare importanza. L’autore si basa principalmente sui resoconti di due importanti visite pastorali; il primo è quello di André Outin, decano di Fontenay, che visita le parrocchie del suo decanato nel 1655, il secondo è quello di monsignor Roch de Monou, vescovo di La Rochelle, che visitò la sua diocesi nel 1738-40. A seguito di questi spostamenti sono stati redatti un certo numero di verbali ufficiali che permettono di precisare le merci esistenti in questi luoghi. Così, l’esistenza di altari dedicati a Saint Hubertus è menzionata nelle chiese di Saint-Hilaire d’Antigny, Saint-Hilaire-de-Mortagne, e in quella di Saint-Laurent-sur-Sèvre, Saint-Malo-du -Bois e La Verrie. A volte, in queste cappelle, una vetrata raffigurante l’episodio della visione di Saint Hubertus era associata a una statua. Il periodo rivoluzionario poi, nel secolo successivo, la ricostruzione e il restauro del patrimonio religioso, componente importante della rinascita del dipartimento per tutto l’Ottocento e fino al 1930, sono all’origine della scomparsa di molti luoghi di culto dedicati a Saint Hubertus. Oggi solo la chiesa di Saint-Malo-du-Bois conserva ancora a destra del coro un altare dedicato al santo patrono dei cacciatori. Sopra l’altare, una statua policroma rappresenta il santo vestito da cacciatore e con in mano una lancia. Accanto a lui c’è il cervo crocifero. Dietro, una vetrata illustra la visione di Saint Hubertus. Le vetrate della chiesa furono realizzate nel 1886, qualche tempo dopo la ricostruzione dell’edificio, dai maestri vetrai Magnen, Clamens e Bordereau. In una foresta e accompagnato dai suoi cani, il Santo sta in ginocchio davanti al cervo tra le cui corna appare una croce che brilla luminosa. Hubert Dumoustier spiega nel suo libro che: “nel giorno della festa, 3 novembre, dalle tre del mattino e per tutta la mattinata, visitiamo l’altare del santo. Tutti gli abitanti del paese, grandi e piccoli, e un buon numero di quelli della campagna, vogliono fare quello che chiamano il loro viaggio a Saint Hubertus, portano un cero tra le mani e lo accendono davanti all’altare. Il giorno della festa; prima di allora, un semplice dipinto, tutto lacerato dai Bleus del 1793, richiamava la memoria di Saint Hubertus.

  [caption id="attachment_13584" align="aligncenter" width="1000"] Il più illustre dei cacciatori vandeani rimane il conte Auguste J.F. de Chabot (1825 - 1911), che ha lasciato ai posteri due trattati fondamentali: La Chasse a travers les ages (La caccia attraverso i secoli) e La chasse du chevreuil et du cerf (La caccia al capriolo e al cervo).[/caption]

Saint Hubertus è molto presente anche nelle opere di caccia della Vandea: tre scrittori, del Basso Poiteau e della Vandea, hanno una passione per l’arte della caccia e sono la base di opere di riferimento in questo campo. Jacques du Fouilloux, gentiluomo della Gatine du Poitou, nacque a Parthenay nelle Deux-Sèvres nel 1519 e morì a Fouilloux nel 1580. Fu autore nel 1561 di un celebre trattato sulla caccia dedicato a Carlo IX che sarà ristampato più volte volte. Questo libro esprime la quintessenza della caccia reale contemporanea. Fissa il vocabolario e stabilisce una sintesi di modelli di caccia alla corte in cui l’inganno è totalmente escluso. Saint Hubertus appare poco nel discorso di Jacques du Fouilloux. Solo il capitolo V tratta dei vecchi cani neri dell’abbazia di Saint-Hubert nelle Ardenne, più comunemente chiamati i cani di Saint Hubertus. Sono un’opportunità per il nostro gentilhomme de la Gatine di evocare i santi patroni dei cacciatori, Hubertus ed Eustachio, e di supporre che i buoni cacciatori li seguiranno in Paradiso con la grazia di Dio nonostante le loro trasgressioni ai comandamenti di Dio. Nel XVII secolo, Robert de Salnove scrisse La Vénerie royale divisa in IV parti, che contengono le caccie al cervo, alla lepre, al capriolo, al cinghiale, al lupo e alla volpe. Nato a Lucon alla fine del XVI secolo, fu ammesso giovanissimo come paggio al re Enrico IV, poi a Luigi XIII. Fu nominato, nel 1619, scudiero di Cristina di Francia, duchessa di Savoia, con la quale rimase per quasi diciotto anni. Tornato in Francia, divenne consigliere del Re e Luogotenente nella grande louveterie di Francia. Come scrittore e cacciatore, l’esperienza acquisita nella caccia e nella guerra non poteva andare persa. Pertanto, La Vénerie royale elenca le tecniche scortesi che a volte sono associate alla caccia al cervo in una dichiarazione in cui contrappone la nobiltà delle caccie reali francesi a ciò che fanno i sovrani stranieri. Per Robert de Salnove, Hubertus ed Eustachio non sono solo i Santi patroni dei cacciatori ma soprattutto due grandi personaggi il cui esempio va seguito. A differenza di Jacques du Fouilloux, il quale pensa che la pratica della caccia sia un divertimento innocente che non può impedire di essere molto pio, come lo furono anche Saint Hubertus, Sant’Eustachio, Luigi il Giusto o Vittorio Amedeo Duca di Savoia: “E sia non solo per il timore di questi accidenti, ma piuttosto per l’amore che dobbiamo a Dio, praticando la caccia come un innocente divertimento, e per seguire l’esempio mostratoci da due grandi personaggi, Saint Hubertus e Sant’Eustachio, che sono i nostri protettori, come quelli che ci diedero le prime istruzioni di caccia. Nel capitolo III della terza parte de La Vénerie royale, Robert de Salnove tratta dei rimedi per evitare che i cani morsi da altri cani rabbiosi o lupi si ammalino a loro volta; il rimedio più efficace era andare a Saint Hubertus. Il più illustre dei cacciatori vandeani rimane il conte Auguste J.F. de Chabot (1825 - 1911), che ha lasciato ai posteri due trattati fondamentali: La Chasse a travers les ages (La caccia attraverso i secoli) e La chasse du chevreuil et du cerf (La caccia al capriolo e al cervo). Le citazioni di Saint Hubertus sono molto più presenti nelle sue opere poiché sembra registrarsi, oltre all’arte della caccia, il rispetto della tradizione e nella fedeltà ai costumi di un tempo. È necessario sottolineare una pratica abbastanza comune nei libri del conte de Chabot: ognuno di essi termina con alcune frasi dedicate a Saint Hubertus. Così, La Chasse du chevreuil et du cerf specifica: “Prima di chiudere questo studio, non voglio lasciarvi, miei cari lettori, senza aver pregato Iddio, se siete buon cacciatore, di avervi nella sua santa e degna custodia e di preservarvi da ogni sfortunata accidente. Auguro anche a voi, sull’esempio del grande Saint Hubertus, nostro patrono, di mantenervi sempre esatti in ogni osservanza della legge divina; rimanere tutta la vita audace e gioioso cacciatore, buon compagno, amabile con tutti, degno, in una parola, del titolo di buon cacciatore”. Quanto a La Chasse travers les ages, l’opera si conclude con la melodia di Saint Hubertus: “non voglio concludere questo studio sulla caccia senza riprodurre i seguenti versi improvvisati in onore del santo patrono dei cacciatori: furono cantati a un banchetto di allegri cacciatori da uno degli assistenti, lui stesso un grande cacciatore. Questo sarà, a mio avviso, il modo migliore per concludere degnamente questo lavoro, augurando anche a me, miei pazienti lettori, felicità e lunga vita”. Nel 1905, il conte de Chabot dedicò un opuscolo di quindici pagine esclusivamente al santo patrono dei cacciatori. Questo libro intitolato Saint Hubert, patrono dei cacciatori, guarisce dalla rabbia è stampato a Les Herbiers. Ripercorre la vita del santo, la nascita delle congregazioni, la guarigione dalla rabbia, per poi concludersi con ricordi personali relativi al suo viaggio in Belgio. La visita alla celebre abbazia benedettina di Saint-Hubert, addossata a un colle della catena delle Ardenne, sembra essere vissuta dal conte di Chabot come un vero e proprio pellegrinaggio. L’apice del suo viaggio viene raggiunto quando evoca una piccola cappella dedicata al Santo e situata ai margini della foresta, un luogo mitico dove il cervo crocifero apparve a Saint Hubertus: i locali chiamano questo luogo la Conserverie, ovvero la Conversione. Dopo aver fatto il giro di questa vasta foresta, si rientra al calar della notte in paese.

[caption id="attachment_13051" align="aligncenter" width="1000"] Cacciatori muniti di trombe (corni) da caccia presso Arc-en-Barrois, dipartimento dell'Alta Marna nella regione del Grand Est per l'annuale festa novembrina (25-26-27 novembre) dedicata a Saint Hubertus.[/caption]  

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di Liliane Jessica Tami del 03/08/2020

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Per approfondimenti:
_Il libro dell’economia, ed. Gribaudo, Milano, 2018;
_John Kenneth Galbraith, Storia dell’economia, ed. Bur, Milano, 2018.
 
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

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di Liliane Jessica Tami del 04/02/2019

