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di Gabriele Rèpaci  del 02-10-2019

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«È certo che occorre ristudiare Sorel, per cogliere al di sotto delle incrostazioni parassitarie deposte sul suo pensiero da ammiratori dilettanti e intellettuali, ciò che in esso è più essenziale e permanente». Così affermava Antonio Gramsci, nei suoi Quaderni del carcere riferendosi a Georges Eugene Sorel: di spirito irrequieto e frammentario, venato da un pessimismo pieno di tragiche significazioni; studioso ben preparato del pensiero socratico e del messaggio cristiano; teorico acuto del sindacalismo rivoluzionario e critico geniale del marxismo; attento alla lezione di Proudhon e di Renan, di Bergson e di James, Sorel si può annoverare, insieme con Nietzsche e Ortega y Gasset, tra gli esponenti della Lebensphilosophie (Filosofia della vita), ma nel contempo personifica la crisi politica e morale del suo tempo, e nel suo pensiero, che è impossibile compendiare in ordine sistematico, si riflettono i contrasti, le ambiguità e le antinomie che hanno alimentato le maggiori polemiche dell'ultimo Ottocento e dei primi decenni del Novecento.
[caption id="attachment_11545" align="aligncenter" width="1000"] Georges Eugene Sorel (Cherbourg, 2 novembre 1847 - Boulogne-sur-Seine, 29 agosto 1922) è un filosofo e sociologo francese, noto per la sua teoria del sindacalismo rivoluzionario. Può essere considerato come uno dei principali introduttori del marxismo in Francia.[/caption]
Georges Sorel nacque il 2 novembre 1847 a Cherbourg da una famiglia della media borghesia normanna. Dopo aver conseguito il diploma in lettere e scienze nella scuola locale si recò a Parigi dove frequentò un corso di matematica al collège Rollin e in seguito venne ammesso all'Ècole Polytechnique. La famiglia lo seguirà nella capitale in seguito alla fallimento del commercio del Padre. Scrive Pierre Andreu: «Il padre di Sorel fece pessimi affari. Alla nascita di Georges, teneva uno spaccio di acqua di Seltz e di acque gassose; verso il 1840 si ritrovavano nei giornali locali degli annunci pubblicitari per la vendita del sidro di Toques, suo paese natale. Più tardi lo troviamo locandiere e affittacamere, come lo qualifica un vecchio almanacco della città di Cherbourg. Che avesse fatto fallimento, come allora pretendono certi vecchi di Cherbourg, conoscenti di Sorel, non è sicuro […] La famiglia di Sorel ebbe dunque delle “disgrazie” […] e si può pensare che questa atmosfera di difficoltà finanziarie e di riprovazione morale che circondava allora – siamo in provincia, nel 1850, e lo stesso Sorel ha notato nelle sue Réflexions che fino al 1879 la bancarotta fraudolenta era punita con la morte – i commercianti sfortunati, isolando Sorel dalla sua classe, lo avesse preparato ad accettare più tardi le idee socialiste».
Giovane studente, alla vigilia della caduta del Secondo Impero si professava ardente legittimista: ammirava le tradizioni francesi e temeva che il regime del tempo – portando al potere «avventurieri materialisti e amorali» - se ne stesse completamente allontanando.
All'età di vent'anni iniziò la professione di ingegnere al Dipartimento governativo dei Ponti e delle Strade e nel luglio 1870 – qualche giorno prima della dichiarazione della guerra alla Prussia – venne trasferito in Corsica ove rimase per tutta la durata del conflitto.
Durante il periodo della Comune di Parigi (18 marzo 1871 – 28 maggio 1871), il giovane Sorel si trovava lontano dalla Francia, tuttavia le vicende di questi anni saranno sempre presenti all'interno delle sue valutazioni e dei suoi orientamenti. Nel 1875 incontrò la sua futura moglie Marie David, giovane operaia del Giura di umili origini e profondamente religiosa, che gli rimarrà accanto per tutta la vita. Nel 1892 preferì rinunciare all'incarico nell'amministrazione statale francese, rifiutando anche i diritti di pensione e si dedicò completamente agli studi di filosofia, di politica, di religione, di economia e di storia. Il 1893 è la data che segna l'incontro con il pensiero di Marx, contrassegnato da una prima fase di sostanziale ortodossia (1893 -1897) come testimoniano gli scritti riguardanti la concezione labriolana del materialismo storico e alcuni studi economici. In questa prima fase per Sorel non si trattava di assimilare il marxismo per farne un uso puramente politico, bensì di misurarne e valorizzarne tutte le potenzialità scientifiche rispetto ai recenti sviluppi delle scienze sociali.
Sotto la spinta dell'affare Dreyfus, Sorel si mostrò favorevole a una lotta comune del movimento operaio con le formazioni democratiche della sinistra borghese e partecipò attivamente alla battaglia ingaggiata dal blocco delle sinistre in difesa della Repubblica. A partire dal 1897, nell'ultimo articolo da lui pubblicato sulla rivista «Devenir social», Sorel cominciò ad avanzare dubbi sull'effettiva scientificità del paradigma marxiano e, qualche mese dopo, in una lettera indirizzata a Benedetto Croce espresse il suo favore nei confronti delle tesi esposte da Eduard Bernstein sulla rivista «Neue Zeit». Se il riformismo rimarrà solo una breve parentesi indissolubilmente legato al clima dell'affare Dreyfus, il revisionismo diverrà una costante del suo pensiero. Nei primi anni del Novecento entrò in contatto con il nascente gruppo del sindacalismo rivoluzionario capeggiato da Arturo Labriola ed Enrico Leone, e dietro invito di quest'ultimo, entrerà nel comitato di redazione della rivista romana «Il divenire sociale» che uscirà, quindicinalmente dal 1905 al 1910. Su queste pagine egli scriverà una serie di articoli (La lotta di classe e la violenza, La decadenza borghese e la violenza, I pregiudizi contro la violenza, Lo sciopero generale e La morale dei produttori) che che compendierà poi nella sua opera maggiore, Réflexion sur la violence (1908). Attorno al 1910 iniziò a guardare con simpatia Charles Maurras, l'Action française ed il nazionalismo integrale. Lo scoppio del primo conflitto mondiale lo vide da subito attestato su posizioni di aperta condanna della guerra. Nel tentativo di favorire la posizione antimilitarista italiana scrisse con insistenza a tutti i sindacalisti rivoluzionari con cui era ancora in contatto, così come a Croce, Pareto e a Missiroli, rivolgendo due vibranti appelli perfino dalle colonne dell'«Avanti». Tuttavia ormai i vecchi sindacalisti erano stati conquistati alla causa interventista, tanto da passare dalla redazione dell'«Avanti» al «Popolo d'Italia» di Benito Mussolini. Sorel nonostante l'abbandono da parte dei suoi vecchi compagni e immerso nel più nero pessimismo, avrà l'onestà di rivolgere un sincero elogio al Partito Socialista Italiano per la sua ferma opposizione alla guerra. Il trionfo inatteso del bolscevismo in Russia sorprenderà ed esalterà Sorel che non cesserà di ammirare e di difendere Lenin, non senza testimoniare al tempo stesso, una viva stima per Mussolini, di cui stava cominciando l'ascesa politica. Nel 1921 vendette la piccola villa di Boulogne in cui abitava dal 1893 per stabilirsi poco distante in un grande edificio dell'avenue Jean-Baptiste Clément. Negli ultimi mesi di vita, tormentato dai problemi fisici, non vide altri all'infuori del nipote Robert, del fidato amico e discepolo Édouard Berth e dei coniugi Delessalle. Morì in solitudine il 27 agosto 1922, venendo sepolto a Villeurbanne. Oggi riposa nel cimitero di Tenay; a pochi chilometri da Lione.
Non ha torto si è visto in Sorel il genio della contraddizione, per gli atteggiamenti assunti dal suo spirito vivacissimo e mai soddisfatto. Fu antimarxista, ma difese, sostenne ed esaltò la lotta di classe; fu antidemocratico, ma contemporaneamente teorizzò l'avvento vittorioso del proletariato; fu insieme antigiacobino e antiriformista, avversario irriducibile del cesarismo del Secondo Impero, della politica della Terza Repubblica e del radicalismo postdreyfusiano; avversò il positivismo e le correnti evoluzioniste per proclamare il valore della rivoluzione e la morale del sublime, ma accolse talune affermazioni positivistiche; fu antimilitarista, ma esaltò la funzione rinnovatrice della violenza; si dichiarò antipatriottico, ma ebbe vivissimo il senso della nazione e della tradizione francese; si definì antiterrorista, condannando l'esperienza del 1789, ma sottoscrisse i metodi leninisti della rivoluzione sovietica; fu anticlericale, ma lasciò pagine ricche di contenuto religioso; fu scettico e amaro, ma insieme animato da una fede incrollabile in una umanità migliore. Così ebbe dovunque contemporaneamente amici, detrattori e apologeti, a destra, al centro e a sinistra, senza riuscire mai a proporre un principio o un'idea valida per tutti.
Partito dalle affermazioni marxiste secondo cui la storia si identifica con la lotta di classe che produrrà un giorno la distruzione della società capitalistica, Sorel si distaccò da tutte le correnti socialiste, rivendicando contro ogni deviazione deterministica il valore assoluto e permanente delle forze morali, del sacrificio, della volontà e della libertà umana. La storia per Sorel rimane ancora un processo storico di divenire, di azione, di libertà, che si conquista e si realizza attraverso la lotta violenta; ma questa lotta e questa violenza, che costituiscono «la salute dell'umanità», hanno un valore e un fondamento essenzialmente morali, poiché le preoccupazioni d'ordine etico rimangono il presupposto e il principio informatore di tutte le pagine soreliane. «Ciò che vi è di veramente fondamentale in ogni divenire, è lo stato di tensione personale che si trova negli spiriti».
[caption id="attachment_11546" align="aligncenter" width="1000"] Sciopero operaio nel bacino minerario francese di Longwy: intonano l'internazionale e sventolano la bandiera rossa.[/caption]
Essere liberi significa così, non tanto sottrarsi allo sfruttamento economico, quanto superare la condizione attuale di tutta la società: ma per realizzare queste finalità occorre creare un «mito» in cui credere e per il quale agire (infatti mentre l'utopia è spesso intellettualistica, il mito ha sempre un fondamento religioso).
Nasce così il mito soreliano della violenza e della lotta di classe: il mito che non trasforma il mondo storico, ma lo rivoluziona; non lo cambia, ma lo distrugge; non lo adatta, ma lo ricrea. Attraverso questa lotta drammatica, che ha un fine costante di miglioramento morale, si realizza la vittoria rivoluzionaria del proletariato che è dovuta, non al prodursi del determinismo marxista, ma all'intervento spontaneo dell'azione e della volontà umana, ossia a quella forma di «volontarismo» che caratterizza il sostrato filosofico soreliano.
Correlativamente, la nuova forma politica, il sindacato operaio diventa il nucleo centrale, il fulcro vitale dell'ordinamento politico futuro, come lo furono in tempi diversi il convento, il feudo o la camera legislativa; mentre lo sciopero generale rappresenta, più che lo strumento, l'atto rivoluzionario supremo per realizzare la lotta di classe e per vivificare la combattività del proletariato fino al momento del grande urto, quando si annienteranno i gruppi monopolitistici del capitale, si distruggeranno le autorità politiche tradizionali e si affermeranno i nuovi quadri dirigenti e le nuove aristocrazie nate dalla lotta sindacale con «la missione di modificare il mondo, cambiandone la valutazione morale». E infatti nelle pagine di Sorel, torna insistente il motivo di una nuova morale, che «non è già un complesso di precetti, ma uno stato di entusiasmo che ci permette di vincere gli ostacoli posti dalle abitudini inveterate sulla via del progresso, i pregiudizi e il desiderio di immediati godimenti»: ossia una morale viva, dinamica, antiformale, libera da ogni schema pregiudiziale, aperta (per dirla con il linguaggio di Bergson), una morale che abbia «in sé l'idea del sublime». Così, questa costante preoccupazione etica che anima tutte le sue pagine giustifica come intorno al programma rivoluzionario di Sorel si siano raccolti pochi e non sempre vivaci animatori, mentre spiega come intorno alla sua personalità ricca e geniale si siano potuti riunire i plausi e i consensi degli esponenti più diversi della cultura e della politica, specie in terra italiana, dove Sorel ebbe ammiratori e difensori, da Benedetto Croce a Vilfredo Pareto, da Antonio Labriola ad Antonio Gramsci, oltre che Benito Mussolini.
Per approfondimenti:
_A. Monchietto, Da capo senza fine. Il marxismo anomalo di Georges Sorel, Petite Plaisance, Pistoia, 2015;
_M. Gervasoni, Georges Sorel, una biografia intellettuale. Socialismo e liberalismo nella Francia della belle époque, Milano, Unicopli, 1997;
_G. L. Goisis, Sorel e i soreliani, ed. Helvetia, 1984;
_G. Spadolini, Il pensiero politico di Georges Sorel ("La pensée politique de Georges Sorel"), coll. "Collana di filosofia e pedagogia ad uso delle scuole", nouvelle série, Le Monnier, Firenze 1972;
_S. Sand, L'illusion du politique. Georges Sorel et le débat 1900, Paris, La Découverte, 1984;
_P. Andreu, Notre maître, M. Sorel, Paris, Grasset, 1953;
_G. Sorel, Scritti politici, a cura di di R. Vivarelli, Utet,orino, 1963;
_B. Croce, Il pensiero di Georges Sorel, in Conversazioni critiche, I, Bari, Laterza, 1918;
_P. Lassere, Georges Sorel théoricien de l'impérialisme. Cahiers de la quinzaine, Paris, 1928;
_J. H. Meisel, The Genesis of Georges Sorel. An Account of His Formative Period Followed by a Study of His Influence, George Wahr Publ. Co., Ann Arbor, et Athena Publ., London 1951;
_J. Rennes, Georges Sorel et le syndicalisme révolutionnaire, Liberté, Paris 1936;
_I. L. Horowitz, Radicalism and the Revolt Against Reason. The Social Theories of Georges Sorel, with a Translation of His Essay on "The Decomposition of Marxism", Routledge & Kegan Paul, London, et Humanities Press, New York, 1961;
_E. Paresce, Giorgio Sorel e altri saggi, Gustavo Travi, Palermo, 1934;
_M. Freund, Georges Sorel. Der revolutionäre Konservatismus, Vittorio Klostermann, Frankfurt/M. 1932;
_V. Sartre, Georges Sorel. Elites syndicalistes et révolution prolétarienne, Spes, Paris 1937;
_R. Humphrey, Georges Sorel, Prophet Without Honor. A Study in Anti-intellectualism, coll. "Harvard Historical Studies", 59, Harvard University Press, Cambridge, et Oxford University Press, London 1951;
_C. Goretti, Il sentimento giuridico nell'opera di Georges Sorel, Il Solco, Città di Castello 1922.
 
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di Gabriele Rèpaci 10/12/2018

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Per molti anni l’Algeria è stata al centro dell’attenzione e dell’opinione pubblica internazionale, poiché ha fatto battere milioni di cuori con pulsazioni violente e opposte. Sembra una terra composta per suscitare i sentimenti più vivaci: i coloni europei l’hanno difesa con i denti stretti; gli algerini non sono indietreggiati di fronte alle avversità, al prezzo sempre più alto che era loro imposto per raggiungere l’indipendenza; infine milioni di persone hanno visto nel dramma algerino il coronamento dei loro sogni o la concentrazione dei loro timori.
Gli autoctoni hanno gioito, come fosse la loro, di ogni vittoria della rivoluzione algerina: i coloniali, al contrario, l’hanno risentita come una comune sconfitta. Nel secondo dopoguerra le operazioni del Fronte di Liberazione Nazionale algerino possono essere considerate come il prototipo della lotta per l’autonomia dal Continente europeo dei paesi definiti “coloniali”, ponendo il punto definitivo sulla fine degli imperi coloniali.
I cinesi di Mao, quando volevano portare un esempio propagandistico del loro ideale di guerra all’imperialismo, citavano il caso dell’Algeria. E non a torto, se si pensa che la terra che fu già di Giugurta e di Massinissa è stata la sola, tra tutte le ex colonie del nostro secolo, a pagare come prezzo della libertà un milione e mezzo di vittime, due milioni di persone chiuse nei campi di raggruppamento, mezzo milione di vedove di guerra, trecentomila orfani di cui trentamila completi e migliaia di ettari di terre bruciati al napalm.
L’Algeria appare abitata in tempi remoti da genti europidi di razza e lingua berbera. Dall’Egitto verosimilmente esse importarono le tecniche della domesticazione dei cibi e degli animali. In età più recente (XII secolo a.C.) l’Algeria fu raggiunta dalla civiltà commerciale dei Fenici. Dopo la fondazione di Cartagine (814 avanti Cristo), l’Algeria passò sotto l'influenza dei Punici, che mantennero degli stabilimenti sulla costa con scopi prevalentemente commerciali, ma diffondendo anche fra le genti berbere tecniche agricole e costumi sedentari. Allorché al dominio cartaginese si sostituì quello romano (sec. II a.C.) la fascia agricola dell’Africa del nord a Ovest delle due Sirti fu grandemente estesa e molte genti berbere furono assimilate in una civiltà superiore di tipo urbano. La metà orientale dell’Algeria, la Numidia fu eretta da Cesare in provincia romana dopo la battaglia di Tapso e l’amministrazione imperiale assicurò da allora per parecchi secoli un elevato grado di civiltà e di benessere al Paese, come è attestato dalle rovina delle città romane recentemente portate alla luce (Lambesi, Tebessa, Timgad, ecc.), dalle tracce delle strade e dagli acquedotti. Questo sviluppo fu però col tempo compromesso dalle ribellioni degli indigeni e dalle violente controversie religiose. L’eresia donatistica si diffuse notevolmente fra i Berberi numidi dando luogo a tensioni e persecuzioni. L’Algeria fu quindi oggetto delle scorrerie dei barbari (presa di Ippona da parte dei Vandali, 430 dopo Cristo) che non vi stabilirono però uno stabile dominio: i Vandali furono cacciati a loro volta dai Bizantini (battaglia di Tricameron, 533 d.C.), che vi mantennero il loro dominio per circa un secolo e mezzo. La conquista araba del paese, abbattuta la sovranità più nominale che reale dei Bizantini, fu lenta e difficile a causa della resistenza opposta dalle tribù indigene che ebbero per guida la leggendaria regina al-Kāhina (morta nel 709 d.C.). Sul finire del 600 gli Arabi riuscirono infine a impadronirsi di tutto il paese e a sottomettere i Berberi, che fornirono anzi il grosso delle truppe per la conquista della Spagna: la coesistenza dei due elementi (arabo e berbero) non fu tuttavia né facile né pacifica, anche per controversie d’indole religiosa, pur essendo i Berberi ormai acquisiti all’islamismo. Dapprima parte dell’immenso impero dei califfi arabi, il Maghreb, dopo lo smembramento di esso e le contese fra Sunniti, Sciiti e Karaiti, cercò di rendersi autonomo dando vita a una pluralità di Stati karaiti. Fu ancora unito sotto l’impero dei Fatimidi, sotto gli Almoravidi, e gli Almohadi, poi si frammentò sotto varie dinastie. In Algeria si affermò nominalmente la dinastia degli Abdelwahidi, ma di fatto il territorio soggiacque alle invasioni beduine, per divenire nel secondo decennio del secolo XVI un pascialato dell’Impero Ottomano.
Nel 1711 nella cosiddetta «Reggenza di Algeri» al pascialato succedette un autocrate, il dey, eletto dai giannizzeri, ma la natura predatoria di questa specie di Stato non mutò, nonostante le spedizioni punitive a volta a volta effettuate dalle marine francese e spagnola. Nel 1827 il dey di Algeri si scontrò con il console francese in merito ad una disputa finanziaria con Parigi. Per ragioni di prestigio il governo di re Carlo X inviò un corpo di spedizione che prese possesso di Algeri nel 1830. Il dey capitolò e fuggì in esilio. I francesi presero il porto di Orano nel 1831, di Bona nel 1832 e di Bugia nel 1833. La politica francese era allora quella di un’occupazione limitata: le città del litorale formavano una colonia sotto l’autorità del governatore generale.
Restava la possibilità di concludere accordi con i capi autoctoni all’interno del territorio: a est, Ahmed, bey di Costantina, respinse nel 1836 i francesi, che tuttavia prenderanno la città l’anno seguente; a ovest, l’emiro ʿAbd al-Qāder, proveniente da una famiglia appartenente alla potente confraternita sufi della Qādiriyya, si mise alla testa della resistenza sin dal 1832. Quest’ultimo nel 1834 accettò un accordo con i francesi per avere il tempo di consolidare la propria autorità. Tornò quindi ad attaccare nel 1835 e poi nel 1837 firmò con i francesi il trattato di Tafna, che sanciva l’autorità di ʿAbd al-Qāder sulla parte centrale e occidentale del territorio; ciò gli permise di rafforzare lo Stato che aveva cominciato a organizzare modernizzando l’amministrazione musulmana. Nel 1839, l’esercito francese riprese l’offensiva, dopo aver denunciato le incursioni di ʿAbd al-Qāder nella piana di Mitidja (a sud di Algeri).
La Francia si decise alla conquista nel 1840. Il generale Thomas Bugeaud condusse una guerra estremamente mobile e adottò la tattica della terra bruciata. ʿAbd al-Qāder, respinto verso gli altipiani, dovette riparare in Marocco nel 1843. Quando Bugeaud sconfisse i Marocchini, il sultano accettò di dichiarare ʿAbd al-Qāder fuori legge. Questi proseguì la lotta nell’Algeria occidentale e finì per arrendersi nel 1847. Dopo essere stato mandato in Francia, nel 1853 si stabilì a Brussa (in Turchia) e nel 1855 a Damasco, dove insegnò teologia nella moschea degli Ommayadi.
Restava la possibilità di concludere accordi con i capi autoctoni all’interno del territorio: a est, Ahmed, bey di Costantina, respinse nel 1836 i francesi, che tuttavia prenderanno la città l’anno seguente; a ovest, l’emiro ʿAbd al-Qāder, proveniente da una famiglia appartenente alla potente confraternita sufi della Qādiriyya, si mise alla testa della resistenza sin dal 1832. Quest’ultimo nel 1834 accettò un accordo con i francesi per avere il tempo di consolidare la propria autorità. Tornò quindi ad attaccare nel 1835 e poi nel 1837 firmò con i francesi il trattato di Tafna, che sanciva l’autorità di ʿAbd al-Qāder sulla parte centrale e occidentale del territorio; ciò gli permise di rafforzare lo Stato che aveva cominciato a organizzare modernizzando l’amministrazione musulmana. Nel 1839, l’esercito francese riprese l’offensiva, dopo aver denunciato le incursioni di ʿAbd al-Qāder nella piana di Mitidja (a sud di Algeri).
La Francia si decise alla conquista nel 1840. Il generale Thomas Bugeaud condusse una guerra estremamente mobile e adottò la tattica della terra bruciata. ʿAbd al-Qāder, respinto verso gli altipiani, dovette riparare in Marocco nel 1843. Quando Bugeaud sconfisse i Marocchini, il sultano accettò di dichiarare ʿAbd al-Qāder fuori legge. Questi proseguì la lotta nell’Algeria occidentale e finì per arrendersi nel 1847. Dopo essere stato mandato in Francia, nel 1853 si stabilì a Brussa (in Turchia) e nel 1855 a Damasco, dove insegnò teologia nella moschea degli Ommayadi. Nel luglio del 1860 una fiammata di guerre religiose si propagò dal Libano a Damasco. I Drusi attaccarono i quartieri cristiani facendo più di 3.000 morti. L’emiro ʿAbd al-Qāder intervenne per fermare il massacro e protesse la comunità di 15.000 cristiani di Damasco e gli europei che vivevano là, grazie alla propria influenza sui dignitari della città. Rifiutò l’offerta fattagli da Napoleone III di un regno arabo d’Oriente. Morto nel 1883, le sue ceneri vennero traslate ad Algeri nel 1966. La conquista militare proseguì verso i bastioni berberi (Piccola Cabilia nel 1849 – 1852 e Grande Cabilia nel 1857) e avanzata a sud (presa di Laghouat e Touggourt nel 1854).
Negli anni 1830-1840 si insediarono in Algeria oltre 100.000 europei dell’area mediterranea, di cui meno della metà francesi. Ad essi si aggiunsero, a partire dal 1871, gli sconfitti della Comune di Parigi insieme a disoccupati, avventurieri e profughi dell’Alsazia-Lorena. Si concentrarono in poche città e nei loro dintorni. Nel 1848 la Repubblica francese dichiarava l’Algeria parte integrante del proprio territorio nazionale e la organizzò in tre dipartimenti: Algeri, Orano, Costantina. L’imperatore Napoleone III (1852-1870) si appoggiò all’amministrazione militare (“Bureaux arabi”), che tentò di guadagnarsi la fiducia dei musulmani con una politica paternalistica. Benché tale politica – giudicata troppo favorevole agli “indigeni” - incontrò l'ostilità dei coloni, Napoleone III la perseguì con maggiore determinazione dopo il 1860 e pensò di costruire un “regno arabo” all’interno del paese.
Angelo Tissier, Napoleone III lascia la sua libertà ad Abd-el-Kader al castello di Amboise il 16 ottobre 1852, 1861, olio su tela, 350 × 465 cm, Museo di Versailles (particolare).
Nel 1865 un decreto proclamò francesi tutti gli abitanti dell’Algeria (salvo gli stranieri residenti). Distingueva però tre status: civil (cittadini francesi propriamente detti), musulman (“sudditi” francesi; includeva la maggioranza degli indigeni) e mosaïque (gli Ebrei). A questi ultimi la cittadinanza francese sarà attribuita nel 1870.
La caduta dell’Impero e la disfatta francese contro la Germania, nel 1871, indebolirono l’autorità dei militari. Fu quindi l’occasione per i Cabili di lanciare una vasta insurrezione cui seguì una repressione draconiana: deportazioni, ingenti multe e confische di terreni. Questa situazione comportò un vantaggio per i coloni dopo il 1871: l’introduzione del régim civil, che può essere riassunto in due punti: i Francesi di Algeria, assimilati a quelli della metropoli, partecipavano all’agone politico nazionale e potevano dunque far valere, per l’Algeria, le disposizioni che loro convenivano maggiormente; i musulmani restavano in una posizione subordinata. Era lo “status dell’indigenato”, istituito nel 1881, che sottoponeva i musulmani a una stretta sorveglianza (come il permesso di circolazione).
I militari conservarono l’amministrazione dei Territori del Sud (la parte algerina del Sahara). Il divario giuridico tra coloni e musulmani (l’85% della popolazione nel 1900) si inscriveva nella realtà economica e sociale. Le popolazioni indigene vennero spinte fuori dalle città e dalle zone di colonizzazione agricola. Il popolamento coloniale divenne maggioritario nelle città più importanti (Algeri, Orano, Bona, ecc.), dove predominavano gli impiegati qualificati. Proprietari delle terre migliori, i coloni le sfruttarono in modo intensivo (vigneti, grano tenero, ecc.), mentre i contadini autoctoni, sempre pesantemente tassati, si impoverirono. La politica scolastica non compensava affatto questa disparità: nel 1900 frequentavano la scuola il 3-4% dei bambini musulmani (non supereranno il 9% nel 1944). Si trattava per di più di una scolarizzazione in lingua francese. Una piccola intellighenzia si formò tuttavia all'inizio del XX secolo, composta principalmente da insegnanti.
Durante la Prima Guerra mondiale, 173.000 musulmani algerini combatterono nelle fila francesi; a questi vanno aggiunti 80.000 “lavoratori coloniali” trasferiti nella metropoli. Nel 1918-1919 Parigi varò quindi delle riforme che dispensavano dall’indigenato oltre 400.000 musulmani. Ma erano riforme senza futuro: i coloni si opposero al progetto di concedere la cittadinanza francese ai musulmani francesizzati (per scolarizzazione). Questi ultimi, comunque, continuavano a rivendicare la loro “assimilazione”, senza con ciò rinunciare all’identità musulmana.
La Stella Nord-Africana (ENA, Etoile Nord-Africaine), fondata in Francia nel 1926, rivendicava il suffragio universale e l’indipendenza dell’Algeria. A partire dal 1927, Messali Hajj, un autodidatta nativo di Tlemcen, guadagnò influenza nel movimento e lo trasformò nel 1933 in un partito autonomo, perseguitato e sciolto più volte. Trovò sostenitori presso gli operai algerini dell’immigrazione. I militanti della Stella cominciarono a trasferirsi in Algeria nel 1935-1936 ed entrarono in competizione con il Congresso musulmano, che riuniva gli Eletti algerini (sostenitori di Ferhāt 'Abbās), il Partito Comunista Algerino (PCA) e l'Associazione degli ulema (fondata nel 1931 dai “riformatori” musulmani in cui spicca la figura modernista di ʿAbd al-Ḥamīd Ben Bādīs).
Negli anni '30, i membri della Star del Nord Africa si ritrovarono nei caffè parigini. Molti parteciperanno agli scioperi del Fronte popolare.
Nel 1937, Messali diede vita al Partito del Popolo Algerino (PPA), immediatamente sciolto dal governo francese. Il PPA, clandestino, restò comunque il partito di Messali e il simbolo del nazionalismo algerino. Messali sarà più volte arrestato e poi liberato, ma ciò non ne comprometterà l’autorità.
Ferhāt 'Abbās pubblicò nel 1943 il Manifesto del popolo algerino, che reclamava uno Stato algerino autonomo e l’uguaglianza politica dei suoi residenti. Nel 1944 il generale de Gaulle dichiarava che tutti gli abitanti erano cittadini francesi, ma la piena cittadinanza venne concessa solo a 65.000 persone. Ferhāt 'Abbās creò allora l’associazione degli Amici del Manifesto e della Libertà (AML), in cui si infiltrò presto il PPA (clandestino). Abbas assunse un tono sempre più radicale tanto da far pensare che progettasse un’insurrezione. L’8 maggio 1945, il giorno della capitolazione della Germania nazista, ebbero luogo in tutto il paese manifestazioni per celebrare la vittoria dell’Europa nel segno della democrazia e della giustizia per l’Algeria. Spiccato divenne il tono indipendentistico, sottolineato anche emotivamente dal fiorire di tanti stendardi bianco-verdi, l’insegna di ʿAbd al-Qāder destinata a diventare la bandiera della nazione algerina. A Sétif (Costantina) le manifestazioni degenerarono quando un ufficiale della polizia francese uccise un arabo che sventolava uno di questi vessilli. La parata dei sentimenti degli algerini affinché i francesi prendessero atto della svolta in corso si tramutò in una sollevazione tanto spontanea quanto cruenta, incontrollata, contro tutto ciò che simboleggiava la dominazione e il potere coloniale, con un bilancio pesante di vittime fra la popolazione francese, coloni e funzionari (102 morti), e violenze incalcolabili a danno di edifici di Sétif e della vicina Guelma.
Al primo atto di “ribellione” dell’Algeria moderna seguì il primo premeditato massacro di cui il colonialismo francese doveva macchiarsi nell’ora della Quarta Repubblica. Le autorità proclamarono lo stato d’assedio e incaricarono reparti armati agli ordini del generale Raymond Duval di eseguire la repressione, che oltrepassò largamente il semplice ripristino dell’ordine, sebbene l’irata reazione della popolazione algerina si fosse spenta con la stessa subitaneità con la quale era esplosa. Più di 40 villaggi furono bombardati e distrutti, i quartieri arabi di Sétif e di altre città vennero incendiati, a centinaia caddero i fucilati senza processo, con 4650 arrestati, vendette sommarie, saccheggi; secondo valutazioni ufficiali da parte francese la repressione costò agli algerini circa 1500 morti, ma fonti militari parlano di 6-8 mila morti e le fonti nazionaliste sostengono che non meno di 45 mila algerini perirono sotto la furia francese. Nella realtà, e per la memoria collettiva e del movimento nazionale, fra le due comunità residenti Algeria si era scavata una fossa che non sarebbe stato più possibile colmare.
Presentazione della Legion d'onore al Capitano Oscar Lefebvre del Generale d'Hauteville, Capo della Regione di Marrakech.
Nel 1946, con la creazione dell’Unione Democratica del Manifesto Algerino (UDMA), Ferhāt 'Abbās conservava il principio di collaborazione con la Francia in vista della creazione di uno Stato algerino. Messali Hajj, invece, fondava il Movimento per il Trionfo delle Libertà Democratiche (MLTD), che si dotò di un braccio armato clandestino: l’Organizzazione Speciale (OS). Lo statuto organico dell’Algeria, adottato nel 1947, definì il paese come un “gruppo di dipartimenti francesi”, dotandolo di un’Assemblea di 120 membri: 60 per il collegio di cittadini francesi di status civil, tra cui si trovano solo pochi Algerini francesizzati che avevano optato per tale status, e 60 per il collegio dei “cittadini sotto status locale”, cioè musulmano (il 90% della popolazione).
Tra il 1951 e il 1953 il MLTD entrò in crisi e si divise: la corrente maggioritaria del comitato centrale (“centralisti”) contestava l’autoritarismo di Messali Hajj, il cui prestigio era forte fra gli emigrati. L’OS era divisa, ma i suoi militanti più attivi pensavano di poter superare la crisi interna con l’insurrezione.
Tra la mezzanotte e le due del mattino del 1 novembre 1954, l’Algeria venne svegliata da una serie di esplosioni: dalla regione di Costantina a quella di Orano, incendi e attacchi di gruppi ribelli rivelarono l’esistenza di un movimento preparato e coordinato. Algeri, Boufarik, Bouira, Batna e Khenchela vennero colpite da una serie di trenta attentati, praticamente simultanei, contro obiettivi militari o di polizia.
Lo stesso giorno un’organizzazione sino ad allora sconosciuta rivendicò tutte le operazioni militari: il Fronte di Liberazione Nazionale (FLN). Questa ribellione era diretta da una centrale interna composta da sei uomini: Lardi Ben M'Hidi, Didouche Mourad, Rabah Bitat, Krim Belkacem, Mohamed Boudiaf, Mostefa Ben-Boulaïd. La rappresentanza esterna, che aveva sede al Cairo, era garantita da Hocine Aït Ahmed, Ahmed Ben Bella e Mohamed Khider.
Le autorità francesi vennero colte di sorpresa da questa ondata di violenza: tuttavia l’eventualità di abbandonare un territorio che le apparteneva da centotrenta anni, ancora prima dell’annessione della Savoia (1860), non fu nemmeno presa in considerazione da Parigi. La scoperta del petrolio e la scelta di servirsi delle immense distese del Sahara per l’avvio di sperimentazioni nucleari o spaziali furono ulteriori motivazioni di attaccamento a questa terra e a procedere alla repressione del movimento indipendentista.
«L'Algeria è francese da molto tempo. Non ci sono possibilità di secessione» affermò il 12 novembre il presidente del Consiglio Pierre Mendès France, di fronte al parlamento. Il ministro dell’Interno, François Mitterand, aggiunse: «la mia politica sarà definita da queste tre parole: determinazione, fermezza, presenza».
Dal canto suo l’ufficio politico del Partito Comunista Francese dichiarava che: «Il Partito non saprebbe approvare il ricorso ad atti individuali suscettibili di fare il giuoco dei peggiori colonialisti se non addirittura da lor stessi fomentati» (9 novembre 1954) . Nonostante questo militanti comunisti, in particolare sulle montagne dell’Aurès, si unirono ai resistenti algerini sin dal mese di novembre. Solo alcune organizzazioni anarchiche e trotzkiste si pronunciarono, in Francia, apertamente a favore dell’indipendenza algerina. Va menzionato a questo proposito, l’impegno profuso nella causa indipendentista dal trotzkista di origine greca Michel Pablo (al secolo Michalis Raptis, 1911 – 1996), divenuto in seguito consigliere politico di Ben Bella, arrestato in Olanda per aver organizzato una rete di sostegno che forniva al FLN algerino passaporti e perfino franchi falsi. Pablo contribuì a mettere in piedi con militanti operai della Quarta Internazionale (tra cui diversi latinoamericani e in particolare argentini) una piccola fabbrica che produsse alcune migliaia di fucili mitragliatori, semplici ma efficienti. Molti di quei militanti restarono in Algeria anche dopo l’indipendenza.
Nonostante i rinforzi mandati da Parigi nell’agosto del 1955, la rivolta si propagò abbracciando tutto il nord della regione di Costantina, provocando una reazione molto dura da parte francese. Apparve del tutto chiaro che era ormai impossibile circoscrivere ad atti di terrorismo isolato quella che era diventata a tutti gli effetti una vera e propria guerra. Mentre i Francesi d’Algeria ricevevano da Parigi un aiuto militare crescente (400.000 uomini), un numero sempre più ampio di musulmani si riconosceva nel FLN: i “centralisti” si unirono al Fronte nel 1955, i membri dell’UDMA (tra cui Ferhāt 'Abbās) l’anno dopo. Restarono invece ai margini quelli che Messali raggruppò nel Movimento Nazionale Algerino (MNA).
Il 2 gennaio 1956 il Fronte Repubblicano, composto da socialisti, radicali e una parte di gollisti, vinse le elezioni legislative in Francia.
A guidare il governo sarà chiamato il socialista Guy Mollet, che fonderà un esecutivo a direzione socialista e a partecipazione radicale, con Mendès France Ministro di Stato, François Mitterrand Ministro della Giustizia e Maurice Bourgès-Maunoury Ministro della Guerra.
Il 9 febbraio 1956 Guy Mollet nominò ministro dell’Algeria Robert Lacoste, ex resistente ed esponente socialista. Appena entrato in carica Lacoste presentò all'Assemblée nationale un progetto di legge che «autorizza il governo a mettere in atto in Algeria un programma di crescita economica, di sviluppo sociale e riforma amministrativa, e che gli consente di disporre di tutte le misure eccezionali per garantire il ritorno all’ordine, la protezione delle persone e delle cose, la salvaguardia del territorio».
Con una serie di decreti approvati tra il marzo e l’aprile del 1956, che consentiranno un rafforzamento delle operazioni militari e una chiamata alle armi “generalizzata” in caso di necessità, l’Algeria venne divisa in tre zone (zona di pacificazione, zona di operazioni e zona vietata), in ciascuna delle quali si muoverà un corpo d’armata specifico. Nelle zone di operazioni l’obiettivo era “l’annientamento dei ribelli”; nelle zone di pacificazione era prevista la “protezione” delle popolazioni europee e musulmane, e l’obiettivo prioritario dell’esercito era quello di sopperire alle carenze amministrative. Le zone vietate saranno invece evacuate, la popolazione sarà concentrata in “campi di accoglienza” e presa in custodia dall’esercito.
Il 12 marzo il parlamento approvò a stragrande maggioranza (455 voti favorevoli e 76 contrari) questa legge sui poteri speciali che implicava anche la sospensione di gran parte delle garanzie di libertà individuale in Algeria. Il PCF votò in favore di questa legge. I poteri speciali rappresentarono la svolta decisiva di una guerra che la Francia aveva deciso di combattere fino in fondo.
L’11 aprile vennero richiamati i riservisti (disponibles): decine di migliaia di soldati attraversarono il Mediterraneo.
Gli animatori della rivista “Le Temps modernes”, fondata da Jean-Paul Sartre, presero le distanze dal voto parlamentare, annunciando cupi scenari: «La sinistra, per una volta unanime, ha votato a favore dei “poteri speciali”, questi poteri assolutamente inutili per il negoziato ma indispensabili per il proseguimento e l'inasprimento della guerra. Questo voto è scandaloso e rischia di essere irreparabile». In effetti sarà proprio così.
Il 16 marzo 1956, quattro giorno dopo i poteri speciali, i primi attentati del FLN colpirono anche Algeri; Robert Lacoste, ministro residente e governatore generale dell’Algeria, impose allora il coprifuoco alla città, che venne pattugliata giorno e notte dalle forze dell’ordine. In Francia si tennero le ultime, sparute, manifestazioni spontanee nei pressi delle stazioni e delle caserme contro la partenza dei richiamati. L’opinione pubblica non vedeva di buon occhio il prolungamento del servizio militare (portato a ventotto mesi). In Algeria la situazione continuava a deteriorarsi: il terrorismo si diffuse a macchia d’olio, il FLN organizzò scioperi a Orano in febbraio e ad Algeri in maggio. La dispersione delle truppe francesi e il loro modesto addestramento le resero vulnerabili alle imboscate: a Palestro, il 18 maggio, venti soldati, giovani parigini richiamati alle armi, caddero sotto i colpi degli uomini del commando “Al Khodja” dell'ALN, aiutati dalla popolazione locale. L’unico sopravvissuto venne liberato dai paracadutisti cinque giorni dopo.
La progressione della lotta del Fronte di Liberazione Nazionale trascinò lo Stato francese in una crisi rovinosa, di cui la crescente instabilità ministeriale fu solo l’indice esterno più rivelatore. L’uso spregiudicato dei mezzi repressivi più raffinati, la tortura come norma praticata dai servizi di sicurezza non solo per strappare informazioni ma per ridurre il colonizzato a “oggetto”, i poteri speciali e la politicizzazione dei comandi militari vittime della distorsione mentale che identificava il “nazionalismo” dei paesi coloniali con “l’avamposto del comunismo internazionale” dando alla guerra in corso in Algeria una rilevanza planetaria, il credito in Algeria e nella madrepatria per tutte le idee più retrive sulla grandezza della Francia da preservare contro i “ribelli”, inquinarono in misura irreparabile il clima politico della Francia, seminando i germi di una pericolosa involuzione. Il dogma “dell’Algeria francese” stava producendo una specie di “esercito ombra” in cui trovarono asilo tutti gli individui dell’ultra-colonialismo, pronti a cospirare contro la Francia con l’aiuto dei comandi delle forze armate o almeno delle polizie parallele.
Il 27 dicembre 1956 Amédée Froger, presidente della federazione dei sindaci d’Algeria e attivo portavoce dei coloni europei, venne assassinato ad Algeri. L'indomani, al termine dei suoi funerali, si scatenò una vera e propria caccia all'uomo che provocò numerose vittime tra i musulmani. La tensione tra gli europei e gli algerini musulmani era massima. Il governo generale, guidato da Robert Lacoste, decise di reagire e, facendo ricorso ai “poteri speciali”, votati nel marzo 1956, affidò la “pacificazione” di Algeri al generale Jacques Massu, comandante della 10ª divisione paracadutisti.
Il 7 gennaio 1957, 8 mila parà entrarono in città con il compito di eseguire una missione di polizia; la “battaglia di Algeri” ebbe inizio. Il 9 e 10 gennaio due esplosioni crearono il panico in due stadi di Algeri, ma l’orrore raggiunse l'apice il 26 ottobre dello stesso mese: a qualche minuto di distanza, due bombe esplosero nel pieno centro di Algeri, la prima al bar L'Otomatic, la seconda nella brasserie Coq hardi. Due algerini musulmani vennero linciati da una folla, esasperata, di europei. Il 28 gennaio, in corrispondenza con il dibattito sull’Algeria all'Onu, il FLN indisse uno sciopero generale di otto giorni, che però l’esercito stroncò con una spettacolare azione di forza: elicotteri atterrarono sulle terrazze della Casbah, i quartieri musulmani della città vennero isolati con recinzioni di filo spinato e illuminati giorno e notte con potenti proiettori.
Soldati francesi durante la battaglia d'Algeri. Celebre il filone cinematografico transalpino sulla tematica.
Il generale Massu, che disponeva di poteri di polizia sulla città, ebbe l’incarico di riportare l’ordine, di smantellare la “zona autonoma di Algeri” (Zaa) controllata dal FLN e diretta da Yacef Saadi, situata principalmente all’interno della Casbah; il FLN vi disponeva di una vera e propria organizzazione, valutata approssimativamente attorno ai 5 mila militanti. Il terrorismo dei ribelli algerini giustificava il ricorso a qualsiasi mezzo per riportare l’ordine: gli uomini di Massu eseguirono perquisizioni e arresti di massa, schedarono ogni potenziale nemico e, all’interno dei “centri di transito e identificazione”, situati nella periferia della città, praticavano la tortura. Il leader del FLN, Larbi Ben M'Hidi, venne arrestato il 17 febbraio e sarà, in seguito, “suicidato”. Gli interrogatori “molto approfonditi” diedero i primi risultati.
La battaglia di Algeri fu davvero “sangue e merda”, secondo la celebre espressione del generale Marcel Birgeaud; un orribile scontro in cui da un lato le bombe falciavano decine di europei, mentre dall’altro i parà tentavano di venire a capo delle reti di resistenti, scoprirono covi, snidarono i capi del FLN nascosti in città. I loro mezzi? Elettricità, bacinelle d’acqua, botte. C’erano sadici tra i torturatori, certo, ma molti ufficiali, sotto-ufficiali, e soldati vivranno per tutto il resto della loro vita con questo incubo. Il numero degli attentati scese dai 112 di gennaio ai 39 di febbraio, ai 29 di marzo: la centrale di comando del FLN, diretta da Abane Ramdane, venne obbligata a lasciare la capitale e Massu conseguì così una prima vittoria.
Il 28 marzo 1957 il generale Paris de Bollardière chiese di essere rimosso dal proprio incarico: non ammetteva il ricorso alla tortura, che aveva conosciuto e combattuto all’epoca dell’occupazione tedesca. Il cappellano militare della 10ª divisione gli rispose dichiarando che: «non si può lottare contro la guerriglia rivoluzionaria se non servendosi di metodi di azione clandestina». Il generale sarà punito con sessanta giorni di carcere, il 15 aprile 1957.
All’inizio di giugno ricominciarono gli attentati: il 3 dello stesso mese una bomba esplose vicino alla fermata di un autobus; il 9 fu la sala di ballo di un casinò che venne fatta saltare in aria in un attentato che provocò 8 morti e 92 feriti. La repressione riprese, aiutata stavolta da una rete di militanti “pentiti” (i cosiddetti “bleus de chauffe”) che diretta dal capitano Léger, si infiltrò all’interno del FLN e permise l’arresto di numerosi dirigenti. Yacef Saadi venne arrestato il 24 settembre 1957; Ali La Pointe, il suo vice, circondato, si suicidò nel suo nascondiglio per evitare l’arresto. La “battaglia di Algeri” era finita. La popolazione europea riscoprì il piacere di andare al mare e al ristorante, rendeva omaggio ai suoi nuovi eroi, un idillio che durerà sino al 13 maggio 1958.
Le reti del FLN furono distrutte, migliaia di algerini furono arrestati o vennero dati per dispersi, ma questa vittoria militare si accompagnò a una profonda crisi morale. Il 12 settembre 1957 Paul Teitgen, segretario generale della prefettura di Algeri, si dimise in segno di protesta contro i metodi utilizzati dal generale Massu e dai paracadutisti, denunciando la scomparsa di 3.024 persone. Il “dibattito” sulla tortura dividerà la Francia.
Nel 1958 divenne ormai chiaro che la superiorità militare francese non era decisiva. La maggioranza dei Francesi d’Algeria, tuttavia si opponeva a qualsiasi negoziato: questo portò alla crisi del 13 maggio 1958 e all’ascesa del generale de Gaulle, a Parigi. L’esercito francese lottava contro la guerriglia rinchiudendo oltre due milioni di contadini nei campi, mentre alle frontiere gli sbarramenti elettrificati impedivano l’approvvigionamento di armi all’ALN, che ciononostante proseguì la sua azione di resistenza.
Il conflitto assunse allora una dimensione tutta politica, anche sulla scena internazionale. Nel 1959 il generale de Gaulle riconobbe il diritto all’autodeterminazione, promuovendo un’associazione con la Francia, ma il FLN, al contrario, esigeva il riconoscimento dell’indipendenza. Il Governo Provvisorio della Repubblica Algerina (GPRA), creato nel 1958 e presieduto da Ferhāt 'Abbās, ebbe il compito di difendere questa posizione all’estero e presso le Nazioni Unite. I negoziati si fermarono nel 1960, ma ripresero nel 1961 e si conclusero nel marzo del 1962 con gli accordi di Evian. Fu allora che scoppiò l’ultima fase del conflitto. L’OAS (Organizzazione Armata Segreta), animata da Francesi d’Algeria e ufficiali ribelli, iniziò una violenta campagna terroristica contro gli Algerini e Francesi liberali, che provocò la reazione del FLN. Circa un milione di Francesi d’Algeria (anche noti come “pieds-noirs” dal soprannome che gli indigeni avevano dato nel 1830 alle prime truppe d’invasione che calzavano stivaletti neri) lasciò immediatamente il paese. L'Algeria ottenne l'indipendenza in luglio.
Divenuta indipendente, l’Algeria si ritrovò in una situazione difficilissima. I coloni europei, che costituivano l’ossatura della vita economica, se ne erano andati. Inoltre, i sette anni di guerra avevano decimato l’intellighenzia algerina e moltiplicato le distruzioni. Gli uomini che andarono al potere nel 1962 erano prima di tutto comandanti militari, sopravvissuti non solo ai combattimenti, ma anche alle terribili lotte tra algerini (in particolare quella tra FLN e MNA).
Dopo gli accordi di Evian, il FLN si divise: Benyoucef Benkhedda, presidente del GPRA dal 1961, si contrappose ad Ahmed Ben Bella, uno dei fondatori del FLN, imprigionato in Francia dal 1956 al 1962. Il primo si installò ad Algeri nel giugno del 1962, mentre il secondo si alleò con il colonnello Houari Boumédiène, capo di stato maggiore dell’ALN alle frontiere a partire dal 1960. Nel corso dell’estate, si verificarono violenti regolamenti di conti che fecero temere la degenerazione nella guerra civile. Ben Bella e Boumédiène ebbero però la meglio e un’Assemblea dichiarò in settembre la “Repubblica algerina democratica e popolare”. La Costituzione del 1963 instaurò un regime presidenziale e trasformò il FLN in partito unico. La scelta ideologica verso il socialismo era già scritta in diversi documenti del FLN. Del resto quasi tutte le ex colonie che hanno lottato per l’indipendenza fecero quella scelta (molto spesso a parole) appoggiandosi ai paesi socialisti, in contrapposizione ai dominatori capitalisti dell’Occidente. In Algeria comunque solo la fuga dei coloni europei permise la nascita spontanea dell’autogestione in agricoltura. I fellāḥs (contadini) che erano rimasti senza padrone ebbero due scelte: o smettere di coltivare e morire di fame, oppure organizzarsi e continuare il loro lavoro in comitati di gestione. Certo mancava il “know how” del vecchio proprietario e molti errori furono commessi per ignoranza e imperizia. Ma ormai la scelta socialista era nei fatti, nata da una situazione di emergenza che a poco a poco toccò anche altri settori produttivi. Con i decreti del marzo 1963 il neoeletto presidente Ben Bella, si limitò a riconoscere e a legalizzare una situazione di fatto che si era venuta a creare suo malgrado.
Il governo di Ahmed Ben Bella (uno dei sette leader storici della rivoluzione e il più radicale, per cinque anni detenuto nelle carceri francesi) durò due anni, considerando anche il periodo in cui fu eletto Presidente della Repubblica. Ma il suo pugno di ferro e il palese tentativo di instaurare un potere personale gli costarono l’inimicizia degli altri capi algerini. Ben Bella fu deposto e arrestato nel giugno 1965 con un colpo di Stato organizzato dal suo Ministro della Difesa, il generale Houari Boumédiène.
Questa foto del 15 aprile 1964 mostra poi il ministro dell'Economia di Cuba, Ernesto "Che" Guevara, a sinistra, con il presidente dell'Algeria Ahmed Ben Bella all'aeroporto di Algeri.
Ben Bella fu trasferito in una località segreta nel deserto, liberato ed esiliato solo nel 1980. Cercò qualche anno dopo di tornare alla vita politica ma senza successo. L’11 aprile 2012 si ebbe la notizia della sua morte: una vita spesa in carcere, prima dei francesi, poi dei suoi connazionali, infine in esilio. L’opzione socialista continuò anche se in forme un po’ diverse per alcuni anni; poi si imposero scelte miste o solo capitaliste.
Facendo leva sull’esercito, Boumédiène intendeva forgiare uno Stato forte, socialista e arabo, sotto un regime a partito unico (il FLN). Nel 1971, per finanziare un grande programma di industrializzazione, nazionalizzò le risorse di idrocarburi. Allo stesso tempo promosse una politica volta all’arabizzazione dell’insegnamento. Nel 1976 Boumédiène fece adottare una Costituzione che legalizzava il proprio potere. Venne eletto presidente della Repubblica nello stesso anno, ma morì nel 1978 a causa di una rara malattia del sangue.
L’esercito scelse il colonnello Chadli Bendjedid come successore di Boumédiène. Sembrò profilarsi una distensione, ma si trattò piuttosto di una rimessa in causa del progetto socialista, che non compromettesse il dirigismo statalista da cui traevano profitto l’esercito e la burocrazia. Dal 5 al 10 ottobre 1988 ebbe luogo la “guerra della semola” o “guerra del cous-cous”, chiamata così a causa della carenza di beni di prima necessità, tra cui il piatto tradizionale maghrebino. Il presidente Chadli Benjedid non esitò a reprimere la protesta con i carri armati compiendo un vero eccidio: 162 morti e migliaia di feriti.
La rivolta sfociò comunque in un referendum sulla riforma costituzionale e in un’elezione presidenziale a favore di Bendjedid, che aprì la strada ad un processo democratico e al multipartitismo, ma anche ai movimenti integralisti islamici più radicali, che poco dopo prenderanno il sopravvento.
Il 23 febbraio 1989 venne approvata una nuova Costituzione, la terza dall’indipendenza. L’apparato ideologico della rivoluzione venne abrogato e scomparirono tutti i riferimenti al socialismo e al primato del Fronte di Liberazione Nazionale. Vennero introdotti molti articoli sulla garanzia e la difesa della libertà.
Alle elezioni locali regionali del 1990, il Fronte Islamico di Salvezza (FIS) superò il FLN. Al primo turno delle elezioni per il parlamento, tenutesi nel dicembre del 1991, il FIS ottenne il 47,3% dei suffragi contro il 23,4% del FLN. I militari reagirono subito: ottenute le dimissioni di Bendjedid nel gennaio 1992, interruppero il processo elettorale, proclamarono lo stato d’assedio e sciolsero il FIS. Mohamed Boudiaf, uno dei leader storici della guerra d’indipendenza, all’opposizione e in esilio, venne eletto capo di Stato, ma morì assassinato nel luglio del 1992.
Nel 1992 gli islamisti intrapresero una guerriglia contro l’esercito algerino in numerose zone di montagna. Fondato nel 1993, il Gruppo Islamico Armato (GIA), si macchiò di numerosi crimini nei confronti della popolazione civile e straniera residente nel paese. Il generale Liamine Zéroual andò al potere nel 1994. Quando il GIA iniziò a intensificare gli attentati, i sostenitori del FIS formarono l’Esercito Islamico di Salvezza (AIS). I militari risposero con estrema brutalità. Zéroual venne eletto presidente della Repubblica nel 1995 e l’anno successivo, con un referendum, fu approvata una nuova Costituzione: il potere presidenziale venne rafforzato. Le autorità crearono delle milizie (“i patrioti”) per combattere gli islamisti, mentre degli scontri videro contrapposti l’AIS al GIA. A partire dall’aprile del 1997, il GIA compì massacri di civili su larga scala, in particolare a sud di Algeri. Queste atrocità portarono l’AIS a proclamare un cessate il fuoco unilaterale, in seguito al quale lo stesso GIA si divise. Zéroual rassegnò le dimissioni e Abdelaziz Bouteflika (un vecchio collaboratore di Boumédiène) venne eletto presidente nell'aprile del 1999. L’AIS si sciolse nel 2000. Lo stesso anno un referendum approvò un amnistia, in seguito alla quale il GIA si smembrò. Si stima che dal 1991 al 2002, il conflitto abbia provocato tra le 150.000 e le 200.000 vittime. La guerra risparmiò quasi integralmente i pozzi e l'intero apparato per il trasporto e la commercializzazione di petrolio e gas. Sembrò non dispiacere a nessuno, né in Algeria e neppure in Europa o in America, se a vent’anni dalla morte le scelte ambiziose di Houari Boumédiène, il colonnello austero dall’aria triste che si votò a fare dell’Algeria una potenza economica sulla sponda sud del mediterraneo “seminando” il petrolio attraverso le cosiddette “industrie industrializzanti”, fossero svanite nel nulla e l’Algeria fosse tornata alla situazione di “monocoltura” che si imputava all'ordine coloniale. Nel 2004 Bouteflika venne rieletto presidente con l'85% dei voti. L’anno successivo venne approvata con un referendum una nuova amnistia, molto controversa a causa della sua ampiezza.
L’anno precedente alle cosiddette “Primavere arabe” fu contrassegnato da un sensibile aumento dei moti in tutto il paese: nel corso dei primi undici mesi del 2010 la polizia era dovuta intervenire in più di centomila operazioni di mantenimento dell'ordine a seguito delle richieste provenienti dalle autorità amministrative delle wilaya.
Il presidente generale dell'Algeria Liamine Zeroual e il colonnello Muammar Gheddafi al 25 ° anniversario della celebrazione della rivoluzione libica, Tripoli, 1 settembre 1994.
Uno stato latente di rivolte, che testimoniava una profonda sfiducia nei confronti dello stato e della sua gestione della rendita. Si trattava di moti animati da giovani disoccupati (ad Annaba nell'Est del paese) oppure causati dalla lista di beneficiari degli alloggi popolari – assegnati all’interno di un vasto programma governativo di eradicazione delle bidonville soprattutto in quartieri poveri della capitale, come il celebre Bab el-Oued (dove peraltro proprio per la mancanza di infrastrutture erano morte circa 900 persone in un inondazione del 2001) – che determinava esclusioni e quindi rivalse e ribellioni. Il mese di dicembre 2010 era stato poi contrassegnato da violenti moti contro il rincaro dei generi di prima necessità ad Algeri.
La rivolta in Tunisia che costrinse alla fuga all’estero il presidente Zine El-Abidine Ben Ali, il 14 gennaio 2011, portò tutti gli osservatori a rivolgere lo sguardo verso l’Algeria: disoccupazione, marginalizzazione dei giovani, mancanza di sbocchi lavorativi per i diplomati e i laureati, un sistema politico impenetrabile e auto-riferito o ancora l’assenza di spazi di aggregazione e divertimento (concerti, cinema, librerie e biblioteche, musei) ne facevano la più probabile pedina del domino prossima a cadere sotto la forza dirompente delle Primavere arabe. Mai previsione fu più sbagliata: il regime non solo fu in grado di evitare il “contagio”, ma uscì rafforzato dalla resistenza a un movimento per la “democrazia” che fu ricondotto allo schema sicuro – nel quale la maggioranza della popolazione di fatto non faticò a riconoscersi – del complotto internazionale ordito contro l’Algeria da ipotetiche potenze straniere (gli imperialisti? Il Qatar?) che volevano usurparne l’indipendenza importandovi delle rivoluzioni posticce. Il regime seppe sfruttare le legittimità immateriali (quella rivoluzionaria derivante dalla guerra di liberazione e quella ottenuta dalla guerra antiterroristica) e la legittimità materiale (la rendita petrolifera) per resistere, mantenere il controllo della situazione e superare indenne la fase turbolenta che dal 2011 sconvolse l’intera regione. Alcuni aggiustamenti furono necessari per tamponare la situazione ed evitare il collasso. Innazitutto, per placare i moti che sostanzialmente proseguirono sull’onda di quelli del 2010, anche galvanizzati dal movimentismo della vicina Tunisia, furono allargati i lacci della borsa della rendita petrolifera concedendo aumenti di salari, accordando prestiti per la creazione di imprese giovanili e per gli alloggi e facendo dietrofront sul controllo del mercato informale. Come ogni Rentier State, l’Algeria – le cui esportazioni e quindi le entrate erano ancora nel 2011 monopolizzate dalla vendita degli idrocarburi – non aveva mai avuto bisogno delle imposte dei cittadini per reggere l’intera macchina statale, riuscendo a garantire un generoso welfare (scuola e sanità gratuite, alloggi popolari, sussidi per generi elementari e per rifornimenti di carburante, prestiti finanziari). In più le riserve estere (più di 180 miliardi di dollari alla fine del 2011, unitamente al fondo di regolazione delle ricette di circa 75 miliardi di dollari) offrivano allo stato un margine di autonomia considerevole che gli permetteva di “comprare la pace sociale” nei momenti di massimo scontento popolare, come fu il caso del 2011.
A differenza di Tunisia, Egitto e Libia, in seguito alla promessa di provvedimenti volti al miglioramento delle condizioni di vita, i disordini di Algeri tra il 2010 e il gennaio 2011, che avevano già causato 5 morti e 800 feriti, si arrestarono.
Tratta in salvo “dall’orlo dell’abisso”, l’Algeria continua a essere guidata da un sistema di potere che, pur nelle sue divisioni interne, fino a oggi ha dato prova di compattezza e resilienza. Ma è una stabilità meno solida di quanto possa sembrare: le difficili condizioni economiche, politiche e sociali vissute quotidianamente da milioni di algerini sono lì a dimostrare che il paese non è ancora al sicuro.
 