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Nel 2015 la casa editrice francese Flammarion ha mandato alle stampe il catalogo completo delle opere d’arte appartenute alla collezione privata del Reichmarschall Hermann Goering (Rosenheim, 1893 – Norimberga, 1946). La pubblicazione del catalogo, curata da Jean-Marc Dreyfus, elenca 1376 dipinti appartenuti al secondo uomo più importante del Nazional-socialismo.
[caption id="attachment_10990" align="aligncenter" width="1000"] Hermann Göring nel 1917, in uniforme della Luftstreitkräfte durante la Grande Guerra. [/caption]
La prefazione del volume è di Laurent Fabius (1946), ministro degli Esteri francese. L’interdisciplinarietà dell’opera, che tange diritto internazionale, storia dell’arte, economia e politica, è stata affrontata grazie all’intervento da un team di archivisti e storici: Isabelle Richefort, conservatore generale degli Archivi Diplomatici di Francia; Anne Liskenne, conservatore capo degli Archivi del Ministero degli Esteri; Pascal Even, conservatore generale e direttore degli Archivi di Francia e Frédéric Baleine du Laurens, direttore degli Archivi diplomatici del Ministero degli Esteri.
Il catalogo originale della collezione Goering, oggi conservato presso gli Archivi diplomatici francesi, è un registro di 268 pagine di circa 23 x 35,5 cm redatto a mano tra il 1940 e il 1945. I fogli, suddivisi in colonne in cui vengono elencati i nomi delle opere, le relative descrizioni, gli artisti, il luogo di provenienza e la nuova collocazione sono stati compilati perlopiù da Gisela Limberg, la segretaria di Hermann Goering, che lavorava accanto al negoziante d’arte Walter Andreas Hofer, direttore della collezione di Goering.
[caption id="attachment_10991" align="aligncenter" width="1000"] Una pagina del Catalogo Goering. Nelle caselle, da sinistra: il numero dell’opera, per ordine d’acquisizione, il titolo e l’autore, la descrizione dell’opera, la sua provenienza e infine il nuovo luogo di esposizione.[/caption]
Il ricercatore Jean-Marc Dreyfus (1968) descrive la controversa figura di Hermann Goering come un principe del Rinascimento: egli sfruttò la sua carriera politica per promuovere le belle arti in Germania mediante il mecenatismo, istituì scuole artistiche e creò svariate collezioni e musei. Goering, infatti, il 9 giugno 1938 a Kronenburg, come un grande mecenate rinascimentale, inaugurò la sua scuola d’arte per promuovere la Weltanschauung hitleriana nell’ambito creativo. In questa scuola, l’artista veniva visto come il depositario d’un sapere iniziatico e pagano da divulgare al popolo e l’arte stessa assurgeva ad una dimensione religiosa e persino escatologica. L’idea che l’arte abbia la funzione di educare ed elevare il popolo sta alla base dei grandi espropri artistici che i nazionalsocialisti svolsero nei confronti di privati ebrei facoltosi e di diversi musei pubblici europei. Quando alla Francia, dopo la sconfitta militare del 1940, gli fu imposta la visione del mondo socialista e nazionalista, della Repubblica di Vichy, questa lasciò agli eserciti di Hitler (Wehrmacht e SS) di fare irruzione nei musei pubblici e nelle case degli ebrei più facoltosi, per prelevare tutto ciò che di prezioso fosse presente, compresi gioielli , mobili e tappeti. I tedeschi confiscarono ai ricchi ebrei inestimabili tesori, che finirono nei musei germanici, come il Kunst Museum di Linz in Austria, per essere contemplati dal popolo alemanno. Alcuni capolavori, invece, vennero trasportati nelle dimore private dei vertici del Reich. Hitler, per la propria collezione personale, raccolse circa 5mila pezzi e Goering circa 2mila. Dai preziosi manufatti appartenuti alla collezione Goering se ne evince la vasta e raffinata cultura umanistica, unita al più estremo fanatismo politico. Egli possedeva tantissime cariche ed onorificenze (presidente del Reichstag, ministro-presidente di Prussia, fondatore della Gestapo, eroe di guerra, asso dell’aviazione, ministro della Luftwaffe, grande imprenditore e insignito da Adolf Hitler come protettore supremo della natura e dell’ambiente, capo dei cacciatori ecc.), e vantava anche una passione per la poesia, la mitologia e la letteratura, dovuto al suo animo da esteta. Ovviamente per lui la trinità composta da razza, paganesimo e arte era basilare, perciò il suo gusto estetico non poteva che essere fortemente influenzato dalla propria etica fondata sul superomismo ariano.
Inizialmente Goering collezionò soprattutto autori tedeschi: il suo favorito era Lucas Cranach, di cui aveva 54 opere. In seguito si interessò anche agli olandesi e fiamminghi del Seicento, ritenuti appartenere al medesimo ceppo razziale nordico dei germani. Fra i Cranach collezionati alcuni erano assai belli come il pagano Giudizio di Paride oggi a Basilea o il Piramo e Tisbe. Pian piano Goering ampliò il proprio settore di nicchia ed iniziò a procurarsi anche opere delle più disparate epoche storiche e regioni geografiche. Nella sua collezione figurano il capolavoro pagano la Leda con il cigno, allora ritenuta di Leonardo da Vinci (oggi nel Museumslandschaft Hessen di Kassel), numerosi Canaletto, Tintoretto, Masolino da Panicale e tantissimi altri autori Italiani, come Botticelli, Tiziano, Sebastiano Ricci, Francesco Padovanino e altri artisti rinascimentali. Tra le sue opere di autori italiani figura anche il ben più moderno Boldini, con due splendidi quadri prelevati dalla galleria del miliardario ebreo Maurice Rothschild. Dalla scuola di Fontaine Bleu sino agli impressionisti francesi, Goering è riuscito a comporre un vero e proprio tempio alla storia dell’arte moderna europea.
[caption id="attachment_10993" align="aligncenter" width="1000"] Tiziano Vecellio, «Danea» (1545). I temi pagani e mitologici erano molto amati da Goering. Questo splendido quadro del Tiziano si trovava in camera sua. [/caption]
La vita pubblica di Hermann Goering è stata fortemente influenzata dalle sue inclinazioni private da esteta stravagante, in bilico tra il rigore e la purezza classici e l’impeto sentimentale romantico. Colto dandy in grado di disegnarsi da solo le proprie uniformi e sprezzante dei diritti fondamentali dell’uomo, sensibile amante del bello e ex-impietoso soldato, meticoloso collezionista e devoto fanatico, ha conservato la maggior parte delle sue opere d’arte a Carinhall, una bellissima e sfarzosa villa nei boschi presso Berlino. Qui Hitler teneva gli incontri diplomatici più importanti del Reich, ed aveva espressamente chiesto a Goering di rendere il luogo quanto più bello e lussuoso possibile. Di fatto, la collezione di Goering al Carinhall era sì a lui intestata a titolo privato, ma ne potevano fruire tutti i vertici del sistema politico tedesco. Nel cortile di questo spettacolare museo immerso nella natura, ricchissimo ed imponente, è stato persino eretto un piccolo castello intitolato ad Edda, la figlia di Goering. Carinhall non era però solo il cuore dell’arte e della diplomazia germanica: era per Goering anche un monumento alla sua defunta Carin von Kantzow, fervente nazionalsocialista ed aristocratica svedese morta precocemente il 31 ottobre 1931.
[caption id="attachment_10994" align="aligncenter" width="1000"] Interni del Carinhall: residenza principesca fatta costruire da Göring negli anni trenta in onore della sua amante svedese, Carin von Fock, che per lui abbandonò sia il marito che il figlio. [/caption]
Per assemblare la sua grandiosa collezione Goering ha impiegato tanti anni e tanti esperti. Tra questi il più celebre è sicuramente il seducente Bruno Lohse (1911 - 2007), elegante ufficiale parigino delle SS, integrato nella Luftwaffe e laureato in Storia dell’Arte con specializzazione in pittura fiamminga. A soli 29 anni divenne il negoziante d’arte di fiducia di Goering. Questo ragazzo colto, elegante e di spicco nella Parigi bene era riuscito a procurare quadri di inestimabile valore ai vertici del Reich e, come riporta Isabelle Richefort, assistente del direttore degli Archivi diplomatici, si è sempre impegnato affinché nessun quadro venisse portato via dai musei pubblici francesi. Lohse lavorava molto, sia nel suo ufficio presso l’ERR (Einsatzstab Reichsleiter Rosenberg, una sorta di università nazionalsocialista) che nel museo Jeu de Paume, accanto al Louvre, dove era stato provvisoriamente installato il deposito delle opere confiscate agli ebrei, ma non volle mai essere pagato per ciò: comprare, espropriare, valutare e vendere opere per conto dei vertici del Nazionalsocialismo era per lui un gesto di filantropia verso l’Europa e una vocazione ideologica. Un altro esperto d’arte che collaborò col Reichsmarschall fu Gustav Rochlitz, un gallerista tedesco che si è specializzato in transizioni verso la Svizzera, ed in particolar modo con Theodor Fischer (1878 - 1957), di Lucerna. Il Giornale dell’Arte, numero 363, pubblicato nell’aprile 2016, a pag.14, riporta un elenco di ben 34 commercianti d’arte, tra cui nobili, professori, galleristi, che si arricchirono vendendo a Goering.
[caption id="attachment_10995" align="aligncenter" width="1000"] Adolf Hitler regala «La bella falconiera» di Hans Makart a Hermann Göring. [/caption]
Non tutti i tesori appartenuti alla collezione Goering furono frutto di regolari scambi economici: alcuni di essi furono espropriati con la forza ai proprietari privati ebrei, ritenuti illegittimi in quanto considerati non europei. La prima azione di confisca a danno dei proprietari semiti avvenne per mano delle SS nel 1940, quando i beni delle famiglie Rosenberg, Bernheim, Rothschild e Seligmann vennero prelevati sotto la supervisione del professor Kurt von Behr (1890 - 1945). Un documento del 3 novembre 1941 redatto dal capo dell’ERR di Berlino, Gerard Utikal (1912 - 1982), asserisce che «nessun oggetto appartenente allo stato Francese o a privati francesi non ebrei è stato toccato».
Dopo la guerra la Francia ha istituito una Commissione per il recupero delle opere d’arte e con l’aiuto di Rose Valland, storica e antifascista francese, è riuscita a portarsi a casa metà di tutte le opere conservate dai tedeschi, senza minimamente curarsi se appartenessero a privati o a musei statali. I russi, invece, hanno fatto razzia di capolavori, arraffandoli come bottino di guerra, distruggendoli e usando le statue greche come bersagli per il fucile. Sebbene il laghetto di Carinhall fosse nel loro settore non si degnarono nemmeno di controllarne il fondo per recuperare le statue in esso gettate: alcuni cimeli, infatti, vennero ripescati solo dopo il crollo del muro di Berlino. Nel novembre 1945 gli americani tentano anche il recupero delle molteplici opere rubate in tutta europa dai nazisti, comprese anche quelle regolarmente acquistate. Nel 1950, quando l’operazione di spartizione della collezione Goering tra le potenze vincitrici si concluse, i comunisti spianarono Carinhall e il parco circostante con le ruspe per essere certi che nemmeno i cercatori di tesori non vi potessero più trovare nulla se non qualche vecchio coccio. Di fatto, ci si è ritrovati di fronte ad un paradosso: come Goering ha espropriato quadri, arazzi e statue a noti collezionisti d’arte ebrei, come i Rothschild, d’Alphonse Kann, Seligman, David-Weil e tanti altri, gli alleati angloamericani e francesi hanno a loro volta depredato tutti i beni artistici della Germania, sia pubblici che privati, ivi compresi quelli regolarmente comprati: un pesante tributo per la sconfitta bellica. La visione socialista del Terzo Reich ha superato la logica economica dell’appropriazione dei beni di lusso: secondo Goering l’arte europea doveva infatti appartenere agli europei e quindi andava tolta agli ebrei (ritenuti stranieri perché originari d’Israele) mediante la coercizione. La visione angloamericana ha a sua volta superato il concetto di diritto etnico di possessione delle opere d’arte, istituendo, di fatto, un nuovo diritto di possessione fondato sulla legge democratica. Il recupero della collezione Goering è stato immediato: l’intero bottino era composto da almeno 1.300 quadri, 250 sculture e 168 arazzi. Alcune opere sono tornate ai loro ex-proprietari ebrei, molte di queste sono state rivendute tramite i più disparati canali e, purtroppo, parecchie di esse sono andate perse per sempre.
Per approfondimenti:
_Le catalogue Goering, edizioni Flammarion Parigi, 2015;
_Alessandro Marzo Magno, Missione grande bellezza, gli eroi e le eroine che salvarono i capolavori italiani saccheggiati da Napoleone e da Hitler, edizioni garzanti Milano, 2017;
_Adolf Hitler, Il regime dell’arte, Edizioni AR, Padova, 2009;
_Il Giornale dell’Arte, numero 363, aprile 2016, pag.14.
 
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di Liliane Jessica Tami del 17/11/2018

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La caccia è una delle più antiche esperienze umane. Dal primitivismo, la cultura occidentale è riuscita a rendere questa primordiale necessità naturale, una vera e propria arte. Dall'uomo di Cromagnon che afferrava le donne con la forza, l’amore si è sublimato sino a diventar poesia d’amor cortese, e in modo analogo anche l’atavico istinto del cavernicolo predatore si è evoluto nella raffinata ed elegante arte venatoria. La caccia, intesa come "arte nobile", si è elevata non più come mero soddisfacimento dell’istinto carnivoro dell’uomo, ma si è trasformata in una disciplina regolamentata da codici etici ed estetici ben precisi. Innanzitutto essere cacciatore significa amare la natura e rispettarla, e ciò comporta adoperarla anche nell’abbigliamento.
[caption id="attachment_10809" align="aligncenter" width="1000"] Nella foto di sinistra un dignitario nel 1920 in Germania con una giacca Norfolk; a destra particolare di un gentiluomo nel suo abbigliamento venatorio.[/caption]
L’elemento base del cacciatore, a prescindere dalle coordinate geografiche in cui opera, è la giacca, rigorosamente portata con la camicia. Quest'ultima possibilmente in cotone, la cui origine è legata ai campi di fiore bianco, è coerente con l’amore del cacciatore per la natura. Le t-shirt in polimeri sintetici high-tech con stampe mimetiche lasciamole pure ai marines americani: l’idea di avvicinarsi al grembo di Madre Natura, in una foresta selvaggia, indossando derivati della plastica è fuori contesto, puerile e ridicola. Per amore della tradizione la giacca da caccia andrebbe abbinata ad una cravatta, con colori rigorosamente autunnali, o un fazzoletto. In Inghilterra, secoli addietro, questo pezzo di stoffa era nato, col nome di plastron, per fungere da laccio emostatico in caso il cacciatore si fosse ferito. La giacca e i pantaloni, così come gli accessori, dipendono dalla zona geografica e culturale in cui si pratica la caccia: l’esteta che andrà a stanar cinghiali in Tirolo, per rispetto degli usi e costumi sartoriali locali, indosserà un Loden in lana ed un copricapo da Jäger.
Il cacciatore che nei boschi dello Yorkshire andrà a cercar volpi, invece, per amore delle usanze locali, potrebbe indossare una giacca da equitazione rossa dal bavero nero sotto ad un bel cappotto bourbon cerato verde, abbinato al tipico cappello derstalker.
Tutte le giacche da caccia discendono, ovviamente, da abiti elaborati al fine di essere comodi durante le attività sportive: le giacche da equitazione, in inglese chiamate hacking jacket, sono state pensate in modo da essere eleganti soprattutto quando vengono indossate da un gentiluomo sudato seduto in sella il quale deve potersi muovere comodamente. L'indumento è leggermente stretto in vita, ha tre bottoni ed i baveri che si incontrano a metà petto. Se il risvolto fosse più lungo o avesse meno di tre bottoni, non avrebbe un bel appiombo se indossata stando seduti sul cavallo. Tradizionalmente la giacca da equitazione era fatta in tweed, al fine di essere robusta e resistere a strappi, rovi e lacerazioni varie. In passato le giacche da equitazione avevano un taglio più lungo, con uno spacco sul retro che si biforcava sulla schiena del destriero. Le tasche, inclinate, rivolte all’interno e grandi, sono pensate per permettere al cavaliere di afferrare facilmente gli oggetti in esse contenute.
[caption id="attachment_10810" align="aligncenter" width="1000"] Giacca femminile di equitazione in tessuto Tweed.[/caption]