Per approfondimenti:
_G. Calchi Novati , C. Roggero, Storia dell'Algeria indipendente. Dalla guerra di liberazione a Bouteflika, Bompiani, Milano, 2018;
_B. Stora, La guerra d'Algeria, il Mulino, Bologna, 2009;
_E. Rogati, Le origini del socialismo algerino, Albatros, Roma, 2016;
_M. Egretaud, Réalité de la Nation Algérienne, Éditions sociales, Parigi 1957;
_F. Fanon, Scritti politici - volume II. L'anno V della rivoluzione algerina, Roma, Derive Approdi, 2007;
_R. Rainero, Storia dell'Algeria, Sansoni, Firenze, 1959;
_G. Mansell, La tragedia d'Algeria, Edizioni di Comunità, Ivrea, 1961;
_F. Catalluccio, Formazione della nazione algerina, Ispi, Milano 1961;
_M. Boudiaf, Où va l'Algérie?, Librairie de l'Étoile, Parigi, 1964
10. S. Yaacef, Souvenirs de la Bataille d'Alger, Julliard, Parigi, 1962;
_H. Alleg (a cura di), La guerre d'Algérie, Temps Actuels, Parigi, 1981;
_E. Rogati, La seconda rivoluzione algerina, Opere nuove, Roma 1965;
_R. Ainad-Tabet, Le mouvement du 8 mai 1945 en Algérie, Office des Publications universitaires, Algeri, 1985;
_Y. Courrière, La guerre d'Algérie. Tome 1, 1954-1957, Les fils de la Toussaint, Fayard, Parigi, 1968;
_J. C. Vatin, L'Algérie politique. Histoire et société, Presses de la Fondation nationale des sciences politiques, Parigi, 1983;
_W. G. Andrews, French Politics and Algeria: The Process of Policy Formation, 1954–1962, Appleton-Century-Crofts, New York, 1962;
_L. Maitan, Per una storia della IV internazionale. La testimonianza di un comunista controcorrente, Roma, Alegre, 2006;
_H. Alleg, La question, Ed. de Minuit, Parigi, 1958;
_N. Farelière, Le Désert à l'aube, Ed. de Minuit, Parigi, 1960;
_M. Impagliazzo, Duval d'Algeria, Edizioni Studiorum, Roma, 1994;
_M. Impagliazzo, M. Giro, Algeria in ostaggio. Tra esercito e fondamentalismo: storia di una pace difficile, Guerini e Associati. Milano, 1997;
_M. Reggui, Les massacres de Guelma Algérie, mai 1945 : une enquête inédite sur la furie des milices coloniales, La Découverte, Parigi, 2006.
 
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La maurrasiana Enquête sur la Monarchie portò un soffio di vita nuova, una vivacità e vitalità che sembravano ormai dimenticate nella Francia della Terza Repubblica, un mondo nel quale le passioni politiche, i sentimenti fideistici, le infatuazioni dottrinarie si stemperavano nel grigiore del parlamentarismo, si edulcoravano in una atmosfera stagnante caratterizzata dalla assenza di grandi ideali e dalla riduzione della lotta politica a mera contrattazione, e solo tornavano ad esplodere con tutta la loro carica di esacerbata emotività in occasione di grandi scandali quali il crack della Compagnia Universale del Canale di Panama e l’Affare Dreyfus; un mondo che sembrava crogiolarsi in quella ovattata, spumeggiante pittoresca fin de siècle con i suoi cabaret ed il suo cancan, con il Moulin Rouge e con le dame di Chez Maxim. L’Enquête operò da centro di raccolta, da elemento catalizzatore dei sussulti, dei fermenti reazionari che provenivano dall’intimo della vecchia Francia, non dalla sua facciata esteriore, il parlamentarismo, il quale «corrisponde nella vita sociale al romanzo pornografico per la vita morale», essendo il lato con il quale la Francia si mostrava al pubblico straniero, non la sua effettiva realtà.
Il più macroscopico effetto dell’Enquete, quello che maggiormente lascia intuire l’importanza ed il significato di essa nella storia della Francia della Terza Repubblica, è l’acquisizione all’idea monarchica dei membri influenti dell’Action Française. E fu un risultato, questo, di non poco conto, la cui entità appare di tutta evidenza quando si consideri non soltanto il peso del movimento sugli eventi e sulla formazione dell’opinione pubblica francese nei primi decenni del ventesimo secolo, sì anche della sua genesi prettamente ed inequivocabilmente repubblicana.
L’atto di nascita dell’Action può farsi risalire all’8 aprile 1898, allorché un gruppo di intellettuali antidreyfusardi, raccolti attorno a Henry Vaugeois e Maurice Pujo – il primo professore di filosofia ed ex socialista, il secondo giornalista e scrittore senza precise idee politiche – dettero vita ad un Comité d’Action Française con il dichiarato proposito tanto di svolgere una intensa attività propagandistica in chiava antidryfusarda (in quanto ebreo Dreyfus era considerato dagli esponenti della destra antisemita antinazionale) in vista delle elezioni che avrebbero dovuto aver luogo l’anno stesso², quanto reagire alla «dreyfusazione» dell’Union pour l’Action Morale, un centro, di cui tanto Vaugeois che Pujo facevano parte, fondato da Daniel Desjardin per la diffusione di un liberalismo a sfondo protestante e moralistico. Le finalità di questo gruppo di intellettuali sono chiaramente espresse in una lettera indirizzata da Pujo al giornale nazionalista L’Eclair, diretto da Ernst Judet, e pubblicata nel numero del 19 dicembre; lettera nella quale, dopo aver sottolineato come l’astratta formula individualistica dei «diritti dell’uomo» abbia consentito l’anarchia e la corruzione con il parlamentarismo ed il suffragio universale, Maurice Pujo, auspicando una riorganizzazione ed un rafforzamento all’interno e all’esterno della «Francia repubblicana e libera», esclude, con ciò stesso, l’obiettivo di una riorganizzazione monarchica. È però soltanto un anno dopo, il 20 giugno del 1899, che l’Action Française diventa un vero e proprio movimento politico e come tale vien presentata da Vaugeois con un discorso programmatico di chiara impostazione plebiscitaria: «(…) la democrazia francese non ha una testa in cui possa raccogliersi e prendere coscienza di sé. Ecco il male maggiore, la lacuna più grave del nostro regime. Molti pensarono che essa si possa colmare; dovremmo studiare in qual modo sia possibile. Sembra certo, in ogni caso, che occorre una testa, si dovesse pur tagliarla di tanto in tanto.
[caption id="attachment_10175" align="aligncenter" width="1000"] Da sinistra a destra: Maurice Pujo (1872 - 1955), Henri Vaugeois (1864 - 1916), Leon Daudet (1862 - 1942), Lucien Moreau (1875 - 1932), conte Léon de Montesquiou-Fézensac, (1873 - 1915).[/caption]
Occorre una testa, ma aggiungo, ne occorrerebbero parecchie al di sotto. Quando chiedo che il potere sia personale, intendo dire che è necessario che esso sia vivo a tutti i livelli della gerarchia, che esso sia una coscienza libera e responsabile, invece di essere un organo impassibile per l’applicazione della legge… ».
L’esigenza di restaurare la nozione di sovranità, ancorché avvertita profondamente da quest’uomo che dichiarava di avere orrore del dispotismo, non sboccava tuttavia in una affermazione di fede monarchica: nel suo spirito si confondeva con le fascinose suggestioni emananti dal cesarismo plebiscitario di Barrès ed alla Déroulède, senza peraltro che l’omaggio reso a Paul Déroulède implicasse una accettazione totale dei mezzi di lotta da questi propugnati (Nota 1). Il discorso di Vaugeois apparve il 10 luglio 1899 in una brochure con la copertina grigia: era il numero-programma dell’Action Française.
Il mese successivo venne pubblicato il primo numero, vero e proprio, con un significativo articolo di fondo dello stesso Vaugeois: Réaction d’abord. Se l’iniziale gruppo raccolto intorno alla quindicinale Action Française era costituito di repubblicani quasi interamente, - da Vaugeois a Pujo, da Pierre Lasserre a Lucien Moreau, da Jacques Bainville a Léon de Montesquiou -, tale fatto non si presentava come preclusivo alla possibilità di prendere in considerazione soluzioni diverse da quella repubblicana. Tant’è che lo stesso Maurras, nel fascicolo del 15 novembre 1899, poteva liberamente scrivere di non essere per nulla repubblicano, di ritenere anzi «assurda e puerile» la dottrina repubblicana, di identificare nel fatto repubblicano la causa e l’effetto del processo di decadimento della Francia. Il repubblicanesimo degli aderenti all’Action era più epidermico che effettivo; in realtà mancava al gruppo una dottrina comune, un punto di riferimento ed un centro di raccolta cui ancorare il proprio patriottismo, le proprie sollecitazioni intellettuali e gli sdegni provocati dalle contingenze politiche; mancava, in definitiva, l’elemento catalizzatore capace di plasmare quel diffuso ed avvertito bisogno di sovranità, atto a dargli una veste che non fosse quella, sostanzialmente protestataria e negativa, della ricerca di una autorità sic et simpliciter.
In seno al gruppo gravitante intorno all’Action Française Charles Maurras era l’unico convinto monarchico, e tale convinzione non gli derivava da una tradizione familiare stratificata nel suo animo sin da giovinetto: «Per quanto sia stato spesso affermato, io non sono nato monarchico». Nella sua famiglia coesistevano divergenze di opinione, le più assolute e le più insanabili, non soltanto in politica, sì anche in questioni morali, religiose, erano presenti contrasti disaccordi che sfioravano «le radici supreme delle concezioni della vita». Lo stesso Maurras ha però sottolineato l’importanza materna ai fini della sua formazione (essendo il padre morto quand’egli era ancora fanciullo), di questa donna la quale, pur inclinando verso idee liberali nella convinzione che il 1789 avesse abbattuto vecchie iniquità e profonde ingiustizie, era stata pur tuttavia educata nell’orrore della rivoluzione (Nota 2). Tale ripugnanza si impresse certamente nell’animo del giovane Maurras, ma è forse esagerato identificare siffatto orrore per la rivoluzione con il momento costitutivo della sua formazione intellettuale ed affermare che lo porrebbe «in un sorprendente rapporto di corrispondenza con Nietzsche e in una sintesi romantica col proletario Mussolini».
[caption id="attachment_10172" align="aligncenter" width="1000"] Charles Maurras, nato il 20 aprile 1868 a Martigues (Bouches-du-Rhône) e morto il 16 novembre 19521 a Saint-Symphorien-lès-Tours2,3 (Indre-et-Loire), è un giornalista, saggista, politico e poeta francese, accademico, teorico del nazionalismo integrale.[/caption]
Tant’è che i primi fervori monarchici del giovinetto Maurras per il duca di Chambord, Enrico V, vennero fugati, verso il dodicesimo o il tredicesimo anno, dall’infatuazione per il pensiero di Lamennais: «fu un altro colpo di fulmine. Le tirate infiammate, le immagini bibliche, i gridi sussultanti, ansanti con il loro seguito di allucinazioni fantomatiche mi iniziarono alla filosofia della libertà, alla dottrina dell’affrancamento per mezzo dell’insurrezione. Il mondo mi apparve diviso in oppressori ed oppressi, in sfruttatori e sfruttati; tutti i ricchi cattivi; i poveri, divinamente buoni; ogni segno del potere o della ricchezza corrispondeva a qualche corno della Bestia, ogni rivolta popolare era giustificata ed incoronata di benedizioni: quella sorta di spartachismo, nutrito di sentimenti pii e di una nozione esaltata della giustizia divina e dell’umanità indomabile (mais l’âme se rit d’eux, elle est libre) non consentiva assolutamente che un sol tipo di regime: la teocrazia rivoluzionaria. Ero dunque divenuto un repubblicano teocratico». Questa frenesia intellettuale, questo cieco entusiasmo durò per qualche anno in una singolare commissione di odio-amore, per cui Maurras avvertiva un non meglio definito né definibile senso di disagio di fronte a tali assunti, ne sentiva «in modo vago l’assurdo», ma nel contempo non aveva la forza di ricusare le conclusioni sembrandogli quel tipo di regime, repubblicano e teocratico, l’unico fondato sul diritto; si protrasse tale fase del suo pensiero fino a quando una crisi di ordine religioso si risolse sul piano politico in una sorta di indifferentismo scettico. Il quale, peraltro, in seguito, contribuì non poco a precisare taluni concetti che diverranno, con il tempo, le linee direttrici lungo le quali sarà destinato a procedere il suo pensiero. È il caso – assai significativo e che meriterebbe una più ampia considerazione ed uno studio più approfondito sotto l’angolo della visuale dei rapporti intercorrenti tra filosofia scettica e conservatorismo politico - , della sua concezione del rendimento di un regime, quale indice della positività dello stesso. Tale concezione, che diverrà uno degli argomenti precipui della difesa maurrasiana dell’istituto monarchico, si originò nel pensatore provenzale dalla insensibilità, in questa fase della sua evoluzione intellettuale, a preferenze personali per l’un regime o per l’altro: «legittimi o no, fondati sulla libertà o sull’autorità, agganciati ad un principio o ad un altro, che valevano, in ultima analisi, per la salute e la prosperità delle società, il regime A, o il regime B, o il regime C?».
Se in base agli assunti di una concezione siffatta – che sceglie quale unica pietra di paragone, quale unico metro valutativo atto a fornire la misura della positività di un determinato regime il suo rendimento, storicamente ed obbiettivamente verificabile, nel trascorrere del tempo – la repubblica suscitava non poche diffidenze nell’animo di Maurras, è peraltro vero che egli non sentiva il bisogno di professarsi monarchico. La stessa vita politica non lo attirava;in un certo senso, anzi, gli ripugnava. Pur tuttavia in questo periodo la sua riflessione sulle disfunzioni del parlamentarismo, il cui regno gli appare il più atto a favorire lo sviluppo di tutti i difetti dello spirito gallico e ad impedire la possibilità di temperarne o correggerne qualcuno, e sulle contraddizioni ed assurdità del mito democratico.
La mancata adesione del pensatore all’idea monarchica deriva probabilmente dalla considerazione di essa sotto l’angolo visuale del parlamentarismo (tanto più che un principe come il Conte di Parigi passava per «parlamentare»): «la monarchia parlamentare, come la repubblica parlamentare, mi sembra voltare le spalle ai postulati essenziali di tutti i miei studi»¹³. Quello di Maurras era, per sua stessa ammissione, un pensiero solitario, che, poco alla volta, attraverso una intensa attività speculativa, si incamminava verso la conquista delle «nuove e fragranti gioie della certezza». Alla stessa politica cominciano a sembrargli applicabili, poco alla volta, i criteri del vero e del falso, senza peraltro, che ciò significhi, per il pensatore provenzale, l’assunzione della politica al rango di scienza: «Una scienza? No, la parola mi sembrava ambiziosa e prematura per un insieme ancora non ben congegnato. Ma, in mancanza di nozioni interdipendenti, io intravedevo una serie di cognizioni solidamente determinate e suscettibili di essere gradualmente ordinate».
L’episodio che, però, provocò la definitiva conversione di Maurras all’ideale monarchico fu il suo viaggio in Grecia, quale inviato speciale della Gazette de France, giornale monarchico e legittimista fin dal tempo di Richelieu. Da questo viaggio, dovuto ad una causa occasionale, i giochi olimpici, Maurras tornerà con una visione politica ben precisa che si può compendiare in un profondo odio contro la democrazia: «Qualsiasi democrazia fa nascere un grande falò di gioia dai beni che le generazioni hanno lentamente prodotto e capitalizzato. Ma una fiamma è più pronta a dare ceneri che non a maturare il legno per la catasta di un rogo. L’enormità del nostro capitale nazionale non deve generare una tale ingannevole sicurezza. Essere nazionalista e desiderare la democrazia sarebbe, allo stesso tempo, voler dilapidare la forza della Francia ed economizzarla, cosa che credo impossibile. Insieme a questo odio per la democrazia, anche e soprattutto il suo monarchismo, quel monarchismo che, all’epoca della creazione dell’Action Française, è un fatto, un elemento caratterizzante del pensiero di Maurras; quel monarchismo che, mediante l’Enquête sur la Monarchie, farà non pochi proseliti e darà alla stessa Action Française la base primordiale di cui essa ai suoi primordi, sentiva la urgente necessità.
Il 6 maggio 1899 sulla Gazette de France, Charles Maurras, ormai conquistato all’ideale monarchico, tratteggia sinteticamente i caratteri peculiari della monarchia quale egli auspica: «All’istituzione ereditaria della famiglia, aggiungete le entità permanenti del governo del comune e della provincia, e l’istituzione che equilibra per mezzo dell’autorità: avrete la formula della monarchia». Qualche mese più tardi, a seguito dell’arresto di un certo numero di monarchici accusati di complotto, Maurras redasse quello che doveva essere un manifesto di intellettuali monarchici, il celebre Dictateur et Roi, per il quale palesarono apprezzamento Frédéric Amouretti, Charles Vincent, Jacques de la Massue ed Auguste Cordier allora direttore del Nouvelliste de Bourdeaux. Per diversi motivi la pubblicazione di Dictateur et Roi subì continui ritardi finché, nella primavera successiva, essendo iniziata l’Enquête sur la Monarchie – condotta «sul medesimo piano e secondo le medesime dottrine di Dictateur et Roi» - essa apparve superflua (Nota 3) . Il manifesto tuttavia circolò manoscritto e contribuì non poco alla acquisizione alla causa monarchica di molti ingegni tra cui Maurice Pujo, uno spirito che diverrà tra i più fedeli collaboratori di Maurras e che, quando il Vaticano pronuncerà la nota condanna nei confronti dell’Action Française e delle principali opere maurrasiane, sarà uno dei difensori più strenui delle idee, dell’attività, dei programmi del movimento dimostrando in maniera inequivocabile come la manovra della Santa Sede traesse le sue origini non già da motivazioni di ordine religioso, quanto piuttosto dalle esigenze di una manovra politica mirante al riavvicinamento con la Francia di Briand.
[caption id="attachment_10174" align="aligncenter" width="1000"] 1937 - Conferenza di Charles Maurras alla Lugdunum Hall di Lione, 14 novembre.[/caption]
Nel manifesto sono già contenute, ancorché in nuce ed esposte in maniera logicamente stringata, le principali idee maurrasiane sulla monarchia, quelle che confluiranno poi nel discorso preliminare all’edizione definitiva dell’Enquête sur la Monarchie. Identificato il Regno con il regime dell’ordine concepito «conforme alla natura della nazione francese ed alle regole della ragione universale», Maurras osserva che questo, nella situazione attuale è stato capovolto talché «oggi troviamo la libertà ed i suoi rischi in alto, cioè in quegli affari di particolare importanza che impegnano l’avvenire della nazione e la Sicurezza dello Stato», mentre l’autorità, nel suo senso massimo rigore, è stata collocata «senza utilità alcuna in basso, nel terreno in cui, al contrario, la discussione, la varietà, l’iniziativa d’ogni cittadino sarebbero non solo senza pericoli, ma vantaggiose; si è messo quest’autorità sovrana e decisiva sin nel dettaglio più insignificante dei rapporti dei privati con l’amministrazione!». La ricostituzione dell’ordine naturale e razionale può essere ottenuta soltanto mediante un rovesciamento completo di quello esistente, ponendo cioè la libertà in basso e l’autorità in alto, sostituendo al Cesare-Stato, il Cesare-Ufficio «anonimo e impersonale, onnipotente ma irresponsabile e incosciente» - il quale si studia di molestare fin dalla culla il cittadino, colmandolo di comodità perniciose, disabituandolo alla riflessione ed alla iniziativa personale, atrofizzandone la funzione civica – la libera iniziativa delle famiglie, associazioni naturali, la facoltà auto regolatrice dei comuni e delle contrade, l’autodisciplina delle associazioni professionali, confessionali e morali, cioè una vera e propria serie di corpi intermedi , caratterizzati dalla più completa libertà. Al vertice dello Stato sarà invece l’autorità, incarnata nella figura del sovrano, il quale regnerà e governerà sottraendo il potere centrale alla schiavitù dei partiti parlamentari, ai capricci elettorali, alla instabilità della direzione ministeriale ed alla interna folle discordia. Dalla sovrapposizione della autorità regia alle libertà civiche non potranno che derivare sia una maggiore agiatezza privata sia una maggiore forza nazionale. È con queste convinzioni, ormai maturate e divenute certezza, che Maurras inizia la Enquête sur la Monarchie, quell’opera che, per esprimerci con le parole di Léon Daudet, «avrebbe mutato l’orientamento politico di tutta la gioventù pensosa dalla Francia e restaurato l’idea monarchica ed una attiva dedizione al sovrano».
Le prime due persone intervistate da Charles Maurras sono il capo dell’ufficio politico del duca d’Orléans, il lorenese André Buffet ed il conte Eugéne de Lur-Saluces, entrambi esiliati per la loro attività di monarchici tradizionalisti. Dalle loro parole emerge l’immagine di una Francia, quale essi auspicano, raccolta attorno ad una monarchia nazionale, una Francia decentralizzata, in cui sia rivalutata la famiglia, sia ricostituita nella sua giusta importanza la proprietà rurale che è «un’istituzione politica, oserei dire un bene nazionale e un capitale nazionale», siano risanate le campagne perché da tale risanamento dipende «la sorte degli abitanti della città». Notevole l’importanza assegnata alle famiglie, «da cui tutto dipende», le famiglie che possono venire riguardate come «i naturali veicoli della tradizione» poiché «quando sono energicamente costituite, qual che di utile ha potuto fare un uomo non muore con lui, ma si trasmette, con il sangue ed il nome della sua discendenza». Notevole il rilievo conferito all’istanza decentralizzatrice: per Lur-Saluces la Francia, costretta a fatica nelle istituzioni consolari, ha bisogno d’aria, è come una donna, soffocata da un busto troppo stretto, il cui unico rimedio consiste nel togliersi l’incomodo indumento, per Buffet il decentramenti è tanto importante quanto, nel dodicesimo secolo, poteva essere vitale l’aiuto accordato alla formazione dei Comuni, o, nel tredicesimo, il regolamento della vita corporativa, o, nel diciassettesimo, l’umiliazione di infliggere alla Casa d’Austria, od anche, nel momento attuale, la necessità di riacquistare alla patria l’Alsazia e la Lorena; talché, per André Buffet, decentralizzare equivale a rifare la Francia. E la decentralizzazione appare possibile soltanto in un regime monarchico – derivando ogni potere repubblicano dalla elezione, con la conseguente necessità, per l’eletto, ministro o deputato, di controllare il proprio elettore in vista delle future competizioni elettorali, attraverso una catena amministrativa alla quale il ministro od il deputato non rinunceranno certamente poiché essa rappresenta una garanzia che tiene legati elettore, funzionario ed eletto – i «repubblicani «non esistono, non durano, non governano che attraverso la centralizzazione». Notevole, altresì, il deciso rifiuto della monarchia parlamentare: «La monarchia è rappresentativa. Non è parlamentare. Un re che regna e governa, è abbastanza chiaro?».
Le idee espresse da André Buffet e dal conte di Lur-Saluces ottengono l’esplicita approvazione dello stesso duca d’Orleans, il quale, da Marienbad, indirizza il 18 agosto 1900, una calda lettera all’autore dell’Enquête:
Mio caro Maurras,
è con il più grande interesse che ho seguito la sua inchiesta sulla Monarchia e letto le dichiarazioni che le hanno rilasciato Buffet e Lur-Saluces.
Tutti i miei amici possono differire su sfumature d’opinione o di previsioni di riforme; è loro diritto, - ma quel che risalterà d’ora in avanti, è la profonda identità della concezione monarchica. Essa è riformatrice.
La decentralizzazione! È l’economia; è la libertà. È il miglior contrappeso e la più solida difesa dell’autorità. Da essa, dunque, dipendono l’avvenire e la salvezza della Francia.
Riformare per conservare, è tutto il mio programma.
Non mi pronuncio sui dettagli. Un principe che pretendesse di regolarli in anticipo sarebbe ben poca cosa. Un principe che non si dichiarasse sui principî non sarebbe nulla.
Io ho già espresso il mio pensiero su qualche questione essenziale per la vitalità del Paese. Ho difeso l’esercito, onore e salvaguardia della Francia. Ho denunciato il cosmopolitismo giudaico e franco-massone, sconfitta e disonore del Paese.
Ve ne sono altre sulle quali i francesi hanno il diritto di chiedermi una determinazione netta e categorica.
Fra queste quella che Le sta più a cuore: la decentralizzazione.
Nessun potere debole saprà decentralizzare. Appoggiato sull’esercito nazionale; rappresentando io stesso un potere centrale energico e forte, in quanto tradizionale, io sono il solo in grado di riportare la vita spontanea nelle città e nelle campagne e di strappare la Francia alla compressione amministrativa che la soffoca.
La decentralizzazione dipende in parte dal potere regale e dal sentimento che l’anima, come dalla direzione che il Re stesso può imprimere; ma è anche un problema di organizzazione politica e geografica.
Ad esso rivolgerò i miei primi pensieri. La questione sarà posta allo studio, con la ferma volontà non solo di risolverla ma di risolverla rapidamente. Io tengo a ciò che so d’essere.
Mi creda, mio caro Maurras,
Suo Filippo
Con la sua lettera il duca d’Orléans non aveva soltanto dato un assenso autorevole all’iniziativa maurrasiana; egli aveva altresì stabilito i caratteri essenziali della monarchia: nelle parole di Filippo d’Orléans, Maurras poté ben ravvisare una concezione riformatrice, una concezione nazionalista, una concezione autoritaria ed una concezione rispettosa di ogni interesse come di ogni diritto. Rimaneva in piedi la domanda relativa all’effettiva utilità per il Paese di un istituto così strutturato: «Si o no, l’istituzione di una monarchia tradizionale, ereditaria, antiparlamentare e decentralizzata è di pubblica utilità?». A questa domanda si sarebbe potuta trovare una risposta attraverso la considerazione della situazione politica in cui si dibatteva il paese; tuttavia Maurras ritenne cosa migliore «restar fedele al metodo delle autorità e delle competenze tecniche». Se ci si indirizza ai matematici per la risoluzione di un problema di matematica, se ci si rivolge ai chimici per sbrogliare le equazioni chimiche, se si interpellano i medici per questioni di salute allora, si disse Maurras, in virtù del principio della divisione del lavoro, per una saggia risposta a questa domanda bisogna rivolgersi agli specialisti della scienza politica ed a quanti si sono soffermati a considerare il problema francese non come funzionari, né come candidati, ma come pensatori indipendenti. Di qui l’invito rivolto, senza discriminazioni di nessun genere, ad ogni spirito libero perché faccia conoscere il proprio parere.
La prima risposta giunge il 19 agosto 1900 ed è firmata da un personaggio autorevole nel mondo delle lettere, l’accademico di Francia, Paul Bourget, un «reazionario che fruga nella scienza, e nella scienza positiva, per trovare gli uncini cui attaccare le proprie idee». Monarchico tradizionalista, Paul Bourget motiva le sue convinzioni politiche con argomenti fondati sulla chiara utilizzazione del metodo positivistico, argomenti che appaiono a Maurras in se stessi le proprie razionali giustificazioni, argomenti che fanno appello all’autorità della scienza e non già a quella della dialettica.
La soluzione monarchica gli appare come la sola conforme ai più recenti insegnamenti della scienza. È infatti proprio la scienza che dimostra la validità di una legge naturale, - quella della continuità riscontrabile in ogni sviluppo della vita – la quale, applicata al corpo sociale conduce al riconoscimento della necessità della monarchia; «applicando tale principio a quello che già Rivarol denominava il corpo sociale, si troverà che esso è esattamente l’inverso di questa legge del numero, o, - per usare un linguaggio elettorale: della sovranità popolare che individua l’origine del potere nella maggioranza attuale». È ancora la scienza che additando nella selezione un’altra delle leggi fondamentali dello sviluppo della vita mostra l’importanza dell’eredità fissa e giustifica l’esigenza della monarchia. È infine ancora la scienza che fornisce una terza dimostrazione della necessità della monarchia; se la razza è uno dei più forti fattori della personalità umana e si identifica con l’energia accumulata dagli antenati, è evidente che tale continuità si realizza meglio attraverso la permanenza dell’autorità regale in una sola famiglia. Continuità, selezione e razza, dunque: queste tre leggi della vita che, trasportate sul piano sociale, conducono razionalmente ad affermare non solo la logica, ma anche la estrema esigenza dell’istituto monarchico, chiariscono, nel contempo, come ogni regime fondato sulle irrealtà, sulle astrazioni, sul vuoto delle formule derivanti dai Diritti dell’uomo, ogni regime, in una parola, democratico, risulti antitetico alla monarchia.
Le dichiarazioni antidemocratiche di Bourget ottengono l’immediato consenso di Maurras, che con il fecondo scrittore condivide anche l’immagine da questi proposta della monarchia. Nella risposta Charles Maurras riprende l’accusa mossa da Bourget all’ideale democratico, quella di essere nulla più «nel suo insieme ed in dettaglio, che una somma di errori tutti assai grossolani» e va oltre affermando che la falsità di tale ideale è nella sua stessa essenza: «Una democrazia è necessariamente amorfa ed atomistica, altrimenti cessa di essere una democrazia. Una democrazia non si organizza, poiché il concetto di organizzazione esclude, a qualsiasi livello, l’idea di uguaglianza: organizzare significa differenziare, e, di conseguenza, creare gradi e gerarchie». Al pari della scienza, prosegue Maurras, la Monarchia è realista, il che non può dirsi della democrazia, la quale null’altro è se non «una parola velenosa, rappresentata da un sistema politico contro-natura». In conclusione il ritorno alla monarchia appare al pensatore provenzale l’unica alternativa al male ed alla morte appunto perché « La démocratie, c’est le mal. La démocratie, c’est la mort».
[caption id="attachment_10179" align="aligncenter" width="1000"] 1927: i leader dell'Action française sfilano durante una manifestazione.[/caption]
Da tutt’altra impostazione muove la lettera di Maurice Barrès. Egli riconosce che in abstracto il sistema monarchico può venire accettato, ma obietta che, in pratica, esso si rivela inadeguato per la mancanza di una famiglia, nella Francia contemporanea, capace di catalizzare intorno a sé almeno la maggioranza degli elettori. Accanto a questa carenza, ve n’è un’altra, quella di una aristocrazia, corpo indispensabile per ogni monarchia tradizionale: «Ma l’aristocrazia! Questi nobili che, la notte del 4 agosto, hanno quasi comicamente annullato il loro potere! Che cosa rimane di loro? Non sanno neppure purgarsi dei meticci che a poco a poco danno loro i più ignobili colori!». A tutto ciò Barrès aggiunge il fatto che, ormai, in Francia l’opinione pubblica accorda al principio repubblicano quella «piena del sentimento» che altre nazioni concedono al principio ereditario e che costituisce il presupposto della possibilità di sussistenza di un governo, quale che sia. Il sistema repubblicano, conclude Barrès, consente di portare l’autorità all’apice dello Stato, di operare il decentramento territoriale e creare l’autonomia dei gruppi intermedi.
La replica di Maurras è precisa, puntuale e… puntualizzante. Egli sottolinea la differenza sostanziale tra la dittatura auspicata da Barrès – cioè quella sorta di governo del più forte che sorge nel pericolo e che diviene ipso facto governo di diritto, essendo esso, nelle mani di una sola persona, l’unico atto a garantire la salute pubblica - e la dittatura degli antichi romani, la quale non era emanazione del suffragio diretto dei cittadini né, tanto meno, creazione di un sistema elettivo, ma piuttosto frutto di una designazione alla quale concorreva un elemento politico ereditario, vale a dire il patriziato. Al rilievo barrèsiano della mancanza, in Francia, di una famiglia che riunisca sul suo nome la grande maggioranza degli elettori, Maurras replica affermando che la questione è mal posta, ed osserva che lo Zar Nicola o l’imperatore Guglielmo non occupano rispettivamente i troni di Russia e di Germania perché intorno al loro nome si raggruppa la maggioranza del paese. È vero, invece, il discorso inverso e cioè che proprio per il fatto che essi sono sul trono, possono trasformarsi in elemento catalizzatore, in polo d’attrazione delle maggioranze. Ed i sporadici casi di monarchie elettive, come quella polacca, confermano l’assunto, dal momento che, eccedendo nella indipendenza dell’individuo, i polacchi hanno perduto l’indipendenza nazionale e della Polonia si può parlare soltanto al passato.
L’argomentazione maurrasiana si innesta sulla convinzione, da lui ancora una volta ribadita, che il potere reale, al pari di ogni potere, sia anteriore alla accettazione ed al consenso della massa elettorale, che sia un fenomeno di forza, la manifestazione di una energia politica più o meno confermata dagli avvenimenti: «Quando parliamo di restaurare in Francia la monarchia ereditaria, è un fatto del genere che vogliamo determinare. Non vi è nella storia l’esempio di una iniziativa felice (intendo positiva e creatrice, non distruttiva o puramente difensiva) che sia stata presa da maggioranze. Il procedimento normale di ogni progresso è fondamentalmente il contrario: la volontà, la decisione, l’iniziativa partono dal piccolo numero; il consenso, l’accettazione dalla maggioranza. Alle minoranze appartengono il valore, l’audacia, la potenza e la concezione. Abitualmente inerte, indifferente e torpida la maggioranza è soggetta, è vero, a delle paure i cui effetti sono talora benefici, ma di benefici invariabilmente sterili se non accompagnati da un qualche impulso dell’élite.». A titolo esemplificativo Maurras si richiama alle elezioni del 1871, le quali, effettuate sotto lo spettro della guerra e della Comune, dettero dei buoni risultati senza, peraltro, che questi potessero sortire alcunché di positivo, per la carenza di idee direttive nell’élite e la mancanza di una volontà restauratrice dell’istituto monarchico. In base a tali considerazioni appare lecita la conclusione per cui non vale la pena di preoccuparsi delle maggioranze, dal momento che esse si formano in maniera autogena. Anche per quel che riguarda l’obiezione barrèsiana sulla carenza di una aristocrazia, Maurras capovolge i termini del problema: non è la restaurazione monarchica che dipende in qualche modo dall’aristocrazia, è invece la sorte di quest’ultima che è indissolubilmente legata alla restaurazione monarchica. È il sovrano che ha dovere di riorganizzare l’aristocrazia operando un’armonica fusione , un consonante accordo di elementi antichi, imbevuti e custodi di vitalità energia ed onore, con nuovi elementi offertigli dall’élite francese e che sono sparsi ed amorfi. È il sovrano, dunque, che opera da elemento catalizzatore ed equilibratore dell’aristocrazia, è il sovrano che le fornisce la spinta per una sorta di rinnovamento ed arricchimento. L’aristocrazia nel pensiero maurrasiano non è un qualcosa di statico e, per ciò stesso di intralciante la vitalità di un qualsivoglia regime, sia esso monarchico o repubblicano: è, invece, la linfa vitale, il puntello al quale può appoggiarsi tale regime, tant’è che, per il pensatore francese, l’esistenza di una vigorosa organizzazione aristocratica nella Francia repubblicana costituirebbe, in ipotesi, l’ostacolo di maggior peso, l’impedimento più arduo alla restaurazione monarchica, e, nel contempo, il sostegno più efficace per la repubblica: «la decadenza dell’aristocrazia è un fatto fin troppo certo: ma se questa decadenza non ci fosse, se avessimo una aristocrazia fiorente, una aristocrazia organizzata, radicata, fortemente legata ai destini della Francia, essa potrebbe fornire grandi opportunità di vita e di prosperità per il regime repubblicano. Tutte le repubbliche prospere, tutte le repubbliche nel loro periodo sono state aristocratiche. Nominerò Venezia, Roma, il periodo organico di Atene». La decadenza delle repubbliche inizia quando esse cominciano a cedere alle tentazioni ed alle forme democratiche, quando sostituiscono ad un regime di produzione normale e coordinata un regime di puro consumo. È allora che gli interessi particolari si sostituiscono a quelli generali e si dà il via ad una sfrenata gara per il saccheggio e la spartizione di tutte le risorse, fisiche e morali, dello Stato. È allora che la pace interna viene funestata dalle discordie dei cittadini proni alla dittatura delle fazioni, ossequienti ai voleri delle parti, insensibili al bene dello Stato. Le repubbliche democratiche sono ineluttabilmente condannate a questa sorte e per loro la prosperità di quelle aristocratiche rimane un sogno irraggiungibile, una chimera vana, una illusione inafferrabile. Traslate nell’epoca attuale, le considerazioni del pensatore francese trovano la loro conferma nella progressivo, constante, fatale processo di identificazione delle odierne repubbliche democratiche con altrettante repubbliche partitocratiche. Ed è, siffatta trasformazione, un fatto fisiologico, talché può ben consentirsi con quanti giungono alla conclusione che «bisogna rassegnarsi ad ammettere che oggi chi dice democrazia dice partitocrazia».
Per Charles Maurras la prosperità delle repubbliche e degli stati aristocratici si fonda su una legge, su una costante, che ha in sé un qualcosa di misterioso ed arcano; la legge dell’ereditarietà. L’effetto di questa legge è in una sorta di «nazionalizzazione» del potere, e ciò indipendentemente dal fatto che esso si trovi concentrato in una famiglia o ripartito tra più famiglie, poiché l’interesse individuale viene a coincidere con l’interesse generale. E tale coincidenza rappresenta una delle più raffinate sottigliezze della Politica naturale. Come conseguenza di siffatte argomentazioni, come logico corollario di un così congegnato ragionamento, Maurras può replicare a Barrès precisando che nel momento stesso in cui si addita la decadenza dell’aristocrazia, si dimostra altresì l’impossibilità di una repubblica prospera, potente o comunque in grado di vivere onestamente.
No è la sola risposta, quella di Maurice Barrès, che sia pervenuta a Charles Maurras da parte di repubblicani, di plebiscitari, di bonapartisti, di non monarchici. Numerose personalità, da Lionel des Rieux a Eugene Ledrain a Charles Le Goffic, fanno sentire la loro voce, ora critica ora consenziente, a testimonianza dell’interesse suscitato dall’Enquête, ma anche dallo scoperto stato di disagio esistente nella terza repubblica, dello scontento serpeggiante negli animi di persone non certo monarchiche, dell’esigenza e del desiderio almeno di una riforma costituzionale. Non è un caso che gran parte degli interlocutori dell’ Enquête facciano cenno all’istanza decentralizzante. Dagli interventi all’Enquête emerge l’immagine di uno Stato reso elefantiaco dalla centralizzazione, asfissiato dalla tendenza ad ingerirsi in ogni aspetto della vita collettiva. È naturale, quindi, che il decentramento sia riguardato come una esigenza vitale tanto dai repubblicani quanto dai monarchici, pur se con notevoli differenze dovute a motivazioni di ordine storico. È merito precipuo di Maurras quello di aver mostrato come una reale politica di decentramento possa trovare la sua legittimazione pratica soltanto in un regime monarchico capace di resistere alle spinte centrifughe. Non esiste contraddizione tra la monarchia autoritaria ed antiparlamentare e la sua istanza decentralizzatrice (nota 4), poiché il decentramento sia esso territoriale o professionale corporativo, incide su un piano prettamente politico. Di conseguenza quei corpi che si auto-generano, si auto-organizzano e si autogovernano sulla base esclusiva della partecipazione dei loro membri ad una certa città o ad una certa provincia o ad un certo mestiere, divengono essi stessi fattori di rafforzamento di un potere centrale liberato dall’onere di occuparsi di questioni che esulano dalla sfera della propria competenza e capacità (Nota 5).
Il 7 febbraio 1901 Maurice Barrès, nel corso di una allocuzione, si esprimeva in termini più lusinghieri nei confronti dell’Enquête: «Vorrei che tutti gli uomini di studio leggessero l’Inchiesta sulla Monarchia, di Maurras. Io non sono monarchico, ma trovo che è impossibile concepire un libro di letteratura dal quale si possa ricavare più soddisfazione per il ragionamento e per l’alta cultura». Con tali parole, in realtà, Barrès non faceva più di una constatazione: all’Inchiesta avevano collaborato tanti eminenti personaggi della Francia della terza repubblica, le cui opinioni – che non è possibile esaminare, ancorché sommariamente, in questa sede, ma che meriterebbero un ben altro e ampio lumeggiamento – apparivano, ed erano, tutte dettate da un’intima e profonda, se pur non ascosa, volontà di incidere sulla realtà nazionale, tutte protese – e non importa che sortissero da repubblicani o da bonapartisti o da legittimisti – alla riconquista ed alla riaffermazione di quel sentimento nazionale che ha costituito il tessuto connettivo, la trama, invisibile spesso ma pur sussistente, della storia francese. Opinioni, dunque, scaturite dalla polemica immediata, ma che non si esaurivano in essa e per la levatura di chi le esprimeva – basterà far cenno, oltre agli interlocutori maurrasiani già ricordati nel corso dello scritto, a Lucien Moreau, allo storico Jacques Bainville, a Léon de Montesquiou, a Henry Vaugeois (Nota 6), a Louis Dimier, all’accademico di Francia Sully-Prudhomme, al caricaturista Forain, a Frédéric Amouretti – e per le considerazioni di problemi politici permanenti. Si può affermare, senza tema d’esagerazione, che lo stesso pensiero maurrasiano sia venuto chiarendosi ed assumendo una dimensione sempre più precisa e compatta man mano che egli si trovava a commentare, a chiosare od anche a discutere gli avvisi, le convinzioni, le idee dei suoi interlocutori. L’Enquête sur la Monarchie – apparsa in volume soltanto nel 1909 (Nota 7) - non è una silloge di opinioni raccolte, su un determinato tema, ma è piuttosto un vasto ordito intessuto da Maurras nel quale si incastonano, in una concordia discours, le diverse e variegate voci degli interlocutori. Il «Discorso preliminare» all’edizione definitiva dell’Enquête è il frutto, giunto a piena maturazione, delle riflessioni del pensatore provenzale. Un pensatore che – pur con i suoi non pochi lati deboli e con la sue non poche idee appena abbozzate – val la pena di riproporre oggi all’attenzione di quanti si interessano alla scienza politica ed alla politica tout court se non altro, almeno per la doverosa documentazione delle idee e dei sentimenti di un uomo che tanto influsso e tante sollecitazioni determinò nel mondo intellettuale e politico del suo tempo.
 
Note:
1: È significativa, in proposito, la risposta di Vaugeois a François de Mahy, già ministro dell’agricoltura e della marina, il quale, in occasione di quella conferenza, gli chiedeva se egli fosse favorevole ai pronunciamientos: Vaugeois rispose con un elogio a Déroulède e con una condanna nei confronti dei tentativi di invasione dell’Eliseo;
2: A proposito delle convinzioni politiche della madre, Maurras tiene a precisare che anni più tardi, quando era prossima alla cinquantina, essa, attraverso la lettura di Mme de Sévigné, «finì per rendersi conto del vecchio equilibrio storico dei servigi e degli onori» e, che, del resto, «mai aveva manifestato la minima fede in una buona repubblica, e Thiers non le era parso meritevole di stima che in qualità di furiere dei principi d’Orleans».
 3: Vi fu, peraltro, chi della mancata pubblicazione ebbe a rammaricarsi: Maurras ricorda che taluno si espresse in termini assai espliciti («C’est dommage, c’etait trés clair!») e commenta con una punta di soddisfazione «Jamais une oraison funébre ne me fit autant plasir».
4: Tale rilievo è posto nell’intervento di Eugene Ledrain: «Potete immaginarvi una monarchia con un capo assoluto, senza l’effettivo controllo di una camera, una monarchia poignarde, servita da amici poignards, e che, al tempo stesso fosse decentralizzata? Non è forse il colmo dell’impossibile? Chi è poignard non divide con alcuno il potere e si mostra fatalmente unitario» (Charles Maurras: Enquête sur la Monarchie, neuvième tirage, cit. , Lettre de M. Eugène Ledrain, pag. 312).
5: Osserva in proposito, un acuto studioso di storia delle dottrine politiche: «Si può ammirare, in tutto questo, un ringiovanimento della vecchia politica dei corpi intermedi. Ringiovanimento ben diverso, malgrado certe apparenze, dalla trasposizione che Tocqueville aveva consigliato, sull’esempio dell’America. Ringiovanimento che riproduce insomma il sistema preconizzato da Bonald sotto il nome di monarchia temperata (basata su “delle libertà” al plurale, non sulla giacobina Libertà)». (Jean-Jacques Chevallier: Le grandi opere del pensiero politico, Il Mulino, Bologna, 1968, pag. 399).
6: È particolarmente importante, ai fini dell’intelligenza della visione maurrasiana della monarchia, la risposta che l’autore dell’Enquête fornisce appunto a Henri Vaugeois e nella quale sono enucleati i caratteri distintivi dell’istituto monarchico.
7: Pubblicata inizialmente in tre fascicoli presso le parigini Editions de la Gazette de France fra il 1900 e il 1903, l’Enquête sur la Monarchie venne raccolta in un solo volume, arricchito di un’ampia introduzione, nel 1909 presso la Nouvelle Libraire Nationale. L’edizione definitiva (preceduta, peraltro da numerose ristampe) è del 1924 e fu pubblicata, unitamente mal discorso preliminare dalla stessa Nouvelle Libraire Nationale, che era, in definitiva, la casa editrice dell’Action Française.
 
Per approfondimenti:
_Giuseppe Prezzolini: La Francia e i francesi nel secolo XX osservati da un italiano, Treves, Milano, 1913;
_Jacques Bainville: La troisiéme République (1870 1935), Fayard, Paris, 1935;
_David Thomson: Democracy in France. The Third Republic, Oxford University Press, London;
_Emile Faguet: Problèmes politiques du temp présent, Libraire Armand Colin, Paris, 1901;
_G.A. Castellani: Vita e morte della terza repubblica, Corbaccio, Milano, 1941;
_G.A. Castellani: Gli anni più belli, Ceschina, Milano, 1962; _Roberto Michels: Francia contemporanea, Corbaccio, Milano, 1926;
_Eugen Weber: L’Action Française, Stock, Paris, 1964 (la prima edizione è americana ed è stata pubblicata con il medesimo titolo dalla Standford University Press, Standford, 1962), e di Robert Havard De La Montagne: Histoire de l’ Action Française, Paris, 1950;
_Charles Maurras: Confession Politique, da: Au Signe de Flore, contenuto in: Charles Maurras: La dentelle du rempart, Grasset, Paris, 1937;
_Ernst Nolte: I tre volti del fascismo, Sugar, Milano, 1966;
_Charles Maurras: Confession politique;
_Charles Maurras: Le mie idee politiche, Volpe Editore, Roma (ed. orig.: Mes idées politiques, Fayard, Paris, 1937);
_Charles Maurras: Anthinea, d’Athénes á Florence, Imprimerie de Choisy-le-Roi, s.d. (ma 1901).
_Charles Maurras: Sapore di carne, antologia a cura di Jean Chuzeville, Le Edizioni del Borghese, Milano, 1966;
_Charles Maurras: Enquête sur la Monarchie, neuvième tirage, Nouvelle Libraire, Paris, 1920;
_Maurice Pujo, Comment Rome est trompée, Fayard, Paris, 1929, risposta al volume: Pourquoi Rome a parlé, Aux éditions Spes, Paris, 1927, scritto da Paul Doncoeur, M.V. Bernadot, E. Lajeune, D. Lallement, F.X. Maquart e Jacques Maritain;
_Charles Maurras: Enquête sur la Monarchie, Nouvelle Libraire Nationale, Paris, 1924, edition définitive, suivie de Une Campagne royaliste et Si le coup de force est possible. Il discorso preliminare è stato ripubblicato in: Charles Maurras: Ouvres Capitales, II, essais politiques, Flammarion, Paris, 1954, con il titolo: Vingt-cinq ans de monarchisme;
_Charles Maurras: Enquête sur la Monarchie, neuvième tirage. Anche il manifesto Dictateur et Roi è riprodotto nel citato volume delle Ouvres Capitales;
_Léon Daudet: Panorama de la III République, quinzième édition; Gallimard, Paris, 1936;
_Charles Maurras: Enquête sur la Monarchie, neuvième tirage, cit., chez M. André Buffet;
_Scipio Sighele: Letteratura e sociologia, Treves, Milano, 1914;
_Charles Maurras: Enquête sur la Monarchie, neuvième tirage;
_Paul Bourget: Réflexions sur l’heritage, in Paul Bourget: Au service de l’ordre, Libraire Plon, Paris, 1929;
_Maurice Bardèche, Che cosa è il fascismo, Volpe, Roma, 1963;
_Charles Maurras: Enquête sur la Monarchie, neuvième tirage;
_Panfilo Gentile: Democrazie mafiose, Volpe Editore, Roma, 1969;
_Charles Maurras: Enquête sur la Monarchie, neuvième tirage;
_Maurice Barrès: Scéne set doctrines du nationalisme, Èmile-Paul Èditeur, Paris, 1902.
 
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

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di Gabriele Rèpaci 11/02/2018