Nei paesi mediterranei, invece, è uso indossare la giacca maremmana, tipica dell’omonima regione italiana e si riconosce per le forme più morbide rispetto ai tagli diritti delle giacche sportive inglesi. Il tratto distintivo di questo capo sono le due tasche davanti, applicate, arrotondate e così ampie da comprendere quasi tutta la parte davanti della giacca arrivando sino quasi al bavero piccolo e morbido. Il cacciatore spesso può trovarsi ad usare il fucile in posizioni che lo obbligano a tenere il gomito alzato, perciò la giacca deve assolutamente permettergli la massima libertà di movimento e non intralciarlo in alcun modo. Per permettere un’ampia gamma di movimenti a chi indossa questo capolavoro stilistico, la tradizione sartoriale vuole l’attaccatura del braccio, possieda una particolarità chiamata soffietto, ossia una piccola piega di stoffa che si apre a fisarmonica per agevolare i movimenti della spalla. Al fine di resistere al freddo, alle intemperie e alle insidie della foresta, la giacca maremmana deve essere prodotta in un materiale robusto e resistente, come il velluto o, in particolare, il fustagno. Il fustagno, oggi usato per confezionare abiti da caccia o da lavoro, è un tessuto estremamente resistente prodotto con armatura a saia a 3 o a 4. In passato, dopo esser stato sbiancato, veniva usato per la biancheria da letto e le federe, in modo che queste fossero non solo indistruttibili ma anche ben calde. Il fustagno, a dipendenza della lavorazione, presenta diverse varietà, come il il beaverteen, il moleskin e il doeskin che imita le pelle di daino. La parola Fustagno, nel Medioevo, designava un tessuto di cotone mischiato a lana oppure a lino.

[caption id="attachment_10811" align="aligncenter" width="1000"] Giacca maremmana vecchio stile confezionata in resistente e comodo pilor, tessuto caldo e impermeabile prodotto esclusivamente in italia da tessiture di assoluta qualità, all’interno del lato sinistro è stato realizzato il taschino porta documenti, il carniere è chiuso con un bottone per parte. Giacca calda e comoda utilizzata da sempre in Toscana da cacciatori e butteri.[/caption]
Il gentiluomo che vuole rifuggire la città andando a caccia sulle selvagge Alpi del Südtirol, potrà ispirarsi agli abiti Trachten ( dal tedesco tragen, indossare), tipici delle Alpi tedesche. La tradizionale giacca, chiamata Joppe, abbinata al cappotto in Loden è perfetta e da sempre onorata dalla nobile tradizione venatoria: celebre è infatti il duca di Stiria Giovanni d'Asburgo-Lorena a cui piaceva andare a caccia indossando il Tracht. Le giacche tirolesi si riconoscono dalla loro forma particolare dei baveri arrotondati e fissati con dei bottoni al petto in modo da seguire bene i movimenti del corpo dell’uomo predatore mentre s’acquatta vicino alla preda. Le giacche tirolesi hanno una duplice eredità: cavallerizza e militare, cosa che si evince dalle spalle squadrate che ricordano l’austerità delle divise, e la martingala. Quest'ultima è quel pezzetto di stoffa, simile ad una mezza cintura, presente sul retro di giacche e cappotti che ne restringe il punto vita e si trova soprattutto nelle divise militari. La tradizione tirolese è grande amante dei colori sgargianti e degli ornamenti: le giacche, infatti, presentano spesso abbinamenti con colori sgargianti che si trovano anche nel piumaggio di fagiani e galli cedroni, come il verde, il rosso o il grigio luccio. L’uomo germanico, un po’ orso e un po’ esteta, ama adornarsi i baveri con decorazioni di corno, spillette, ricami a forma di foglie di quercia e bottoni d’osso finemente intagliati, pur sapendo che andando a caccia ha bisogno di una giacca resistente che lo protegga dalle intemperie e, se possibile, anche dalle zanne di del cinghiale. Sui copricapi il cappello da Jäger può avere una Feldzeichen (ramoscello con tre foglie di quercia) o un Federschmuck (piumetto). La lana cotta delle Joppe e il Loden resistono agli urti, alle lacerazioni e ai tagli. Alla giacca tirolese si può abbinare un cappotto in Loden, ampio, avvolgente, caldo e comodo. Il loden è un panno in lana tipico del Tirolo. La parola Loden deriva da Lodo, che in tedesco arcaico significa balla di lana. Questo panno grezzo è resistente e duraturo, perché viene fatto follare (infeltrire) e garzare, in modo da renderne un lato impermeabile e l’altro peloso.
[caption id="attachment_10812" align="aligncenter" width="1000"] Leopold Kupelwieser, Ritratto di Giovanni Battista Giuseppe Fabiano Sebastiano d'Asburgo-Lorena, arciduca d'Austria (particolare) - 1828.[/caption]
L'uomo europeo, ha perpetrato la caccia anche in ambito coloniale: la giacca sahariana, usata nei primi del ‘900 per la caccia grossa in savana, è nata in ambito bellico e esplorativo. La sua praticità, consiste nelle tasche dalla comoda cintura, che la tengono ben aderente al corpo anche durante le folate di vento desertiche, rendendola molto versatile. Si dice che sia stata portata di moda dall’aviatore canadese Arthur Roy Brown (1893 - 1944), che secondo alcuni potrebbe aver abbattuto, il tragico 21 aprile 1918, l’aviatore ed ufficiale tedesco Manfred Albrecht von Richthofen (1892 - 1918), conosciuto col nome di  Barone Rosso. La sahariana in genere è realizzata in cotone, lino, tessuto impermeabile o anche velluto a coste.
[caption id="attachment_10815" align="aligncenter" width="1000"] A sinistra fotogramma del paziente inglese (The English Patient), film del 1996 diretto da Anthony Minghella, tratto dall'omonimo romanzo dello scrittore canadese Michael Ondaatje: nella foto l'attore e protagonista Ralph Fiennes in Sahariana. Nella foto di destra Sahariana militare di un reale coloniale britannico ai primi del secolo del 900.[/caption]
Le quattro tasche a soffietto e una cintura in vita,  di color  kaki, consentono di riporre comodamente gli oggetti e di proteggersi dalle bufere di sabbia. Il clima africano, ovviamente, è stato determinante per forgiarne la forma. In passato veniva realizzata in drill di cotone, un tessuto molto resistente e di lunga durata, abitualmente destinato alle divise coloniali inglesi. Un celebre amante di questa giacca è stato Ernest Hemingway, che se le faceva appositamente confezionare dal negozio di New York Abercrombie & Fitch, specializzato in abbigliamento sportivo.
 
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di Liliane Jessica Tami del 17/10/2018

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Publio Cornelio Tacito (55 d.C.-117 d.C.) è stato un senatore romano la cui memoria è stata tramandata ai posteri soprattutto grazie alle opere di tipo storiografico. Scrisse perlopiù testi legati alle vicende politiche dell’Impero Romano, ma la sua opera più interessante è indubbiamente quella trattante dei nemici giurati dell’esercito latino: i temibili Germani. Tacito, pur non avendo viaggiato oltre ai limiti a nord dell’Impero, rifacendosi a fonti come Bella Germaniae di Plinio il Vecchio, il De bello Gallico di Gaio Giulio Cesare e Geografia di Strabone, pubblicò un breve testo, in lingua latina, dal titolo De origine et situ Germanorum (sull’origine e gli usi dei germani) in cui analizza l’etnia composta da libere genti che tanto diede filo da torcere all’Impero Romano.
[caption id="attachment_10714" align="aligncenter" width="1000"] Otto Albert Koch, Battaglia di Varus,1909 (Particolare), presso Lippisches Landesmuseum, Germania.[/caption]
La pretesa d’universalità dell’Impero di Roma portò ad una serie di ferocissimi scontri contro ai popoli del Nord, come i celti e i germani. Questi uomini di nordiche origini, suddivisi in decine di tribù, erano fortemente legati alla loro identità e non volevano essere inglobati nei disprezzati limes del regno multietnico d’origine latina. Cimbri e teutoni, due tribù germaniche in cerca di nuove terre, nell’anno 113 prima dell’era volgare, apparvero sulla scena politica estera romana sconfiggendo il console Carbone a Noreia, in Carinzia. Nel 105 a.C. l’esercito romano, guidato dai consoli C.Servilio Cepione e Cn. Mallio Massimo venne sconfitto dai germani ad Arausium (Orange) in Provenza. Nel 102 l’impero latino sconfisse i teutoni a Aquae Sextiae (Aix-en-provence) e i cimbri ai Campi Raudii, nei pressi di Vercelli, mentre cercavano di attraversare il Po. Nel 60 dopo l’era volgare, gli elvezi, etnia celtica assai bellicosa e dotata di uno stupefacente sistema anagrafico di controllo degli abitanti, da cui nacque la Confederazione Elvetica, subendo pressione dai popoli germanici scesi da nord invasero la provincia romana della Gallia cercando nuovi territori. Fu così che Cesare, nel 58 d.C., dovette intervenire in Gallia per difendere i suoi territori dagli Elvezi mossi dai Germani. L’imperatore riuscì a sconfiggere gli agguerriti elvezi, guidati da Orgetorige, e a respingere il temibile esercito dei germanici suebi guidati da Ariovisto oltre al Reno e decise di fortificare il limite del suo regno affinché le tribù germaniche non potessero più entrarvi per compiere razzie. Successivamente l’Imperatore Augusto cambiò tattica: da una politica di difesa portò il regno ad una politica d’offesa, volendo conquistare militarmente la Germania al fine di spostare i confini del regno dal Reno all’Elba. Il tentativo di conquista di quel territorio selvaggio, coperto da foreste e acquitrini, era assai arduo giacché i Germani non possedevano grandi centri urbani, ma erano sparpagliati in centinaia di piccoli agglomerati di non più di 50-100 abitanti. Nonostante la contingenza storica rese i popoli di lingua germanica odiosi ai latini, Tacito ebbe la bravura di descriverne le usanze ed i costumi in modo imparziale e persino di apprezzarne le virtù, tali la rettitudine morale, la fedeltà e la bravura in guerra, contrapposte ai vizi che oramai dilagavano nelle grandi città dell’Impero sempre più corrotte dal denaro, dalla lussuria e dai piaceri triviali.
[caption id="attachment_10716" align="aligncenter" width="1000"] Statua di Tacito (particolare) situata davanti al Parlamento di Vienna, in Austria[/caption]
L’opera di Tacito, che in italiano è conosciuta col titolo Germania, è suddivisa in quattro sezioni. I primi 5 paragrafi trattano del territorio e delle razze che vi abitano, dal sesto al 27 paragrafo degli usi e dei costumi comuni a tutti i Germani, dal 28 al 45esimo compie una disamina delle svariate tribù e nel 46esimo ed ultimo paragrafo tratta, molto brevemente, degli ignoti confini a nord del paese. In questo testo analizzeremo soprattutto le parti più rilevanti, ossia la prima e la seconda, in cui l’autore osserva le usanze germaniche e le contrappone a quelle latine.
La prima sezione, introduttiva, espone una serie di argomenti, razziali e culturali, che caratterizzano questo popolo: l’autore scrive che, secondo lui, le popolazioni della Germania non si sono mescolate con altre genti mediante i matrimoni, e che quindi sono una stirpe a sé stante e pura con una conformazione fisica propria. “Da ciò deriva un aspetto pressoché simile in tutti, nonostante il gran numero di individui; occhi azzurri e torvi, capelli biondo-rossastri, corpi saldi e robusti.”
Un altro argomento molto interessante esposto da Tacito è il fatto che presso questi popoli germani vi è il culto di Ercole ed è ben conosciuta l’Odissea, e che ad Ulisse hanno eretto dei monumenti. Secondo recenti studi di mitologia comprata Ulisse fu, inizialmente, un eroe germanico e non greco, come solitamente si crede, e che avrebbe compiuto l’odissea non nel mare mediterraneo bensì nei mari del Nord. Sul tema dei nordici dori che migrando a sud hanno portato la mitologia classica in Grecia sono stati pubblicati svariati libri, come Omero nel Baltico, di Felici Vinci, di cui consiglio caldamente la lettura.
In seguito Tacito parla dell’economia presso i Germani, che è inesistente. A differenza dei romani i germani non sono stati corrotti dall’avarizia perché non conoscono la moneta e i loro scambi si basano ancora sul baratto. Qui Tacito denuncia la speculazione finanziaria presente nelle città dell’impero, elogiando i Germani che, non avendo la moneta, non possono prestare il denaro ad usura. Anche il modo di trattare le donne e condurre la famiglia è ben diverso dalle usanze latine: l’amore carnale è assai rispettato e non vi è la medesima promiscuità che corrompe i romani delle grandi città. I germani conoscono tardi l’amore e per questo conservano intatta la loro virilità, ed anche le donne non hanno fretta a sposarsi. Inoltre per loro i figli sono importantissimi: limitare le nascite o uccidere i figli successivi al primo è ritenuto un crimine gravissimo. Tacito, criticando la decadenza del suo impero, qui scrive “ le loro buone tradizioni hanno più valore di quanto altrove ne abbiano le buone leggi”. Le donne delle tribù, infatti, conservano la verginità solo per il marito con cui intessono una relazione imperitura e non fanno capricci per ottenere oggetti con cui adornarsi. La sposa novella in genere riceve in regalo dal marito dei buoi e delle armi, diversamente dalle femmine delle città romane che sono ben più vanesie. Nello scambio delle armi tra marito e moglie i Germani vedono simboleggiati il sacro vincolo, i sacri misteri e le divinità delle nozze. Inoltre anche le donne appartenenti al ceto nobile si occupano dei figli e li allattano. Presso i popoli nordici le balie e le nutrici non esistono, e tutti i bambini piccoli vengono cresciuti nella semplicità senza sfarzi e senza lussi.
[caption id="attachment_10715" align="aligncenter" width="1000"] L'Hermannsdenkmal, monumento dedicato ad Arminio accanto alla foresta di Teutoburgo. Arminio (in latino: Gaius Iulius Arminius) fu un principe e condottiero della popolazione dei Germani cherusci, ex prefetto di una coorte cherusca dell'esercito romano. Arminio è noto per aver sconfitto l'esercito romano nella battaglia della foresta di Teutoburgo, quando a capo di una coalizione di tribù germaniche annientò, con l'inganno e il tradimento, tre intere legioni comandate da Publio Quintilio Varo, difendendo così la libertà dei Germani, minacciata da Roma all'apice della sua potenza.[/caption]
I Germani, infatti, ritengono sacri i legami di sangue e nei confronti delle donne e dei bambini nutrono profondo rispetto, e pur amando ubriacarsi vivono quindi in una castità ben salvaguardata e non si lasciano corrompere dagli allettanti spettacoli o dai banchetti che eccitano le passioni. Presso questi popoli l’adulterio è sconosciuto e la donna, madre e sacerdotessa, è rispettata come un Dea, la quale però non teme né il sangue né il sudore affiancando gli uomini nelle feroci imprese belliche. In genere però le donne non combattono: restano presso i villaggi a lavorare i campi in modo che i guerrieri, una volta terminate le battaglie, possano tornare a casa, nutrirsi, oziare, bere e festeggiare sino al successivo combattimento. I Germani maschi amano la guerra e ritengono un atto di pigrizia lavorare per ottenere qualcosa quando mediante la razzia di un villaggio estraneo potrebbero conquistarselo in modo ben più onorevole. Nei pochi periodi di pace i Germani si dedicano ad attività venatorie, al sonno, al cibo e a grandi ed allegre bevute di birra ricavata dall’orzo. Il loro cibo è semplice: selvaggina, frutti selvatici e latte cagliato. Per ciò che riguarda l’arte essi non hanno pretese di tipo economico: la bellezza, sia nelle danze teatrali che nelle opere d’artigianato, è ricercata come fine in sé senza nessun compenso di tipo pecuniario. Essi in genere praticano un solo tipo di spettacolo, composto da due giovani nudi che danzano per divertimento tra spade e framee (una loro arma tipica) per divertimento. L’allenamento li rende abili e l’abilità gli procura eleganza: non danzano in vista di un guadagno e la loro unica ricompensa è il divertimento e il piacere del pubblico, a differenza dei Romani che retribuiscono il mestiere dell’attore. Come nota Tacito con toni moralizzanti, dal particolare s’evince l’universale: la grande libertà dei liberi Germani, ben diversa dalla licenziosità viziosa dei romani abitanti delle città, era proprio il loro vivere in modo spontaneo e conforme alla natura.
 
Per approfondimenti:
_Tacito, Germania, Oscar Mondadori,1991, Milano;
_Cesare, La guerra gallica, Barbera Editore, 2006, Siena.
 
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

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di Liliane Jessica Tami del 22/09/2018

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Nella storia del 900, tra gli svariati personaggi che il secolo breve ha conosciuto, Richard Walther Darré (1895 - 1953), già Ministro dell’agricoltura tedesca dal 1933 al 1938 è stato politico e scrittore nato il 14 luglio a Buenos Aires, in Argentina, da una famiglia di coloni tedeschi. Alla tenera età di 10 anni sbarca in Germania poiché la famiglia desidera non far smarrire al figlio le sue radici europee. Partecipò alla Prima guerra mondiale e guadagnò la Croce di Ferro poi, dopo aver concluso gli studi presso la Deutsche Colonial Schule, si iscrisse alla facoltà di agraria e zootecnica dell’università di Halle.
Studiando l’eugenetica (dal greco eu=buono ; genos=generazione) animale, in particolare dei cavalli da corsa, prese convinzione verso l'importanza del mantenimento delle linee di sangue pure, sia in campo zoomorfo, sia in quello umano, affinché si preservino le migliori qualità biologiche e caratteriali attraverso le generazioni. Da qui nasce il suo auspicio: che le famiglie nobili e possidenti terrieri non perdano il loro sangue e la proprietà, tramandandoli. Non si tratta di una forma di "razzismo", come potrebbe apparire, ma dalla forma dell'aver della razza: ovvero la preservazione delle proprie peculiarità fisiche e culturali, non dettate da una presunta superiorità, ma dalla volontà e libertà di non attuare il meticciato. 
Il saggio breve dal titolo La Nuova Nobiltà di Sangue e Suolo, pubblicato in Italia per la prima volta nel 1978 dalla casa editrice AR e poi ristampato nel 2010 dalla Ritter Edizioni, è suddiviso in sei capitoli, la cui nominazione spiega bene i temi esposti. La fase iniziale tratta l'esposizione preliminare della questione (l’autore enuncia i motivi secondo cui vi è la necessità di una nuova aristocrazia); successivamente analizza la storia dell’evoluzione della nobiltà tedesca (confronto fra nobiltà germanica pagana, nobiltà cristiana e nobiltà Romana); osserva i caratteri fondamentali del Ritter von tedesco (libero gentiluomo possessore terriero avente sangue nobile, in grado di partecipare all’amministrazione politica della propria comunità mediante le pubbliche assemblee, i Thing); Il Hegehof (la proprietà terriera di famiglia); L’Hegehof e il matrimonio, con la necessità di trovare una donna di nobili natali, indifferente al richiamo delle vanità borghesi, in grado di portare avanti la tenuta di famiglia; infine alcune direttive generali sull’educazione della giovane Nobiltà e sul suo rango in seno al popolo tedesco.
Nel primo capitolo Darré espone un’analisi etica e politica riguardante la nobiltà. In sintesi egli sostiene che essa debba essere restaurata, come fu in origine, affinché l’Europa venga redenta dalla decadenza morale che l’affligge. Secondo l'argentino, alla base di ogni comunità vi debbono essere le famiglie da secoli legate a quella terra, di contro si andrà inevitabilmente verso la frammentazione in migliaia di singoli individui sradicati dalla propria stirpe e dal proprio luogo d’origine.
Walter Darrè aveva osservato con i propri occhi la decadenza avvertita da parte della società alemanno-tedesca all'interno della Repubblica di Weimar, e qui enuncia una serie di esempi di civiltà che si sono corrotte per via della perdita dell’antica aristocrazia che ne fondò le basi. Ad esempio, all’indomani delle guerre tra plebei urbani e patrizi d’origine agraria, la nobilitas Romana venne perlopiù composta dalle famiglie patrizie indissolubilmente legate alla terra da lavorare. E Roma, che inizialmente era repubblicana, fu gloriosa proprio perché la nobiltà era incarnata dalle famiglie patrizie. A parer suo una civiltà che pone l’individuo, anziché la famiglia, al centro del proprio codice civile è destinata a fallire. Egli infatti asserisce come: «l’avvento della democrazia in uno Stato aristocratico provoca all’inizio una disgregazione generale [...] essa nega i legami ereditari e famigliari […]. Infatti, dopo un’iniziale prosperità, l’assenza di qualità ereditarie ne spegne il bagliore, portandola alla decadenza».
[caption id="attachment_10635" align="aligncenter" width="1000"] Nelle quattro immagini (da sinistra a destra): il politico argentino, naturalizzato tedesco Richard Walther Darré; la versione del saggio italiana; due versioni originali del saggio in tedesco Neuadel aus Blut und Boden.[/caption]
La vera nozione di nobiltà germanica, secondo Darré, si caratterizza mediante una selezione di dirigenti consapevolmente educati sulla base di ceppi ereditari selezionati. Purtroppo, la vera nobiltà, di sangue e di impeccabile educazione non esiste più già dai tempi del Barone vom und zum Stein - Testamento politico di Heinrich Friedrich Karl vom und zum Stein (1757 - 1831), lettera del 24 novembre 1808 a Theodor von Schön (1773 - 1856) -, che ne invocava la soppressione. La nobiltà, secondo l’agronomo, è ormai solo interessata a frequentare i ricevimenti dei commercianti e dei nuovi ricchi, e non ha nulla a che fare con la nobiltà di razza e d’animo, legata alla propria stirpe, che caratterizzava gli antichi germani. Non a caso il filosofo tedesco Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844 - 1900), ne La volontà di potenza asserisce che: «Non vi è nobiltà che per nascita e per sangue. Non parliamo però né del Gotha né della particella von intercalata per gli asini. Questa particella von, se noi parliamo di aristocrazia dello spirito, è sospetta e assai sovente nasconde qualcosa: basta solo vedere come gli ebrei ambiziosi la ricerchino. Lo Spirito da solo non nobilita, gli manca ancora ciò che nobilita lo spirito: l’ascendenza nobile»!
Il secondo capitolo è di tipo storico, e l’autore espone una cronologia della storia della nobiltà e le principali differenze che vi sono tra l’antica nobiltà pagana germanica, la nobiltà cristiana, in cui vige il valore dell’eguaglianza, e la nobiltà della Roma imperiale, multietnica e in cui vigevano ostentazione, lussuria e corruzione.
L’antica nobiltà germanica, come in gran parte anche quella degli Indoariani, si basava sulla credenza dell’ineguaglianza umana. Secondo le antiche credenze pagane, queste ineguaglianze risalivano ad antenati divini, e si credeva che il sangue portasse in sé i germi essenziali del carattere dell’uomo, così come le qualità fisiche ed intellettuali. Per questo i pagani pensavano anche che ci si reincarnasse sempre all’interno del medesimo ceppo famigliare. La purezza del sangue, infatti, come ricorda von Amina nel saggio Principi di diritto germanico, veniva mantenuta con severe leggi di selezione che seguivano una logica impressionante. Inoltre, presso gli antichi germani, non vi era differenza tra un nobile e l’uomo libero. Per gli antichi tedeschi non esistevano, infatti, segni esteriori della nobiltà come le insegne di rango tali il trono, lo scettro, il manto regale. Furono le grandi migrazioni provenienti da Bisanzio, nel 900, a portare l’idea che la nobiltà andasse ostentata con segni di riconoscimento superficiali, anziché puramente etici e genetici. I germani, liberi e nobili, senza distinzione di rango, si davano del “Tu”.
L’uso romano di rivolgersi a Sua Maestà il Re e alla terza persona apparve soltanto in seguito, per dar luogo a sua volta ad un’etichetta che nel medioevo divenne via via sempre più complessa, raggiungendo poi vette eccessive durante l’assolutismo.
La nobiltà determinata dal sangue degli antichi germani venne spazzata via dal cristianesimo, secondo cui vige l’uguaglianza tra tutti i figli di Jahwhé e tutti, a prescindere dalla razza d’appartenenza, possono in ugual modo meritarsi il regno dei cieli. Ciò comportò, più tardi, presso i Franchi, che anche i funzionari servi potessero comprare il titolo di nobile. Darrè, inoltre, riporta anche un fatto assai particolare e paradossale: dopo la rivoluzione francese del 1789, ossia il trionfo della borghesia cosmopolita, vennero impiccate e trucidate molte persone solo perché aventi gli occhi azzurri ed i capelli chiari e si temeva potessero ricostituire un governo nobile ed oligarchico non rispettoso dell’idea d’uguaglianza della finta democrazia apportata.
La nobiltà cristiana in Germania è nata nel 496, quando Re Clodoveo e i suoi nobili si convertirono alla fede cristiana, e da questo momento vennero introdotti nella società princìpi di governo non germanici bensì romani. Presto, quindi, le idee cristiane e romane trasformarono il Re eletto dai suoi pari, come accadeva nelle antiche terre germaniche, in un individuo avente la pretesa di esercitare la fonte giurisprudenziale derivatagli dall'elezione divina in terra, direttamente dal Dio Cristiano: «per diritto divino, appunto». Ciò permise che i funzionari ricevessero un’investitura reale benché non fossero originari di un dato territorio. Così un gruppo di funzionari stranieri si sostituì alla Nobiltà tedesca barbara-autoctona, e di conseguenza il governo dei pari nobili, “democraticamente” eletti nelle assemblee (thing) germaniche, venne sostituito dall'istituzione monarchia.
I Sassoni furono i più importanti depositari della nobiltà pagana, e mal sopportavano chiunque volesse imporre loro un governo solo perché recante un titolo nobiliare acquisito. Carlo Magno dovette massacrare i sassoni pagani in modo tale che si decidessero a riconoscere l’autorità politica di dirigenti allogeni, quindi non nobili. Carlo Magno, a detta di Darrè, estirpò lo spirito di uguaglianza (solo) tra nobili tipico dell’antica Germania e vi introdusse l’idea di classe Romana.
[caption id="attachment_10636" align="aligncenter" width="1000"] Nell'immagine di sinistra: Johann Siebmacher disegna il Nuovo stemma dell'Imperatore e Re del Sacro Romano Impero nel 1605; a destra particolare del dipinto di Louis-Félix Amiel - Carlo Magno Imperatore d'Occidente del 1837.[/caption]
Se si attua una riflessione, certamente il paese che dopo il medioevo ha meglio mantenuto il concetto germanico di Nobiltà in grado di auto-amministrarsi è stata la Confederazione del popolo degli Helvi, ossia gli Svizzeri. A partire dalla celebre Giornata di Verden, nel 782, la Nobiltà cristiana in Germania si sostituì alla nobiltà germanica. Gli antichi germani cessarono così di esseri pari ai loro governanti eletti, e vennero soggiogati dal potere di un Signore che li costringeva a pagare imposte e a sottostare a leggi straniere che non avevano scelto nelle assemblee dei nobili capi-famiglia, i Thing.
Ciò implicò che gli elementi migliori cercarono di svincolarsi da queste morse troppo strette, e nacque così la figura del vassallo, uomo che gestendo un feudo datogli dal Re cercava di ritagliarsi un po’ di quella libertà perduta. Ciò fece sì che l’antico tedesco, uomo di nobili origini, possessore terriero, lavoratore e capace di usare le armi, scomparve. Alcuni divennero solo uomini d’arme, altri invece si occuparono solo della terra, divenendo contadini oppressi dal signore. La nobiltà intesa come casta e non più come appartenenza ad un antico lignaggio indissolubilmente legato ad un territorio, nacque nel X secolo.
Nel terzo capitolo Walter Darrè spiega i caratteri del contadinato tedesco e di come esso debba essere ripristinato, in chiave nobile, al fine di garantire una vita di qualità all’intero Paese. Inoltre il libero contadinato nobile è garante di rispetto dei legami famigliari e del territorio, quindi ciò implica continuità delle tradizioni, degli usi, dei costumi e del sangue. Le famiglie patrizie di contadini gentiluomini sussistenti grazie ai frutti del proprio lavoro e senza debiti con nessuno, rappresentano per Darré l’emblema dell’uomo Libero e Nobile. Infatti una società per essere forte deve porre al suo centro le famiglie, coi relativi terreni inalienabili, anziché gli individui. Per gli antichi romani, infatti, il pater familias era vincolato ai suoi antenati, ai suoi eredi e perciò anche alla proprietà di famiglia. Egli, quindi, non poteva permettersi, come invece oggi accade, di liberarsi della proprietà solo perché è intestata a lui in quanto era di proprietà dell’intera stirpe. Dopo la Repubblica a Roma sorse l’Impero, ed anche il codice civile mutò. Qui la proprietà privata sopraffò la proprietà di famiglia, e pian piano s’instillò nell’Impero il germe dell’individualismo, della distanza dalla terra e quindi della decadenza.
Questo discorso inerente la continuità tra famiglia nobile e proprietà terriera ci spinge subito al quarto e quinto capitolo, in cui l’autore analizza il concetto di Hegehof, ossia la casa di proprietà di famiglia con terreno coltivabile. Egli apre il capitolo scrivendo: «La Nobiltà che abita in una terra inalienabile è la sola a sviluppare quella libertà di spirito che, on ogni circostanza della vita, osa agire e consigliare seguendo soltanto la propria coscienza». Secondo Darré, infatti, la città è il luogo in cui viene maggiormente denobilitato l’uomo. Egli, infatti, vivendo in un luogo sovraffollato, dovendo dipendere dal commercio per potersi permettere ogni tipo di bene, compreso quello alimentare, perde la propria libertà in quanto costretto a sottostare al denaro e non più dal lavoro. Il Gentiluomo di buon sangue, quindi, per potersi garantire la libertà (se un titolo non offre libertà a che serve?) deve essere innanzitutto possessore di una terra che lascerà in eredità alla propria stirpe. L’Hegehof deve essere abbastanza grande per mantenere la famiglia che lo vive: ciò quindi dipende dal tipo di terreno e dalla sua lavorabilità.
[caption id="attachment_10638" align="aligncenter" width="1000"] Richard Gilson Reeve, Mameluke, cavallo campione nel 1827 dell’ Epsom Derby. Stallone purosangue inglese. Le migliori famiglie equine vengono perpetrate tramite incroci selezionate. Allo stesso modo anche le famiglie nobili, in tale pensiero, debbono essere protette affinché i geni migliori, determinanti per il carattere e l’aspetto fisico, non vengano persi nel tempo.[/caption]
Anche il matrimonio deve essere contratto in modo rispettoso degli eredi che ne nasceranno: Darré distingue le donne in quattro categorie, e quelle di ultima categoria, ossia le prostitute, le straniere e le viziose di ogni tipo, devono essere imperativamente non prese in moglie da un uomo che voglia costituirsi la propria comunità famigliare libera ed autarchica. Inoltre la città, oltre che privare l’uomo nobile della propria libertà originaria, rende la donna più incline alla dissolutezza. La femmina borghese e denobilitata, non dovendosi occupare della tenuta e della prole, può permettersi il lusso di sprecare il suo tempo e le sue energie in inutili civetterie. La gentildonna nobile, di pregiata stirpe, è anche quella che non teme di mettersi al servizio dell’uomo e della sua terra per il bene dei suoi figli e rifugge ogni forma di frivolezza e pigrizia, disdegnando l’ inutile vanità.
L’ultimo capitolo è un appello dell’autore affinché la giovane nobiltà venga educata bene e possa raggiungere al meglio una posizione rilevante politicamente. Egli auspica che, ben presto, una nuova nobiltà di sangue e di animo possa prendere in mano le redini della società per guidarla fuori dal baratro di dissolutezza in cui si è gettata. L’educazione, nel formare l’individuo, è importante quanto la sua natura genetica: la società ha quindi un ruolo basilare nel dare ai giovani di buona stirpe gli strumenti per rendere onore ai loro avi liberi e nobili.
Riuscendo a rimettere al centro del codice civile non più l’individuo, bensì la famiglia, e in particolare quelle autoctone, ben presto i reciproci doveri dei genitori e dei figli verrebbero ristabiliti. La buona educazione, l’amore per la propria cultura, la capacità di vivere del frutto del proprio terreno e la memoria dei propri avi dovrebbero essere elementi costituenti di ogni famiglia. L’autore, infatti, si chiede se sia possibile un’educazione civica in questo ambito, ossia che lo Stato si impegni a rendere i suoi abitanti non solo contribuenti bensì nobili inter pares.
 