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I manuali accademici distinguono principalmente quattro grandi correnti all’interno del pensiero politico contemporaneo: sinistra moderata o riformista, sinistra radicale o massimalista, destra moderata o liberal-conservatrice e infine destra socio-radicale.
Secondo tale definizione il socialismo, in particolar modo le sue correnti radicali come l’anarchismo e il comunismo, rientrerebbero nella seconda categoria costituendo l’ala estrema della sinistra tanto che i due termini costituirebbero un binomio inscindibile. La tesi secondo la quale la sensibilità socialista sia legata in qualche modo alle dottrine della sinistra è un’idea indotta che risale sostanzialmente all’affaire Dreyfuss, conflitto politico e sociale consumatosi come è noto in Francia alla fine dell’Ottocento.
Alfred Dreyfus (1859 – 1935) è stato un militare francese. Generale dello Stato Maggiore, ebreo, il 22 dicembre 1894 fu condannato da un tribunale militare con l'accusa, poi rivelatasi falsa, di alto tradimento: ancora oggi una storia tra luci e ombre.
Sino a quel momento, il côté gauche, come lo si chiamava all’epoca, si definiva come il partito del Progresso, della Scienza e della Ragione in opposizione alla “destra”, la quale rappresentava tutti coloro i quali si ponevano come obiettivo di restaurare, in toto o in parte, le istituzioni dell’Ancien Régime e il potere temporale della Chiesa Cattolica.
La sinistra si è sempre presentata nella storia, come l’unica vera erede legittima dell’Illuminismo, e a questo titolo, come avanguardia più decisa di tutte le modernizzazioni concepibili, sia di carattere tecnologico, economico, politico e morale.
Al contrario la sensibilità socialista ha origini diverse se non opposte. Essa si formò veramente solo a partire dall’inizio del XIX secolo, dapprima attraverso le molteplici lotte degli operai inglesi e irlandesi contro i modi di vita degradati loro imposti dalla prima modernizzazione industriale.
Il progetto socialista, è sempre stato orientato, fin dalla sua nascita, dal desiderio che avevano i primi lavoratori moderni di proteggere, contro gli effetti disumanizzanti dell’allora nascente capitalismo, un certo numero di forme di esistenza comunitaria che essi intuivano essere l’orizzonte culturale indispensabile di qualsiasi vita umana degna di questo nome.
Il movimento operaio si pose quindi sin dalle sue origini come forza indipendente sia nei confronti della borghesia conservatrice e dei “reazionari” che dei “repubblicani” e di altre forze di sinistra. Ovviamente, l’aspirazione a conservare «un mondo comune», per dirla con Hannah Arendt, si poneva in contrasto tanto nei confronti dei privilegi di casta legati alle gerarchie dell’Ancien Régime - privilegi conservati in altra forma dalla borghesia liberale – quanto nei confronti dell’individualismo della filosofia dei Lumi e la sua apologia dei valori mercantili già così ben criticati da Rousseau. Non è un caso che il termine “socialismo” sia stato coniato da Pierre Leroux (1797 – 1871) per indicare il contrario dell’individualismo assoluto.
I primi socialisti dunque non sembrano essere avversari del passato. Più esattamente essi distinguevano molto bene ciò che, nell’Ancien Régime, rientrava nell’ambito della dominazione gerarchica, da loro rifiutato, e ciò che dipendeva dal principio “comunitario” (la Gemeinwesen di Marx).
Ha fatto osservare molto giustamente Jean-Claude Michéa che «per i primi socialisti una società nella quale gli individui non avessero avuto più niente altro in comune che la loro attitudine razionale a concludere accordi interessati non poteva costituire una società degna di questo nome»¹
La sinistra così come la conosciamo oggi (o almeno come l’abbiamo conosciuta fino al 1989-1991), non è stata altro che il risultato di un compromesso storico particolarmente precario sorto in Francia nell’ambito dell’affaire Dreyfuss tra il liberalismo progressista – all’epoca essenzialmente incarnato dal partito radicale – e il movimento socialista ufficiale.
Compromesso chiaramente dettato dalla minaccia, a quel tempo quanto mai reale, rappresentata dalle forze clericali, monarchiche e reazionarie.
È questo compromesso storico che costituì dunque l’evento fondatore della sinistra del ventesimo secolo.
Per far capire ulteriormente l’infondatezza della tesi secondo la quale il socialismo trovi le sue origini nella sinistra non è forse inutile ricordare che le due repressioni di classe più feroci, e dunque più pesanti sul piano delle vittime, che si sono abbattute nel XIX secolo sul movimento operaio francese (con il plauso - ça va sans dire – della destra monarchica e clericale) sono state ogni volta decise da un governo liberale o repubblicano (dunque di “sinistra”, nel senso stretto della parola). Innanzitutto quella ordinata da Louis-Eugène Cavaignac, all’epoca delle giornate di giugno del 1848 (Cavaignac sarà del resto il principale candidato di sinistra alle elezioni presidenziali di dicembre – il che spiega in parte il voto di molti operai parigini per Luigi Napoleone Bonaparte). E poi quella, ancora più spietata, diretta da Adolphe Thiers contro la Comune di Parigi nel maggio 1871. Si può capire come la maggior parte degli anarchici e dei socialisti avrebbe trovato particolarmente assurdo e indecente chiedere agli operai che erano appena sfuggiti a quei massacri (o che si trovavano ancora deportati in Nuova Caledonia o esiliati in Inghilterra) di riconciliarsi al più presto - col pretesto di una più che vaga “unione della sinistra e di tutte le forze progressiste” – con alcuni dei loro più odiosi carnefici (come per esempio quel sinistro Gaston de Galliffet – il “macellaio della Comune” – che nel 1899 occuperà ancora un posto decisivo nel governo di “difesa repubblicana” di Waldeck-Rousseau).
Jean-Baptiste Delafosse, "Louis-Eugène Cavaignac" (particolare) - 1848. Cavaignac (1802 – 1857) è stato un politico e generale francese. È d’altronde contro il riformismo e il parlamentarismo della “sinistra” che il socialismo proudhoniano o il sindacalismo rivoluzionario soreliano svilupparono allora l’ideale del mutualismo o dell’autonomia dei sindacati e la volontà rivoluzionaria all’opera nell’”azione diretta”, ideale che si cristallizzerà nel 1906 nella celebre Carta di Amiens della CGT.
Né Marx né Engels, non più delle altre grandi figure fondatrici del movimento socialista, hanno mai pensato di definirsi di “sinistra”. Ai loro occhi – e quando gli capitava di usare quel vocabolario proveniente dal «gergo parlamentare» (come ha osservato Tocqueville nei suoi Ricordi del 1850) – la “destra” designava l’insieme dei partiti ritenuti rappresentativi degli interessi (a volte contraddittori) dell’antica aristocrazia terriera e della gerarchia cattolica. Mentre la “sinistra”, anch’essa molto divisa, costituiva il punto di adesione politica delle diverse porzioni della classe media fino alla “piccola borghesia” repubblicana e “radicale” (la bottega e l’officina) ancora molto segnata all’epoca dalla tradizione giacobina.
L’unico uso sistematico che Marx abbia mai fatto dell’opposizione destra/sinistra è sempre stato strettamente filosofico. Si trattava allora (e Marx non faceva che riprendere una terminologia già consacrata) di distinguere gli hegeliani “di destra”, fautori del “Sistema”, dagli hegeliani “di sinistra” fautori del “Metodo”. Tale uso filosofico si ritroverà, in una certa maniera, nel vocabolario leninista (e poi maoista) per designare i due tipi possibili di deviazione filosofica di una “linea giusta” – la “deviazione di sinistra” (o “sinistrorsa” e “settaria”) e la “deviazione di destra” (o “opportunista” e “revisionista”). Per il resto è evidente che Lenin non ha mai chiesto ai lavoratori di fondersi in una “unione della sinistra” qualsiasi - unione che, secondo lui, avrebbe messo il movimento operaio “a rimorchio” della borghesia – e nemmeno, a maggior ragione, in un qualunque “blocco repubblicano”.
Sia Marx sia Engels nutrivano una profonda stima per alcuni critici romantici del capitalismo industriale, nei cui confronti avevano un indiscutibile debito intellettuale. Certo, nel Manifesto del Partito Comunista (1848) essi rifiutavano come “reazionario” qualunque sogno di tornare all’artigianato o ad altri modi di produzione precapitalistici e celebrarono il ruolo storicamente progressista del capitalismo industriale, che non soltanto aveva sviluppato su scala gigantesca e senza precedenti le forze produttive, ma aveva anche creato l’universalità, l’unità dell’economia mondiale, presupposto essenziale per la futura umanità socialista. Elogiarono il capitalismo perché aveva lacerato i veli che nascondevano lo sfruttamento nelle società precapitalistiche, ma è un elogio che comportava una punta di ironia: introducendo forme di sfruttamento più brutali, più esplicite e più ciniche, il modo di produzione capitalistico avrebbe favorito lo sviluppo della coscienza e della lotta di classe degli oppressi. L’anticapitalismo di Marx non mirava all’astratta negazione della civiltà industriale (borghese) moderna, ma alla sua Aufhebung, cioè al tempo stesso alla sua abolizione, la conservazione delle sue più grandi conquiste e il suo superamento da parte di un modo di produzione superiore.
Tuttavia a partire dagli anni '70 del XIX secolo e fino alla morte nel 1883, Marx cominciò a mettere in forse i risultati delle sue opere precedenti e a nutrire seri dubbi sulla possibilità di una rivoluzione proletaria in Occidente. Fu in tale contesto che pur senza condividere i presupposti ideologici dei Narodniki, il Moro di Treviri iniziò a supportare l’idea che la comunità russa tradizionale (obščina) avrebbe potuto far saltare alla Russia la fase storica del capitalismo e approdare direttamente al comunismo muovendo da quella dimensione collettiva della vita che connotava da secoli la storia rurale del paese. Come scriverà esplicitamente nella lettera dell’8 marzo 1881 alla populista russa Vera Zasulič, «questa comune è il fulcro della rigenerazione sociale in Russia. Ma perché possa svolgere tale funzione, bisognerebbe dapprima eliminare le influenze deleterie che l’assalgono da ogni parte, e poi garantirle le condizioni normali di uno sviluppo spontaneo».²
Statua di Karl Marx e Friedrich Engels (particolare) a Bishkek nel Kirghizstan.
Marx insisteva, beninteso, sulla necessità che la comune agraria si appropriasse delle conquiste e delle tecniche della civiltà industriale europea, ma la sua analisi coincideva comunque in larga misura con la scommessa Narodnik sulla possibilità di risparmiare alla Russia i tormenti della modernità.
Il compromesso storico sorto all’epoca affaire Dreyfuss tra la borghesia progressista e il movimento socialista venne a rompersi definitivamente con gli eventi del maggio del ’68 quando i fondamenti storici della destra clericale, monarchica e reazionaria scomparirono progressivamente in conseguenza del dirompere di quel «nuovo spirito del capitalismo» di cui hanno parlato i sociologi Luc Boltanski e Éve Chiapello.³
Una volta che tale instabile configurazione ideologica ha rinunciato a conservare nel suo programma ufficiale la critica radicale del capitalismo moderno essa si è trasformata in una semplice macchina politica destinata a legittimare, in nome del “progresso” e della “modernizzazione”, tutte le fughe in avanti della civiltà liberale. Risulta dunque evidente che in tale ruolo la sinistra è infinitamente meglio attrezzata dal punto di vista intellettuale di tutte le destre del mondo.
La “destra” ha infatti la tendenza a difendere la premessa (l’economia della concorrenza assoluta), ma ancora stenta ad accettarne la conseguenza (il riconoscimento delle unioni di fatto, la delinquenza, l’immigrazione ecc…) mentre la “sinistra” tende a operare scelte contrarie. Il merito, se così si può chiamarlo, di quest’ultima fazione politica è quella di rendere immediatamente visibile la complementarietà dialettica dei due versanti dell’accumulazione del capitale, quello dell’economia e quello della cultura.
La domanda che dobbiamo porci dunque è la seguente: coloro che credono ancora nella possibilità di edificare una società libera, ugualitaria e solidale o, in altri termini, coloro che si riconoscono nell’ideale socialista, possono fare ancora affidamento sulla "sinistra"? La risposta è no, non possono.
In un suo ben argomentato studio⁴ il filosofo e sociologo francese Jean-Claude Michéa ha sostenuto la tesi secondo cui la sinistra oggi, avendo completamente abbandonato le lotte sociali e politiche che furono del movimento operaio, si è riconfigurata come completamente organica al capitalismo e permanentemente in balia di quello che lui ha definito «il complesso di Orfeo» ovvero non riesce a guardarsi indietro considerando tutto ciò che è vincolato alla tradizione e al passato come qualcosa di intrinsecamente dannoso da cui prendere congedo. La sinistra nel suo odierno divorzio dalle classi popolari fa suo il progetto di “progressismo capitalistico”. In nome del “progresso” il capitale oggi continuamente dissolve e destruttura ogni legame tradizionale, ogni radicamento culturale, simbolico, spirituale e territoriale con l’autorità dell’«eterno ieri» per citare Max Weber.
Se l’ideale socialista oggi vuole essere rivitalizzato non va più inteso come lotta di classe o dittatura del proletariato, bensì come common decency (secondo la fortunata formula di George Orwell), ovvero il concetto secondo il quale una vita compiuta non si misura dalla quantità di potere e di denaro che si riescono ad accumulare durante la propria esistenza.
Un socialismo quindi umanistico, comunitario e tradizionale che preveda un approccio municipalista e confederale all’economia; cosa ben diversa da una sua centralizzazione in imprese “nazionalizzate”, da una parte, o la sua riduzione a forme di capitalismo collettivista “controllato dai lavoratori”, dall’altra. La democrazia economica, nel suo senso più profondo, significa, secondo quanto ha sostenuto l’anarchico statunitense Murray Bookchin «l’accesso libero e democratico ai mezzi di vita, la garanzia di affrancarsi dal bisogno materiale, e non certo il coinvolgimento operaio nelle faticose attività produttive che faremmo meglio a lasciare alle macchine. Che la democrazia economica sia stata reinterpretata per significare proprietà delle maestranze o che la democrazia del lavoro sia diventata compartecipazione operaia alla gestione industriale, invece che libertà dalla schiavitù della fabbrica, del lavoro razionalizzato e della produzione pianificata, è un impudente stratagemma che ha purtroppo mietuto insperati successi anche in ambiti radicali.»⁵
Come ha osservato correttamente a suo tempo Georges Bernanos «esiste una borghesia di sinistra e una borghesia di destra. Non c'è invece un popolo di sinistra e un popolo di destra, c'è un popolo solo».
 
Note:
1. Jean-Claude Michéa, Orwell, la gauche, l’anti-totalitarisme et la «common decency», intervista a cura di Élizabeth Lévy, in «Le Magazine littéraire», dicembre 2009;
2. Ettore Cinnella, L’altro Marx, Pisa, Della Porta Editori, 2014, pp. 140.141;
3. Luc Boltanski, Éve Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Milano, Mimesis, 2014;
4. Jean-Claude Michéa, Le Complexe d'Orphée: La gauche, les gens ordinaires et la religion du progrès, Parigi, Flammarion, 2011;
5. Murray Bookchin, Democrazia diretta, Milano, Eléuthera, 2015, p. 91.
 
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di Gabriele Rèpaci 25/01/2018

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«Una delle caratteristiche dell’èra economica secondo i suoi aspetti più squallidi e plebei è appunto questa specie di autosadismo, che consiste nel glorificare il lavoro come valore etico e dovere essenziale, e nel concepire sotto specie di lavoro qualsiasi forma di attività». Così si esprimeva Julius Evola nella sua celebre opera Gli Uomini e le Rovine (1953).
Nell’epoca moderna infatti, a differenza che nelle società antiche, il lavoro cessa di essere qualcosa che si impone semplicemente per soddisfare delle esigenze materiali per divenire fine a se stesso: una condanna a cui l’uomo è costretto per soddisfare i propri bisogni materiali - «ti guadagnerai il pane col sudore della tua fronte» è scritto nella Genesi - esso diventa un valore intrinseco.
La storia della modernità è la storia dell’imposizione del lavoro, che ha lasciato sull’intero pianeta una lunga scia di desolazioni e orrori. Ci sono voluti diversi secoli di aperta violenza su larga scala per sottomettere gli uomini al servizio incondizionato dell’idolo del lavoro.
Nell’Antichità europea, il lavoro veniva disprezzato proprio perché era considerato il luogo per eccellenza dell’assoggettamento alla necessità. Tale disprezzo lo troviamo tanto nei Greci e nei Romani quanto nei Traci, nei Lidii, nei Persiani e negli Indiani. In Grecia soprattutto esso era percepito come un’attività servile, che in quanto tale, era in antagonismo con la libertà, e quindi con la cittadinanza. Tanto è vero che in greco il termine ponos che sta ad indicare l’attività lavorativa era sinonimo di sforzo, fatica, pena e sofferenza.
Lo stesso stato d’animo vigeva a Roma. Sul lavoro, il filosofo Seneca asseriva come «è privo d’onore e non potrebbe rivestire neppure la più semplice apparenza dell’onestà», se l'attività si presentava manuale.
Cicerone aggiunge che «il salario è il prezzo di una servitù», che «niente di nobile potrà mai uscire da un negozio», che «il posto di un uomo libero non è in officina». La lingua latina distingue nettamente il labor, che evoca il lavoro penoso ed oppressivo, e l’opus, l’attività creativa. “Lavorare” (laborare) ha spesso il significato di “soffrire”: «laborare ex capite», “soffrire di mal di testa”. Viceversa la parola otium non designa affatto la pigrizia o il fatto di “non fare niente”, bensì l’attività superiore orientata verso la creazione, di cui il commercio rappresenta la negazione (negotium, “negozio”).
Quanto alla parola moderna francese travail, essa scaturisce dal termine tripalium, che in origine era uno strumento di tortura.
Pur senza volere operare un’idealizzazione del passato, il sociologo francese Alain Caillé ritiene che «l’immagine del paradiso perduto e dell’Età dell’oro forse non è esclusivamente mitica come in genere si crede»: tutte le ricerche etnografiche concordano nel dimostrare che in quel che resta delle società “selvagge” il tempo di lavoro medio non supera mai quattro ore al giorno. «La maggior parte del tempo è dedicata al sonno, al gioco, alle chiacchiere o alla celebrazione dei riti». Queste società capaci di limitare i loro bisogni, non si preoccupano affatto di accumulare: se per caso diventano più produttive, non aumentano la produzione ma il tempo dedicato agli ozi (nota 1).
Sarebbe sbagliato vedere in questa svalutazione del lavoro semplicemente il riflesso di una visione gerarchica della società e la conseguenza della “comodità”, rappresentata dall’esistenza di schiavi; essa esprime, in realtà, un concetto molto più importante: la libertà – come d’altra parte anche l’eguaglianza – non può risiedere nella sfera della necessità e che vi è autentica libertà solo nell’affrancamento da tale sfera, ovverosia al di là dell’economico.
L’idea contemporanea del lavoro ha origine con il capitalismo manifatturiero. Sino a quel momento, cioè sino al secolo XVIII, il termine “lavoro” (labour; Arbeit, travail) designava la pena dei servi e dei giornalieri, che producevano beni di consumo o servizi necessari alla vita, che dovevano essere rinnovati giorno dopo giorno, senza che nulla potesse essere dato per acquisito.
Gli artigiani, che fabbricavano oggetti durevoli, accumulabili, che gli acquirenti di regola trasmettevano ai posteri, non “lavoravano” “operavano” e nella loro “opera” potevano utilizzare il “lavoro” di uomini di fatica, chiamati a svolgere compiti grossolani. La produzione materiale non era dunque, nell’insieme, retta dalla razionalità economica.
Nessun secolo più del Novecento ha fatto del lavoro il proprio idolo. Tutti i principali partiti politici dell’epoca moderna, incluso quello nazista, sono stati partiti dei lavoratori. Socialisti e conservatori, democratici e fascisti si sono combattuti fino all’ultimo sangue, ma per quanto fossero nemici mortali hanno sacrificato le loro divergenze per concordare sulla necessità di promuovere l’ideale che “il lavoro rende liberi” che ha trovato eco nella macabra iscrizione sopra l’ingresso del lager di Auschwitz.
[caption id="attachment_9808" align="aligncenter" width="1000"] Wall Street è un film del 1987 diretto da Oliver Stone e prodotto negli Stati Uniti dalla 20th Century Fox. Nel fotogramma l'attore statunitense Michael Douglas veste i panni di Gekko[/caption]
Benché Marx nella sua Critica al Programma di Gotha (1875) avesse affermato contro Lassalle che non il lavoro, bensì la natura era la fonte di ogni ricchezza, l’ideologia marxista - così come i regimi comunisti - ha sempre esaltato il lavoro quale strumento di liberazione dell’uomo dal regno della necessità. In un breve ma illuminante articolo - elaborato su richiesta di Enrico Bignami, direttore de La Plebe - dell'ottobre 1872, Sull’autorità, Engels sostenne che la fabbrica è un fatto naturale della tecnica, non un modo specialmente borghese per razionalizzare il lavoro: di conseguenza, essa sarebbe dovuta esistere tanto in una società comunista come in quella capitalista, «indipendentemente dall’organizzazione sociale».
Nella società classista e nella società senza classi, la dimensione della necessità sarebbe stata sempre una dimensione di autorità e obbedienza, di governanti e governati. Gli esisti funesti di tale concezione furono evidenti nell’Unione Sovietica, in particolare sotto Stalin, dove Aleksej Grigor’evič Stachanov (1906 – 1907) venne celebrato quale “lavoratore modello” ed esempio per tutti gli operai sovietici.
[caption id="attachment_9809" align="aligncenter" width="1000"] Aleksej Grigor'evič Stachanov (1906 – 1977) è stato un minatore sovietico. Lavorò nelle miniere di carbone della regione di Donbass nel bacino del Donec (allora appartenente all'Unione Sovietica ed attualmente in territorio ucraino), fu eroe del lavoro socialista (1970) e membro del Partito Comunista dell'Unione Sovietica (1936).[/caption]
Il dittatore georgiano in un suo celebre discorso disse: « […] Il movimento stacanovista rappresenta l’avvenire della nostra industria, reca in sé il germe del futuro slancio culturale e tecnico della classe operaia e ci apre la sola strada per la quale possiamo raggiungere quegli alti indici produttivi indispensabili per passare dal socialismo al comunismo ed eliminare il contrasto tra lavoro intellettuale e lavoro manuale».
Il marxismo, in tutte le sue varianti, non è mai riuscito a comprendere che la fabbrica non è mai stata il regno della libertà; piuttosto è sempre stata quel regno della sopravvivenza, della “necessità”, che svuotava il mondo umano attorno a sé. Alla sua nascita si oppose l’aspra resistenza degli artigiani, delle comunità agricole e in genere di tutto un mondo più comunalistico e a misura umana.
L’obiettivo che dobbiamo porci oggi, non è dunque rinunziare a lavorare, bensì operare una modalità edificante di società differente, in cui non si viva più per produrre, ma si produca per vivere. La riduzione del carico di lavoro può tuttavia, all’interno di una società consumista come la nostra, produrre effetti nefasti.
Dato l’economicismo dominante, capita purtroppo molto spesso che il tempo non lavorativo, quando non è divorato dalle costrizioni della vita moderna (trasporti, burocrazia ecc., in breve quello che Ivan Illich ha definito lavoro fantasma), è convertito in un’attività commerciale (lavoro nero) o nel consumismo dei servizi commerciali.
L’allungamento della durata della vita in Occidente, a partire dal 1950, corrisponde a circa tre ore in più per ogni giorno, ma questo coincide più o meno con il tempo medio che un europeo passa davanti al televisore ed è pari al doppio del tempo che un francese passa al volante o su un mezzo di trasporto. Il buon uso del tempo liberato, guadagnato sul tempo di lavoro, non è così scontato in una società logorata dal produttivismo. Se sono diventate droghe non solo il consumo, ma anche il lavoro (workaholics, dicono gli americani), questa nuova libertà può essere causa di angoscia.
L’uscita dal sistema produttivistico e lavoristico non può quindi che comportare l’edificazione di un organizzazione sociale completamente diversa, in cui si devono organizzare - accanto al lavoro, il tempo libero e il gioco e in cui le relazioni fra gli esseri umani vengano prima della produzione e del consumo di inutili -, dannosi prodotti a perdere.
Ed è evidente che per fare ciò, l’attuale modo di produzione capitalistico deve essere rimpiazzato da una società ecologica fondata su relazioni non gerarchiche, su comunità decentralizzate, su eco tecnologie come l’energia solare, l’agricoltura organica e industrie a misura umana, ovvero su forme di insediamento realmente democratiche, nonché economicamente e strutturalmente coerenti con l’ecosistema in cui si trovano collocate.
Mai come oggi risultano attuali le parole di Friedrich Nietzsche il quale scrisse oltre un secolo fa : «In fondo […] si sente oggi che il lavoro come tale costituisce la migliore polizia e tiene ciascuno a freno e riesce a impedire validamente il potenziarsi della ragione, della cupidigia, del desiderio d’indipendenza. Esso logora straordinariamente una gran quantità di energia nervosa, e la sottrae al riflettere, allo scervellarsi, al sognare, al preoccuparsi, all’amare, all’odiare». (Nota 2).
 
Note:
_Nota 1: cfr. A. Caillé, Critica della ragione utilitaria, Bollati Boringhieri, Torino, pp. 63-64;
_Nota 2: cfr. F. Nietzsche, Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali, 1881.
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di Gabriele Rèpaci 23/10/2017