Per approfondimenti:
_Richard Walther Darré, Neuadel aus Blut und Boden, J.F. Lehmann, München,1930.
 
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di Liliane Jessica Tami del 26/03/2018

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Il filosofo francese Jean-François Lyotard, nel suo saggio «La condizione post-moderna» affermava che la nuova società libera e post-moderna - sorta dalle macerie della seconda guerra mondiale -, grazie alla fluidità del capitalismo, alle nuove tecnologie e all’abbattimento di ogni gerarchia, è estranea alle certezze ed alla coerenza. Tale posizione, agli antipodi del rigore severo e neoclassico che ha caratterizzato gli albori della filosofia occidentale e il Rinascimento italiano, ha creato quella scissione tra forma e sostanza che oggi tanto sembra degradare le masse.
[caption id="attachment_10122" align="aligncenter" width="1000"] Jean-François Lyotard (1924 – 1998) è stato un filosofo francese, generalmente associato al post-strutturalismo e conosciuto soprattutto per la sua teoria della postmodernità. Fu assistente alla Sorbona, professore all'università di Paris-Vincennes e insegnò anche in alcuni atenei statunitensi.[/caption]
Dopo l’epoca triviale medioevale, la buona educazione etico-spirituale dell'uomo è stata fondamentale per redimerlo dallo stato di caotica bestialità in cui per secoli s’era inabissato. Nell'epoca post-moderna, in cui il decostruito, l’informe e il vizioso sono assurti a stati normali dell’essere, la coerenza greca - tale per cui un’anima buona dovesse dimorare in un corpo bello - sembra essersi smarrita. Andando a ritroso, il monsignor fiorentino Giovanni della Casa si preoccupò di redimere gli animi dalla perdizione, stilando l’indice dei libri proibiti, e i corpi dalla bestialità, pubblicando il celebre libello sul buon costume, Il Galateo.
Paradossalmente oggi il mondo necessiterebbe propriamente di personaggi influenti in grado di censurare il degrado televisivo-letterario che corrompe gli animi; così come di un salubre ritorno all’uso delle buone maniere, del ben vestire e del ben parlare. Come Giovanni della Casa, nel suo fanatismo cattolico, si impegnò a purificare molti presunti eretici sul rogo e a condannare coloro che si comportavano da zotici e bifolchi, oggigiorno non dovremmo esitare a «gettare tra le fiamme» di una pacata censura, tutti coloro che sfruttano e utilizzano i mass-media propugnando valori immorali e contro-natura.
Dagli scritti di Giovanni della Casa, e in particolare dalle sue Rime, s’evince ch’egli abbia sempre vissuto idealizzando un’età dell’oro oramai smarrita per sempre. Da giovane non conobbe mai una donna in grado di farlo innamorare perché idealizzò eccessivamente la figura femminile, e da anziano visse la spiritualità in modo estremamente politico e violento perché desideroso di far coincidere la sua idea di società perfetta con la realtà circostante. Della Casa, uomo molto rigido, inflessibile e severo, si preoccupò parecchio della buona educazione dei suoi nipoti e in particolare di Annibale Rucellai, suo favorito.
Traendo spunto dal suo impegno svolto in qualità di zio ed educatore scrisse, in prosa e nella forma d’un dialogo platonico tra un anziano (sé stesso in versione analfabeta) ed un giovane a volte un po’ lento a capire il testo intitolato “Trattato di Messer Giovanni Della Casa, il quale sotto la persona d'un vecchio idiota ammaestrante un suo giovanetto, si ragiona de' modi che si debbono o tenere o schifare nella comune conversazione, cognominato Galateo overo de' costumi”.
[caption id="attachment_10123" align="aligncenter" width="1000"] Giovanni Della Casa, nato il 28 giugno 1503 al Mugello , figlio di Pandolfo e Lisabetta Giovanfrancesco Tornabuoi, si è sempre definito fiorentino. Fin da giovane venne introdotto negli ambienti più raffinati della Firenze rinascimentale e strinse ottimi rapporti, oltre che di parentela, con la famiglia Rucellai, la quale ebbe un ruolo fondamentale nel finanziare i grandi artisti della pregevole città. All’età di 21 anni si trasferisce a Bologna per seguirvi gli studi di legge, ma la sua grande passione resterà per tutta la vita la poesia. Frequentò il circolo letterario di Girolamo Casio de’Medici si appassionò di greco e latino seguendo le lezioni di retorica e poetica. Frequentò il sodalizio culturale dei Vignaiuoli, in cui personaggi illustri, come la sorella di Baldassarre Castiglione, si dilettavano a vergare verso satirici e divertenti.[/caption]
L’opera, il cui lungo titolo è sintetizzato con “Galateo”, venne scritta tra il 1550 e il 1555, periodo in cui il Della Casa divenne padre di Quirinetto. Probabilmente desiderava che suo figlio, fatto educare dalla famiglia Quirini, crescesse bene e in modo morale seguendo le regole ivi descritte, a differenza dei suoi nipoti che a parer suo sembravano dei bifolchi. Questo libro è nato grazie alle conversazioni sulla buona educazione avute dall’autore con Galeazzo (in latino Galateo) Florimonte, vescovo di Sessa. In quegli anni Giovanni Della Casa iniziava a patire i primi tormenti della gota e si rifugiò presso la badia dei conti di Collalto, a Nervesa, nel trevigiano, i quali appartenevano a quella raffinata cerchia di nobili e colti, amanti del buon costume del ben vestire, tanto graditi a Della Casa in quanto contrapposti alla rozzezza medievale che ancora non s’era riusciti ad estirpare dalle masse.
Il fatto che ad impartire le lezioni di buon costume al giovane sia un illetterato, è fondamentale: Giovanni Della Casa intende così mostrare che il buon comportamento è accessibile a chiunque, a prescindere dalla classe sociale e dalla ricchezza. Per ottenere un miglioramento dell’intera società non serve avere pochi nobili eruditi e ben educati, bensì è necessario provvedere alla diffusione delle buone usanze anche presso gli strati più disagiati della popolazione.
Quest’opera è infatti ben diversa dal libro di Baldassarre Castiglione dal titolo Il cortigiano, pubblicato nel 1528, in cui offre consigli su come, mediante il ben parlare, si possa entrare a far parte della cerchia degli amici intimi del principe. Della Casa non vuole insegnare a sedurre l’interlocutore e compiacere gli astanti medianti giochi ingegnosi di parole e conversazioni amabili, bensì desidera che il lettore possa interiorizzare i precetti della buona educazione divenendo un cittadino, e un uomo, migliore e più buono. Il libro è suddiviso in 30 piccoli capitoli, ognuno dei quali tratta di un tema differente, sempre inerente il corretto comportarsi in società. Mediante una trasposizione delle tesi architettoniche vitruviane nell’ambito comportamentale, Della Casa asserisce che la bellezza, la grazia e la proporzione si ritrovano non solo nei corpi e nella natura, ma in ogni favellare e operare umano. Avendo studiato retorica latina e stilistica poetica, l’autore ha molto a cuore il ben parlare, sia per ciò che riguarda i toni, che devono essere dolci e pacati, che ciò che riguarda le parole, che non devono essere né rozze né sconce.
[caption id="attachment_10125" align="aligncenter" width="1000"] In seguito a questo periodo giocoso e dionisiaco, in cui produsse le sue prime opere letterarie, pentito della sua condotta amorosa eccessivamente lasciva, Giovanni della Casa si avvicinò al clero e, nel 1934, all’età di 31 anni, venne eletto Chierico della Camera apostolica da papa Paolo III. In quegli anni pubblicò anche un libricino, dal titolo An uxor sit ducenda, in cui s’interroga se s’abbia da prender moglie o meno. Giunto alla conclusione d’esser nato sfortunato in amore decise di guadagnarsi, mediante l’impegno religioso e letterario, fortuna sociale. Ben presto entrò nelle grazie della famiglia Fernese e presto assurse alle maggiori cariche ecclesiastiche: divenne tesoriere vaticano e, nel 1544, venne mandato a Venezia in veste di Nunzio pontificio. Iniziò un’assidua lotta contro le eresie e contro la riforma protestante che stava sconvolgendo l’Europa. Ben presto il ruolo religioso divenne anche politico, e si impegnò a promuovere l’alleanza della repubblica di Venezia col Re di Francia contro agli spagnoli e Carlo V, ma ebbe scarsi successi. Di fatto, nelle sue poesie, la spiritualità appare pagana e neoclassica, ossia in contrapposizione al suo personaggio politico e sociale. Se ne può evincere che la sua adesione al clero sia stata un atto politico e razionale anziché una scelta mossa da genuini sentimenti religiosi e irrazionali nei confronti di dogmi del monoteismo biblico. In quegli anni si inaugurò anche il concilio di Trento, per arginare l’eresia dilagante, e Della Casa si adoperò per far mettere sul rogo molti presunti eretici, la cui accusa principale era quella di nuocere al buon funzionamento della società con le loro teorie. Non li fece bruciare per la fede che nutrivano nel loro intimo, bensì per lo squilibrio sociale che andavano creando.[/caption]
In più capitoli ribadisce che il parlare debba essere sottoposto a un buon uso, giacché è inutile sapersi tenere bene a tavola se si adopera il turpiloquio o se ci si mostra eccessivamente verbosi impedendo agli altri di esprimersi. Gli interlocutori, infatti, annoverano tra loro i troppo verbosi, i pomposi, i vacui e i troppo silenziosi. Al fine di evitare questi eccessi, o queste mancanze, è fondamentale esercitare la virtù del discernimento, che permette di scovare il giusto mezzo aristotelico, ossia la virtù dell’equilibrio tra le parti. Nel settimo paragrafo si concentra invece sulla questione del ben vestire, e celebre è l’inizio che recita “Ben vestito dèe andar ciascuno, secondo sua conditione e secondo sua età, perciò che, altrimenti facendo, pare che egli sprezzi la gente”.
Fondamentale, infatti, è la cura dell’abito, adeguata all’età, al contesto e alla condizione di chi lo porta, al fine di mostrare rispetto nei confronti del prossimo. Sia l’eccessivo sfarzo che l’eccessiva trascuratezza vengono infatti condannati, così come lo spogliarsi in pubblico o l’allacciarsi le calze in mezzo alle altre persone. Nel capitolo 26 il Della Casa dice che gli uomini differiscono dagli animali proprio per via della loro capacità di riconoscere il bello e la giusta misura, quindi è proprio affinando il gusto e la sensibilità che l’individuo riesce ad elevarsi allontanandosi il più possibile dallo stadio bestiale. Il trattato si chiude con le norme per stare a tavola e con la condanna dell'intemperanza nel bere, divenute poi la base della buona creanza di un’Europa finalmente liberata dallo stato di rozzezza, disordine, immoralità, eccessiva libertà e diseducazione. Non resta che augurarsi che anche questa attuale Europa fatiscente, iperconsumistica, rozza e capitalista possa essere rieducata in fretta!
 
Per approfondimenti:
_Giovanni della Casa, Rime, Bur edizioni, 1993, Milano;
_Giovanni Della Casa, Galateo, edizioni Einaudi, 2006.
 
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di Liliane Jessica Tami del 24/09/2017

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Il Sublime, parola di cui oggi si abusa troppo facilmente, solo negli ultimi secoli è diventato un concetto carico di pathos e collegabile alle manifestazioni meravigliose della Natura, vista come prodotto di Dio. Inizialmente - come è riportato nel celebre testo di estetica dell’antichità "Del sublime", forse vergato dal retore imperiale Cassio Longino (Emesa, 213 a.C. - Palmira, 273 a.C.) - il sublime è nato con l’arte oratoria e designa uno dei quattro stili usati nella redazione di testi eroici. Ivi è riportato che: «Il Sublime trascina gli ascoltatori non alla persuasione, ma all'estasi: perché ciò che è meraviglioso s'accompagna sempre a un senso di smarrimento, e prevale su ciò che è solo convincente o grazioso, dato che la persuasione in genere è alla nostra portata, mentre esso, conferendo al discorso un potere e una forza invincibile, sovrasta qualunque ascoltatore».

In questo testo vi è anche riportato che solo un uomo dotato di grandi passioni, grandi idee e d’integrità morale ineccepibile può produrre opere sublimi. Tale perfetta sovrapposizione tra la vita privata dell’artista e le sue opere, erede del concetto ellenico di “anima bella in corpo bello”, è stata ampliamente ripresa dal filosofo e musicista Richard Wagner, che nel suo testo "Arte e rivoluzione" analizzando colui che crea le opere grandiose, questo non può esimersi dall’essere anche un rivoluzionario.

Una simile visione greca e morale dell’arte oggi, oltre settant’anni dopo la sconfitta del Reich hitleriano, è inconcepibile: mai, come nell’attuale era del post-moderno, si è vista una tale discrasia tra individuo ed opera e, come direbbe Nietzsche: "attualmente l’uccisione di Pan è stata totale". È solo alla fine del XV secolo, grazie al critico letterario parigino Nicolas Boileau, che vengono distinti due tipologie di sublime, ossia il sublime che produce un’elevazione dell’anima e che crea piacere e il sublime inteso come stile letterario in grado di condurre il lettore all’estasi.