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«Se crollo io, il Mediterraneo diverrà un mare insicuro e l’Europa conterà i morti […]. Se la rivoluzione libica cadesse nelle mani degli islamisti, i fondamentalisti potrebbero dominare tutto il Nord Africa». Mu'ammar Gheddafi
Emblematica stretta di mano tra l'ex premier francese Nicolas Paul Stéphane Sárközy de Nagy-Bócsa e Mu'ammar Gheddafi
Due governi in guerra, tre regioni - Tripolitania, Cirenaica e Fezzan - da sempre rivali, 30 tribù divise da ostilità secolari, oltre 300 milizie armate di tutto punto coinvolte in un conflitto volto al controllo dei traffici di armi e di carburante, del contrabbando di uomini e della droga. Questo è in estrema sintesi il tragico bilancio di quella «primavera araba», che nei primi mesi del 2011, con l’aiuto militare dell’Occidente, portò alla fine del regime di Mu'ammar Gheddafi.
La caduta del Colonnello, che sia pur con metodi brutali aveva tenuto insieme il paese per oltre quarant’anni, non inaugurò il «giorno della liberazione» come venne annunciato in maniera frettolosa dai grandi organi di stampa, quanto piuttosto una nuova guerra di tutti contro tutti che continua ancora oggi. 
Nel primo cinquantenario dell’unità d’Italia, il quarto governo Giolitti, con una spiccata fisionomia di sinistra, voleva collocare il Paese nel novero delle compagini europee con un «posto al sole», accanto alla Francia che esercitava già un protettorato su Tunisia e Marocco, mentre l’Inghilterra controllava le sorti del Paese chiave del Mediterraneo, ossia l’Egitto, che però faceva sempre parte dell’Impero ottomano. Nel frattempo il Banco di Roma aveva iniziato una «penetrazione pacifica» in Tripolitania e in Cirenaica alla fine del XIX secolo, espandendo gradualmente il proprio controllo sull’industria leggera, l’agricoltura, la navigazione e i commerci del territorio, con l’apertura di agenzie a Tripoli, Bengasi, Zlitan, al-Khums e Misurata. Nel 1911 quando il nuovo governo ottomano (i Giovani Turchi) tentò di ostacolarli, gli italiani organizzarono una spedizione militare. Occuparono i porti principali, ma i beduini accorsero in aiuto alle truppe turche. L’Italia portò quindi la guerra nel Mar Egeo, finché i turchi non furono costretti a cedere il paese (1912). Roma battezzò il territorio conquistato «Libia», antica parola greca che designava il Nord Africa.
Sayyid Ahmed ash-Sharif es-Senussi capo della ṭarīqa (confraternita islamica) Sanūsiyya che si era già opposto alla penetrazione francese nel nord del Ciad, decise di proclamarsi emiro della Cirenaica e proseguire la resistenza contro gli italiani. Dopo la sua deposizione a favore del cugino Muhammad Idris, nel 1918, Roma confermò i privilegi dei Senussi. Tuttavia gli italiani faticavano a controllare il paese. Per far fronte a tale situazione l’allora Duce Benito Mussolini decise di organizzare un massiccio intervento militare. Tra il 1923 e il 1932 verranno riconquistate prima la Tripolitania, poi il Fezzan e infine la Cirenaica - che nel 1927 erano ritornate alla loro vecchia partizione ottomana – con un notevole accrescimento del prestigio, sia nazionale che internazionale del neonato regime fascista.
L’unico vero ostacolo al processo di conquista era rappresentato da Sayyid ʿOmar al-Mukhtār, uno shaykh senussita che in passato aveva combattuto con Ahmed ash-Sharif per poi raggiungere Sayyid Idris nell’esilio al Cairo, dove visse fino al 1923. Egli guidò per circa otto anni bande di guerriglieri beduini in una guerra sempre più aspra e impari contro il Regno d'Italia, riuscendo a tener testa con le sue ridottissime truppe a circa ventimila soldati italiani, dotati dei mezzi più moderni ed efficienti, riforniti con larghezza e protetti da un’aviazione tra le più avanzate dell’epoca. 
La lotta proseguì con questo andamento per tutto il 1930 e per i primi mesi dell’anno successivo. La svolta, dal punto di vista tattico si ebbe grazie all’azione del nuovo responsabile del comando Gebel cirenaico, il colonnello Giuseppe Malta, che nell’estate del 1931 riorganizzò le forze a sua disposizione costruendo un gruppo squadroni a cavallo da utilizzare come massa di manovra, lasciando ai gruppi mobili misti il compito di bloccare le vie di fuga alle bande armate (duar) nemiche. L’11 settembre 1931 calò infine il sipario sull’epopea del guerrigliero senussita, quando dopo l’ennesimo scontro con le truppe italiane venne catturato dagli uomini del capitano Bertè. Alle 9 del mattino del 16 settembre 1931 nel campo di Soluch a 56 chilometri a sud di Bengasi, in Cirenaica, ventimila libici assistettero all’impiccagione dell’allora settantenne capo della resistenza in catene sul patibolo, le cui ultime parole furono Inna lillahi wa inna ilayhi raji'unA Dio apparteniamo ed a Lui ritorniamo»).
Nella foto, Sayyid ʿOmar al-Mukhtār arrestato dalla polizia dell'Africa Italiana (PAI)
Proprio da quel momento cadrà la resistenza libica ed incomincerà l’epopea di ʿOmar al-Mukhtar', il quale assumerà i contorni di simbolo dell’anti-colonialismo e dell’identità delle popolazioni arabe e nord-africane, tratti che persistono ancora oggi.
Nel 1941 la Libia divenne un campo di battaglia dove si scontrarono, da un lato gli italiani, presto affiancati dalle truppe tedesche de "Deutsches Afrikakorps" (DAK), e dagli inglesi. Furono questi ultimi ad avere la meglio sotto il comando del generale Bernard Law Montgomery e a penetrare in Tunisia nel gennaio del 1943. La Libia, devastata dalla guerra, si trovò in seguito sotto l’occupazione britannica (escluso il Fezzan, occupato dai francesi).
All’indomani della seconda guerra mondiale, un intenso e complesso gioco diplomatico vide protagoniste le grandi potenze occidentali in merito al destino delle regioni storiche della Libia (Cirenaica, Tripolitania e Fezzan).
In particolare Londra e Washington, mosse da preoccupazioni strategiche (basi militari), erano impegnate sul futuro assetto politico-istituzionale del paese. La Gran Bretagna premeva per una soluzione federale dello Stato in modo da poter riconfermare il proprio controllo sulla Cirenaica che, in quanto «Stato indipendente», non sarebbe rimasto soffocato dal peso economico-demografico della Tripolitania. Non a caso lo sbocco politico di tale soluzione fu la proclamazione dell’autogoverno della Cirenaica da parte britannica (1 giugno 1949). Gli Stati Uniti, a loro volta propendevano per uno stato unitario sul quale avrebbe regnato Idris dei Senussi, buon amico di Londra. La Francia osteggiò il disegno unitario, interessata com’era a conservare il controllo sul Fezzan, ampliato nella sua base territoriale e inserito nella Union Française. Successivamente, in seguito all’accordo fra il ministro degli Esteri britannico Ernest Bevin e l’omologo italiano Carlo Sforza, venne fuori l’idea di un amministrazione fiduciaria da parte delle tre potenze europee sulle tre regioni costituenti della Libia. I patteggiamenti di corridoio vennero però bocciati dalla risoluzione dell’ONU del 21 novembre 1949, che fissava il 1 gennaio 1952 il conseguimento dell’indipendenza della Libia, proclamata il 24 dicembre 1951 in forma di Stato unitario. Il Paese nordafricano diventò, così, uno Stato monarchico retto da Idris, dotato di ampi poteri al suo interno. Uno Stato che, nato sulla base di compromessi e patteggiamenti, svelava da subito più di una debolezza strutturale. Il suo bicefalismo – basti pensare all’esistenza delle due «capitali» Tripoli e Bengasi - dimostrava la surrettizietà dell’unione federale e istituzionalizzava, per così dire, i persistenti dualismi storici antropologici regionali, divenuti ormai dualismi politici. Quella di Idris appariva una sovranità riflessa, dal momento che il suo insediamento sul trono era stato il risultato dei patteggiamenti fra le grandi potenze. Il suo destino politico dipendeva da cospicui finanziamenti esteri, in grado di inventare la Libia «indipendente». Per mantenere questo embrione di Stato, Senusso e governo erano costretti a vivere di elemosine affittando basi militari a inglesi, americani e francesi.
Il 1956 fu l’anno della scoperta del petrolio nel sottosuolo libico. I giacimenti, sfruttati da compagnie americane e inglesi, erano così abbondanti che, nel giro di pochi anni la Libia ricavò enormi royalties. Questo improvviso afflusso di ricchezza sconquassò la società libica: mentre i cittadini si arricchirono, i capi delle confraternite e delle tribù perdettero potere. Una nuova generazione, istruita, aspirava al cambiamento e aveva come modello il capo di Stato egiziano Gamāl ʿAbd al-Nasser. Il prestigio di Idris gli permise nondimeno di conservare il trono fino al 1969.
Il 1 settembre 1969 un gruppo di giovani ufficiali rovesciò la monarchia e si impossessò del potere in nome del Consiglio del Comando Supremo della Rivoluzione (CCR). A guidarli era l’allora ventisettenne Mu'ammar Gheddafi. Mu'ammar Muhammad Abu Minyar 'Abd al-Salam al-Qadhdhafi meglio noto come Mu'ammar Gheddafi nacque e trascorse la sua infanzia e l’adolescenza a Qaṣr Abū Hādī , un villaggio berbero della Sirte, dove rimase sino ai ventiquattro anni di età. Una fanciullezza vissuta nell’ambiente duro e povero del nomadismo, contrassegnato dalla severità dei costumi tribali islamici. Il padre lo affidò a un maestro che gli insegnò a memoria il Corano. A dieci anni, Gheddafi entrò in una scuola elementare distante decine di chilometri dai pascoli della famiglia. Per poterla frequentare pernottava in una moschea.
Nella foto del 1969 sulla destra troviamo il colonnello Mu'ammar Gheddafi (معمر محمد أبو منيار القذافي), nato a Qaṣr Abū Hādī, il 7 giugno 1942 e morto a Sirte, il 20 ottobre del 2011. E' stato un dittatore militare e politico libico.
Successivamente la famiglia si trasferì a Sebha, nel Fezzan: era il 1956, anno che vide l’aggressione franco-britannico-israeliana all’Egitto. Un anno di manifestazioni nel mondo arabo e di incipiente, spontanea «politicizzazione» di Gheddafi. Il giovane Mu'ammar partecipò attivamente alle dimostrazioni anticoloniali negli anni di Sebha (1956-1961). Una di queste venne organizzata per condannare l’assassinio di Patrice Lumumba, padre del Congo indipendente. Altre manifestazioni popolari – di studenti, artigiani e contadini – si tennero contro lo scioglimento della RAU (Repubblica Araba Unita, l’unione fra Egitto e Siria), visto come un tradimento della causa araba.
Implicitamente, le proteste erano dirette contro la monarchia senussita, tiepida nei confronti del panarabismo, corrotta e infeudata alla Gran Bretagna e dalla quale bisognava liberarsi. Il nazionalismo del futuro Raʾīs si andava così a delineare assumendo colorazioni panarabe idealizzate. Le dimostrazioni degli studenti – che prendevano di mira anche il notabilato locale con le sue ossequiose clientele - vennero affrontate dalla polizia con centinaia di arresti.
La militanza politica di Gheddafi si concretizzò nella costituzione di una cellula studentesca segreta dagli obiettivi politici che si andavano via via definendo. Gli anni trascorsi al liceo si rivelarono, in effetti, il laboratorio del suo apprendistato politico. Egli ebbe modo di estendere lo sguardo sull’inquieta Africa nella fase della sua prima decolonizzazione e di porre orecchio a quello che accadeva in Algeria. Il suo attivismo non sfuggì alla polizia, tant’è che, unitamente alla famiglia, Mu'ammar venne espulso dal Fezzan. Un nuovo trasferimento lo condusse a Misurata. Gli anni trascorsi in questa città (1961-1963) – che in quel periodo contava circa duecentomila abitanti – confermavano la pressoché totale scomparsa del suo originario «ribellismo beduino» a favore di sentimenti politici nazionalisti sempre più solidi.
All’età di ventidue anni, Gheddafi riuscì a entrare quindi nell’accademia militare di Bengasi, nonostante un dossier della polizia sul suo conto. Il comitato centrale del gruppo, costituito nel 1964, cominciò a lavorare segretamente ai preparativi del putsch anti-monarchico. Nel 1966, per la prima volta, ebbe un contatto diretto con il mondo occidentale, seguendo in Gran Bretagna un corso sui sistemi di comunicazione. Punto di riferimento politico ideologico era il nazionalismo panarabo di Nasser. Allo stesso tempo, Mu'ammar prestava attenzione al progetto unitario maghrebino di Allal al-Fasi. La formazione politico-ideologica di Gheddafi affondava nella cultura beduina e nella tradizione coranica, sulle quali si riversavano, in maniera disordinata, l’accostamento alla letteratura illuministica – da Voltaire a Rousseau – agli scritti di Sun Yat-sen, padre della prima Repubblica cinese, fino a Dickens e in seguito Sayyid Qutb, teorico del radicalismo islamico militante. Era attratto dalla Rivoluzione francese e da quella americana, oltre che dall’esempio cubano, senza dimenticare l’esperienza rivoluzionaria cinese.
Al contrario di molti suoi omologhi africani, che si sono limitati a prendere il potere senza cambiare la struttura economica del proprio paese, Gheddafi, ispirato dal «socialismo arabo» di Nasser, ha come prima cosa nazionalizzato, nel novembre del 1969, l’intero settore bancario e quello petrolifero. A ciò seguì la limitazione, pari al sessanta per cento del salario, dei trasferimenti all’estero dei fondi appartenenti ai residenti stranieri. In materia sociale, il nuovo regime si distinse per il notevole incremento dei salari, la riduzione del trenta-quaranta per cento degli affitti e l’avvio di una politica di controllo dei prezzi per frenare l’inflazione.
Per effetto di tali politiche economiche i miglioramenti sociali sono stati notevoli. La speranza di vita si è allungata fino a raggiungere quasi i settantacinque anni, un vero record considerando che in alcuni Paesi del continente africano la media è attestata intorno ai quarant’anni. Quando Gheddafi prese il potere, nel settembre del 1969, il tasso di analfabetismo in Libia era circa del novantaquattro per cento mentre oggi l’ottantotto per cento della popolazione è alfabetizzato. Lo stesso profilo stilato dal Federal Research Division della libreria del Congresso federale USA, un ente certo non sospettabile di simpatie verso il regime di Gheddafi, così scrive: «Un servizio sanitario di base è fornito a tutti i cittadini libici. Salute, formazione, riabilitazione, educazione, alloggio, sostegno alla famiglia, ai disabili e agli anziani sono tutti regolamentati dai […] servizi assistenziali. Il sistema sanitario non è puramente pubblico , ma piuttosto un mix di assistenza pubblica e privata. Paragonato ad altri Stati del Medio Oriente, lo stato di salute è decisamente buono. Le vaccinazioni infantili coprono la quasi totalità della popolazione. La fornitura di acqua potabile è in crescita e le condizioni igieniche sono migliorate. Gli ospedali più grandi si trovano a Tripoli e Bengasi e le cliniche mediche private e i centri diagnostici, che offrono un’attrezzatura più moderna e un servizio migliore, sono competitivi con il settore pubblico. Il numero dei medici e dei dentisti è cresciuto ben sette volte nel periodo fra il 1970 e il 1985, per cui si ha un medico ogni 673 cittadini. Nel 1985 circa un terzo dei dottori era nato in patria, mentre i restanti erano stranieri espatriati. Nello stesso periodo il numero dei posti letto negli ospedali è triplicato. La malaria è stata sradicata. Nel 2004 è stato stimato che il tasso di mortalità è sceso al di sotto del 20 per mille».
Uno degli obiettivi prioritari del CCR fu lo smantellamento delle basi militari straniere. Stati Uniti e Gran Bretagna apparvero in serie difficoltà dinnanzi a tali iniziative, ma furono costrette a cedere dinnanzi alle pressioni libiche. L’accordo raggiunto con Londra prevedeva il ritiro dei britannici dal territorio libico entro il 31 marzo 1970. L’11 giugno 1970 spettò a Washington ritirare da Wheelus Field le proprie installazioni con relativo personale.
Nel 1973, Gheddafi lanciò la «rivoluzione culturale libica», che nel 1977 portò alla proclamazione della Jamahiriya araba libica popolare e socialista (il neologismo jamahiriya, formato a partire dal termine jamahir, masse, significa pressappoco «massocrazia»).
Fu in questo periodo che vennero poste le basi della Terza Teoria Universale enunciata nel "Libro Verde", una sorta di risposta islamica al "Libretto Rosso" di Mao Tse-tung, pubblicato tra il 1976 e il 1979.
La Terza Teoria Universale venne elaborata con l’intento di superare sia il sistema democratico-parlamentare di matrice liberale, sia i sistemi sorti in seguito alla Rivoluzione bolscevica.
Gheddafi legge il "Libro Verde" in età avanzata. A destra, l'attuale "edizione italiana" a cura della casa editrice Circolo Proudhon.
La prima parte del Libro Verde attacca la democrazia parlamentare vista come schermo legale che separa il popolo dall’esercizio effettivo del potere. La democrazia rappresentativa si avvale dei meccanismi elettorali per celare «il sistema dittatoriale» sulla quale si regge. I parlamenti, pertanto, si sostituiscono alle masse nell’esercizio del potere. Scrive Gheddafi: «Il parlamento è una rappresentanza ingannatrice del popolo (…). Il parlamento è costituito fondamentalmente come rappresentante del popolo, ma questo principio è in se stesso non democratico, perché democrazia significa potere del popolo e non un potere in rappresentanza di esso. L’esistenza stessa di un parlamento significa assenza del popolo. (…). I parlamenti, escludendo le masse dall’esercizio del potere, e riservandosi a proprio vantaggio la sovranità popolare, sono divenuti una barriera legale tra il popolo e il potere. Al popolo non resta che la falsa apparenza della democrazia, che si manifesta nelle lunghe file di elettori venuti a deporre nelle urne i loro voti». In definitiva, prosegue Gheddafi, il parlamento «è il risultato della vittoria elettorale di un partito, è il parlamento del partito e non del popolo. Rappresenta il partito e non il popolo ed il potere esecutivo detenuto dal parlamento è il potere del partito vincitore e non del popolo». Tanto meno il pluripartitismo è sinonimo di democrazia, in quanto legittima lo strapotere di gruppi oligarchici. Gheddafi non ha dubbi sulla funzione del partito in una democrazia parlamentare. Esso esprime la dittatura contemporanea. È costruito da una minoranza che governa dopo aver raggiunto i propri obiettivi: rendere esecutivi gli interessi e le opinioni di una minoranza giunta al potere. Nota Gheddafi: «La lotta tra i partiti, se non si risolve nella lotta armata, il che avviene raramente, si svolge per mezzo della critica e della denigrazione reciproca». In quanto detentore del potere il partito rappresenta soltanto parte del popolo; ne viola la sovranità indivisibile. Il partito «è la tribù e la setta dell’età moderna. (...)Per la società, la lotta dei partiti ha lo stesso effetto negativo e distruttivo della lotta tribale o settaria».
Per sfuggire all’imposizione della maggioranza Gheddafi propone l’instaurazione della sovranità popolare diretta. Premessa del governo popolare è l’organizzazione della società attraverso i Congressi popolari ed i Comitati popolari.
Tali organi rappresentano la garanzia contro eventuali involuzioni dittatoriali o pseudo democratiche di governo. Nel Libro Verde sono delineati strutture e funzionamenti del sistema a democrazia diretta. I Comitati popolari fungono da collegamento fra i livelli superiori di governo (Congresso generale del popolo) e dell’amministrazione con le richieste della base. Si legge nel testo: «In primo luogo il popolo si divide in congressi popolari di base. Ognuno di questi congressi sceglie la sua Segreteria. Dall’insieme delle Segreterie si formano , in ogni settore, congressi popolari non di base. Poi, l’insieme dei congressi popolari di base sceglie i comitati popolari e amministrativi che sostituiscono l’amministrazione governativa. Da questo si ha che tutti i settori della società vengono diretti tramite comitati popolari. I comitati popolari che dirigono i settori divengono responsabili dinanzi ai congressi popolari di base; questi ultimi dettano ai comitati popolari la politica da seguire e controllano l’esecuzione di tale politica. (…). Tutti i cittadini che sono membri di questi congressi popolari appartengono, per la loro professione e per le loro funzioni, a varie categorie o settori quali gli operai, i contadini, gli studenti, i commercianti, gli artigiani, gli impiegati, i professionisti. Essi, oltre ad essere cittadini membri, o cittadini aventi funzioni direttive nei congressi popolari di base o nei comitati popolari, devono costituire congressi popolari a loro propri. I problemi discussi nei congressi popolari di base, nei comitati popolari, prendono forma definitiva nel Congresso Generale del Popolo, dove s’incontrano tutti i direttivi dei congressi popolari, dei comitati popolari. Tutto quello che viene deciso nel Congresso Generale del Popolo, che si riunisce una volta all’anno, è riferito ai congressi popolari, ai comitati popolari, per la sua messa in atto da parte dei comitati popolari che sono responsabili dinanzi ai congressi popolari di base. Il Congresso Generale del Popolo non è un gruppo di membri di un partito o di persone fisiche come i parlamenti ma è l’incontro dei congressi popolari di base, dei comitati popolari».
Nel Libro Verde il rigetto del «modernismo» (democrazia parlamentare, pluripartitismo, socialismo) si concentra nell’opposizione al concetto ed al metodo della lotta di classe. Ciò in forza della considerazione che il sistema politico di classe «è identico a quello dei partiti, delle tribù o delle sette». La classe rappresenta solo una parte del popolo. Ne consegue che l’egemonia di classe è sostanzialmente la medesima del dominio della tribù. Quando ci si trova al cospetto di un gruppo – comunque inteso – la società è proiettata verso la dittatura. «Tuttavia, la coalizione di classi o di tribù è preferibile alla coalizione di partiti perché il popolo, alla sua origine, è costituito da un insieme di tribù, mentre tutti fanno parte di una determinata classe». Prosegue ancora Gheddafi: «Ogni classe che diviene l’erede della società ne eredita allo stesso tempo le caratteristiche. Se, per esempio, la classe operaia annientasse tutte le altre, diverrebbe l’erede della società; diverrebbe, cioè, la base materiale e sociale della società». Respinta, così, la soluzione marxista – secondo la quale l’emancipazione della classe oppressa emancipa l’umanità intera – il leader libico ritiene che il comunitarismo tribale sia preferibile perché evita il ricambio dell’egemonia delle classi. «Ogni società, in cui vi è conflitto di classi, è stata in passato una società composta da un’unica classe; in seguito all’inevitabile evoluzione delle cose, questa stessa classe ha generato le altre».
Nelle intenzioni di Gheddafi il Libro Verde doveva figurare come un manifesto per l’azione politica. Esso aveva lo scopo di intensificare i suoi precedenti tentativi di mobilitazione che fino a quel momento erano stati fatti fallire, secondo quanto egli sosteneva «perché il sistema politico del Paese non era in grado di esprimere la vera voce del popolo, perché i libici non controllavano direttamente le proprie risorse economiche e per l’arcaicità delle strutture sociali presenti». Idee molto chiare, come si vede, e che insieme all’insistenza sull’egualitarismo e sull’assenza di gerarchia, tendono a riflettere anche un ethos di tipo tribale.
Consapevole del fatto che un paese con le dimensioni territoriali e demografiche della Libia poteva garantire stabilmente la propria libertà dal dominio straniero solamente integrandosi in una più vasta unità geopolitica, Gheddafi ha perseguito con ammirevole perseveranza il disegno dell'unificazione politica con altri paesi che condividevano con la Libia l'identità araba e islamica. Cercò di realizzare l’unione – rispettivamente – con Egitto e Siria (1972), Tunisia (1974) e Marocco (1984), ma questi tentativi si risolsero in altrettanti fallimenti. Nel 1989, un trattato siglato da Libia, Tunisia, Algeria, Marocco e Mauritania diede vita all'Unione del Maghreb; ma dopo qualche anno anche questo progetto finì in un vicolo cieco. Nel 1973 il Raʾīs trascinò il paese in un’avventura militare in Ciad che durò più di vent’anni.
A spingere Gheddafi nell’impresa ciadiana furono più fattori. Innanzitutto il tentativo statunitense di destabilizzare il regime di Tripoli creandogli difficoltà politico-militari, mentre quest’ultimo era impegnato a sostenere forze e movimenti ritenuti anti-imperialistici. In più dietro l’ambizioso disegno di unificare politicamente ed ideologicamente il Sahara si stagliava il problema dell’acqua. Ma a fronte dell’iniziativa militare esistevano tradizionali rivendicazioni e referenti storici. Al riguardo, la dirigenza libica faceva riferimento agli accordi Laval-Mussolini coi quali la Francia aveva ceduto all’Italia i contrafforti settentrionali del Tibesti. Al momento Parigi restò in attesa degli sviluppi della situazione, pressata com’era tra le esigenze petrolifere e la tradizionale politica interventistica. In sostanza, il Ciad rappresentava, per molti versi, l’epicentro della politica francese in un’aerea di confine fra l’Africa araba e l’Africa sub sahariana, via di comunicazione che metteva in contatto Parigi con le risorse minerarie poste più a sud nel continente. Dopo l’assassinio del Presidente François Tombalbaye e l’ascesa al potere del generale Félix Malloum la Libia non cessò di sostenere i movimenti di opposizione mentre il governo ciadiano cercava di internazionalizzare la questione della «striscia di Aouzou», occupata da truppe libiche dal 1973, portandola all’attenzione dell’OUA e dell’ONU. Soltanto l’intervento militare francese (1978) consentì a Malloum di respingere le forze di Goukouni Oueddei sostenuto dalla Libia. Gli sviluppi del conflitto debordavano ormai dall’ambito strettamente regionale. L’Egitto e il Sudan – in rotta di collisione con Tripoli – oltre ad altri Stati dell’area s’impegnarono a sostenere i movimenti antilibici. Ormai il tempo era maturo per l’intervento delle grandi potenze, a cominciare dalla Francia che non intendeva rinunciare alle proprie posizioni in Africa, né ad abdicare alla sua funzione di mediatrice continentale fra le grandi potenze, in linea con gli interessi strategico-commerciali che sorreggevano la sua politica maghrebina ed araba (Algeria, petrolio libico, ecc.). A sua volta l’interferenza statunitense mirava a mettere piede in un continente verso il quale la Casa Bianca aveva mostrato tradizionalmente scarso interesse. In questo modo Washington intendeva spezzare il monopolio politico-diplomatico francese sulla fascia sahariana e sub sahariana ed a puntellare la propria presenza in funzione antisovietica colpendo indirettamente il regime libico. Il ritiro francese dal Ciad (1980) lasciò via libera all’intervento libico culminato nell’annuncio della fusione fra i due paesi (1981), condotta dal vittorioso Gheddafi e dal tiepido assenso di Oueddei, presidente del governo transitorio di unità nazionale. La firma degli accordi di Kano comportò l’esilio per il presidente cristiano filo francese Malloum. Ma di lì a poco gli accordi stessi sarebbero divenuti carta straccia. La Libia non si limitò alle operazioni militari e concesse sostanziosi prestiti in petrodollari al ceto burocratico dirigente ed all’esercito ciadiani oltre a promettere la riapertura della Banca Centrale. Un simile munifico atteggiamento rispondeva all’esigenza libica di vedere riconosciuta l’annessione della «striscia di Aouzou», ricca di minerali, e trasformare il Ciad in un’eventuale testa di ponte pan sahariana, con proiezione islamica, verso Camerun e Nigeria. Intanto si fece più consistente l’intervento di Washington a sostegno della fazione antilibica di Hissène Habré che sferrato un attacco sulla capitale N’Djamena, sconfisse Oueddei (1981) prima di riprendere i negoziati con i libici che occupavano il Ciad settentrionale fino al quindicesimo parallelo. Viste le difficoltà nelle quali si dibatteva Habré sotto l’incalzante controffensiva libica, Parigi decise di inviare (1983) una forza d’interposizione che consentì al leader ciadiano di riorganizzare le proprie forze. Con l’operazione «Manta», affidata al generale Jean Poli, un veterano della guerra d’Algeria, vennero fatti affluire nel Ciad 3.500 soldati francesi, aerei Jaguar e Mirage, carri armati e batterie di missili antiaerei. L’anno successivo venne firmato un accordo franco-libico che prevedeva il ritiro simultaneo dei contingenti dei due paesi. Ma Tripoli, in reazione al continuo flusso di armamenti che Washington inviava ad Habré, riprese l’offensiva nel nord ciadiano in via di «libizzazione». Intanto scattò l’offensiva di Habré (1987) che inflisse pesanti perdite all’esercito libico, peraltro scosso da complotti, in uno dei quali restò implicato il governatore della Sirtica Hassan Ishqal, cugino di Gheddafi. A questo punto il conflitto mise a nudo non soltanto la debolezza militare libica ma soprattutto la demotivazione delle truppe di Tripoli. In seguito, auto criticamente, lo stesso Gheddafi riconobbe che il coinvolgimento libico nel contesto arabo e saheliano si era rivelato controproducente. Su questo sfondo maturò l’accordo Habré- Gheddafi (1989) che faceva della Libia il paese aggressore ed impegnava i due leaders a un patto di non-aggressione ed a risolvere la questione di Aouzou. Il bilancio della guerra ciadiana si rivelò, a più livelli, politicamente fallimentare per il regime libico. La guerra inferse un duro colpo alla strategia di Gheddafi compromettendo l’ipotesi di uno «Stato transahariano» capace di proiettare i popoli del Sahel fuori dalla povertà e dal sottosviluppo. La guerra, inoltre, ridiede fiato alle disunite e deboli opposizioni interne, incapaci di trasformare in arma politica la sconfitta militare del regime. Per giunta, la demotivazione dell’esercito e il cospicuo sforzo finanziario sostenuto con la guerra sottrassero alla Libia risorse umane e materiali che finirono per bloccarne lo sviluppo. A sua volta il Ciad restò esposto a continui ed imprevedibili colpi di scena ed irretito in un’instabilità di fondo che nel 1990 portò all’uccisione di Habré ed all’insediamento del filo libico Idris Déby – alla testa del Movimento patriottico di salute – impegnato a ripristinare la «pace civile». La transizione ciadiana e i migliorati rapporti con le capitali dell’area indussero Gheddafi a riprendere le ingerenze, stavolta in maniera morbida e senza dichiarazioni particolarmente clamorose. Intanto, la controversia sulla striscia di Aouzou venne risolta dalla decisione della Corte internazionale di giustizia dell’Aia che il 3 febbraio 1994 emise una sentenza che attribuiva al Ciad la piena sovranità sul territorio conteso.
Nel corso degli anni la rendita petrolifera permise a Gheddafi di finanziare diversi gruppi rivoluzionari e antimperialisti del Terzo Mondo. Il Raʾīs infatti fornì denaro ed armi al Frente de Libertaçao de Moçambique (FRELIMO) di Eduardo Mondlane e Samora Machel e al Partido Africano da Independência da Guiné e Cabo Verde (PAIGC) di Amilcar Cabral, movimenti di liberazione nazionale che lottavano per l’instaurazione del socialismo nei loro rispettivi paesi. La politica estera libica irritò non poco diverse cancellerie occidentali tanto che alla fine gli Stati Uniti decisero di reagire: nel 1986 bombardarono Tripoli e Bengasi. Il presunto coinvolgimento di Tripoli nell’attentato di Lockerbie del 21 dicembre 1988, portò l’ONU a decretare un embargo contro il paese che durerà fino al 1999. Il governo libico si sforzerà allora di giungere a una normalizzazione dei suoi rapporti con i paesi europei e con gli Stati Uniti, rinunciando alla fabbricazione di armi di distruzione di massa. Alla liberalizzazione economica intrapresa a partire dal 1988, non si accompagnò un cambiamento politico.
All’inizio del 2011 anche il regime di Gheddafi, come quello di Ben Ali e Mubārak, venne investito dal fenomeno delle «primavere arabe». Soltanto che, a differenza di quanto era accaduto in Tunisia e in Egitto, non si ebbe l’immediata caduta della dittatura, ma l’inizio di una sanguinosa guerra civile.
In Libia le prime manifestazioni di violenza si verificarono principalmente in Cirenaica, fra Bengasi e Tobruk, e nel giro di una settimana l’intera regione riusciva ad eliminare ogni presenza delle forze lealiste e a costituire un «Consiglio Nazionale di Transizione» (CNT), che subito si accampò diritti sul petrolio libico e sui fondi sovrani. Del resto la Cirenaica, dove è ancora forte l’influenza della Sanūsiyya, la confraternita politico-religiosa che ha espresso Muhammad Idris, il sovrano deposto da Gheddafi nel 1969, era stata una spina nel fianco del Raʾīs e non era nuova a movimenti di ribellione, sbaragliati con l’impiego dell’esercito e dell’aviazione.
L’entità del conflitto e la presunta necessità di proteggere i civili autorizzavano il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a promulgare la risoluzione n.1973, che accordava a una coalizione internazionale, capeggiata da Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna, di intervenire militarmente in Libia, con operazioni di no-fly zone.
[caption id="attachment_14245" align="aligncenter" width="1000"] 20090710 - L'AQUILA - POL - G8: G8:LEADER OSSERVERANNO MINUTO DI SILENZIO PER VITTIME SISMA. (da sin.) Il presidente del Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo, Kanayo F. Nwanze,
il presidente francese, Nicolas Sarkozy, presidente russo, Dmitry Medvedev, il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, il segretario generale dell' ONU, Ban Ki-Moon, il premier spagnolo José Luis Rodriguez Zapatero e il presidente dell'Unione Africana Muammar al-Gheddafi, nell'ultimo giorno di lavoro del G8, oggi 10 luglio 2009, prima di scoprire la targa che ricorda il terremoto, nella grande piazza della scuola della guardia di Finanza sede del vertice, che da oggi cambiera' nome: non piu' piazza d'Armi ma piazza 6 aprile, il giorno in cui il terremoto ha colpito. ANSA/ETTORE FERRARI/on[/caption] G8: i leader osservano un minuto di silenzio per le vittime del Sisma dell'Aquila. Da sinistra a destra: Silvio Berlusconi, il presidente francese, Nicolas Sarkozy, presidente russo, Dmitry Medvedev, il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, il segretario generale dell' ONU, Ban Ki-Moon e il presidente dell'Unione Africana Muammar al-Gheddafi, nell'ultimo giorno di lavoro del G8, il 10 luglio 2009, prima di scoprire la targa che ricorda il terremoto. Tra tutti i governi europei quello italiano si distinse per vigliaccheria e doppio-giochismo. Dopo aver sottoscritto appena tre anni prima a Bengasi un «trattato di amicizia e cooperazione» con la Libia, in cui si impegnava, fra le altre cose, a non usare né permettere l’uso del proprio territorio in qualsiasi atto ostile contro Tripoli, esso offrì l’utilizzo di ben sette basi militari oltre a partecipare alle ostilità con un gran numero di cacciabombardieri. Molto meglio sarebbe stato per l’Italia se si fosse defilata come ha fatto la Germania della Merkel. Oramai risulta chiaro che gli obiettivi di questa guerra non erano il ripristino della democrazia e dei diritti umani, ma una nuova spartizione delle ingenti risorse petrolifere (60 miliardi di barili di greggio e 1.500 di metri cubi di gas naturale) e l’acquisizione dei fondi sovrani libici, la cui immane consistenza ha consentito al Colonnello di operare investimenti in tutti i paesi del mondo, particolarmente in Africa.
Quei fondi nazionali sovrani, legati al concetto del dinaro d’oro di Gheddafi, avrebbero realizzato il vecchio sogno di un Africa indipendente dal controllo monetario coloniale, che fosse sterlina, euro o dollaro statunitense. Gheddafi, come capo dell’Unione africana, aveva annunciato quattro giorni prima dell’intervento militare contro la Libia un ambizioso piano per unificare il continente nero attraverso la creazione di una moneta unica per circa un miliardo di persone. Nel progetto era previsto di utilizzare il dinaro d’oro anche per i pagamenti delle risorse energetiche, come il petrolio e il gas naturale. Ciò avrebbe obbligato Stati Uniti, Gran Bretagna, Italia, Francia e molti altri partner commerciali a tener riserve di questa nuova moneta per le transazioni con i Paesi dell’Unione Africana. La proposta del Raʾīs di sostituire le varie monete locali africane con il dinaro d’oro era impossibile da accettare per l’Occidente. Che il petrolio sia denominato e pagato in dollari, infatti, è di vitale importanza per gli Stati Uniti e per il sistema di relazioni economico finanziarie edificato da Bretton Woods in poi, che in tale modo continua a mantenere il biglietto verde come la moneta internazionale di riferimento.
L’economia americana rischierebbe il collasso se il prezzo del greggio venisse denominato in altre valute, e il petrolio non fosse più pagato in dollari.
Il 20 ottobre, dopo due mesi di aspri combattimenti nella città di Sirte, Mu'ammar Gheddafi decise di abbandonare la città assediata dagli insorti per raggiungere il suo villaggio natale di Qaṣr Abū Hādī, ad una ventina di chilometri. Ormai lui e i suoi uomini erano privi di munizioni e da settimane si nutrivano soltanto con riso e pasta. Alle 7 del mattino, una trentina di veicoli abbandonava il Quartiere n.2, l’ultimo ridotto ancora nelle mani dei lealisti, e cercava di spezzare la morsa dell’assedio.
A questo punto Gheddafi commise un grave errore, quello di usare il suo cellulare di tipo satellitare. La comunicazione venne intercettata dagli aerei-spia e pochi minuti dopo un drone Predator, decollato da Sigonella, in Sicilia, attaccava il convoglio con numerosi missili Hellfire. Al fuoco del Predator si aggiunse quello di alcuni Mirage-2000 francesi, che sganciarono sui veicoli bombe Paveway da 500 libbre. Alle 8.30 metà del convoglio era distrutto, compreso il gippone di Gheddafi, che aveva alla guida il cugino e guardia del corpo Mansour Dhao. Dal veicolo il Colonnello e il cugino uscirono però vivi, anche se feriti. Youssef Bachir, comandante della brigata degli insorti «Ghiran», che aveva avuto la ventura di catturare Gheddafi, così lo descrive: «Era ferito alla tempia e al fianco e i suoi abiti erano intrisi di sangue».
Alle 9, dunque Gheddafi era ancora vivo, si reggeva sulle sue gambe. «Ma era talmente indebolito – precisa Bachir – che aveva difficoltà a parlare». Poi la situazione sfuggì di mano. I suoi uomini, che avevano già giustiziato 66 soldati del convoglio, circondarono il Raʾīs, lo strattonarono, lo ingiuriarono, gli tolsero la giacca a vento, la camicia e gli stivaletti, gli strapparono ciocche dei capelli. Questo linciaggio durò una manciata di minuti, nel corso dei quali un insorto lo sodomizzò con un bastone. Alla fine Gheddafi venne scaraventato sul pianale di un automezzo, mentre qualcuno gridava: «Tenetelo vivo, tenetelo vivo».
Secondo una prima versione dei fatti, Gheddafi veniva ucciso durante uno scontro fra gli insorti e i partigiani del Colonnello. Ma la verità era un’altra, e la raccontò l’ex primo ministro del CNT, Mahmoud Jibril. Egli precisò, infatti, che il Raʾīs era stato ucciso «per ordine di un’entità straniera, una nazione o un leader, perché non si voleva che i suoi segreti fossero rivelati». Nel corso dell’autopsia, eseguita a Misurata, vennero estratti due proiettili, uno cervello e l’altro dall’addome. Un’esecuzione in piena regola. Un «assassinio di Stato», come specificò Mahmoud Jibril.
La brutale uccisione di Gheddafi non ha posto fine solo al suo regime, ma anche alla Libia come Stato. Avamposto dello Stato Islamico nel Mediterraneo centrale, crocevia del traffico di esseri umani dall’Africa sub-sahariana verso l’Europa e terreno di scontro fra fazioni rivali, difficilmente essa tornerà a essere mai il paese che era prima del 2011.
 
Per approfondimenti:
_Dirk Vandewalle, Storia della Libia contemporanea, Roma, Salerno editrice, 2007;
_Paolo Sensini, Libia. Da colonia italiana a colonia globale, Milano, Jaca Book, 2017;
_Alessandro Aruffo, Muammar Gheddafi e la nuova Libia, Roma, Datanews, 2001;
_Alessandro Aruffo, Gheddafi. Storia di una dittatura rivoluzionaria, Roma, Castelvecchi Editore, 2011;
_Giorgio Rochat, Guerra italiane in Libia e in Etiopia. Studi militari, Treviso, Pagus, 1991
_Eric Salerno, Genocidio in Libia. Le atrocità nascoste dell’avventura coloniale (1911-1931), Roma, Manifestolibri, 2005;
_Gheddafi Templare di Allah. La rivoluzione libica nei discorsi di Mo'ammar El-Gheddafi. introduzione, traduzione e scelta dei testi di Claudio Mutti, Padova, Edizioni di Ar, 1975;
_Mu'ammar Gheddafi, Libro Verde, Roma, Circolo Proudhon Edizioni, 2015;
_Mu'ammar Gheddafi, Fuga all’inferno e altre storie, Roma, Manifestolibri, 2006;
_Mino Vignolo, Gheddafi: Islam, petrolio e utopia, Milano, Rizzoli, 1982;
_John K. Cooley, Muammar Gheddafi e la rivoluzione libica, Milano, Corno, 1983;
_Dino Frescobaldi, La riscossa del Profeta, Milano, Sperling & Kupfer, 1988;
_Bob Woodward, Veil: le guerre segrete della CIA, Milano, Sperling & Kupfer, 1978.
 
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di Gabriele Rèpaci 11/07/2017