[caption id="attachment_9452" align="aligncenter" width="1000"] Caspar David Friedrich, Luna nascente in riva al mare (particolare) - Olio su tela 1822.[/caption]
Per Friedrich Nietzsche esistono due tipi di uomini: i dominatori politeisti con la morale dei Signori e gli schiavi monoteisti appartenenti al filone semita dei timorati di Dio.
La percezione del sublime si divide in queste due grandi categorie: vi sono coloro che quando alzano gli occhi oltre i limiti umani, vengono colti dalla paura e, come dice Kant, da un momentaneo vacillamento dell’Io, da un blocco psichico, mentre vi sono coloro che - come gli antichi seguaci di Pan - vedono nel prometeico ambire oltre ai propri limiti un potenziamento dell’individuo. Per Nietzsche, la percezione del sublime allarga l’animo dell’Individuo e l’accresce senza disintegrarlo. L’Io avente volontà di Potenza, tanto criticato da Schopenhauer, è fondamentale in quanto è proprio il suo operare ed il suo genio a fondare l’arte apollinea.
Il sublime - ossia l’arte dionisiaca e tragica, la quale può anche rendere piacevoli le atrocità e il disgusto della vita -, è come la Tragedia greca: infonde energia panica e vitale all’intero popolo spettatore. La grande questione sul sublime è tremare di fronte al meraviglioso e disprezzare il mondo dei sensi, sentendosi orfani di Pan, senza alcuna tragica ambizione, verso il superamento dei propri limiti, o parallelamente ambire ad ergersi contro lo stupefacente terrore e con coraggio araldico superarlo, proprio come Lucifero nel tentativo di superare Dio o Prometeo nel raggiungere il fuoco.
Nel 1757, con Edmund Burke, il termine ha iniziato ad essere utilizzato correntemente per descrivere lo stato d’animo scaturito da percezioni grandiose legate a fenomeni naturali. Per Burke il sublime è “Tutto ciò che può destare idee di dolore e di pericolo, ossia tutto ciò che è in un certo senso terribile o che riguarda oggetti terribili, o che agisce in modo analogo al terrore", esso può anche essere definito come "l'orrendo che affascina" (delightful horror), tema già messo in versi da John Milton ne "Il Paradiso Perduto" nella sua descrizione di Satana. Nella percezione del Sublime di Burke, come anche di Schopenhauer, vi è un macabro elemento di nichilismo, di prostrazione totale, di ascetismo o, per dirla in termine nietzscheani, di sottomissione femminea e semitica: l’io, di fronte alla grandezza di una percezione sublime, anziché riempirsi, come detto da Longino, viene annullato e dissolto.
Nella prefazione dell’edizione di Inchiesta sul Bello ed il Sublime di Edmund Burke, egli usa il termine "masochismo" per definire il sentimento di sottomissione ed annullamento dell’Io burkiano, per quanto egli dedicò parte della sua vita politica a difendere le istituzioni inglesi monarchiche dal pensiero provocatorio libertino. Profonda è infatti la riflessione di Burke attorno all’Eros ed al suo rapporto con la morte: la percezione della morte, il terrore, finché è lontano arreca diletto e piacere. Nel Sublime la morte viene erotizzata, la lussuria diventa violenta ed estatica proprio quando nell’elemento erotico si inserisce quello mortifero. La bellezza, per Burke, è la qualità in grado di rendere l’amore contemplativo e sereno, liberandolo dal gioco di dominazione-sottomissione e terrore-piacere, elementi dai quali scaturisce il Sublime. La passione causata è lo stupore, la terribile meraviglia che desta lo spietato Dio biblico al popolo da lui intimorito. Di contro per i pagani, la potenza dell’Uomo, come dice il poeta romano Quinto Orazio Flacco, sta proprio nel guardare la Natura senza esserne intimoriti.
[caption id="attachment_9457" align="aligncenter" width="1000"] Joseph Mallord William Turner, L'incendio delle Camere dei Lord e dei Comuni (particolare).[/caption]
Immanuel Kant ne "la Critica della Capacità di Giudizio", analizza a fondo la questione della percezione estetica, del gusto (giudizio), del bello e del sublime. Innanzitutto è importante notare che per il filosofo "non esiste una regola del gusto oggettiva", per via del giudizio propriamente umano inerente al gusto, il quale è legato alla percezione estetica ed al sentimento del singolo soggetto e non ad un concetto fondamentale di determinazione dell’oggetto.
Se per Kant l’agire morale - seguendo la celebre massima “agisci sempre come se ogni tua azione dovesse divenire una massima universalmente valida” - è oggettivo, la percezione del bello e del sublime è invece soggettiva, in quanto dipende strettamente dalla propria percezione e dal proprio gusto. Un uomo gretto e dall’animo chiuso se posto sulla cima di una maestosa montagna non ne percepisce il sublime, perché non possiede la disposizione d’animo adatta.
Il Gusto è, per Kant, una facoltà che si ha in proprio e non esiste un principio "del gusto" avente criterio universale. Diversamente per tornare a Burke, "il gusto" si forma dalla facoltà della mente di formare un giudizio sulle percezioni, le arti e le opere d’immaginazione, ed è universale e comune a tutti. Secondo Burke alcune persone, hanno il gusto traviato o rovinato, e diverse sensibilità.
Dal momento in cui l’animo è predisposto a percepire il sublime, esso può coglierne di due tipi: "matematico" e "dinamico". Il primo nasce dalla percezione dell’infinito e dello sterminato, in confronto alla piccolezza dell’uomo - a riguardo pensiamo al celebre dipinto di Friedrich "Il viandante sul mare di nebbia", in cui a meravigliare è la grandezza del cielo nuvoloso, oppure al quadro di Giorgio Belloni “La calma”, conservato presso le Gallerie d’Italia della Banca Intesa san Paolo -; mentre il secondo è dato dal possente movimento degli elementi, come nel caso di una tempesta, di una cascata o un’eruzione vulcanica.
[caption id="attachment_9458" align="aligncenter" width="1000"] Giorgio Belloni, Calma (Particolare) - 1913.[/caption]
Friedrich Nietzsche ne "La Nascita della Tragedia", scritta grazie ai consigli del suo amico Richard Wagner, a più riprese critica Schopenhauer. Per il filosofo malinconico, e dalle tendenze buddhiste, la Volontà di Vivere deve essere annientata affinché si riesca ad uscire dalla grotta platonica o sollevare il velo di Maja. Bisogna dire che questa posizione assai grama, è certamente figlia di una sua situazione infelice: Schopenhauer, a differenza di Richard Wagner che era un gran amatore di donne, ha vissuto perlopiù una vita carica d’invidia nei confronti della madre, di odio verso l'universo femminile e di disprezzo grettamente monoteistico,verso ogni forma di piacere estetico e sensuale.
Tale è la sua critica verso il mondo dei sensi e della materia che, nella sua opera "Il Mondo come volontà e rappresentazione", arriva persino a criticare le nature morte dipinte dagli olandesi perché troppo “realistiche” ed incitanti alla bramosia alimentare. Per Schopenhauer, infatti, il sublime è il piacere che si prova osservando la potenza o la vastità di un oggetto che può distruggere chi l’osserva. Questa visione infelice del Sublime, percepito come modalità di annullamento della volontà dell’individuo, affinché egli estraniandosi dal mondo possa vederlo come una mera rappresentazione. Tale visione  non è poi così diversa dai monaci flagellanti, i quali arrivavano a suicidarsi logorandosi le carni col pretesto dell’avvicinamento all’idea di Dio: il "Soggetto Puro della Conoscenza", ossia l’asceta, osserva le idee eterne e percepisce il mondo a distanza senza lasciarsi coinvolgere dal contingente e dall’effimero.
La visione sublime aiuta ad annullare la propria volontà per calarsi momentaneamente nei panni dell’Asceta, il quale vede il mondo attraverso un occhio puro ed oggettivo. L’artista senza più una volontà individuale, definito anche Genio, è colui che riesce a rappresentare le idee del Cosmo in modo universalmente valido. L’uomo mediocre, di contro, percepisce il mondo in modo soggettivo e se crea opere d’arte si limita ad esprimere la propria opinione o a copiare quella altrui. Per quanto il genio schopenhaueriano possa essere brillante nel contemplare l’assoluto, se castrato del proprio spirito individuale, vitale e dionisiaco, esso perde ogni possibilità di farsi creatore di opere grandiose. Hans Sachs, nell’opera musicale "I maestri cantori di Norimberga" di Wagner, asserisce infatti “Proprio questa è l’opera del poeta: che egli interpreti e noti il suo sognare”.
 
Per approfondimenti:
_Nietzsche, La nascita della Tragedia - Edizioni piccola biblioteca Adelphi;
_Edmund Burke, Inchiesta sul Bello ed il Sublime - Edizioni Aesthetica Palermo, 2017;
_Immanuel Kant, Critica della capacità di giudizio - Edizioni BUR Biblioteca;
_Arthur Schopenhauer, "Il mondo come volontà e rappresentazione" - Edizioni Rizzoli.
 
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di Liliane Jessica Tami del 27/04/2017

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Di origini modeste Bessie Wallis Warfield, viene al mondo negli Stati Uniti il 19 giugno 1896, presto orfana di padre e con la madre costretta a crescere la figlia contando sugli introiti che le venivano da umili impieghi e dall'elemosina dei parenti. Tuttavia scelse di far studiare la ragazza nelle migliori scuole, certa che così potesse incontrare coetanei ricchi pronti a sposarla. Bessie invece si innamorò del pilota Winfield Spencer, convolò a nozze con lui e durante la luna di miele scoprì che il marito era violento, sadico e alcolizzato. Il divorzio fu una scelta obbligata e pochi mesi più tardi fece amicizia a New York con Ernest Simpson, il futuro secondo coniuge, un agente di assicurazione. Il matrimonio fu celebrato a Chelsea e in seguito andarono a vivere a Londra dove a una festa viene presentata al futuro sovrano che non tarda a corteggiarla.