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Nel 1947 gli inglesi decisero di rimettere il mandato della Palestina alla neonata ONU – succeduta alla Società delle Nazioni – e in quello stesso anno cominciarono le manovre diplomatiche per costituire una maggioranza favorevole alla costituzione di uno Stato ebraico in Palestina.
Il Segretario Generale dell’ONU incaricò della questione il Primo Comitato dell’Assemblea Generale che a sua volta decise, con 13 voti favorevoli, 11 contrari e 29 astenuti, di incaricare un Comitato Speciale di 11 membri (Australia, Canada, Cecoslovacchia, Guatemala, India, Iran, Jugoslavia, Olanda, Perù, Svezia, Uruguay) di studiare la questione e riferire all’Assemblea per decidere il destino della Palestina. Gli 11 commissari del Comitato Speciale (UNSCOP) che non avevano nessuna conoscenza della situazione, arrivarono il 14 giugno 1947.
[caption id="attachment_9053" align="aligncenter" width="1000"] Il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Trygve Lie e membri del Comitato speciale delle Nazioni Unite sulla Palestina (UNSCOP) si riuniscono al Lake Success il 9 gennaio 1948 sulla questione israelo-palestinese.[/caption]
Durante la loro permanenza nel paese, nel luglio 1947, due cacciatorpediniere britannici intercettarono la nave Exodus con 4.554 immigrati ebrei clandestini diretti in Palestina. I passeggeri, tranne 130, si rifiutarono di sbarcare in Francia e il governo britannico rimandò la nave in Germania. L’episodio della Exodus sollevò una grande emozione e portò l’opinione pubblica, nell’ignoranza della questione palestinese, a sposare la causa sionista e stabilì una correlazione tra il genocidio nazista degli ebrei europei e la creazione di uno Stato ebraico in Palestina.
[caption id="attachment_9054" align="aligncenter" width="1000"] Exodus 1947 (in ebraico Yetzi'at Eiropa Tashaz, cioè Exodus Europa 5707, dove 5707 è l'anno 1947 secondo il calendario ebraico) è il nome di una nave, anche conosciuta come President Warfield, che nel 1947 fu incaricata di trasportare gli ebrei che partivano illegalmente dall'Europa per raggiungere la biblica Terra di Israele, allora sotto il controllo britannico con l'antico nome romano di Palestina.[/caption]
Gli 11 commissari dell’UNSCOP, dopo aver ascoltato l’Esecutivo Sionista che presentava una proposta di spartizione della Palestina, partirono per un giro di informazione nei campi di raccolta dei profughi ebrei in Europa.
L’UNSCOP completò il suo rapporto il 31 agosto 1947 e presentò due relazioni. La relazione di maggioranza (Canada, Cecoslovacchia, Guatemala, Olanda, Perù, Svezia, Uruguay) presentò un piano di “spartizione con unione economica” che divideva la Palestina in uno Stato arabo, uno Stato Ebraico e una zona internazionale di Gerusalemme sotto la giurisdizione dell’ONU. La superficie dello Stato Arabo Palestinese sarebbe dovuta essere di 4.476 miglia quadrate, pari al 42,88% del totale, e quello dello Stato Ebraico di 5.893 miglia quadrate pari al 56,47%; 68 miglia quadrate (0,65%) avrebbero costituito la zona internazionale. Lo Stato Ebraico avrebbe avuto una popolazione di 498.000 ebrei e 497.000 palestinesi , quello arabo palestinese 725.000 palestinesi e 10.000 ebrei; Gerusalemme 105.000 palestinesi e 100.000 ebrei.
La relazione di minoranza (India, Iran, Jugoslavia) presentò un “piano per lo Stato federale” che prevedeva l’istituzione di uno Stato palestinese indipendente con Gerusalemme capitale che avrebbe avuto “un governo federale e due governi nazionali, uno ebraico e uno arabo”.
Per studiare il rapporto dell’UNSCOP, e per guadagnare tempo, si costituì un “Comitato ad hoc” che cominciò i suoi lavori il 25 settembre 1947 e a sua volta nominò, il 22 ottobre 1947, due “Sottocomitati”. Il primo “Sottocomitato” (Canada, Cecoslovacchia, Guatemala, Polonia, Sudafrica, Stati Uniti, Uruguay, Russia, Venezuela) raccomandò l’adozione del Piano di spartizione proposto dall’UNSCOP con qualche piccola modifica. Il secondo “Sottocomitato” (Afghanistan, Colombia, Egitto, Iraq, Libano, Pakistan, Arabia Saudita, Siria, Yemen) chiese invece la Costituzione dei Sottocomitati in modo che rappresentassero tendenze opposte e propose di chiedere il parere della Corte Internazionale di Giustizia prima di prendere una decisione, di risolvere la questione dei profughi ebrei lasciando loro la libertà di scegliere il luogo nel quale vivere e di formare un’assemblea costituente palestinese che garantisse i diritti umani e politici di tutti i cittadini e i diritti delle minoranze.
Il Comitato ad hoc si riunì, il 19 novembre 1947, per esaminare le relazioni dei due Sottocomitati e decise di adottare quella del primo. Infine l’Assemblea Generale si riunì il 24 novembre per discutere del rapporto del Comitato ad hoc che presentò il rapporto del Primo Sottocomitato che riprese quello del Comitato Speciale formato dal Primo Comitato dell’Assemblea Generale. Per raggiungere la maggioranza dei due terzi è stata necessaria una azione concentrata di lobby da parte dei sionisti americani, un’intensa attività dissuasiva statunitense e un energico intervento del rappresentante sovietico. Alcuni membri misero in evidenza la non titolarità dell’ONU di disporre del territorio palestinese. Altri denunciarono le minacce di ripercussioni economiche sui loro Paesi in caso contrario e le pressioni personali a cui sono stati sottoposti.
Il tentativo di dare una parvenza di legalità al costituendo Stato ebraico passò con 33 voti a favore, 13 contrari e 10 astensioni. Il 29 novembre l’Assemblea Generale dell’ONU adottò la risoluzione 181 in cui raccomandava la spartizione del territorio della Palestina secondo il piano proposto dall’UNSCOP.
Questo piano incontrò il favore dei sionisti, ma non dei palestinesi e l’impasse diede il via alle ostilità fra le comunità. Nel maggio 1948 i britannici si ritirarono e contemporaneamente i sionisti proclamarono lo Stato di Israele; questi eventi segnarono un’escalation del conflitto, caratterizzata dallo scontro tra Israele e Stati arabi. All’inizio del 1949, Israele, uscito vittorioso dalla guerra, firmò una serie di armistizi che estero le sue frontiere ben oltre quanto previsto dal piano ONU del 1947.
[caption id="attachment_9055" align="aligncenter" width="1000"] Da sinistra a destra: Territori riconosciuti a Israele dall'ONU e conquiste del 48-49; mappa della distribuzione della popolazione nel 1946; David Ben Gurion legge a Tel Aviv la proclamazione dello Stato di Israele il 14 maggio.[/caption]
Il risultato del conflitto fu dunque la fine della Palestina come entità territoriale a sé: tre quarti del territorio del mandato furono occupati da Israele e la Giordania annesse la Cisgiordania, Gerusalemme Est compresa; Gaza, popolata principalmente da profughi, restò sotto il controllo egiziano. Nei successivi venti-trent’anni il conflitto israelo-palestinese fu oscurato dal più vasto conflitto arabo-israeliano, combattuto tra Israele e la coalizione di Stati guidata dall’Egitto, dove nel 1952 gli Ufficiali Liberi (al-Ḍubbāt al-Aḥrār) avevano deposto re Fārūq instaurando la Repubblica. Per i palestinesi il 1948 fu l’anno della Nakba – letteralmente “disastro” o “catastrofe” – una sconfitta che andò ben oltre la disfatta militare. Circa 700-750.000 profughi, la gran parte dei circa 1.300.000 palestinesi allora residenti in Palestina, furono costretti ad abbandonare le aree passate sotto il controllo di Israele; alcune stime hanno portato tuttavia il totale dei profughi a circa 900.000.
L’esodo del 1948-49 e le sue motivazioni hanno costituito per mezzo secolo uno dei maggiori motivi di frizione e di polemica del contenzioso arabo israeliano. Per decenni infatti le fonti israeliane e filo-israeliane, anche quella più in buona fede, hanno cercato di eludere il problema della responsabilità dello Stato ebraico sostenendo che l’esodo era stato prevalentemente, se non interamente, volontario o dettato comunque dagli incitamenti dei governi e comandi arabi, che esortavano i palestinesi a lasciar liberi i villaggi per le operazioni degli eserciti in campo, che li avrebbero comunque “riportati a casa” in breve tempo. Questa tesi è passata per lungo tempo nella percezione dei mass media e dell’opinione pubblica occidentali, puntualmente contestata dalle fonti palestinesi e dagli analisti. In anni recenti sono venute anche le opere dei cosiddetti “nuovi storici” di Israele, studiosi come Benny Morris e Ilan Pappé, i quali hanno riconosciuto e documentato la responsabilità dei sionisti in questo campo. A titolo d’esempio, proprio lo storico Benny Morris – analizzando un rapporto dei servizi di intelligence israeliani dell’epoca – ha scritto che il 55% dell’esodo va ascritto direttamente o indirettamente alle operazioni militari delle forze regolari ebraiche, un altro 15% agli attacchi dell’Irgun Zvai Leumi e della Banda Stern, un 2% all’opera di “disinformazione” ebraica e un 2% a precisi ed espliciti ordini di espulsione, in totale quindi il 74%; solo il 5% fu dovuto a ordini o appelli dei comandi e delle autorità arabe, mentre un buon 10% va ascritto a quello che Morris ha definito “la paura generale” di attacchi ebraici o di rappresaglie per attacchi arabi contro le vicine località controllate da forze ebraiche.
Questa paura è stata sistematicamente suscitata e alimentata proprio dalle azioni delle forze ebraiche, spesso con una obiettiva convergenza fra unità regolari e gruppi terroristici. Esemplare da questo punto di vista l’azione contro il villaggio di Deir Yassin alle porte di Gerusalemme, condotta il 9 aprile 1948 dall’Irgun Zvai Leumi con il concorso della Banda Stern e la acquiescenza del comando locale della Haganah; un azione che è passata alla storia per la sua crudeltà e perché, ancora prima della proclamazione dello Stato d’Israele, ebbe un ruolo determinante nel dare avvio all’esodo palestinese e nel determinare quella “paura generale” di cui parla Morris.
All’alba di quel 9 aprile due unità dell’Irgun e della Banda Stern attaccarono il villaggio, che faceva parte del territorio assegnato dall’ONU alla Zona internazionale di Gerusalemme; dopo aver facilmente neutralizzato un piccolo nucleo di resistenza locale, gli attaccanti – riferì l’ufficiale della riserva e storico militare Meir Pa’il sul giornale Yedioth Ahronoth del 4 aprile 1972 - «cominciarono a rastrellare le case. Tiravano su tutto ciò che vedevano, donne e bambini compresi. I comandanti non provarono a fermare il massacro». Alla fine i morti furono 254, in maggioranza appunto donne e bambini. L’impatto della strage sulla popolazione palestinese fu enorme; nei mesi successivi, all’arrivo delle forze sioniste il grido: «Deir Yassin, Deir Yassin», spesso rilanciato con i megafoni degli aggressori, era sufficiente a provocare vere e proprie ondate di panico e fughe di massa.
[caption id="attachment_9056" align="aligncenter" width="1000"] Il massacro di Deir Yassin ebbe luogo il 9 aprile 1948, quando circa 120 combattenti sionisti appartenenti all'Irgun e alla Lehi (comunemente nota come "banda Stern") attaccarono il villaggio palestinese di Deir Yassin (Dayr Yāsīn, in arabo traslitterato), vicino Gerusalemme, che contava allora circa 600 abitanti.[/caption]
Ma se Deir Yassin fu l’episodio più tristemente noto, assurto a simbolo del martirio e della resistenza palestinese, non fu affatto l’unico. Ci fu ad esempio il massacro di al-Dawayima presso Hebron, nel giugno 1948 con l’uccisione – secondo il già citato professor Meir Pa’il – di almeno 50 civili, mentre fonti locali palestinesi parlano di almeno 200, e quella di Safsaf, presso Safed, il 29 ottobre 1948, dove alcune decine di uomini furono uccisi dopo essere stati catturati mentre le donne furono indotte a lasciare il villaggio. Casi emblematici furono poi quelli di Haifa e di Ramle e Lod, non semplici villaggi ma città importanti.
Ad Haifa l’attacco contro la città, condotto da forze ebraiche molto superiori agli arabi che la difendevano, fu preceduto da trasmissioni in cui si diceva: «È giunto il giorno del giudizio, oggi è tale giorno (…). In nome di Dio allontanate dai quartieri arabi le donne e i bambini». Alla mezzanotte del 22 aprile 1948 cominciò il bombardamento della città araba con i mortai mentre dalle sovrastanti pendici del Monte Carmelo venivano fatti rotolare bidoni di olio infuocato e gli altoparlanti continuavano a trasmettere avvertimenti e minacce. Migliaia di palestinesi presero così la fuga, ammassandosi nel porto, nel quartiere tedesco (controllato dagli inglesi) e stipandosi su autobus e barche che si allontanavano dalla città. A Lod (Lydda) e Ramle la popolazione fu terrorizzata con bombardamenti aerei e di artiglieria; poi, al momento dell’ingresso in città l’11 luglio furono compiute veloci scorribande intimidatorie nelle strade, accompagnate dal lancio di volantini; la mattina dopo a Lod, in risposta a sporadici tiri di cecchini, si scatenò una vera e propria caccia all’arabo con sparatorie indiscriminate che provocarono la morte di almeno 250, o forse addirittura 400, abitanti arabi. Subito dopo, nel pomeriggio del 12 luglio, iniziò l’espulsione sistematica della popolazione. Raccontò Yitzhak Rabin nelle sue memorie (pubblicate negli Stati Uniti nel 1979) che Ben Gurion seguiva le operazioni dal Quartier generale e alla domanda su cosa si dovesse fare con la popolazione araba «fece un gesto energico e conclusivo con la mano e disse: “Espellerli!”».
Così fu determinata, in tante località della Palestina, la sorte della popolazione araba. Dispersi nei campi di raccolta dei paesi confinanti, per i primi tre lustri i profughi vissero sotto il peso della Nakba, tra scoramento e frustrazione, ma illudendosi ancora di poter contare su una rivincita degli Stati arabi. Poi a metà degli anni sessanta sarebbe venuto il tempo della maturazione e della sofferta coscienza di dover contare solo sulle proprie forze e su una autonoma volontà di riscatto.
Mentre gli altri palestinesi erano rinchiusi nei campi profughi, diventavano cittadini in Giordania, restavano non cittadini nella Striscia di Gaza, i 160.000 palestinesi rimasti nel neonato Stato ebraico furono sottoposti a governo militare nel 1948. Questo regime sarebbe durato per diciotto anni e la memoria di questo periodo oscuro ha avuto un ruolo importante nella formazione dell’identità dei palestinesi che oggi vivono in Israele; portando tra l’altro a un punto di rottura le relazioni tra minoranza e maggioranza. I capi della comunità ebraica si mostrarono impreparati ad affrontare la situazione binazionale creatasi nella Palestina dopo la fine del Mandato. Erano infatti intenzionati a creare uno Stato puramente ebraico. Pur avendo accolto favorevolmente la risoluzione del 1947 sulla partizione, che comportava la creazione di uno Stato ebraico con una popolazione costituita all’incirca dallo stesso numero di ebrei e palestinesi, non si può escludere che già nel 1947, fossero convinti che la guerra e i loro piani di espulsione avrebbero pressoché azzerato la presenza palestinese. In ogni caso, a fronte di un ampio dibattito relativo a tutti gli altri aspetti della vita politica, si constata l’assenza, alla vigilia della fondazione dello Stato di Israele, di un dibattito sistematico sullo status dei palestinesi residenti in Israele.
La legalità del governo militare imposto alla minoranza palestinese nell’ottobre 1948 trovava un fondamento nei cosiddetti “regolamenti di emergenza” emanati dai britannici, nel 1945, contro le organizzazioni clandestine ebraiche.
Questi regolamenti, che conferivano ai governatori militari un potere notevole sulla popolazione sottoposta alla loro giurisdizione, diventarono uno strumento pericoloso nelle mani di governatori militari spietati, quando non sadici, tratti in genere dalle unità non combattenti e in età di pensionamento. Il loro comportamento crudele si concretizzò - in maggioranza - in angherie nei confronti della popolazione con una serie di abusi non molto dissimili da quelli cui sono in genere sottoposte le reclute. Ma il governo militare israeliano ebbe anche altri aspetti. Il suo carattere militare consentiva di perseguire la politica di confisca delle terre nel nome della “sicurezza” e "dell’interesse pubblico”.
Gli attivisti politici anche solo vagamente sospettati di aderire al nazionalismo palestinese erano tranquillamente espulsi o incarcerati.
A seguito della catastrofe del 1948, il popolo palestinese – frustrato, diviso e in larga parte disperso nei campi profughi – si ritrovò privo sia di una leadership reale che di organizzazione autonome. Il tentativo del muftì di Gerusalemme Amīn al-Ḥusaynī di formare a Gaza un sedicente “governo di tutta la Palestina” si dissolse nel nulla. La bandiera della “liberazione della Palestina” veniva agitata dai regimi arabi, e soprattutto da quelli nazional-rivoluzionari, da un lato come strumento della loro politica estera, dall’altro per tacitare le proprie masse popolari che vedevano la “sopraffazione sionista” come un affronto all’intera nazione araba.
Anche le azioni di guerriglia che periodicamente si verificavano nella “Palestina occupata” (come veniva definito lo Stato di Israele), quando non erano dovute a iniziative individuali o di singoli gruppi andavano inquadrate nella strategia dei paesi arabi confinanti e in primo luogo dell’Egitto di Nasser, cui si affiancherà la Siria all’inizio del 1963 con l’avvento al potere del Partito Baʿth; mentre la Giordania, prima con re Abdallah e poi con re Hussein, cercherà di fatto un modus vivendi con lo Stato ebraico, con il quale del resto aveva condiviso la spartizione del territorio palestinese.
Base principale delle unità di commandos era, negli anni cinquanta la Striscia di Gaza amministrata dall’Egitto; da lì avvenivano la maggior parte delle infiltrazioni. A questo stillicidio gli israeliani reagirono subito duramente, con spedizioni di rappresaglia al di là dei confini non solo egiziani; fra i più massicci e sanguinosi raid ricordiamo quello del 14 ottobre 1953 contro il villaggio giordano di Qibya, dove vennero uccisi 69 civili, e quello del 21 febbraio 1955 a Gaza, con l’uccisione di 38 soldati egiziani e il ferimento di altri 44, operazioni entrambe condotte da un reparto speciale denominato Unità 101 e comandato da un prominente ufficiale di nome Ariel Sharon.
L’attacco del febbraio 1955, fra l’altro, contribuì a convincere Nasser che con Israele non c’era alcuna possibilità di dialogo, mentre l’esistenza delle basi di commandos a Gaza fu tra i motivi che spinsero il governo israeliano a partecipare nell’ottobre 1956 alla sciagurata avventura coloniale franco-britannica di Suez.
Fu questo un primo momento di svolta nella vicenda della Palestina, cui allora il mondo guardava in modo occasionale e distratto. La lezione di Suez indusse Nasser ad attribuire maggior credito alla “carta palestinese”, sia come elemento di mobilitazione panaraba che come strumento di pressione per una possibile soluzione negoziata di una crisi che andava ormai al di là del contenzioso arabo-ebraico per investire gli equilibri e le egemonie a livello regionale; e dall’altro lato la seconda disfatta dopo quella del 1949, con il rapido e travolgente successo delle forze israeliane nel Sinai, convinse quei palestinesi che – con Yāsser ʿArafāt, allora presidente dell’Unione studentesca – avevano partecipato alla guerra nelle file dei “commandos” egiziani della necessità di imboccare la via di una autonoma organizzazione, senza “delegare” agli Stati arabi la causa della liberazione della Palestina. Fu comunque un processo di maturazione e organizzazione graduale, che richiese alcuni anni di gestazione.
[caption id="attachment_9059" align="aligncenter" width="1000"] Yāsser ʿArafāt (Il Cairo, 24 agosto 1929 – Clamart, 11 novembre 2004) è stato un politico palestinese, ed è stato un combattente, ed una figura di spicco del panorama politico mondiale[/caption]
Fu necessario dunque aspettare la prima metà degli anni Sessanta perché i termini “Palestina” e “identità palestinese” tornassero a far parte del quotidiano vocabolario politico. Il 28 maggio 1964 si riunì a Gerusalemme Est il “Primo congresso nazionale palestinese”, su iniziativa della Lega degli Stati Arabi e soprattutto di Nasser, con un richiamo nel nome, ma una cesura espressa in quel “primo”, rispetto ai “congressi palestinesi” degli anni venti.
L’assise alla quale parteciparono più di 400 delegati scelti fra i notabili residenti in Giordania e nei campi della diaspora, si concluse con costituzione formale dell’OLP – Organizzazione per la Liberazione della Palestina – e l’adozione di quella che veniva definita la Carta nazionale palestinese. Il documento affermava che la Palestina «è la patria del popolo arabo palestinese e parte integrante della nazione araba», proclamava «nulla e senza effetto» la Dichiarazione Balfour del 1917 e «totalmente illegale» la creazione dello Stato d’Israele e indicava l’obiettivo strategico nella «liberazione di tutta la Palestina»; ma non conteneva nessun riferimento ad un futuro Stato indipendente palestinese.
Venne nominato Presidente dell’OLP Ahmad al-Shuqayrī, notabile palestinese nativo di Acri (ʿAkkā), legato all’Egitto e all’Arabia Saudita. Nel settembre successivo il vertice arabo riunito al Cairo ratificò la nascita dell’OLP, definita “supporto della entità palestinese”, e decise la creazione di un Esercito per la Liberazione della Palestina, vera e propria armata regolare articolata in brigate da inquadrare negli eserciti arabi del fronte. Da tutti questi elementi risultava chiaramente come l’OLP fosse allora una organizzazione verticistica, creata e diretta dall’alto e concepita non come un autonomo organismo di lotta, ma come strumento della politica degli Stati arabi e quindi da essi strettamente condizionata; non c’era traccia dei concetti di specifica identità nazionale palestinese e di lotta popolare di liberazione, quali sono venuti maturando dopo il trauma del giugno 1967 e il conseguente impetuoso sviluppo della Resistenza.
Quei concetti tuttavia erano già attuali anche se relegati nell’ombra, dietro le quinte della politica ufficiale, dove un gruppo di intellettuali palestinesi erano all’opera per creare una organizzazione diversa, almeno allora alternativa all’OLP e fondata sulla convinzione che artefice della liberazione dovesse essere lo stesso popolo palestinese. Era il gruppo guidato da Yāsser ʿArafāt e del quale facevano parte uomini come Fārūq al-Qaddūmī, Khaled al-Hassan, Khalīl al-Wazīr e Ṣalāḥ Khalaf, tutti destinati a costituire in futuro il vertice politico-militare dell’OLP rinnovata.
Dopo la disfatta del 1956 nel Sinai, ʿArafāt si era trasferito dal Cairo in Kuwait dove lavorava come ingegnere, e lì aveva iniziato a stabilire il collegamento con altri intellettuali e professionisti della diaspora che condividevano la sua delusione e le sue idee. Nel 1959 il gruppo diede vita alla rivista “Our Palestine” (La nostra Palestina), che riuscì ad avere una discreta diffusione e che cominciava a battere il tasto di un autonomo “nazionalismo palestinese”, dibattendo anche i problemi organizzativi del costituendo movimento di liberazione.
Negli anni fra il 1961 e il 1963 la nuova organizzazione cominciò a prendere corpo, si definirono le strutture politiche e militari e fu scelto il nome: al-Fatḥ che derivava da FTḤ, acronimo inverso dell'espressione araba Ḥarakat al-Taḥrīr al-Filasṭīnī (Movimento di Liberazione Palestinese). Al-Fatḥ si presentò sulla scena pubblica il 1 gennaio 1965, pochi mesi dopo la creazione dell’OLP, con un comunicato militare diffuso a Beirut sulla prima azione contro “il nemico sionista”: un modesto attentato, riuscito solo in parte, contro una installazione idrica ma che sarà celebrato come l’inizio della lotta armata di liberazione.
Il movimento di ʿArafāt non aveva nessun rapporto con l’OLP, anzi era del tutto inviso all’organizzazione di al-Shuqayrī e ai regimi arabi per la sua autonomia e per la sua visione della lotta palestinese, che contestava fra l’altro anche il fatto che una parte del territorio nazionale fosse sotto dominio arabo (cioè giordano ed egiziano). Ne conseguì che al-Fatḥ fu resa di fatto illegale nei paesi arabi: ʿArafāt venne arrestato in Siria e in Libano, dove resterà in carcere diversi giorni, Abu Iyad (Ṣalāḥ Khalaf) verrà incarcerato in Egitto mentre Abu Jihad (Khalīl al-Wazīr) verrà arrestato in Siria e a Gaza; e il primo “martire” della guerriglia – secondo la terminologia abituale – cadrà ucciso non dal “nemico sionista” ma dai soldati giordani al suo rientro da un’azione oltre confine. Un inizio difficile, dunque; in ogni caso gli attori erano ormai pronti, anche se non potevano sapere che di lì a poco si sarebbe alzato il sipario su un dramma ben superiore alle loro aspettative.
Conclusa la Guerra di Suez, la tensione sulla frontiera tra Siria e Israele continuò a salire a partire dal 1957. Nel 1958 Israele iniziò i lavori per la deviazione delle acque del Giordano e cercò di estendere gradualmente il controllo su una fascia di territorio lungo la frontiera con la Siria. L’esercito israeliano cominciò a sparare sui cittadini siriani che andavano a lavorare nelle loro terre nelle immediate vicinanze della linea di cessate il fuoco stabilita con gli accordi di armistizio del 1949. Man mano che i contadini siriani arretravano gli israeliani si impossessavano delle loro terre. I tentativi di resistenza vennero stroncati con la politica di “difesa attiva” e “rappresaglia preventiva”.
Nella notte tra il 31 gennaio e il 1 febbraio 1960, le truppe israeliane attaccarono il villaggio di Tawafik e lo rasero al suolo. Nel marzo dello stesso anno altri raid israeliani in territorio siriano estesero il controllo militare israeliano sulle terre a est del lago di Tiberiade. Gli attacchi, che causarono decine di morti e feriti, proseguirono nel 1961 e 1962. L’occupazione delle zone smilitarizzate, il continuo ampliamento dei territori conquistati e i raid israeliani sempre più massicci provocarono ripetute condanne da parte del Consiglio di Sicurezza dell’ONU tra il 1963 e il 1967.
Nel 1965 le incursioni israeliane diventarono più frequenti in Siria e Cisgiordania, con ripetuti attacchi contro le città di Qalqīlya e Jenin. Nello stesso anno al-Fatḥ intraprese la lotta armata con sporadiche azioni contro installazioni militari israeliane. All’attività di guerriglia, Israele rispose bombardando i centri abitati in Siria e in Cisgiordania. L’esercito giordano rafforzò il controllo sui campi profughi e lungo le linee del cessate il fuoco. Nonostante gli arresti di massa degli attivisti palestinesi in Giordania, le truppe israeliane intensificarono le azioni di “rappresaglia”. Un’operazione militare israeliana su vasta scala colpì nel novembre del 1966 la regione di Hebron. Tra le decine di villaggi bombardati, particolarmente colpito fu quello di As Samu' dove vennero abbattute 125 case, la scuola e l’unica fabbrica. A partire dal maggio 1966 Israele riceverà massicce forniture di armi dagli Stati Uniti che inizialmente si aggiunsero all’armamento francese, per poi sostituirlo. La pressione israeliana sulla Siria si fece costante. Il 14 luglio 1966 l’aviazione israeliana bombardò massicciamente le istallazioni militari siriane. Il 15 luglio i caccia israeliani inseguirono quelli siriani in profondità nel loro territorio e li abbatterono. Motivo dichiarato degli scontri furono le infiltrazioni dei contadini e pastori siriani che Israele considerava “soldati camuffati”. Inoltre Israele accusava la Siria di dare rifugio ai guerriglieri palestinesi.
I bombardamenti israeliani si intensificarono nei primi mesi del 1967. Il governo siriano chiese a quello egiziano di intervenire in virtù di un accordo di difesa comune. Il governo egiziano cercò di fare pressione su Israele per limitare le azioni contro la Siria e il 22 maggio 1967, ed annunciò di voler chiudere lo stretto di Tiran, nelle acque territoriali egiziane, alla navigazione israeliana, aperto dopo la Guerra di Suez nel 1957.
Lo stretto non veniva comunque usato da navi israeliane da almeno due anni. Il 3 luglio il presidente americano Lyndon Johnson diede il via libera ad un attacco su vasta scala. Il 5 giugno i caccia israeliani distrussero a terra l’aviazione egiziana e il 7 giugno le truppe di Tel Aviv conquistarono il deserto del Sinai egiziano e raggiunsero il Canale di Suez che venne bloccato.
L’esercito egiziano, intrappolato nel Sinai venne annientato. Migliaia di prigionieri egiziani vennero uccisi e i loro corpi gettati in fosse comuni. La Siria annunciò di accettare il cessate il fuoco deliberato dal Consiglio di Sicurezza l’8 giugno. Nel pomeriggio venne bombardata Damasco. Il bombardamento della capitale siriana continuò il 9 giugno, mentre le truppe israeliane occuparono l’altopiano siriano del Golan e procedettero in direzione di Damasco. In sei giorni l’esercito di Tel Aviv conquistò quelle regioni palestinesi che erano sfuggite al suo controllo nel 1948.
Nei nuovi territori palestinesi conquistati si tentò di ripetere la grande pulizia etnica compiuta tra il 1947 e il 1949. Già il 7 giugno le truppe israeliane procedettero alla demolizione della città di Qalqīlya. Due terzi degli edifici vennero distrutti con cariche esplosive e bulldozer. Ai corrispondenti stranieri fu vietato avvicinarsi. Lo stesso mercoledì cominciò l’abbattimento di Emmaus, Yalo e Beit Nuba, tre villaggi nei dintorni di Latrun, famosa per l’omonimo monastero, vicino Gerusalemme. Gli abitanti dei tre villaggi rasi al suolo e gran parte degli abitanti di Qalqīlya vennero espulsi prima verso Ramallah poi oltre il Giordano. Il giorno dopo, giovedì 8 giugno, i bulldozer iniziarono la distruzione di Beit Sura. L’opera di distruzione durò fino al 27 giugno. Tutto il territorio venne dichiarato zona militare chiusa. Altre cittadine subirono la stessa sorte, lo stesso giorno 8 giugno: Beit Mersin e Beit Awa. La zona di Gerusalemme fu la più colpita e la stessa Città Santa non sfuggì all’opera di cancellazione del paesaggio storico palestinese. Parte del centro storico di Gerusalemme venne distrutto. Il 17 giugno alle quattro del mattino le truppe israeliane circondarono il popolare quartiere Haret il-Maghrebe (dei Marocchini) a ridosso della Spianata delle Moschee e ordinando agli abitanti di andarsene. I bulldozer cominciarono a demolire le case mezz’ora dopo.
Seimila abitanti vennero cacciati via. Oggi al posti dell’antico quartiere c’è una piazza in cui è vietato l’ingresso ai palestinesi. Lo stesso giorno, il 17 giugno 1967, vennero espulsi gli abitanti del quartiere Haret il-Yahud (dei Giudei).
Anche in altre zone l’esercito conquistatore procedette alla distruzione dei centri abitati e all’espulsione degli abitanti. Alcuni paesi nella regione di Hebron vennero evacuati e il villaggio di Sufir subì distruzioni. Il 13 giugno 1967 il generale Herzog, comandante militare della Cisgiordania appena occupata, informò la stampa che l’esercito israeliano aveva organizzato “un servizio autobus per trasportare gli arabi in Transgiordania”.
Se da una parte questo era vero, dall’altro era vero anche che l’aviazione israeliana continuò a bombardare le colonne dei profughi con il napalm.
La distruzione dei centri abitati, anche con bombardamenti al napalm, proseguì a guerra finita per tutto il 1967, ma già entro la fine di giugno la nuova versione della pulizia etnica aveva prodotto centinaia di migliaia di nuovi profughi.
In un mese le truppe israeliane avevano considerevolmente diminuito il numero degli abitanti della Cisgiordania. Anche la Striscia di Gaza fu teatro di espulsioni di massa. Decine di migliaia di abitanti, già profughi del 1948, vennero scortati fino al Canale di Suez. Stessa sorte toccò agli abitanti della regione siriana occupata. I centri abitati furono quasi tutti distrutti e gli abitanti espulsi. Poche migliaia della minoranza drusa siriana del Golan verranno risparmiate.
I profughi siriani furono di 117.000. I nuovi profughi palestinesi, cacciati al di là dei confini della Palestina mandataria furono, secondo lo storico Nur Masalha, circa 320.000. Una cifra destinata a crescere per la metodica pressione israeliana ad allontanare la popolazione.
La Guerra dei sei giorni mise in evidenza la fragilità degli Stati arabi e l’incapacità dei governi nel difendere i propri paesi. La perdita di prestigio dei regimi nazionalisti di ispirazione panaraba si rifletté sull’OLP ma nel frattempo accelerò, presso i palestinesi, la crescita di un movimento di protesta che venne assunto dai nuovi movimenti di guerriglia. Il fenomeno assunse dimensioni di massa soprattutto in Giordania, dove ai palestinesi rifugiati sin dal 1948, se ne aggiunsero altre centinaia di migliaia espulsi dalla Cisgiordania occupata dagli israeliani. La crisi dell’OLP emerse nel dicembre 1967 con le dimissioni di Ahmad al-Shuqayrī a cui succedette Yahya Hammuda, il comandante dell’armata dell’Organizzazione. Alla IV sessione del CNP (Consiglio Nazionale Palestinese) riunitosi al Cairo nel luglio 1968 parteciparono per la prima volta come membri effettivi, esponenti dei gruppi di guerriglia (al-Fatḥ, As-Sa'iqa, FPLP). Nel febbraio 1969 (V sessione) venne eletto a presidente del Comitato Esecutivo dell’Organizzazione Yāsser ʿArafāt capo di al-Fatḥ, il gruppo maggioritario che impresse all’OLP un radicale cambiamento rendendola più autonoma e trasformandola in una “cornice” delle formazioni combattenti. Venne inoltre rivista la Carta Costituzionale approvata nel 1964.
[caption id="attachment_9061" align="aligncenter" width="1000"] La carta ci mostra dapprima la situazione nel 1967 che vedeva Israele raggiungere la sua massima espansione attraverso le offensive del Sinai, della Cisgiordania e del Golan. Nella seconda parte viene illustrata la sistemazione prevista dal piano Allon che prevedeva la restituzione dei territori occupati ad eccezione di Gerusalemme Est e di alcune zone strategiche. La terza parte evidenzia la restituzione della penisola del Sinai all’Egitto da parte israeliana nell’ambito dell’accordo di pace tra i due paesi. Estratto dalla rivista geopolitica di Limes (Le carte a colori di Limes 5/07 La Palestina impossibile).[/caption] Tra il 1969 e il 1970 la guerriglia si trovava al suo culmine. Dalle basi in Giordania e in Libano i fida’iyyn (combattenti) compirono incursioni in Palestina scontrandosi con l’esercito d’occupazione. L’aviazione israeliana bombardò incessantemente il Libano e la Giordania spingendo i governi dei due paesi a cercare di limitare le attività della resistenza. Gli scontri con gli eserciti libanese e giordano aumentarono. Ma l’esistenza in Libano di un sistema multi-partitico, di partiti democratici e organizzazioni di massa spinse il governo a firmare nel 1969 un accordo con la guerriglia (detto Accordo del Cairo) col quale venne legalizzata l’attività politica e armata palestinese.
L’attività di al-Fatḥ e FPLP, i due gruppi armati più consistenti, minacciava tutto l’equilibrio regionale che aveva al centro la stabilità della Giordania da cui dipendeva la supremazia israeliana.
In Giordania il movimento della guerriglia giunse nel 1970 ad uno scontro con il regime monarchico. La scintilla venne accesa dal triplice dirottamento di aerei civili effettuato da guerriglieri del FPLP. L’esercito bombardò e poi occupò le città e i campi profughi causando decine di migliaia di vittime in quello che sarà poi ricordato come Settembre nero. Con la mediazione di Nasser, venne firmato un accordo al Cairo fra ʿArafāt e re Hussein, il base al quale cessarono i combattimenti e i palestinesi armati si ritirarono dai centri abitati e si radunarono nella valle del Giordano. Nonostante l’accordo la repressione continuò e nel luglio del 1971 l’esercito giordano occupò definitivamente le basi dei fida’iyyn, ormai isolati e lontani dai centri abitati. I dirigenti della guerriglia si trasferirono in Libano dove negli anni Settanta concentrarono la loro attività politica e militare.
In Libano, oltre che con l’intervento israeliano quasi quotidiano nel sud del paese, l’OLP dovrà presto misurarsi con le milizie della destra libanese. Il Partito Falangista Libanese (al-Katā'eb al-Lubnāniyya) guidato da Pierre Gemayel, il Partito Nazionale Liberale (Numūr al-aḥrār) guidato da Camille Chamoun e il Movimento Marada (Tayyār Al-Marada) del Presidente della Repubblica Suleiman Frangieh con il suo quartier generale nella località settentrionale di Zghorta formarono milizie armate col proposito di disarmare i palestinesi. Anche la sinistra libanese guidata dal leader druso Kamal Jumblatt, solidale con i palestinesi, si armò. La «Sarajevo» della guerra civile libanese fu un incidente verificatosi a Ain Rummaneh, un quartiere cristiano di Beirut, il 13 aprile del 1975. Alcuni sconosciuti aprirono il fuoco durante una funzione religiosa a cui stava assistendo il leader delle Falangi, Pierre Gemayel, uccidendo la sua guardia del corpo ed altri due uomini. I miliziani maroniti, come rappresaglia, attaccarono un autobus palestinese di passaggio, massacrando 28 passeggeri, per la maggior parte fida’iyyn palestinesi di ritorno da una parata militare. Rappresaglia dopo rappresaglia la violenza si allargò a tutto il paese per lasciare sul terreno, soltanto nel primo anno e mezzo del conflitto, più di 30.000 morti, 200.000 feriti e 600.000 rifugiati.
La prima fase del conflitto, segnata da stragi di popolazioni inermi (la più atroce fu quella degli abitanti del campo profughi di Tel al-Zaʿtar il 12 agosto 1976) si concluse dopo l’intervento siriano nel 1976, lasciando il paese diviso in zone controllate da milizie armate antagoniste che ad intervalli più o meno lunghi ripresero le ostilità.
Con il perdurare di una situazione di conflittualità permanente e con la scomparsa delle strutture dello Stato, i partiti cedettero il terreno dell’azione politica alle milizie armate che mano a mano diventarono sempre più mono-confessionali. Lo scontro assunse una dimensione confessionale e la lotta fra le classi sociali sembrava passare in secondo piano mentre lo Stato israeliano continuava a bombardare il paese. Gli accordi di Camp David fra Egitto e Israele, firmati il 17 settembre 1978, neutralizzarono l’esercito egiziano e permisero all’esercito israeliano di intensificare le sue attività belliche sugli altri fronti. I raid aerei contro il Libano si susseguirono sempre più intensi. Il 12 marzo 1978, le truppe israeliane invasero il Libano meridionale. In quattro giorni di ininterrotti bombardamenti l’aviazione israeliana uccise oltre 700 persone. Il 29 novembre le truppe israeliane tornarono a occupare il Libano meridionale. Il 26 aprile 1981 l’esercito israeliano si ritirò dal Sinai egiziano. Il 7 giugno Israele bombardò il reattore nucleare di Osiraq, alle porte di Baghdad. Il 17 luglio, un bombardamento aereo israeliano più violento del solito uccise 300 persone a Beirut.
In luglio si raggiunse un accordo di cessate il fuoco tra l’OLP e il governo israeliano. Per undici mesi il confine restò tranquillo, tranne che in due occasioni di bombardamenti israeliani a cui i gruppi armati palestinesi e della sinistra libanese non risposero. Il 14 dicembre 1981 il governo israeliano annetté “giuridicamente” il Golan.
Il 3 giugno del 1982 un gruppo di guerriglieri palestinesi sparò, appena fuori dall’Hotel Dorchester di Londra, all’ambasciatore israeliano Shlomo Argov, ferendolo gravemente. Nonostante gli attentatori facessero parte della fazione di Abū Niḍāl, nemica giurata dell’OLP e considerata da molti un gruppo semi-mercenario, il 4 giugno Israele decise di invadere il Libano per sradicare dal paese l’organizzazione guidata da Yāsser ʿArafāt.
In 8 giorni l’esercito israeliano giunse alle porte di Beirut. Dal 5 giugno in poi tutti i principali campi profughi nel sud del Libano vennero sottoposti a incessanti bombardamenti da terra, dal cielo e dal mare. L’intenzione di Tel Aviv sembrava quella di radere al suolo i campi rendendoli permanentemente inabitabili. Nell’opera di annientamento dei palestinesi, Israele poteva contare sul volenteroso incoraggiamento maronita.
Poco tempo dopo, di fronte alla Knesset, l’allora Primo ministro israeliano Menachem Begin difenderà i massicci attacchi contro la popolazione civile: «Da quando in qua la popolazione civile del Libano meridionale è diventata “per bene”?», chiese con sarcasmo. «Neanche per un istante ho dubitato che la popolazione civile meritasse quella punizione» affermerà Begin. I prigionieri palestinesi vennero costretti a restare per lunghissime giornate, legati e bendati, sotto il sole cocente, senza ne cibo né acqua, spesso picchiati e costretti a soddisfare i loro bisogni corporali lì dove si trovavano. Molti di loro vennero condotti in Israele per essere incarcerati, stipati in camion o autobus sotto i colpi e gli insulti delle guardie, quando non vennero intrappolati a gruppi in reti e con queste trasportati, così appesi, dagli elicotteri.
In 8 giorni l’esercito israeliano giunse alle porte di Beirut. A fine del mese si contarono 30.000 libanesi e palestinesi uccisi. Oltre la metà erano bambini di 13 anni. Dopo aver distrutto le città e i campi profughi del Libano meridionale, le truppe israeliane entrarono a Beirut Est controllata dalle milizie falangiste addestrate e armate da Tel Aviv e posero d’assedio Beirut Ovest. Dopo 77 giorni di intensi bombardamenti si raggiunse un accordo per l’evacuazione dei combattenti palestinesi dalla città sotto il controllo di una forza multinazionale che giunse a Beirut il 21 agosto. Il 1 settembre ebbe termine l’evacuazione dei combattenti palestinesi, il 13 si ritirò in anticipo sui tempi previsti la forza multinazionale che avrebbe dovuto garantire la protezione delle popolazioni civili dopo l’evacuazione dei combattenti palestinesi, il 14 venne ucciso Bashir Gemayel (capo delle milizie falangiste posto a presidente della repubblica il 23 agosto), che verrà sostituito dal fratello Amin.
[caption id="attachment_9064" align="aligncenter" width="1000"] Da sinistra a destra. Menachem Wolfovitch Begin (Brest-Litovsk, 16 agosto 1913 – Tel Aviv, 9 marzo 1992) è stato un politico israeliano, Primo ministro di Israele dal 1977 al 1983. Fu insignito del Premio Nobel per la Pace nel 1978. Shlomo Argov (dicembre 1929 - 23 febbraio 2003) è stato un diplomatico israeliano. Era l'ambasciatore israeliano nel Regno Unito, il cui tentato assassinio ha portato alla guerra del Libano del 1982. Bashir Gemayel (Beirut, 10 novembre 1947 – Beirut, 14 settembre 1982) è stato un politico libanese.[/caption]
L’assassinio di Bashir Gemayel ebbe come conseguenza immediata la tristemente nota carneficina di civili nei campi profughi di Sabra e Chatila, organizzata dal capo dei servizi segreti falangisti Elie Hobeika, con la complicità degli israeliani. A poche ore dalla morte di Bashir, il 15 settembre 1982, Sharon, rompendo l’accordo stipulato con il diplomatico statunitense Philip Habib, fece entrare il suo esercito a Beirut Ovest, occupandola completamente in 24 ore. Per giustificare un simile gesto l’allora ministro della difesa israeliano affermò che ʿArafāt aveva lasciato dietro di sé 2.000 combattenti palestinesi che si nascondevano nei campi di Sabra e Chatila. Alle 6.00 del pomeriggio del 16 settembre, Amir Drori, capo del Comando Settentrionale Israeliano, autorizzò le milizie di Hobeika ad entrare nei campi per cercare i guerriglieri. L’eccidio di civili inermi iniziò immediatamente e andò avanti per tutta la notte, per il giorno dopo e la notte successiva: la carneficina non si fermerà prima delle 8.00 del mattino del 18 settembre. Circa un migliaio tra uomini, donne e bambini vennero brutalmente massacrati. Per tutte le quaranta ore dello sterminio le truppe israeliane fecero cordone intorno ai campi, e durante la notte lanciarono bengala affinché nei campi così illuminati i falangisti potessero proseguire il loro “lavoro”.
Il 16 dicembre 1982, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite condannò il massacro, definendolo «un atto di genocidio» (risoluzione 37/123, sezione D). La definizione fu approvata con 123 voti favorevoli, 22 astenuti e nessun contrario.
Con la partenza dei combattenti palestinesi da Beirut e la loro dispersione in otto paesi arabi, l’OLP, il cui gruppo dirigente si era installato a Tunisi, perdette la sua ultima base territoriale ai confini con la Palestina. La decisione di lasciare Beirut e lo sgomento seguito ai massacri di Sabra e Chatila portarono a una scissione in seno ad al-Fatḥ. Le divergenze degenerarono spesso in scontri armati fra i miliziani di al-Fatḥ dislocati nella valle della Beqāʿ e quelli nel nord del Libano.
ʿArafāt tornò a Tripoli che venne assediata dalle forze dei dissidenti di al-Fatḥ e dalle truppe siriane. L’assedio terminò con la partenza di ʿArafāt e dei combattenti a lui fedeli a bordo di due navi dirette nello Yemen (dicembre 1983). Sulla via per lo Yemen, ʿArafāt si fermò in Egitto e incontrò il presidente egiziano Mubārak. L’incontro sollevò molte polemiche perché ruppe l’isolamento politico imposto all’Egitto dalla Lega degli Stati Arabi dopo gli accordi di pace separata con Israele. Le divergenze fra le principali componenti dell’OLP (al-Fatḥ, FPLP, FDLP) sorte dopo gli scontri di Tripoli e la rottura con la Siria, si acutizzarono e raggiunsero il loro culmine dopo la firma "dell’intesa giordano-palestinese” in base alla quale l’OLP avrebbe optato per una confederazione giordano-palestinese nell’eventualità di un ritiro israeliano dai territori palestinesi occupati nel 1967.
Alla XVII sessione del CNP ad Amman nel novembre 1984 parteciparono i delegati di al-Fatḥ ma non quelli del FPLP e del FDLP. La crisi accennava a istituzionalizzarsi nel marzo 1985 con la creazione del “Fronte di salvezza palestinese” a cui parteciparono i dissidenti di al-Fatḥ e i piccoli gruppi con sede a Damasco e a cui si aggiunse poi il FPLP. Anche il FDLP e il PC palestinese, che proprio in quegli anni cominciava a raccogliere consensi, erano contrari all’accordo con la Giordania ma restarono fuori dal “Fronte di salvezza”. La creazione del “Fronte di salvezza” non avrà conseguenze pratiche. L’attacco ai campi profughi palestinesi da parte delle milizie di Amal, che tentarono di estendere il loro controllo all’intero settore ovest di Beirut, e l’abrogazione dell’accordo giordano-palestinese da parte di re Hussein nel febbraio 1986 posero fine alla questione. Ma l’OLP dopo il 1982 aveva già cambiato fisionomia. Avendo cambiato obiettivi e perso la base territoriale delle proprie milizie, alla dirigenza dell’OLP restava solo la gestione del Fondo Nazionale Palestinese che era diventato fonte di sostentamento per migliaia di militanti che vivevano alla giornata in campi allestiti nei vari paesi arabi o in giro per il mondo. In esilio, lontana da qualsiasi comunità palestinese, la dirigenza dell’OLP che si identificava con quella di al-Fatḥ, verrà colta di sorpresa dallo scoppio di quella che passerà alla storia come la Prima Intifada.
Fin dai primi giorni dell’occupazione di Cisgiordania e Gaza (giugno 1967), la resistenza assunse delle modalità scaturite dall’esperienza della lotta di massa, fra le due guerre mondiali, contro l’occupazione inglese. Ma nella coscienza politica palestinese vi era un dato nuovo, emerso dopo la Nakba e si trattava della consapevolezza della minaccia all’esistenza stessa della società e dell’identità dei Territori Occupati. Tanto più che al momento dell’occupazione le truppe israeliane tentarono di ripetere la cacciata della popolazione dai territori.
[caption id="attachment_9067" align="aligncenter" width="1000"] La prima intifada (anche semplicemente "intifada", che in arabo significa "rivolta") fu una sollevazione palestinese di massa contro il dominio israeliano che iniziò nel campo profughi di Jabaliya nel 1987 e presto si estese attraverso Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme Est.[/caption]
Cominciò la creazione di insediamenti per coloni nei territori appena conquistati. A tale scopo vennero requisite le terre coltivate e sequestrate le fonti d’acqua. La colonizzazione israeliana era accompagnata da una repressione politica ed economica sistematica: i palestinesi assistettero ad una riedizione del processo di trasformazione della Palestina. Fu così che si sviluppò una forma di resistenza passiva che si riassunse nel termine sumud col quale si indicava la volontà di restare aggrappati alla propria terra a qualsiasi costo. Era soprattutto nel consolidarsi del sumud, divenuto con gli anni base di una nuova coscienza nazionale, nell’accumulo di esperienze nell’affrontare l’operato del sistema di occupazione, tendente ad espropriare i palestinesi nel loro paese e nell’intollerabilità delle condizioni di vita imposte, che andavano individuati i motivi principali dell’esplodere dell’Intifada o “insurrezione”. L’esperienza del sumud era ben diversa da quella della guerriglia che ha contraddistinto l’azione politica e militare dei palestinesi della diaspora.
La scintilla che fece esplodere il malcontento - a lungo covato nei confronti della nuova occupazione - fu un incidente automobilistico avvenuto l’8 dicembre 1987. Un veicolo militare israeliano investì nella Striscia di Gaza, una macchina ferma ad un distributore di benzina con a bordo quattro lavoratori palestinesi del campo profughi di Jabālyā. Quattro passeggeri rimasero uccisi, altri feriti.
Migliaia di palestinesi, nei giorni seguenti, scesero nelle strade per protestare. Durante i funerali delle vittime, nel campo di Jabālyā, dove 60.000 palestinesi vivevano in condizioni di totale povertà in un agglomerato che già aveva subito gli attacchi brutali dell’esercito israeliano durante le sommosse del 1971, la situazione si infiammò immediatamente, anche grazie al diffondersi di una voce secondo la quale l’incidente era stato, in realtà, un deliberato atto di vendetta per la morte di un israeliano, pugnalato due giorni prima a Gaza. Già la stessa notte una postazione dell’esercito di occupazione israeliano venne presa a sassate e un palestinese venne ucciso. Il giorno dopo cominciarono i primi scioperi e manifestazioni e l’esercito israeliano sparò sulla folla uccidendo alcuni manifestanti . La rivolta si allargò a macchia d’olio in tutti i Territori Occupati. I manifestanti affrontarono l’esercito israeliano armati di pietre, fionde e molotov: ebbe così inizio l’insurrezione popolare, conosciuta dal mondo con il nome arabo di Intifada.
Non passò molto tempo che la rivolta, scoppiata in modo spontaneo, venne inquadrata in un sistema segreto di organizzazione e coordinamento. Già dai primi anni ’80 esisteva nei Territori un’organizzazione denominata “struttura popolare”: questa era formata da una rete di “comitati popolari” (modellati sui “comitati nazionali” del 1936 eletti direttamente dagli abitanti del villaggio o del quartiere cittadino) che detenevano una grande libertà d’azione a livello locale e che si occupavano dei vari aspetti della vita civile palestinese colmando il vuoto lasciato dall’amministrazione israeliana, la quale si sarebbe dovuta occupare di fornire servizi e strutture alla popolazione civile dei Territori Occupati.
Alla fine del dicembre 1987, però venne creato, nella clandestinità, un “Comando Nazionale Unificato” (CNU) allo scopo di coordinare il movimento e i vari “comitati popolari” e dare indicazioni generali d’azione.
Inizialmente composto dall’avanguardia politica locale, in seguito il controllo del CNU (Comitato nazionale unificato), venne assunto dal comitato esecutivo dell’OLP (L'Organizzazione per la Liberazione della Palestina), attraverso i rappresentanti delle sue maggiori componenti. Dal gennaio 1988, il CNU emise dei “comunicati”, numerosi volantini e documenti contenenti istruzioni riguardanti le diverse attività di protesta che andavano dagli scioperi generali alle manifestazioni. Pamphlet, giornali e manuali dell’Intifada vennero pubblicati contenenti analisi di carattere generale dell’occupazione ma anche istruzioni precise su obiettivi e modalità della rivolta. Il primo comunicato clandestino del CNU venne distribuito nei Territori Occupati il 4 gennaio 1988 e proclamò uno sciopero generale. La struttura organizzativa era quindi una piramide il cui vertice era costituito dal “Comando Nazionale Unificato” e alla cui base si trovavano invece diverse organizzazioni e sindacati. Questi però ad un certo punto non si rivelarono efficaci alla conduzione operativa della rivolta (anche se il sindacato acquisì un ruolo sicuramente significativo nel regolare ed organizzare la forza lavoro) e vennero così formati dei “comitati di base” che mantennero un costante collegamento con il CNU. La composizione fluida di questo sistema coordinativo ostacolava i servizi segreti israeliani nel tenerli sotto controllo e nell’infiltrare agenti. Per la prima volta i palestinesi presero in mano il proprio destino senza consultare la direzione dell’OLP a Tunisi, che però non si fece attendere per molto: l’OLP, infatti, cercò di guadagnare un suo ruolo già nel gennaio 1988.
Il punto di forza era rappresentato dai “comitati popolari” che permisero a tutta la struttura organizzativa di penetrare in modo capillare, raggiungere e coinvolgere i palestinesi di tutte le comunità e villaggi. Per questo la rivolta riuscì a mantenere la sua efficacia e forza finché rimase in piedi la struttura decentrata dei “comitati” con un CNU che svolgeva un ruolo di moderatore, fino alla fine del 1988. Con il tempo, però, si verificò un declino dell’iniziativa locale, un rafforzamento delle spinte centralizzatrici e una crescita di autorità del CNU che, a metà della rivolta, era formato da giovani docenti universitari, studenti radicali ed ex politici. Questa trasformazione indebolì senza dubbio la rivolta poiché venne a diminuire il pieno coinvolgimento della base popolare, cuore e anima della Prima Intifada. Con l’Intifada nacque Hamas, acronimo di Ḥarakat al-Muqāwama al-Islāmiyya (Movimento Islamico di Resistenza), emanazione dell’organizzazione dei Fratelli Musulmani.
La leadership era formata da giovani universitari, per la maggior parte provenienti dai campi profughi, rappresentanti una nuova realtà nella società palestinese. Hamas cominciò ad emergere come possibile alternativa all’OLP agli inizi degli anni ’90, grazie al suo intenso lavoro sociale attraverso associazioni caritatevoli, istituti educativi laici e religiosi e una rete di moschee.
[caption id="attachment_9071" align="aligncenter" width="1000"] Nella foto a sinistra: Paesi (in verde scuro) che riconoscono lo Stato della Palestina Nella foto di destra: Manifestazione a favore di Ḥamās a Betlemme[/caption]
Le prime misure adottate dal governo israeliano per sedare la rivolta consistettero nell’espulsione di alcuni leader. I servizi segreti interni (Shin Bet) diedero la caccia ai dirigenti clandestini dell’Intifada, ma il movimento popolare riuscì a far emergere nuove figure. La repressione non fece altro che aumentare la partecipazione e l’intensità dell’Intifada. I palestinesi riuscirono con mezzi primitivi a mettere in crisi l’apparato militare israeliano: così Rabin, con l’inizio del 1988, mise in atto una politica ancora più dura e repressiva di quella già fino ad allora portata avanti. Iniziò allora un periodo cupo durante il quale l’esercito perdette ogni freno: gli abusi e gli eccessi di brutalità, che comunque non erano mancati nel passato, contro la popolazione civile si moltiplicarono. Già alla fine del 1990 si contarono 1.025 vittime, più di 37.000 feriti e quasi 40.000 arrestati. La risposta israeliana alle manifestazioni era caratterizzata da un’estrema durezza: da ambo le parti fu una lotta senza quartiere. Il 30 ottobre 1991, a Madrid, si riunì una “Conferenza Internazionale per la Pace in Medio Oriente”. La Conferenza, seguita alla Prima guerra statunitense contro l’Iraq, era stata proceduta da svariati atti preliminari.
Nel maggio 1989, Yāsser ʿArafāt, presidente dell’OLP e leader di al-Fatḥ aveva dichiarato “decaduta” la Carta dell’OLP (quella elaborata nel 1964 e rivista nel 1968). Negli ultimi mesi del 1989 e nei primi del 1990 l’emigrazione di ebrei sovietici verso Israele, conobbe un’accelerazione senza precedenti e nell’ottobre 1991 l’Unione Sovietica ristabilì le relazioni diplomatiche con Israele, interrotte nel 1967. Nel gennaio del 1991 erano stati assassinati a Tunisi tre capi di al-Fatḥ. Dei 15 fondatori del movimento rimanevano in vita Yāsser ʿArafāt e l’inoffensivo Fārūq al-Qaddūmī, formalmente capo del Dipartimento politico, ma nei fatti privo di qualsiasi potere contrattuale.
L’OLP non era formalmente ammessa alla Conferenza, ma partecipava ai lavori una folta delegazione di palestinesi emersi negli anni dell’Intifada come leader popolari ben accetti alla dirigenza dell’OLP a Tunisi. Dopo la fine dell’Unione Sovietica, i negoziati proseguirono a Washington, ma si interruppero dopo l’espulsione di 415 attivisti palestinesi decisa dal governo Rabin nel dicembre 1992. Il 13 luglio 1993 il capo dell’OLP, Yāsser ʿArafāt, firmò una lettera indirizzata al capo del governo israeliano, Yitzhak Rabin, in cui si impegnava a “rinunciare al terrorismo” e a “riconoscere lo Stato d’Israele”. Il 13 settembre 1993 L’OLP e Israele firmarono alla Casa Bianca una “Dichiarazione di principi”, in seguito nota come “Oslo I”, che avrebbe dovuto portare a un “autogoverno dei palestinesi”. Il 1994 si aprì all’insegna del proseguimento dei massacri dei palestinesi.
[caption id="attachment_9073" align="aligncenter" width="1000"] Gli accordi di Oslo, ufficialmente chiamati Dichiarazione dei Principi riguardanti progetti di auto-governo ad interim o Dichiarazione di Principi (DOP), sono una serie di accordi politici conclusi a Oslo (Norvegia) il 20 agosto 1993.[/caption]
Il 25 febbraio il colono Baruch Goldstein irruppe nella Moschea d’Abramo a Hebron e uccise 29 fedeli in preghiera. Proseguirono le trattative fra l’OLP e il governo Rabin. Pochi giorni dopo verranno firmati accordi riguardanti questioni economiche (Parigi, 29 febbraio 1994), sulle modalità di applicazione della “Dichiarazione dei principi” (Il Cairo, 4 maggio 1994), sull’estensione del regime dell’autonomia alla Cisgiordania (Washington, 28 settembre 1995), in seguito noto come “Oslo II”.
Nell’ottobre 1994 Israele e Giordania firmarono un trattato di pace. Il 4 novembre 1995 venne ucciso - da un colono estremista - il presidente israeliano Yitzhak Rabin.
Punto centrale degli accordi era la creazione di un’Autorità Nazionale Palestinese con corpi di polizia e servizi di informazione ai quali venne ben presto chiesto di partecipare alla repressione. Già nell’aprile 1995 la polizia palestinese, presente allora solo a Gaza, arrestò 170 presunti “simpatizzanti di Hamas”, mentre il governo diede una forte accelerazione alla politica degli “omicidi mirati” uccidendo Yaḥyā ʿAyyāsh, leader di Hamas. Il 20 gennaio 1996 si organizzarono le elezioni vinte da al-Fatḥ che ottenne l’80% dei seggi del “Consiglio Legislativo”. ʿArafāt venne eletto “Presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese”.
La creazione dell’ANP non fermò la continua erosione del territorio palestinese con la creazione di nuovi insediamenti per coloni israeliani. Il 27 settembre 1996 l’apertura di un tunnel sotto la collina della Spianata delle Moschee divenne motivo di una protesta popolare. La polizia israeliana sparò sui manifestanti e uccise 44 persone, mentre circa 700 rimasero ferite. Il 25 febbraio 1997 cominciarono i lavori di costruzione di un grande insediamento a Gerusalemme Est, in violazione degli stessi accordi di Oslo, mentre gli Stati Uniti posero il veto a una risoluzione di condanna del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Il 14 maggio 1998, in occasione del cinquantesimo anniversario della nascita dello Stato d’Israele, l’IDF sparò sui manifestanti palestinesi, ne uccise 9 e ne ferì 200. Il mese dopo il governo israeliano approvò un piano per l’ampliamento del territorio di Gerusalemme. In ottobre l’ANP firmò a Wye River un nuovo accordo in cui si impegnava a “reprimere i gruppi ostili alla pace”.
Il 28 settembre 2000, il capo del Likud, il generale Ariel Sharon, si recò sulla Spianata delle Moschee accompagnato da centinaia di poliziotti. Le manifestazioni di protesta che esplosero spontaneamente a Gerusalemme vennero represse secondo le solite modalità: la polizia sparò sui manifestanti, ne uccise 7 e ne ferì 250. La protesta popolare ben presto dilagò dando inizio a un nuovo periodo di forte mobilitazione popolare che verrà in seguito definito come Seconda Intifada o Intifada di al-Aqṣā. Ben presto i moti popolari cedettero il passo all’azione di gruppi armati. Infatti, in base agli accordi di Oslo erano stati introdotti nei Territori Occupati ingenti quantità di armi e di uomini armati provenienti dall’estero, all’evidente scopo di spostare sul terreno militare lo scontro tra il disarmato e pacifico movimento di resistenza popolare palestinese e l’esercito di occupazione israeliano.
La repressione dei moti popolari dell’ottobre 2000, proseguì con uso massiccio di armi pesanti. Nel febbraio 2001, il generale Sharon sostituì Ehud Barak alla guida del governo israeliano. I raid con elicotteri da guerra israeliani si intensificarono e alla fine di marzo l’esercito israeliano invase le zone assegnate alla polizia palestinese secondo gli accordi di Oslo. Da parte palestinese, continuarono gli attentati su tutto il territorio israeliano. 
In aprile le vittime civili palestinesi della Seconda Intifada salirono a 400. Il 18 maggio, un attentatore suicida palestinese si fece esplodere in un supermercato uccidendo cinque soldati israeliani. Pochi minuti dopo l’attentato i caccia F16 israeliani bombardarono le città di Ramallah, Nāblus e Ṭūlkarem causando decine di morti. In luglio vennero creati dieci nuovi insediamenti israeliani nei Territori Occupati.
Il 29 agosto venne ucciso a Ramallah Abū ʿAlī Muṣṭafā, leader del FPLP (Il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina), con due missili lanciati dall’esercito israeliano. Per tutta risposta il 17 ottobre un commando del FPLP uccise il ministro israeliano Rehavam Ze’evi. Il 18 l’aviazione israeliana bombardò le sei città affidate all’ANP nei Territori Occupati uccidendo 40 civili palestinesi. In dicembre i caccia F16 bombardarono l’ufficio del capo dell’ANP ʿArafāt a Gaza accusato di “non fare abbastanza per combattere il terrorismo”. ʿArafāt venne confinato nel suo ufficio a Ramallah sotto assedio israeliano. Il 16 gennaio 2002, la polizia dell’ANP arrestò il nuovo leader del FPLP Ahmad Saʿdāt.
Si alternarono attentati suicidi palestinesi a bombardamenti e omicidi mirati israeliani. In aprile l’esercito israeliano occupò di nuovo la città di Betlemme, Qalqīlya e Ṭūlkarem, precedentemente consegnate all’ANP.
Alla fine di marzo del 2002 Israele lanciò, colpendo aree residenziali, la più grande offensiva militare dai tempi dell’inizio dell’Occupazione della Cisgiordania nel 1967. Chiamata Operazione “Scudo difensivo”, l’invasione di città palestinesi raggiunse livelli incredibili di violenza nei confronti della popolazione civile, la distruzione di edifici e infrastrutture governative, l’incendio di numerosi negozi, centri e attività commerciali, danni incommensurabili al patrimonio culturale e distruzioni di infrastrutture civili. L’esercito israeliano tagliò acqua ed elettricità dalla maggior parte delle aree e impose pesanti coprifuoco sugli abitanti della città. Tutte le città palestinesi e il loro tessuto sociale ed economico hanno subito un livello incomparabile di violenza e distruzione, ma la parte più grave dell’Operazione “Scudo difensivo” è stata condotta nel campo profughi di Jenin, la cui invasione è stata etichettata da tutte le organizzazioni per la difesa dei diritti umani come “crimine di guerra”.
[caption id="attachment_9076" align="aligncenter" width="1000"] Frammento fotografico dell'operazione "scudo difensivo". L'operazione è stata una grande operazione militare condotta dalle Forze di difesa israeliane nel 2002, nel corso della Seconda intifada. È stata la più grande operazione militare nella Cisgiordania, dopo la guerra dei sei giorni del 1967. L'obiettivo dichiarato era quello di porre fine all'ondata di attacchi terroristici palestinesi. Il casus belli fu l'attentato suicida avvenuto il 27 marzo al Park Hotel a Netanya; un attentatore palestinese si fece esplodere, uccidendo 30 persone e ferendone altre 140.[/caption]
L’offensiva ha avuto inizio con l’attacco al quartier generale di Yāsser ʿArafāt a Ramallah. L’esercito entrò a Betlemme, Ṭūlkarem, Qalqīlya il 1 aprile e Jenin e Nāblus il 3 e 4 aprile. Queste aree vennero dichiarate “zone militari chiuse”, ogni via d’accesso venne bloccata e fu impedito il passaggio ai soccorsi umanitari e medici. Jenin venne assediata e l’accesso alla città impedito dal 3 al 18 aprile circa. Un fuoco sostenuto, l’assalto dei carri armati e missili sparati dagli elicotteri Apache diedero il via all’attacco contro il campo profughi. Poiché i blindati non poterono entrare nei vicoli, i bulldozer demolirono le case sui due lati delle strade. Con la morte di ʿArafāt, nel novembre 2004 vennero indette le elezioni presidenziali per la designazione del suo successore.
Il primo dei quattro round di elezioni municipali – che si svolsero tra il dicembre 2004 e il dicembre 2005 – inaugurò per i palestinesi un anno di appuntamenti con le urne. Nel gennaio 2005 Maḥmūd ʿAbbās fu eletto dopo una campagna elettorale che mostrò forti divisioni all’interno di al-Fatḥ: Marwān Barghūthī – che dall’aprile 2002 era detenuto nelle carceri israeliane – si presentò come candidato alternativo ad ʿAbbās. La candidatura di Barghūthī creò scompiglio nelle file di al-Fatḥ - diversi sondaggi prevedevano un testa a testa fra i due leader per la presidenza – ma venne ritirata un mese prima delle elezioni. Il ritiro di Barghūthī e il rifiuto di Hamas di presentare un proprio candidato consegnarono la vittoria ad ʿAbbās, che prevalse con il 62,5% dei voti. Il successo di ʿAbbās era però più fragile di quanto le percentuali potessero far supporre: ʿArafāt era stato eletto dieci anni prima con quasi il 90% dei voti in elezioni che avevano visto un affluenza molto più alta – il 71% dell’elettorato contro il 45% del 2005 – e la vittoria di ʿAbbās si doveva, in buona parte, alla trattativa dell’ultimo minuto con la “nuova guardia” del partito che aveva portato al ritiro di Barghūthī. La crisi di al-Fatḥ fu resa evidente dall’andamento delle consultazioni successive, dove gli islamisti presentarono le proprie liste. Hamas ottenne un sostanziale successo dapprima nelle elezioni locali: dal primo round – in cui l’organizzazione conquistò oltre il 35% dei voti, e 13 municipi su 28 – al quarto – quando essa si impose a Nāblus, Jenin e al-Bireh – il movimento islamista mostrò per la prima volta quanto fosse solido il consenso di cui godeva nei Territori, anche al di fuori delle proprie tradizionali roccaforti di Gaza e Hebron. Alla vigilia delle elezioni per il Consiglio la “minaccia” nei confronti del monopolio di al-Fatḥ aveva dunque assunto tratti molto concreti. Numerosi osservatori dubitavano tuttavia che Hamas sarebbe riuscita a replicare il buon risultato locale in un’elezione nazionale; immaginare una sconfitta di al-Fatḥ - centro della politica palestinese dalla fine degli anni Sessanta – per opera di quella che era principalmente considerata un’organizzazione terroristica sembrava impossibile. L’esito del voto del 25 gennaio 2006 fu dunque per molti versi un fulmine a ciel sereno e uno shock per la comunità internazionale: non solo Hamas vinse le elezioni, ma si impose in modo netto, aggiudicandosi quasi il 45% delle preferenze e 72 seggi su 132, mentre al-Fatḥ si fermò al 41% e 45 seggi. Hamas ottenne così la maggioranza assoluta dei seggi del Consiglio e la possibilità di formare un governo. Nel marzo 2006 Ismāʿīl Haniyeh – tra i fondatori di Hamas – divenne così il primo ministro dell’ANP.
Per il movimento islamista la scelta di partecipare alle elezioni rappresentò una svolta fondamentale: per la prima volta Hamas accettava di partecipare al sistema politico creato dagli accordi di Oslo, pur senza riconoscerli apertamente.
La dirigenza del movimento aveva già discusso questa possibilità nel 1996, ma allora era stata scelta la strada del boicottaggio. Nel 2005 il contesto era cambiato, per via della crisi di al-Fatḥ e del crollo catastrofico del processo di Oslo.
La Seconda Intifada era stata combattuta da tutti i gruppi armati palestinesi, ma aveva rafforzato Hamas rispetto ai suoi concorrenti politici. La delusione per l’esito di Oslo aveva premiato politicamente la credibilità di chi vi si era sempre opposto fin dall’inizio, e fin dall’inizio della rivolta di Hamas era stata sempre in prima linea nello scontro con Israele. Tracciando un parallelo col Libano degli Hezbollah, politicamente vicini all’organizzazione islamista, Hamas si trovava nelle condizioni migliori per rivendicare come un successo della resistenza il ritiro unilaterale israeliano da Gaza, avvenuto pochi mesi prima delle elezioni. Capace di coniugare un seguito di massa con l’efficienza delle proprie milizie, rinforzate da una schiera apparentemente inesauribile di aspiranti kamikaze, Hamas venne duramente colpita da Israele; tuttavia la repressione finì per favorire gli islamisti. Hamas non dipendeva per la sua attività dalla macchina dell’ANP, che fu quasi interamente distrutta nelle fasi più violente dell’Intifada; l’organizzazione fu inoltre in grado di mantenere un’unità logistica e una catena di comando incomparabilmente più solide rispetto a quelle di al-Fatḥ, preda invece di incontrollate spinte centrifughe. Le risorse della sua rete di assistenza, dopo il collasso dell’ANP, erano più che mai fondamentali per le impoverite famiglie palestinesi; inoltre i quadri del movimento si erano fatti negli anni una reputazione di onestà, abnegazione ed efficienza che contrastava con la gestione disinvolta di al-Fatḥ. Anche la politica israeliana di esecuzioni mirate produsse risultati controproducenti: gli omicidi di alti dirigenti di Hamas come lo shaykh Aḥmad Yāsīn e Abd al-Aziz al-Rantissi rafforzarono il consenso verso gli islamisti senza intaccarne la capacità politica e operativa. La morte di Yāsīn in particolare, assassinato da un razzo lanciato da un elicottero mentre stava uscendo da una moschea a Gaza, fece di lui un martire e decine di migliaia di persone parteciparono ai suoi funerali.
Hamas affrontava dunque la prospettiva di partecipare alle elezioni locali e nazionali da un nuovo punto di vista: la forza dell’organizzazione era cresciuta, il momento era politicamente propizio e il crollo del processo di pace offrì la possibilità di compiere un simile passo senza dover sottoscrivere la linea politica di al-Fatḥ. Gli osservatori internazionali, non furono tuttavia gli unici ad essere sorpresi dalla vittoria di Hamas: secondo Khaled Hroub la stessa leadership dell’organizzazione non si aspettava una vittoria così netta, ma puntava piuttosto a svolgere un ruolo di “cane da guardia” nei confronti di al-Fatḥ. Agendo dall’interno delle istituzioni dell’ANP, Hamas avrebbe potuto controllare al-Fatḥ cercando di far pesare nel dibattito le ragioni della resistenza. L’ingresso nell’ANP avrebbe inoltre potuto garantire qualche protezione rispetto alla repressione israeliana. Questo tentativo di sperimentare un cauto ingresso nel sistema andò però oltre le previsione della leadership e Hamas si trovò ad affrontare direttamente la responsabilità di governare l’ANP, in un momento di grande tensione. Il nuovo premier Ismāʿīl Haniyeh – dirigente dalle posizioni pragmatiche che aveva sostenuto l’idea della partecipazione di Hamas alle elezioni già nel 1996 – assunse la carica lanciando appelli di relativa moderazione e cercando di formare un governo di unità nazionale con le altre organizzazioni.
Tanto il programma elettorale che quello del governo, e altri documenti dello stesso periodo, rappresentavano un’evoluzione in senso pragmatico rispetto a precedenti occasioni; a partire dal 2002 l’organizzazione, assieme ad altri gruppi, aveva anche proposto inutilmente a Israele di discutere una tregua – in termini islamici una hudna – e ne aveva dichiarate diverse unilateralmente a partire dal 2003.
L’impressione di molti osservatori fu che Hamas volesse esplorare le possibilità offerte dal nuovo contesto avviando una trattativa indiretta – il cui onere formale sarebbe toccato al Presidente ʿAbbās – che si fosse concentrata sulla prospettiva di una tregua a tempo indefinito fondata sui termini della soluzione dei “due popoli due Stati”. Un tale meccanismo avrebbe consentito di trattare con Israele senza affrontare scogli formali quali il riconoscimento dello Stato ebraico o l’adesione agli accordi di Oslo.
Il contesto post-elettorale mise tanto al-Fatḥ quanto Hamas davanti a uno scenario, il cui nodo problematico riguardava la definizione della loro relazione reciproca e di quella con la società palestinese. Fin da subito, tuttavia, gli eventi iniziarono a precipitare, portando ben presto Hamas e al-Fatḥ in rotta di collisione. Israele dichiarò di non riconoscere il nuovo governo, rifiutandosi di effettuare i trasferimenti di fondi che erano dovuti all’ANP e arrestando decine di esponenti di Hamas, tra cui diversi parlamentari e ministri. La comunità internazionale, almeno per quanto riguarda Stati Uniti e Unione Europea, seguì la medesima linea, sospendendo i finanziamenti o cercando di aggirare il governo di Hamas. Il boicottaggio contribuì a esasperare la tensione fra Hamas e al-Fatḥ, creando un conflitto politico e istituzionale. La macchina amministrativa dell’ANP, e in particolare i servizi di sicurezza, era costituita da personale vicino ad al-Fatḥ, poco propenso a collaborare con il nuovo esecutivo. Mentre il governo era boicottato dai paesi arabi donatori, questi ultimi continuavano a finanziare la presidenza di ʿAbbās e a fornire addestramento ai servizi di sicurezza a lui vicini. Pochi mesi dopo le elezioni del gennaio 2006 al-Fatḥ rifiutò per la prima volta di prendere parte al governo di unità nazionale proposto da Hamas; nello stesso tempo la presidenza dell’ANP attuò una specie di golpe non violento nei confronti del governo appropriandosi di competenze nel campo legislativo e amministrativo. A partire dal quel momento vi fu uno stillicidio tra sostenitori delle due organizzazioni, che lasciarono sul campo diverse decine di morti prima della fine dell’anno. A dicembre, la minaccia di ʿAbbās di convocare nuove elezioni nel caso non si fosse trovato un accordo per il governo di unità nazionale innalzò ulteriormente la tensione, solo temporaneamente smorzata dalla costituzione di un fragile esecutivo d’intesa formato da rappresentanti di quasi tutte le liste elette al Consiglio. Gli scontri fra Hamas e al-Fatḥ ripresero a maggio e il conflitto esplose in modo definitivo il mese successivo. All’inizio di giugno quattro giorni di combattimenti a Gaza provocarono 500 feriti; la battaglia si concluse con la vittoria di Hamas. ʿAbbās reagì esautorando il governo di Haniyeh e nominando Salām Fayyāḍ primo ministro, mentre i militanti di al-Fatḥ iniziarono una serie di rappresaglie contro le strutture e i militanti di Hamas in Cisgiordania. Nonostante la situazione rimanesse tesa Hamas riuscì a consolidare il suo controllo sulla Striscia di Gaza. Gli eventi del giugno 2007 determinarono dunque una drammatica spaccatura istituzionale – tra la presidenza e il governo dell’ANP – e territoriale tra Gaza e Cisgiordania. Israele reagì isolando completamente Gaza; il blocco aggravò ulteriormente le condizioni della popolazione residente nonostante l’espansione del sistema dei tunnel verso l’Egitto, che consentiva di contrabbandare generi di prima necessità. Hamas si dimostrò tuttavia in grado di mantenere l’ordine, senza tuttavia rinunciare a colpire Israele con ripetuti lanci di razzi artigianali – i famosi Qassam – verso le località israeliane più vicine ai confini di Gaza.
[caption id="attachment_9077" align="aligncenter" width="1000"] Col termine striscia di Gaza (in arabo: قطاع غزة‎, Qiṭāʿ Ghazza; in ebraico: רצועת עזה, Retzu'at 'Azza) si indica un territorio palestinese confinante con Israele ed Egitto nei pressi della città di Gaza. Si tratta di una regione costiera di 360 km² di superficie popolata da circa 1.760.037 abitanti di etnia palestinese, di cui 1.240.082 rifugiati palestinesi.[/caption]
Alle 11.30 del mattino del 27 dicembre 2008 Israele scatenò una massiccia offensiva aerea contro la Striscia di Gaza, denominata Operazione “Piombo Fuso”. L’obiettivo ufficiale dichiarato dal governo israeliano era porre fine al lancio di razzi Qassam dalla Striscia di Gaza verso Israele. Ma, come ha commentato il giornalista israeliano Michel Warschawski in un suo articolo scritto nei giorni dell’attacco: «La carneficina di Gaza non è una reazione “sproporzionata” ai razzi lanciati dai militanti della Jihad Islamica e altri gruppuscoli palestinesi sulle località israeliane vicine alla Striscia di Gaza, ma un’azione premeditata da molto tempo, come d’altronde riconosce la maggior parte dei commentatori israeliani».
Il 3 gennaio Tel Aviv invase la Striscia con forze di terra. Il 7 gennaio il bilancio delle vittime era già di 639 palestinesi morti e tremila feriti. Gli israeliani morti undici. Oltre ai centri di potere e alle case dei leader di Hamas, i caccia israeliani bombardarono università, moschee e i tunnel al confine con l’Egitto.
Il 6 gennaio l’artiglieria israeliana rase al suolo una scuola gestita dall’ONU uccidendo 40 persone, tra cui molti bambini: le immagini di questa tragedia faranno il giro del mondo scatenando reazioni unanimi di condanna. Il 18 gennaio Hamas e Israele annunciarono il cessate il fuoco: il bilancio dei 22 giorni di attacchi militari fu di 1.400 palestinesi uccisi dall’esercito israeliano. Tra i morti, centinaia furono i civili inermi, compresi di 300 bambini, oltre 115 donne, circa 100 anziani e circa 200 giovani non armati. 240 poliziotti vennero uccisi nei bombardamenti che hanno colpito le stazioni di polizia lungo la Striscia di Gaza e la cerimonia dei cadetti che si stava svolgendo a Gaza City nelle prime ore dell’Operazione “Piombo Fuso”. Questi numeri si basavano sui dati raccolti dai delegati di Amnesty International a Gaza e su casi documentati da Ong e personale medico di Gaza.
Secondo le organizzazioni palestinesi per i diritti umani, due terzi dei morti furono composti da civili. Amnesty, che ha portato avanti la sua indagine tra gennaio e febbraio 2009, non ha però avuto né le risorse né il tempo per verificare queste informazioni.
Si contarono circa 5.300 feriti (di cui 350 gravi), molti resi disabili a vita, intere aree della Striscia ridotte ad un cumulo di macerie, decine di migliaia di persone ridotte senza una casa a cui far ritorno e l’economia di Gaza, già disastrata, subì il tracollo definitivo.
Da parte israeliana, 3 civili morirono colpiti da razzi lanciati dalla Striscia di Gaza, mentre 84 persone rimasero ferite. Nove soldati vennero uccisi durante i combattimenti a Gaza (4 colpiti da fuoco amico) e 113 feriti.
L’8 luglio del 2014 Israele lanciò una nuova campagna militare nella Striscia di Gaza con il nome in codice “Margine di Protezione”. Anche in questo caso come per “Piombo Fuso” l’intento dichiarato era quello di fermare il lancio di missili verso il proprio territorio. Secondo i dati delle Nazioni Unite, nei 51 giorni della guerra, che si è conclusa il 26 agosto, i bombardamenti e le incursioni via terra dell’esercito israeliano hanno causato la morte di più di 2.200 palestinesi, di cui 1.462 civili, un terzo dei quali bambini.
L’attuale approccio alla risoluzione del conflitto israelo-palestinese ha portato a un’impasse, e la questione che va avanti da più di un secolo sembra destinata a durare per due ragioni principali. Prima ragione: le possibilità di uno Stato palestinese sostenibile in Cisgiordania e a Gaza, come molti analisti convengono, sono esili, grazie alla malandata configurazione dell’area e allo spazio ridotto. Sta invece emergendo ciò che resta di uno Stato, sotto la tutela di Israele – un insieme di bantustan palestinesi. Seconda ragione: la negazione israeliana del diritto al ritorno dei rifugiati implica che le tensioni tra i palestinesi e giordani dell’Est in Giordania continueranno. Anche in Israele l’antagonismo tra ebrei e arabi è destinato inevitabilmente a continuare, a causa della mancata risoluzione del problema palestinese e all’insistenza di Israele nell’essere uno Stato esclusivamente ebraico, e non uno Stato per tutti i suoi cittadini.
Perché si possa mai realizzare una pace duratura, è necessario superare la formula dei “due popoli due Stati” venutasi a consolidare con gli accordi di Oslo.
La soluzione dello stato unico è stato l’approccio palestinese alla risoluzione del conflitto con Israele, fin da quando l’OLP non adottò manifestamente nel 1988 la strategia dei due Stati. Al-Fatḥ adottò tale idea verso la fine degli anni Sessanta, ma per un breve periodo, senza aver riflettuto seriamente sulle modalità istituzionali e senza identificazione dei passaggi attraverso i quali avrebbe potuto essere raggiunta o cosa avrebbe significato sotto il profilo delle strategie militari e politiche. L’idea fu esposta all’opinione pubblica nel 1974, nel famoso discorso di Yāsser ʿArafāt, capo dell’OLP, all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Ciò che ʿArafāt chiedeva in poche parole, era la desionizzazione di Israele. La reazione di Israele e dei suoi sostenitori fu immediata e inequivocabilmente negativa: tale progetto era un espediente per la distruzione dello Stato ebraico. Dal quel momento la formula dello stato unico cadde nell’oblio, tranne che per alcuni attivisti risoluti. I critici di tale soluzione mettono l’accento sulla mancanza di sostegno pubblico al progetto derubricandolo a una mera utopia. La verità è che è molto più irrealistico pensare di continuare a parlare della soluzione dei due Stati. Recentemente il parlamento israeliano ha approvato in via definitiva una legge che permetterà ai cittadini israeliani di appropriarsi forzosamente di terreni privati in territorio palestinese, limitandosi a compensare i proprietari con una somma in denaro. La legge avrà inoltre valore retroattivo, e legalizzerà di fatto qualsiasi insediamento presente in terra palestinese. La verità è che Israele ha già fatto lo stato unico, ora si tratta di trasformare questo stato in una vera democrazia dove ebrei, cristiani e musulmani possano vivere in pace con rispetto reciproco e senza nessuna discriminazione.
 