Per tutti i primi mesi della loro relazione, la stampa britannica mantiene il silenzio sul legame: nessuna immagine esce delle numerose crociere a bordo dello yacht in navigazione nel Mediterraneo, nessuna notizia viene data sulle udienze in corso sul secondo divorzio di Wallis. Giorgio V, padre del principe di Galles, muore il 20 gennaio 1936, Edoardo gli succede e pochi mesi dopo è il vescovo di Bradford ad abbattere il muro del silenzio, dichiarando ai giornali che il re ha un assoluto bisogno della grazia divina per poter ricoprire con questa donna al fianco l'alto e gravoso compito al quale è stato chiamato.
[caption id="attachment_8491" align="aligncenter" width="1000"] Wallis Simpson, nata Bessie Wallis Warfield (1896 – 1986), duchessa di Windsor.[/caption]
I tabloid popolari iniziano così a titolare il comportamento poco consono per la dignità di un membro di casa Windsor e gran parte dell'opinione pubblica è dello stesso avviso, nonostante a fianco di Edoardo si schierino politici di forte caratura come Churchill, ma anche imbarazzanti appoggi pubblici da Edward Mosley, capo dell’ultradestra filo-nazista inglese.
Gli eventi precipitano quando il premier Stanley Baldwin afferma che il paese "non è pronto per una regina Wallis" asserendo come questa non nutra preoccupazioni di ordine morale. I motivi sono politici, legati al passato della signora e ai rapporti con la destra europea. I servizi segreti avevano fornito a Downing Street nei mesi precedenti all'abdicazione del 1936 rapporti nei quali si sostiene che Wallis a Londra manteneva "una affettuosa amicizia" con l'ambasciatore nazista e risultava coinvolta in un vasto traffico internazionale di armi. Troppo, in effetti, per una possibile regina. C'era poi anche altro: grazie a Wallis il sovrano nel 1936 stava maturando l'idea di schierare il paese al fianco di Hitler e del Terzo Reich. Edoardo aveva in animo un vertice ufficiale a Berlino per spartirsi con il Fuhrer le zone di influenza ed era pronto a offrire ai nazisti mano libera in Europa in cambio della salvezza dell'Impero.
Sposando in terze nozze il duca di Windsor, Edoardo VIII, dopo alla sua abdicazione al Trono del Regno Unito, è divenuta Duchessa di Windsor. Accanto al marito, celeberrimo per il suo impeccabile guardaroba e per il buon gusto tipicamente british, Wallis è stata una gentildonna colta, raffinata, dolcemente scandalosa, ma soprattutto è stata il modello estetico per tutte le giovani donne degli anni 30-40 che volevano coltivare l’arte del buon gusto.
A parer suo - che era alta solo un metro e 57 - la bellezza della donna, non dipende esclusivamente dal fisico, bensì dalla cultura e dalla capacità di abbinare i capi più belli ed idonei "Non sono bella, ma quello che so fare è vestirmi meglio di chiunque altro!” asseriva lei, modesta ed inconsapevole musa di intere generazioni. Il gossip su di lei più chiacchierato, oltre le presunte relazioni con i più importanti uomini del mondo, sarebbe la simpatia verso al partito Nazionalsocialista.
La moglie del duca di Windsor mal sopportava gli oggetti brutti: elementi scaturiti per causa della mediocrità estetica degli individui, e - nonostante il matrimonio regale - non nutriva simpatie per la monarchia per la causa dello smembramento della società in classi sociali. Altro elemento discordante con il suo pensiero era riferito al sistema dei titoli nobiliari: questi - difatti - erano tramandati non per merito, bensì per linea di sangue, come è stato sancito da Clodoveo I - Re dei Franchi - nel codice conosciuto con il nome di "Legge Salica" presentato nel 503. Tale sistema adottato delle monarchie europee era mal sopportato da tutti i regimi totalitari, compreso quello nazista di Adolf Hitler, tramite il quale Wallis Simpson - non conoscendone gli sviluppi ideologici definitivi -, stimava essendo anche lei - come il Führer tedesco - una "figlia del popolo", salita agli onori grazie ad una rigorosissima scalata sociale.
A spingere il Re del Regno Unito Edoardo VIII, nel dicembre 1936, ad abdicare rispettando le regole di successione al trono britannico varate nel 1701 dal parlamento inglese - in seguito alla fuga del re Giacomo II in Francia -  in favore della figlia Maria e del marito Giglielmo d’Orange, non poteva infatti che esservi una donna di simpatie popolari e spregiudicata.
[caption id="attachment_8492" align="aligncenter" width="1000"] L’undici dicembre 1936, il re del Regno Unito Edoardo VIII abdicò a favore di suo fratello, il principe Alberto, che diventò re con il nome di Giorgio VI. La sua decisione, la prima volontaria rinuncia al trono da parte di un sovrano britannico in oltre mille anni, fu motivata dalla relazione con Wallis Simpson, una donna divorziata di 40 anni nata in un paesino della Pennsylvania e che l’ex sovrano sposò pochi mesi dopo. Fu un evento storico drammatico per la Gran Bretagna e seguitissimo in tutto il mondo, per ragioni ugualmente distribuite di politica e pettegolezzo. La foto di destra mostra un’immagine di Fort Belvedere, il palazzo del XVIII secolo nel parco di Windsor che fu la residenza di re Edoardo VIII.[/caption]
Wallis Simpson, moglie di Edoardo Ottavo, divenuto duca di Windsor dopo all’abdicazione a lei imputabile, è stata l’unica persona al mondo infatti a permettersi di criticare pubblicamente la Regina d’Inghilterra per il suo gusto estetico: disse, infatti, che la Regina si vestiva come una cuoca.
Amare all’estremo il bello, aborrire l’arte degenerata, bramare gli oggetti preziosi, esser pronti a sacrificare tutto in nome di un rigido piacere estetico e di un’ideale superiore di bellezza ed armonia, sono infatti caratteristiche che hanno plasmato il suo mito. Una cura del dettaglio che - per paradosso - porterà la donna statunitense ad avvicinarsi al gusto adottato dal terzo Reich, con l’austera eleganza delle divise delle SS disegnate dallo stilista Hugo Boss, fino alle magnifiche architetture di Albert Speer. Per capire la bramosia di bellezza di Wallis Simpson bisogna andare a vedere nel suo coffret à bijoux che, dopo alla sua morte avvenuta il 24 aprile 1986, contava più di 214 preziosi tra anelli, collier e spille, realizzati apposta per lei dalle più famose maison orafe; Cartier, Van Cleef & Arpels tra i tanti. Grazie ai regali del duca di Windsor, in 20 anni di matrimonio, Wallis ha raccolto una delle più grandi collezioni di gioielli al mondo, battuta all’asta da Sotheby’s a Ginevra, nel 1987, alla cifra record di 53 milioni e mezzo di dollari. Grazie a quest’asta Liz Taylor, che cercava di competere con Wallis, eletta dal Time donna dell’anno del 1936, riuscì ad accaparrarsi la tanto desiderata spilla a forma di piume tempestata di diamanti disegnata proprio da Edoardo VIII nel 1935. Molto spesso il bijoux portava con sé un messaggio d’amore di Edoardo. Uno su tutti, l’anello con smeraldo che lui le regalò per festeggiare il loro fidanzamento e la separazione dal secondo marito di Wallis, Ernest Aldrich Simpson, direttore di un’agenzia di trasporti.
All’interno, il gioiello portava la dedica che sanciva l’inizio ufficiale della storia d’amore tra il principe del Galles e la donna più ambita del momento: adesso si appartenevano. La coppia, infatti, dopo essersi liberati dalle responsabilità della corona a favore del fratello si sposa il 3 giugno del 1937 Château de Candé in Francia.
Nonostante tutte le opposizioni politiche e sociali allo scandaloso matrimonio tra l’erede al trono ed una ragazza divorziata - per ben ben due volte e appartenente al ceto medio -, Edoardo VIII, primogenito del Re , non tornerà mai sui suoi passi, e per 35 anni, sino alla sua morte - avvenuta il 28 maggio 1972 nella Villa Windsor di Parigi -, la coppia più elegante del secolo, resterà unita e indivisibile.
[caption id="attachment_8499" align="aligncenter" width="1000"] Una foto del tanto celebre matrimonio fra i due. A destra, il castello di Château de Candé: il castello è localizzato nel comune della cittadina francese di Monts, nell'Indre-et-Loire, a 10 km dal sud di Tours.[/caption]
Su Wallis Simpson vi sono una quantità incredibile di dicerie, sia per ciò che riguarda la vita privata, che per quella pubblica e politica: alcune fonti affermano che, prima del matrimonio con l’elegante duca Edoardo III, abbia avuto una relazione con Johachim von Ribbentrop, ministro degli esteri tedeschi, ed altri pettegoli asseriscono che abbia imparato in Asia i trucchi di seduzione sensuale delle Geishe. La storia però, sulla sua simpatia per il Partito Nazionalsocialista dei Lavoratori tedeschi parla chiaro: nel 1937, Adolf Hitler ricevette la coppia a Berchstesgaden in pompa magna ed il principe del Galles assistette alle parate delle Schutz-staffeln (squadre di protezione).
Secondo un documento della polizia segreta portoghese, la PVDE (Polícia de Vigilância e Defesa do Estado), Edoardo e Wallis in quegli anni cercarono di aiutare la Germania a vincere la guerra, mediante un’attività di divulgazione di documenti segreti, affinché il popolo inglese non adottasse i democratici valori americani. Il governo inglese, per disfarsi di Edoardo, lo mandò alle Bahamas nominandolo governatore sino alla fine della guerra, che si godette sullo yatch tra vini prelibati e feste in grande stile. Franklin Delano Roosevelt temeva che la duchessa potesse riferire troppe informazioni belliche importanti all’amico Ribbentrop e, come riporta un documento dell’FBI divulgato dal The Guardian, la fece sorvegliare costantemente. La coppia, anti-democratica ed anti-monarchica - nella sua apparente dissolutezza - visse sino alla fine con una ferrea disciplina, seguendo l'amore per il bello e tentando di abbattere le barriere tra le classi sociali, ma non sempre i due riuscirono correttamente ad esprimere nella pratica i loro ideali. 
 