Per approfondimenti:
_Edward Said, La questione palestinese. La tragedia di essere vittima delle vittime, Roma, Gamberetti, 1995;
_Massimo Massara, La terra troppo promessa. Sionismo, imperialismo e nazionalismo arabo in Palestina, Milano, Teti editore, 1979;
_Benny Morris, Vittime. Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001, Milano, BUR, 2003;
_Nathan Weinstock, Storia del sionismo. Dalle origini al movimento di liberazione palestinese, 2 voll., Roma, Samonà e Savelli, 1970;
_Elias Sanbar, Il palestinese. Figure di un’identità: le origini e il divenire, Milano, Jaca Book, 2005;
_Janet Abu-Lughod, The Demographic Transformation of Palestine, in Id., The Transformation of Palestine: Essays on The Origin and Development of The Arab-Israeli Conflict, Northwestern University Press, Evanston, 1971;
_Marco Allegra, Palestinesi. Storia e identità di un popolo, Roma, Carocci, 2010;
_Ilan Pappé, Storia della Palestina moderna. Una terra, due popoli, Torino, Einaudi, 2005;
_Ilan Pappé, La pulizia etnica della Palestina, Roma, Fazi, 2008;
_Tom Segev, Il settimo milione. Come l’Olocausto ha segnato la storia di Israele, Milano, Mondadori, 2001;
_Antonio Moscato, Israele senza confini. Politica estera e territori occupati, Roma, Sapere 2000, 1984;
_Giancarlo Paciello, La conquista della Palestina. Le origini della tragedia palestinese, Pistoia, Editrice CRT, 2004;
_Nakba. L’espulsione dei palestinesi dalla loro terra, Roma-Salerno, Fondazione Internazionale Lelio Basso, 1988;
_Guido Valabrega, Il Medio Oriente dal primo dopoguerra a oggi, Firenze, Sansoni, 1973;
_Nur Masalha, Expulsion of the Palestinians: The Concept of "Transfer" in Zionist Political Thought, 1882-1948, Washington, Institute for Palestine Studies, 1992;
_Nur Masalha, A Land Without a People, Transfer and the Palestinians 1949-1985, Londra, Faber & Faber, 1997;
_Patrick Seal, Il leone di Damasco. Viaggio nel ‘Pianeta Siria’ attraverso la biografia del presidente Hafez al Assad, Roma, Gamberetti, 1995;
_Patrick Seal, Abu Nidal, una pistola in vendita. I mille volti del terrorismo internazionale, Roma, Gamberetti, 1994;
_Robert Fisk, Il martirio di una nazione. Il Libano in Guerra, Milano, Il Saggiatore, 2010;
_Khaled Hroub, Hamas: un movimento tra lotta armata e governo della Palestina raccontato da un giornalista di Al Jazeera, Milano, Mondadori, 2006;
_Michel Warschawski, Israele-Palestina. La sfida binazionale: un sogno Andaluso del XXI secolo, Roma, Sapere 2000, edizioni multimediali, 2002;
 
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

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di Gabriele Rèpaci 07/07/2017