Per approfondimenti:
_Caroline Blackwood, La duchessa - Editore Codice
_Gilbert Sinoué, Le storie d'amore che hanno cambiato il mondo - Editore Neri Pozza
_Juan Vilches, Ti regalo il mio regno - Editore Imprimatur
 
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di Liliane Jessica Tami 28/03/2017

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Il compositore e registra teatrale tedesco Richard Wagner compose fra il 1862 e il 1867  la sua unica e famosissima commedia teatrale "I maestri cantori di Norimberga" (Die Meistersinger von Nürnberg) che ebbe luogo - con esito trionfale - alla Bayerische Staatsoper di Monaco di Baviera il 21 giugno 1868, sotto la direzione di Hans von Bülow, alla presenza di Wagner e del re Ludwig II di Baviera, mecenate del compositore. Recentemente l'opera è stata riprodotta al teatro "alla Scala" di Milano dove si è riproposto il delicato equilibrio del genio tra innovazione e tradizione.
L’opera, tornata alla scala dopo 27 anni, ha avuto alla regia Harry Kupfer e alla direzione di Daniele Gatti. Per gli  addetti ai lavori una recensione non esaltante: è emerso come il regista non abbia saputo cogliere in pieno il messaggio antropologico dell'opera wagneriana, a causa di un’eccesso di individualismo. Diversamente l’orchestra si è espressa in modo impeccabile. Anziché seguire il solco della tradizione - come il maestro Hans Sachs esorta al giovane Walther di fare - egli ha preferito peccare di tracotanza mettendo sul palco una scenografia post-moderna che nulla ha che vedere con la Norimberga del XVI secolo voluta da Wagner. L’arte nasce, vive e si consuma nell’eterna tensione tra apollineo e dionisiaco. Essa, idea iperuranica tradotta dall’artista in una forma carnale percepibile ai sensi umani, è generata dall’amplesso tra la genialità, l’unicità e la fantasia dell’individuo creatore con le regole imposte dalla tradizione della comunità. Tale delicato equilibrio, tra l’elemento più romantico, selvaggio ed impetuoso e quello classico, scevro da orpelli inutili e squisitamente canonico è, in arte come in vita, assai arduo da scovare.
Richard Wagner, che da giovane fu un impetuoso rivoluzionario, nel 1848 con l’anarchico Bakunin lotta per ridare l’autarchìa al suo amato paese. Crescendo riuscì a domare i suoi spiriti bollenti e conciliari con la millenaria tradizione germanica. È da questa sublimazione del sentimento più ferino verso ad un saggio operare nel rispetto degli aulici precetti imposti dalla storia, che emerge il genio più vero - più puro - libero sia dai vizi individuali causati sia dalla sregolatezza, che dall’eccessiva abnegazione di se, data dalla totale adesione al dogma. Wagner ne "I maestri cantori di Norimberga", tra scene d’un raffinato gusto burlesco e grandiose sinfonie prodotte dall’orchestra, dona allo spettatore questo fondamentale insegnamento, necessario ad ogni artista che voglia assurgersi al rango dei virtuosi, aventi la testa cinta dalla corona d’alloro. L'opera fu molto innovativa, poiché concepì - per la prima volta - un dramma musicale diverso: l'uso del coro e dei pezzi d'assieme. Tuttavia, come nota il critico Carl Dahlhaus, la tendenza arcaicizzante dell'opera - con i suoi monologhi, le canzoni, i concertati, i cori e i finali d'atto tumultuosi simili ad un grand opéra, non si sottrae alla concezione wagneriana matura del dramma, in quanto negli anni '60 il musicista padroneggiava il carattere della propria arte al punto da riconoscergli la facoltà di essere drammatica anche attraverso forme apparentemente anti-drammatiche. I Leitmotiv (temi conduttori), che nel Tristano e nel Ring risaltano con estrema brevità, nei Maestri si intrecciano in lunghe melodie che sembrano integrate nel tessuto musicale. Ne consegue che la restaurazione melodica nello stile dell'opera convenzionale non è il frutto di un regresso dello stile wagneriano, ma scaturisce dall'espansione melodica dei leitmotiv.
[caption id="attachment_14347" align="aligncenter" width="1000"] Wilhelm Richard Wagner, Lipsia, 22 maggio 1813 – Venezia, 13 febbraio 1883. E' stato un compositore, poeta, librettista, regista teatrale, direttore d'orchestra e saggista tedesco. Nella foto di destra l'opera Die Meistersinger von Nürnberg interpretata con usi e costumi tradizionali. [/caption]
Questa commedia, che in breve tratta del cavaliere Walther che invaghitosi di Eva vuole divenire Mestro Cantore  per poter vincere la sua mano, insegna che il giovane cuore - superbo e carico di spontaneo talento, entusiasmo ed ingenuo pathos - deve crescere, per scoprire le gioie per il rispetto della disciplina e delle forme canoniche volute dalla tradizione.
Il giovane Walther compone poesie gradevoli plasmandole in elementi musicali distinti, grazie ad un’innato talento, ma ciò che è stato appreso dal proprio orecchio e dal canto dei fringuelli di bosco, non basta per conquistare il cuore di Eva: egli deve perfezionarsi ed imparare a rendere ancora più grandi le sue parole grazie all’uso della metrica e della rima. È così che in una sola notte, nella Norimberga del 1500 il calzolaio Hans Sachs, maestro cantore formatosi nella rigida tradizione musicale dell’epoca, riesce ad insegnare al talentuoso ma privo d’educazione Walther Von Stolzing come mettere nelle forme più corrette i suoi buoni contenuti, ottenendo così un risultato eccelso.
Nella Scena terza dell’atto primo vi è un’importante scena, in cui gli apprendisti Cantori mostrano all’ancora indomito cavaliere la Tavola della “leges tabulaturae”, in cui sono esposti i punti da seguire per forgiare una perfetta canzone in metrica. Ciascun bar della Canzone di maestro/ presenti di norma una struttura/ di diversi membri, / che nessun deve fondere./ Un membro conta di due strofe/ che debbono avere la stessa aria; la strofa consta del legame di più versi/ ed il verso ha la sua rima alla fine" (Ein jedes meistergesanges bar stell’ordentlich ein gemasse dar/ aus unterschiedlichen / Gesätzen, die keiner soll verletzen./ Ein gesätz besteht aus zweenen Stollen,/ die gleiche melodei haben sollen;/ der Stoll’aus etlicher Vers’gebänd’;/Darauf so folgt der Abgesang[…]).
[caption id="attachment_14348" align="aligncenter" width="1000"] Harry Kupfer - Die Meistersinger von Nürnberg [/caption]
Solo riuscendo a conciliare il proprio innato dono vocale e poetico con la bellezza della tradizione, senza però sacrificare al dogma né il proprio impeto né lo stile individuale, il nobile cavaliere riuscirà a vincere il cuore di Eva.
Il regista Harry Kupfer ha commissionato ad Hans Schavernoch la costruzione di una scenografia, la quale trasfigura i ruderi della chiesa di Santa Caterina bombardata, ha immesso gru, impalcature da cantiere e luci al neon. La critica degli addetti ai lavori si è mossa repentina, dopo lo spettacolo, facendo notare la sostituzione dei raffinati costumi rinascimentali, trasfigurati ad abiti in stile anni ’40, accompagnati da individui in tutina attillata sui pattini a rotelle o da celerini in divisa attorno a carri carnascialeschi.  Schavernoch, dunque, ha dimostrato di non avere avuto alcun rispetto per la tradizione dell’ arte germanica elogiata da Wagner.  L’opera -  d’una bellezza sensazionale -  si chiude con la strofa: Onorate i vostri Maestri tedeschi, e sacri tenete i loro buoni geni; e se darete favore al loro operare, andasse anche in polvere il Sacro Romano Impero, a noi rimarrebbe sempre la sacra arte tedesca!”. Come afferma il calzolaio Sachs e Maestro Cantore, bisogna stare attenti: “Se avverrà un giorno in cui il popolo e l’Impero Tedesco cadano sotto falsa maestà straniera; e che nessun principe comprenda oramai più il suo popolo, e se le frivolezze mediterranee si trapianteranno nella terra tedesca, nessuno allora saprà più ciò che è puramente tedesco e non si vivrà più nella gloria dei Maestri Tedeschi”.
D’altronde, come scrive Wagner stesso nel suo saggio filosofico "Gli ebrei e la musica" (Das Judentum in der musik, 1850), vi sono persone che per loro natura, etnica o spirituale, sono incapaci di capire e di produrre ogni tipo di manifestazione artistica, e non possono che modificare il gusto collettivo affinché le loro creazioni vengano apprezzate. Avviandoci verso la conclusione, anche il cavaliere Walther - voluto dal regista sovrappeso, coi capelli ricci e scuri, la polo azzurra sudaticcia ed un cappotto di pelle da vecchio rocker trasandato - non incarna l’ideale germanico del bel cavaliere: biondo, forte, raffinato in ascesa tra il genio individuale Sturm und Drang e l’eroe della tradizione collettiva.
A sinistra, il cavaliere Walther flaccido e mal vestito con costumi appartenenti ad un’epoca errata del regista Harry Kupfer . A destra, il medesimo Walther, con Eva, interpretati da un diverso regista in abiti cinquecenteschi.
 
 Per approfondimenti:
_Riccardo Wagner, I maestri cantori di Norimberga, Biblioteca moderna mondadori, 1957
_Richard Wagner, Gli ebrei e la musica, effepi edizioni, Genova, 2008.
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