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Forse mai nella plurimillenaria storia dell’umanità un così piccolo fazzoletto di terra quale è la Palestina è apparso carico di valori e simboli, fonte di tensione e di conflitti, teatro di aspirazioni e di guerre e di nostalgie struggenti.
I simboli legati alla storia di questo paese - Yāsser ʿArafāt, la kefiah, il ragazzo che lancia un sasso contro il carro armato – sono entrati nell’immaginario comune sia dei sostenitori della causa palestinese che dei suoi oppositori.
Questo breve saggio, senza alcuna pretesa di sistematicità, ripercorrerà le fasi salienti di quel processo storico che ha determinato uno dei problemi di più difficile soluzione nella storia delle relazioni internazionali del XX secolo: quello dell’indipendenza e dell’identità del popolo palestinese, problema la cui apparente irrisolvibilità è a tutt’oggi ben nota.
[caption id="attachment_9025" align="aligncenter" width="1000"] Con il nome Palestina (in greco: Παλαιστίνη, Palaistine; in latino: Palaestina; in arabo: فلسطين‎, Falasṭīn; in ebraico: פלשתינה‎?, Palestina) viene indicata la regione geografica del Vicino Oriente compresa tra il Mar Mediterraneo, il fiume Giordano, il Mar Morto, a scendere fino al mar Rosso e i confini con l'Egitto.[/caption]
Per circa tre secoli e fino alla conquista Ottomana nel 1516, la Palestina era rimasta nell’orbita dei mamelucchi. Il dominio ottomano si protrarrà per quattro secoli esatti, fino al 1917, anno dell’ingresso a Gerusalemme delle truppe britanniche del generale Edmund Henry Hynman Allenby. Si trattò di un periodo di quiescenza; fortemente integrata con il territorio circostante, abitata da una popolazione in gran parte araba o musulmana e una consistente e vivace minoranza cristiana, vide al tempo stesso la presenza di una piccola comunità ebraica rimasta costantemente sul territorio e che comincerà a espandersi, pur sempre in misura limitata, nel corso del XIX secolo.
L’interesse delle potenze europee per la Palestina ebbe inizio dopo la spedizione di Napoleone in Egitto. Nel mondo anglosassone la regione divenne oggetto di particolare attenzione.
Nel 1865 a Londra venne creato il Palestine Exploration Fund, che, come altre future organizzazioni mise a disposizione cospicui finanziamenti per esplorare la Palestina. Nei resoconti di tali spedizioni, gli arabi palestinesi non erano ancora diventati degli “assenti”, ma non vennero considerati gli abitanti del luogo, bensì “coloro che si trovano sul luogo” come se si trattasse di una presenza casuale.
Sempre nella prima metà dell’ottocento videro la luce i primi progetti europei per la Palestina. Nel 1838 il facoltoso filantropo britannico Sir Moses Montefiore sponsorizzò la creazione di duecento villaggi ebraici in Galilea mettendo a disposizione un capitale iniziale di un milione di sterline. Nel 1839 il Globe di Londra, portavoce del Foreign Office, pubblicò una serie di articoli, nei quali si preconizzava la creazione di uno stato indipendente tra l’Egitto e la Turchia in Siria e Palestina e una colonizzazione massiccia da parte del popolo ebraico.
Nel 1841, sempre il Regno Unito, con il Jerusalem Bishopric Act, istituì un vescovado anglicano a Gerusalemme. Nel 1847 venne ristabilito, dopo 556 anni, il patriarcato latino a Gerusalemme. Tutti questi progetti avevano come minimo comun denominatore l’obiettivo di liquidare l’Impero Ottomano.
Gli ebrei, cittadini dell’Impero Ottomano, nella loro stragrande maggioranza, preferivano vivere al di fuori della Terra Santa, nonostante non esistessero limitazioni al loro insediamento in Palestina. Nell’Ottocento alcuni ebrei europei si recarono in Palestina per passare gli ultimi anni di vita e morire a Gerusalemme. Si trattava di persone pie che vivevano della carità dei loro correligionari in Europa. Il loro numero andò crescendo, da 10.000 nella prima metà del secolo a 24.000 nel 1880. Per dividere i proventi della carità formarono diverse congregazioni nazionali e linguistiche. Ce ne erano di parlanti yiddish, arabo, tedesco, ladino, francese, inglese, persiano e georgiano.
La loro presenza non turbava la popolazione palestinese, da sempre abituata ai pellegrini e agli stranieri. Gli ebrei residenti a Gerusalemme vissero in tutti i quartieri della città e parteciparono alla vita cittadina. Gli ebrei stranieri erano ispirati da ideali religiosi, non politici e non formarono nessuna colonia, ma delle piccole comunità di fedeli. Le prime colonie straniere create in Palestina, a partire dal 1868, non erano opera di ebrei, ma di templari tedeschi che erano ispirati da motivi religiosi più che politici. La presenza ebraica in Palestina iniziò ad assumere consistenza e significato diversi per cause che si svilupparono ben lontano dal territorio palestinese, principalmente nella Russia zarista.
Nel 1881 in Russia venne ucciso Alessandro II, lo zar che aveva abolito la servitù della gleba nel 1861. Del gruppo degli assassini faceva parte anche un ebreo. A causa di ciò, venne scatenata un’ondata di pogrom anti-ebraici, orchestrati dalla “Santa Legione”, un’organizzazione segreta creata da un gruppo di granduchi e ufficiali della guardia imperiale russa. Tra il 1881 e il 1900 oltre un milione di ebrei abbandonarono l’Impero zarista. In quegli anni i governi europei divennero più attivi nel dirottare gli immigrati ebrei lontano dai paesi dell’Europa Occidentale. La prima grande ondata di immigrati russi si diresse soprattutto negli Stati Uniti e in misura minore in Sud Africa, in Inghilterra e Austria e negli altri paesi europei. Solo un esigua minoranza, sollecitata dalla propaganda sionista, scelse di andare in Palestina.
Nonostante il fatto che un primo insediamento, Pitah Tikva, fosse già stato fondato nel 1878, gli storici concordano nel ritenere il 1881 come la data d’inizio del processo di colonizzazione della Palestina. Questo inizio fu segnato dall’arrivo di 16 studenti russi di Kharkov che fondarono un’associazione che mirava a stabilire uno Stato Ebraico in Terra Santa. Il fatto più saliente restava il finanziamento della colonizzazione sionista iniziato quell’anno da parte del banchiere parigino Edmond de Rothschild.
Le idee in merito alla colonizzazione europea della Palestina, che sin dai primi del ‘800 circolavano nell’Europa Occidentale come parte di una discussione sulle prospettive coloniali riguardanti i territori dell’Impero Ottomano, si insinuarono nel dibattito sulla questione ebraica nell’Europa Orientale. Le idee circa la possibilità di uno Stato ebraico in Palestina affioravano qua e là in molti scritti, alcuni di autori ebrei, come Moses Hess, uno dei primi ideologi del sionismo che nel suo Rom und Jerusalem, die Letzte Nationalitätsfrage del 1862 scrisse: «Quando in Oriente le condizioni politiche saranno tali da permettere l’organizzazione di un primo processo di ricostruzione dello Stato ebraico, il primo passo sarà la fondazione di colonie ebraiche nella terra dei padri».
[caption id="attachment_9029" align="aligncenter" width="1000"] Nella foto risalente al 1931, scorcio urbano di Petah Tiqwa o Petah Tikva (letteralmente "Soglia verso la speranza", nota come Em Hamoshavot, ossia "Madre delle Colonie") è una città di 210.376 abitanti di Israele situata nel Distretto Centrale, a nord est di Tel Aviv. La sua giurisdizione comprende 39.000 dunam (39 km²) per una densità di 5.394 abitanti per km². Nella seconda immagine, Edmond Benjamin James de Rothschild (19 agosto 1845 – 2 novembre 1934) è stato un banchiere francese. Filantropo francese e attivista per gli affari umanitari per la nazione ebraica e membro della prominente famiglia Rothschild.[/caption]
Come Chateaubriand, Lamartine e molti altri pensatori europei che si erano espressi a favore del trasferimento della popolazione ebraica europea in Palestina, il pensiero di Hess dimenticava un dato di non poca importanza: l’esistenza di una popolazione autoctona palestinese.
La negazione dell’esistenza della popolazione indigena divenne costante negli scritti degli ideologi della colonizzazione, così Israel Zangwill, alla fine del ‘800, riassunse in una formula il concetto basilare dell’idea sionista: «Una terra senza un popolo, per un popolo senza una terra». Theodor Herzl, invece animato da spirito pratico, non era solo consapevole del problema rappresentato dai palestinesi, ma individuò le possibili soluzioni e scrisse nel suo diario nel 1895: «Dovremmo incoraggiare questa misera popolazione palestinese ad andarsene oltre confine procurando loro un lavoro nei paesi di destinazione, e negandoglielo nel nostro. Sia il processo di espropriazione che quello di allontanamento devono essere effettuati con discrezione e cautela».
Tuttavia la negazione dell’esistenza della popolazione autoctona divenne «il più solido filo conduttore del sionismo» che, come scriveva l’orientalista francese Maxime Rodinson, lo legava all’imperialismo: «L’elemento che portò a collegare le aspirazioni dei commercianti, artigiani, ambulanti ed intellettuali ebrei, in Russia ed altrove, all’ombra concettuale dell’imperialismo fu un piccolo dettaglio apparentemente senza importanza: la Palestina era abitata da un altro popolo». Le idee sioniste trovarono una sistemazione organica nell’opera del giornalista ungherese di Vienna Theodor Herzl che pubblicò nel 1896 un’opera intitolata Der Judenstaat, “Lo Stato ebraico”, divenuta poi il manifesto programmatico del movimento sionista.
Così lo descrive Stefan Zweig Herzl, nel suo "Il mondo di ieri": "Theodor Herzl a Parigi aveva avuto un'esperienza che lo aveva profondamente scosso, una di quelle ore che trasformano tutta un'esistenza: aveva assistito quale giornalista alla degradazione pubblica di Alfred Dreyfus, aveva veduto quell'uomo pallido al quale strappavano le spalline mentr'egli esclamava ad alta voce: «Sono innocente!». In quell'istante aveva avuto nell'intimo del cuore la certezza che Dreyfus era veramente innocente e che l'orrendo sospetto di tradimento era pimbato su di lui soltanto perché ebreo. (...) aveva concepito il disegno fantastico di porre fine una volta per tutte al problema giudaico e precisamente fondendo l'ebraismo con il cristianesimo per mezzo di volontari battesimi di massa. Incline sempre a concezioni drammatiche, già s'immaginava di guidare in lunghi cortei le migliaia e migliaia di ebrei austriaci sino alla cattedrale di Santo Stefano, per liberare così, grazie a un rito esemplare e simbolico, il popolo perseguitato e disperso della maledizione dell'isolamento e dell'odio. Aveva dovuto riconoscere presto l'inattuabilità del suo piano, poi anni di lavoro lo avevano allontanato da quel problema originario, in cui vedeva la missione della sua vita; ora tuttavia, nel momento della degradazione di Dreyfus, il pensiero dell'eterna condanna gravante sul suo popolo gli trafisse il cuore come una pugnalata. Se l'isolamento è inevitabile, disse a se stesso, sia completo. (...) Pubblicò quindi il suo famoso saggio Der Judenstaat (Lo Stato ebraico), nel quale proclamava impossibile per il popolo israelitico ogni assimilazione e ogni fede in una totale tolleranza. Bisognava fondare una patria nuova nell'antica terra d'origine, la Palestina. Quando comparve quel fascicolo, breve ma dotato della forza penetrante di un cuneo d'acciaio, io frequentavo ancora il ginnasio, ma posso benissimo rammentare il disorientamento e l'irritazione generale degli ambienti ebraici borghesi. (...) Perché dovremmo andare in Palestina? La nostra lingua è il tedesco, non l'ebraico; la nostra patria è la bella Austria. Non viviamo forse ottimamente sotto il buon imperatore Francesco Giuseppe? Non abbiamo qui i nostri leciti guadagni, la nostra sicura posizione? Non siamo sudditi con pieni diritti, cittadini residenti e fedeli all'amata Vienna? E non viviamo in un'epoca di progresso, che annullerà nel corso di pochi decenni tutti i pregiudizi confessionali? (...) La risposta non venne dagli ebrei borghesi e agiati, viventi con tutti i comodi in Occidente, ma dalle grandi masse orientali, nel proletariato dei ghetti galiziani, polacchi, russi. Senza prevederlo, Herzl con il suo opuscolo aveva fatto divampare una fiamma dell'ebraismo che covava sotto la cenere dell'esilio: il sogno millenario e messianico confermato dai libri sacri di un ritorno nella Terra Promessa. (...) Persino seduto a quel vecchio scrittoio sovraccarico di carte, in un'angusta e miserevole stanzetta di redazione, dava l'impressione di un capo beduino di tribù del deserto; (...) Ma io non riuscivo a sentirmi veramente unito a quell'iniziativa; m'irritava anzitutto la mancanza di rispetto, oggi quasi incredibile, con cui i più diretti compagni di partito si compartavano nei riguardi di Herzl. (...) Parlando un giorno con lui dell'argomento, gli confessai con sincerità il mio malumore per la scarsa disciplina nelle sue file. Sorrise con un pò d'amarezza e rispose: «Non dimentichi che da secoli siamo avvezzi a gingillarci con i problemi, a litigare con le idee. Noi ebrei da duemila anni non abbiamo storicamente alcuna pratica nel realizzare qualche cosa per il mondo. La dedizione senza limiti va prima imparata, e io stesso non vi sono ancora giunto, giacché continuo a scrivere e a fare il redattore letterario della "Neue Freie Presse", mentre sarebbe mio dovere non avere che un pensiero solo, non scrivere una parola per alcun altro fine. Ma io sono avviato a migliorarmi, voglio prima imparare io stesso la dedizione illimitata, sperando che forse insieme con me la imparino anche gli altri»".
[caption id="attachment_9031" align="aligncenter" width="1000"] Israel Zangwill (a sinistra) nacque in una famiglia di ebrei russi emigrati, (Londra, 21 gennaio 1864 – Midhurst, 1º agosto 1926) è stato uno scrittore, drammaturgo e umorista inglese. Theodor Herzl (Pest, 2 maggio 1860 – Edlach, 3 luglio 1904) è stato un giornalista, scrittore e avvocato ungherese naturalizzato austriaco. Ebreo-ungherese di lingua tedesca di origine ashkenazita, fu il fondatore nel 1897 del movimento politico del sionismo, che si proponeva di far sorgere nei Territori Coloniali del Mandato britannico della Palestina uno Stato Ebraico.[/caption]
L’anno successivo Herzl organizzò a Basilea un congresso al quale parteciparono 197 delegati che crearono l’Organizzazione Sionista Mondiale, avente come scopo la creazione di uno Stato ebraico in Palestina. Il programma di Basilea proclamava che «il movimento sionista aspira alla creazione di un rifugio del popolo ebraico in Eretz Yisra’el che dovrà essere garantito da una legge internazionale». Il secondo congresso sionista si svolse nel 1898 e aggiunse l’imperativo della colonizzazione della Terra di Israele per il raggiungimento di questo fine. In occasione del terzo congresso, Herzl propose di sostituire la ricerca di una legittimazione internazionale con l’ottenimento di una concessione in affitto ufficiale da parte del Sultano Ottomano. Era convinto che denaro e pressione dell’Europa, avrebbero indotto il Sultano ad acconsentire a una simile concessione. Herzl si recò quindi a Istanbul, senza però riuscire a essere ricevuto da ʿAbd ul-Hamid II, il Sultano Ottomano dal 1876 al 1908. I collaboratori del Sultano respinsero decisamente la richiesta di concessione in affitto della Palestina agli ebrei. Neppure l’offerta di una somma astronomica, di cui per altro Herzl non disponeva, riuscì a convincere il governo di uno Stato turco sull’orlo della bancarotta.
In seguito alla ferma opposizione da parte delle autorità Ottomane Herzl comprese che l’unico modo attraverso cui il progetto sionista poteva realizzarsi era attraverso la benedizione di una potenza straniera.
La scelta cadde sulla Gran Bretagna le cui mire di natura coloniale nei confronti del Medio Oriente l’avevano condotta a occupare l’Egitto nel 1882. I residenti britannici al Cairo, al pari di una scuola di pensiero espansionista presente in seno al Colonial Office in Inghilterra, guardavano alla Palestina come a una prossima acquisizione in caso del crollo dell’Impero Ottomano. Se gli ebrei, al pari dei missionari anglicani, facilitavano l’espansione britannica in terra di Palestina non c’era motivo per non ritenerli benvenuti. L’inclinazione filo sionista assunta dalla politica mediorientale britannica verso la fine del XIX secolo fu il risultato di una considerazione neo-coloniale della realtà e di un’antica concezione teologica che collegava il ritorno degli ebrei in Palestina al secondo avvento del Messia.
L’entrata dell’Impero Ottomano nella Prima guerra mondiale a fianco degli Imperi Centrali segnò una svolta di portata storica per il destino delle popolazioni e dei territori arabi dell’Impero Ottomano.
La particolare posizione strategica della Palestina, base di partenza per l’offensiva turco-tedesca contro il Canale di Suez che ne faceva un paese di prima linea, ha avuto conseguenze di grande importanza per il suo futuro.
Così racconta il giovane Thomas Edward Lawrence, ne "I sette pilastri della saggezza":  "Con la venuta dei Turchi, questa felicità divenne un sogno. Gradatamente i popoli semitici d'Asia passarono​ sotto il giogo ottomano, con una lenta morte. Furono spogliati dei beni, il loro spirito tarpato dalla presenza opprimente di un governo militare. L'ordine dei Turchi, era disciplina di gendarmi, la loro politica violenta, in teoria quanto in pratica. I Turchi insegnarono agli Arabi che gli interessi di una setta superavano quelli del patriottismo, che le cure piccine d'una provincia contavano più dei problemi nazionali.  A forza di sottili discrepanze li indussero a sospettarsi l'un l'altro. Perfino la lingua araba fu bandita dalle corti e dagli uffici, dalla burocrazia dello stato e dalle scuole superiori. Per poter servire lo stato un arabo doveva ripudiare le proprie caratteristiche di razza. Queste costrizioni non furono tollerate tranquillamente. La tenacia semitica affiorò nelle numerose rivolte di Siria, Mesopotamia, Arabia contro le forze più scoperte di penetrazione turca. (...) gli Arabi non volevano barattare la loro lingua ricca e duttile per le forme volgari del turco: invece permearono il turco di vocaboli arabi, e rimasero attaccati ai tesori della loro letteratura. Persero il senso geografico, le memorie razziali, politiche, storiche, ma si legarono tanto più fortemente alla lingua, elevandola quasi ad una nuova patria. Primo dovere di ciascun moslem era lo studio del Corano, il libro sacro dell'Islam, e incidentalmente, il massimo monumento della letteratura araba. (...) Poi venne la rivoluzione in Turchia, la caduta di Abdul Hamid, il predominio dei "Giovani Turchi". Per un momento l'orizzonte arabo si schiarì. Il movimento dei "Giovani Turchi" combatteva la concezione gerarchica dell'Islam e le teorie panislamiche del vecchio Sultano che, erigendosi a capo spirituale del mondo musulmano, avrebbe voluto guidarne senza ricorso anche le sorti temporali. I giovani rivoluzionari, infervorati dalle teorie costituzionali dello Stato Sovrano, imprigionarono Abdul Hamid. (...) «La Turchia turca, per i Turchi: Yeni Turan» diventò il loro motto. (...) ma innanzi tutto dovevano eliminare dal loro impero tutte le irritanti razze inferiori che osavano resistere al popolo dominatore; prima gli Arabi, la minoranza più numerosa. Perciò i rappresentanti degli Arabi furono dispersi, proscritti i loro notabili, proibite le loro associazioni. Ogni manifestazione araba e l'arabo stesso come lingua furono soppressi da Enver Pasha più rapidamente che non da Abdul Hamid prima di lui. (...) Con la guerra del 1914 (...) la mobilitazione concentrò il potere nelle mani dei Giovani Turchi più crudeli, ma anche più freddi e ambiziosi: Enver, Talaat, Jemal. Costoro si proposero di sterminare tutte le correnti non turche dello Stato, a cominciare dai nazionalismi arabi ed armeni. (...) I Turchi sospettavano degli ufficiali e dei soldati arabi nell'esercito. Speravano di annientarli con la stessa tattica di dispersione sperimentata contro gli Armeni. (...) I Turchi li dispersero dappertutto, purché capitassero presto in prima linea".
Alla fine del 1915 almeno 250.000 soldati britannici e coloniali erano stanziati permanentemente in Egitto. Con la guerra, Gemā´l Pascià, membro anziano del Comitato unione e progresso (İttihat ve Terakki Cemiyeti) e ministro della marina, venne nominato comandante della IV armata in Siria. Gemā´l Pascià attuò una persecuzione senza precedenti contro i nazionalisti arabi. La repressione ebbe un carattere di massa con gravi conseguenze. Al momento dell’inizio della rivolta araba del Hijaz, nel giugno del 1916, i tribunali militari turchi avevano condannato a morte oltre 800 attivisti. La repressione mirava a eliminare l’élite araba. Decine di migliaia di persone vennero rinchiuse nei campi di concentramento nel deserto. Molti morirono di fame e di malattie. Nel 1915 ebbe inizio il genocidio armeno. I profughi affluirono dall’Anatolia in Siria-Palestina. Con la guerra la Palestina venne ridotta alla fame. Dopo la disfatta dell’esercito ottomano in Iraq, nell’aprile del 1916, il territorio palestinese divenne il fronte principale sul quale si decisero le sorti della guerra. La Gran Bretagna cercò di stringere alleanze con i principi arabi dei territori semi indipendenti della Penisola Arabica.  In questo quadro si concluse l’accordo con Hussein, custode dei luoghi santi della Mecca e di Medina, noto come accordo Hussein-MacMahon. Secondo l’accordo, Hussein si sarebbe ribellato all’autorità sultanale e avrebbe aiutato la Gran Bretagna nella sua guerra contro l’Impero Ottomano. In cambio, il governo britannico si sarebbe impegnato a garantire l’indipendenza dei paesi arabi allora ancora sotto sovranità ottomana. L’accordo verrà completamente disatteso da parte britannica e lo stesso MacMahon scriverà nel luglio 1937: «Nel prendere questo impegno verso re Hussein non intendevo comprendere la Palestina nella zona entro la quale fu promessa l’indipendenza araba».
Nel giugno 1916 Hussein diede inizio alla rivolta. Alla Mecca si formò, sotto il comando di Faisal, figlio di Hussein, un esercito di volontari arabi che in breve tempo prese il controllo di tutto il Hijaz. Nel novembre 1916 Hussein si proclamava “re d’Arabia”, mentre l’esercito di Faisal raggiungeva la Siria. L’inizio dell’avanzata britannica in Palestina accrebbe l’importanza delle operazioni dell’esercito dei rivoltosi al comando di Faisal.
La violazione dell’accordo Hussein-McMahon rientrava in un disegno preciso del governo britannico. Parallelamente e contemporaneamente alle trattative anglo-arabe si svolsero quelle anglo-francesi per definire i termini della spartizione dei territori arabi fra le due potenze. L’accordo anglo-francese, noto come “accordo Sykes-Picot”, venne poi definitivamente firmato il 16 maggio 1916.
[caption id="attachment_9033" align="aligncenter" width="1000"] Le forze ottomane erano attestate su una forte linea fortificata che andava dalla città di Gaza, sulla costa, fino alla località di Beersheba, che era al capolinea della ferrovia che si estendeva a nord di Damasco. Il comandante inglese sul campo, Dobell, scelse di attaccare Gaza il 26 marzo 1917, utilizzando un piccolo movimento aggirante. Un secondo attacco alla fortezza di Gaza fu lanciato un mese dopo, il 17 aprile. Questa volta l'attacco venne appoggiato dal fuoco dell'artiglieria navale, gas asfissianti ed un piccolo numero di carri armati. Tuttavia, anche questo si risolse in un fallimento: si trattò infatti di un semplice assalto frontale contro postazioni ben fortificate, ed il suo insuccesso fu dovuto più che altro alla mancanza di flessibilità, piuttosto che a reali difetti in sede di pianificazione. Il suo costo fu di 6.000 caduti solo da parte inglese, e costò la rimozione dal comando dei generali Dobell e Murray. Al loro posto su insediato il generale Sir Edmund Allenby, che ricevette l'ordine tassativo di conquistare Gerusalemme entro Natale. Dopo aver visto di persona le difese ottomane, il generale richiese rinforzi: tre ulteriori divisioni di fanteria, aerei ed artiglieria. La richiesta stavolta venne accolta e, nel mese di ottobre, gli inglesi furono nuovamente pronti per attaccare. L'esercito ottomano aveva tre fronti attivi: Mesopotamia, Arabia e fronte di Gaza. Inoltre, era costretto a tenere truppe in difesa di Costantinopoli e nel settore (ormai calmo) del Caucaso. Le truppe a Gaza erano di appena 35.000 uomini, suddivisi nelle tre postazioni difensive di Gaza, Tel el-Sheria e Beersheba. Allenby poteva contare invece su 88.000 soldati ben equipaggiati.[/caption]
Il 1917 fu un anno tragico per la Palestina ridotta alla fame. Le truppe inglesi di stanza nel Sinai scatenarono un’offensiva su larga scala nella Palestina meridionale. Il 16 novembre cadde Giaffa e il 9 dicembre Gerusalemme. Per la seconda volta nella sua storia la Città Santa venne occupata da europei. L’anno dopo le truppe britanniche occuparono la Palestina settentrionale, ma già prima del loro arrivo gli inglesi avevano prefigurato il destino del paese. Il 2 novembre 1917 il governo inglese aveva trasmesso, tramite il ministro degli esteri Arthur James Balfour, la seguente lettera indirizzata al vice presidente dell’Organizzazione Sionista, oggi nota come “Dichiarazione Balfour”:
«Caro Lord Rothschild, sono lieto di trasmetterle, a nome del governo di Sua Maestà, la seguente dichiarazione di simpatia per le aspirazioni ebraico-sioniste, esaminata e approvata dal gabinetto. Il governo di Sua Maestà vede con favore la creazione in Palestina di una “sede nazionale” (National Home) per il popolo ebraico, e intende fare tutti i suoi sforzi per favorire la realizzazione di questo obiettivo, essendo chiaramente inteso che nulla sarà fatto che possa pregiudicare i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche esistenti in Palestina, o i diritti e lo status politico goduti dagli ebrei in ogni altro paese».
Il “popolo ebraico” in Palestina al momento della Dichiarazione raggiungeva, nelle migliore delle stime, 50.000 immigrati, mentre le “comunità non ebraiche”, cioè quella parte degli abitanti autoctoni delle regioni che sarebbero divenute obiettivo dell’insediamento coloniale, era di almeno 750.000, cioè 15 volte tanto. La trasformazione del popolo della Palestina in “assenti” era compiuta. Nella dichiarazione del governo britannico, i palestinesi diventavano i “non ebrei”. Negato il loro nome si negava la loro esistenza. Sarà un leitmotiv che accompagnerà tutta la politica sionista: i palestinesi non esistono. La Dichiarazione inaugurò una nuova fase storica nei rapporti fra arabi (musulmani e cristiani) ed ebrei (arabi e non arabi) all’insegna dello scontro.
Il ministro degli esteri firmatario della lettera era lo stesso Lord Balfour, noto per il suo antisemitismo, che primo ministro nel 1905, aveva promosso la “Legge sulla immigrazione degli stranieri”, Aliens Immigration Act, intesa ad arginare l’immigrazione in Gran Bretagna degli ebrei senza mezzi che fuggivano dalle persecuzioni antisemite nell’Europa Orientale. Le trattative che avrebbero portato alla Dichiarazione Balfour risalivano al 1914, quando Herbert Samuel, membro dell’Organizzazione Sionista, futuro primo Alto Commissario britannico in Palestina e allora ministro delle amministrazioni locali del governo britannico, preparò il primo dei memorandum relativamente alla possibilità di creare uno Stato Ebraico in Palestina. In questo memorandum, intitolato “Il futuro della Palestina” si prospettava una annessione della Palestina alla Gran Bretagna che avrebbe dovuto favorire il trasferimento e l’impianto di 3 o 4 milioni di ebrei europei.
Tuttavia l’insistenza dei sionisti per ottenere dal governo inglese un impegno preciso di cedere loro la Palestina una volta occupata, ricevette all’inizio della guerra vaghe promesse, che vennero precisate man mano che la crisi dell’Impero Zarista e dell’Impero Ottomano divennero più acute.
All’inizio della guerra una “sezione di propaganda ebraica” - creata nel Foreign Office - venne incaricata di propagandare le idee sioniste per guadagnare alla causa dell’Intesa gli ebrei dell’Europa Orientale. Il 7 febbraio 1917 iniziarono in forma ufficiale trattative tra il governo britannico e l’Organizzazione Sionista per raggiungere un accordo sulle aspirazioni sioniste. In un memorandum del 13 giugno 1917 il governo britannico concluse che: «Dobbiamo assicurarci tutto il vantaggio politico che può venirci dalla nostra unione con i sionisti e non c’è dubbio che questo vantaggio sarebbe considerevole, soprattutto in Russia».
Lord Balfour chiese quindi a Chaim Weizmann e Lord Rothschild di redigere il testo di una dichiarazione da sottoporre alla firma del governo. Nelle manovre sotterranee che si svolsero per raggiungere l’obiettivo, i sionisti sottoposero a forti pressioni gli scettici e i contrari. Organizzarono massicci invii di lettere compiendo grandi sforzi per guadagnare la simpatia del movimento sionista. Obiettivo di violenti attacchi fu il ministro delle colonie Edwin Montagu, ebreo contrario a un accordo con i sionisti, convinto che il riconoscimento della Palestina come sede nazionale degli ebrei sarebbe stato dannoso per gli ebrei non sionisti.
Il precipitare degli eventi nell’Impero Zarista accelerò i tempi di definizione della Dichiarazione allo scopo di convincere gli ebrei russi a sostenere lo sforzo bellico dell’Intesa. Prima della sua approvazione il presidente americano Wilson diede il suo assenso e il 16 ottobre il governo degli Stati Uniti comunicò a quello di Londra: «Il testo proposto dal movimento sionista ha la nostra piena approvazione». La Dichiarazione venne approvata dal governo britannico in forma definitiva il 31 ottobre 1917, mentre Montagu era in missione in India. La lettera contente la Dichiarazione era indirizzata a Lord Rothschild, vice presidente della Federazione Sionista Britannica e non al presidente Chaim Weizmann, che non era cittadino britannico.
Della Dichiarazione Balfour vennero fatte svariate letture. Una definizione sintetica ed efficace nella sua semplicità fu quella dello scrittore ebreo Arthur Koester: «In questo documento una nazione prometteva solennemente a una seconda nazione il paese di una terza».
Il documento era privo di valore giuridico dato che il governo britannico non aveva nessun diritto di disporre di un territorio non sottoposto alla sua giurisdizione e non aveva l’autorità di mettere in pratica gli scopi dichiarati. La Palestina al momento della Dichiarazione, formalmente e nei fatti, faceva parte dell’Impero Ottomano. Fu per dare una parvenza di legalità che il governo britannico si adoperò per rendere pubblica l’adesione dei governi dell’Intesa. L’ultimo governo zarista spazzato via dalla Rivoluzione d’Ottobre, cinque giorni dopo la consegna del documento a Rothschild, non fece in tempo a rendere pubblica la propria adesione. Il governo francese, che già il 4 giugno 1917 aveva dichiarato la propria “simpatia” alla causa dell’Organizzazione Sionista, renderà pubblica la sua approvazione della Dichiarazione Balfour il 14 febbraio 1918, mentre il governo italiano lo farà il 9 maggio 1918. Gli Imperi Centrali, d’altro canto, tentarono di guadagnare la simpatia dei sionisti. Il 17 novembre 1917, il ministro degli esteri austro-ungarico Czernin promise a una delegazione sionista l’appoggio del suo governo alla realizzazione delle aspirazioni sioniste in Palestina.
Il governo tedesco pubblicò il 21 novembre 1917 un comunicato in cui si impegnava a non trasformare Gerusalemme in un campo di battaglia di fronte all’avanzata dell’ esercito britannico, il 7 dicembre 1917 l’Alto comando tedesco ordinò alle truppe turco-tedesche di ritirarsi dalla città. A Istanbul, il 12 dicembre 1917, il gran visir Talat Pascià ricevette una delegazione sionista alla quale assicurò che erano venuti meno i motivi che in passato avevano imposto talune limitazioni all’insediamento degli ebrei in Palestina. Il 5 gennaio 1918, il governo tedesco assicurò a una delegazione ebraica l’adesione ai propositi di Talat Pascià di promuovere un fiorente insediamento ebraico in Palestina. Il governo ottomano farà una dichiarazione più impegnativa il 27 luglio 1918, in cui si impegnava a favorire «la creazione di un centro ebraico in Palestina per mezzo di un immigrazione e di una colonizzazione ben organizzate».
Mentre nel novembre 1917 l’esercito di Lord Allenby cominciava la conquista del territorio palestinese, il movimento sionista in Europa otteneva dichiarazioni di simpatia dai governi impegnati nella guerra, il governo britannico tessé la rete delle alleanze per ottenere il controllo della Palestina e i bolscevichi resero pubblici i trattati segreti conclusi dal governo zarista con le potenze dell’Intesa. L’accordo Sykes-Picot venne pubblicato sui quotidiani sovietici Izvestia e Pravda il 23 novembre 1917.
[caption id="attachment_9035" align="aligncenter" width="1000"] L'accordo Sykes-Picot, ufficialmente Accordo sull'Asia Minore, è un accordo segreto tra i governi del Regno Unito e della Francia, che definiva le rispettive sfere di influenza nel Medio Oriente in seguito alla sconfitta dell'impero ottomano nella prima guerra mondiale.[/caption]
I primi anni trenta furono un momento cruciale dal punto di vista politico. L’immigrazione ebraica accelerò il suo ritmo: nel 1939 in Palestina vi erano 1.070.000 palestinesi e 460.000 ebrei – che rappresentavano quindi circa un terzo della popolazione del mandato – e l’acquisizione dei terreni era proceduta di pari passo.
Gli insediamenti coloniali divennero campi di addestramento per le neonate organizzazioni armate sioniste. A Giaffa, il centro economico più importante con il porto più frequentato dal commercio internazionale, la situazione peggiorò continuamente. La vicinanza con la città ebraica di Tel Aviv in rapida crescita divenne fonte di attriti e scontri. La scintilla che fece scoppiare la rivolta fu la costruzione di due scuole arabo-palestinesi affidata dall’amministrazione britannica a un costruttore ebreo. Questi si rifiutò di assumere maestranze palestinesi locali e fece affluire operai ebrei dagli insediamenti vicini. I lavoratori del porto di Giaffa, seguiti da tutti gli altri, scioperarono in solidarietà con i loro compagni esclusi da lavoro.
La tensione salì e in seguito sfociò in scontri tra gli operai palestinesi disoccupati e i dipendenti del costruttore che non aderirono allo sciopero e si recarono al lavoro scortati da squadre di sionisti armati. Lo scioperò si allargò ad altre città. A Giaffa intervenne l’esercito che nei giorni 16, 17 e 18 aprile 1936 represse le proteste con violenza. Il 19 aprile il Partito Arabo Palestinese invitò allo sciopero generale. Il 21 aprile si fermò ogni attività in tutto il paese. Fu subito evidente che lo sciopero generale era destinato a durare a lungo. Infatti era appena terminato quello che per cinquanta giorni aveva paralizzato a Siria. Sul modello siriano, il giorno 21 aprile si formò a Giaffa un Comitato Nazionale per lo sciopero a cui parteciparono tutte le associazioni cittadine, oltre al Partito Arabo Palestinese e al Partito dell’Indipendenza. I due partiti promossero la creazione di Comitati Nazionali unitari che sorsero in pochi giorni i tutte le città della Palestina.
Il 24 aprile 1936 rappresentanti dei Comitati Nazionali si riunirono a Gerusalemme e decisero di creare un organismo rappresentativo unitario. Nacque così l’Alto Comitato Arabo della Palestina la cui presidenza venne affidata al muftì di Gerusalemme Amīn al-Ḥusaynī.
[caption id="attachment_9037" align="aligncenter" width="1000"] Londra, 30 marzo 1930: il Gran Mufti di Gerusalemme Amīn al-Ḥusaynī arrivo alla stazione Victoria di Londra con la delegazione araba. Muḥammad Amīn al-Ḥusaynī (in arabo: محمد أمين الحسيني‎; Gerusalemme, 1897 – Beirut, 4 luglio 1974) è stato un politico palestinese, Gran Mufti di Gerusalemme, fu uno dei principali leader nazionalisti arabi radicali degli anni trenta, indicato anche come un precursore del fondamentalismo islamico, malgrado i suoi lavori non abbiano mai inteso coinvolgere aspetti regolati dalla teologia islamica.[/caption]
Il 7 maggio 1936, 150 delegati dei Comitati Nazionali tornarono a riunirsi a Gerusalemme, decisero di proseguire lo sciopero, diedero alle autorità il termine di una settimana per il blocco totale dell’immigrazione e invitarono in caso negativo allo sciopero fiscale: il paese intero avrebbe smesso di pagare tasse e imposte. A Giaffa si riunì il congresso dell’Associazione delle donne che l’11 maggio annunciò la propria partecipazione allo sciopero; il 12 si riunirono tutte le camere di commercio della Palestina; il Congresso nazionale degli studenti creò una “Guardia Nazionale”; l’ordine degli avvocati decise di bloccare tutte le cause, escluse quelle contro gli scioperanti; l’ordine dei medici stabilì cure gratuite per gli scioperanti; i decani delle comunità pastorali del Naqab aderirono allo sciopero; i dirigenti amministrativi di 18 città si riunirono e decisero il blocco delle attività a partire dal 1 giugno; tutti i sindaci restituirono i loro sigilli; il 30 maggio entrarono in sciopero tutti i 137 funzionari e 1200 impiegati arabo-palestinesi del governo.
Il 23 maggio vennero arrestati due dirigenti dei comitati dello sciopero. Gli agricoltori della zona di Nāblus marciarono su Tûbâs dove erano tenuti i prigionieri, ma vennero respinti dai nuovi contingenti militari inglesi arrivati dall’Egitto.
La mattina dopo le truppe britanniche intervennero a Nāblus per reprimere una manifestazione di protesta uccidendo quattro manifestanti. Attacchi di gruppi armati contro i campi militari britannici e le basi sioniste si segnalarono un po’ ovunque. Un attentato con la dinamite distrusse l’oleodotto della britannica Iraq Petrolium Company. Il drenaggio del petrolio si bloccò e così il porto di Haifa. Durante l’estate gli attacchi degli insorti divennero battaglie campali. Arrivarono in Palestina volontari dalle altre regioni della Siria e tra questi emerse la figura del comandante siriano Fawzī al-Qāwuqjī. Da settembre tutto il paese divenne un campo di battaglia. Affluirono altre truppe britanniche dall’Egitto, da Malta e dall’Inghilterra. La repressione fu feroce: un’ondata di arresti colpì migliaia di cittadini che vennero tenuti nei campi militari e le punizioni collettive vennero impiegate su larga scala. Solo nei primi 3 mesi di sciopero i palestinesi versarono 30.000 sterline di multe collettive, quando il salario medio era di 3 sterline mensili.
L’amministrazione britannica inaugurò una nuova tecnica di punizione collettiva che nei successivi 70 anni sarà largamente usata come strumento di cancellazione della realtà palestinese. Il 16 giugno gli aerei britannici lanciarono volantini che annunciarono “lavori di urbanizzazione” del centro storico di Giaffa, “al fine di ampliare e migliorare la città vecchia costruendo due strade che saranno utili all’intera città”.
Alla popolazione si diedero 24 ore di tempo per lasciare le proprie abitazioni. Il 18 giugno i militari circondarono il centro della città con un vasto spiegamento di forze. Procedettero a svuotare l’area. Gli abitanti vennero deportati e i militari cominciarono una sistematica distruzione con la dinamite di tutti gli edifici. Il 21, dopo tre giorni di demolizioni, il centro storico di una delle città più antiche del mondo non esisteva più. Il 29 e il 30 giugno 1936 vennero demoliti altri 150 edifici e 850 capanne: 10.000 persone restarono senza dimora. Negli anni successivi la demolizione sarà la tecnica repressiva preferita dagli inglesi e successivamente dagli israeliani.
Il governo emanò delle “Leggi d’Emergenza” che consentirono arresti senza mandato, censura della stampa, controllo della posta, restrizione della libertà di movimento di singoli o gruppi, deportazione di singoli o collettive, confisca delle proprietà, demolizione delle abitazioni e di qualsiasi altro edificio, singolarmente o in blocco, chiusura di determinate aree, imposizione del coprifuoco, ecc. Le misure adottate in base alle Leggi d’Emergenza vennero considerate misure amministrative che non richiesero il ricorso all’autorità giudiziaria. Non c’erano cioè accuse formali, non richiedevano processi, non c’era giudizio e non ci si poteva appellare.
Nel 1936 l’autorità britannica in collaborazione con la Haganah, l’organizzazione militare sionista, formò la “Polizia d’Insediamento Ebraico” al fine di “difendere gli insediamenti”. L’amministrazione britannica si incaricò di provvedere all’armamento della nuova formazione militare sionista. Nello stesso anno, il governo britannico della Palestina incaricò Orde Wingate, capitano dell’esercito, di addestrare squadre specializzate in attacchi notturni reclutate nelle fila della Haganah. Lo sciopero generale palestinese si scontrò con l’infrastruttura sionista che colse l’occasione dello sciopero dei lavoratori palestinesi nell’amministrazione, nei servizi pubblici, specialmente nei porti e nelle ferrovie, e negli stabilimenti commerciali, per conquistare posizioni nevralgiche per l’economia del paese. Involontariamente lo sciopero palestinese completò l’opera del segregazionismo sionista. Esempio tipico: la costruzione del porto di Tel Aviv che soppianterà quello di Giaffa.
La repressione a cui si è appena accennato alimentò la rivolta. Gli insorti aumentarono di numero, in capacità d’iniziativa e nella qualità delle loro azioni contro le truppe d’occupazione e le squadre dei coloni sionisti che le affiancarono. In pochi mesi il controllo di vaste aree del Paese passò nelle mani di rivoltosi.
La guerriglia si diffuse nelle campagne dove i dirigenti politici dei ceti urbani godevano di prestigio e autorità, ma non controllavano il movimento. I leader cittadini credevano comunque di aver acquisito un sufficiente peso contrattuale nei confronti del governo britannico. L’alto Comitato Arabo presieduto dal muftì si rivolse ai monarchi dell’Arabia, dell’Iraq e della Transgiordania che diffusero un comunicato rivolto ai palestinesi in cui chiesero la cessazione dello sciopero, il ritorno alla normalità e affermarono: «Noi abbiamo fiducia nelle buone intenzioni della Gran Bretagna nostra amica». L’Alto Comitato Arabo invitò a sospendere lo sciopero. L’11 ottobre 1936, dopo 175 giorni, lo sciopero in Palestina, il più lungo sciopero generale mai effettuato, venne sospeso, ma le azioni insurrezionali non si fermarono.
Vennero chiamati in Palestina altre truppe britanniche ed esperti antiguerriglia quali il generale Bernard Law Montgomery, Charles Tegart e David Petrie, che sin dal 1937 ritennero che: «È chiaro che la liquidazione della ribellione con i mezzi militari sarà un’impresa lunga e costosa e che si impone una guerra contro la maggioranza della popolazione araba» Per tre anni, dal 1936 al 1939, le campagne palestinesi divennero un vero formicaio, e tra il settembre 1937 e l’aprile 1939 gran parte della Palestina sfuggì al controllo militare britannico.
[caption id="attachment_9040" align="aligncenter" width="1000"] Nella foto di sinistra, soldati britannici dopo aver recuperato la vecchia città di Gerusalemme alla porta di Damasco, nel novembre del 1938. Nella foto di destra, vista di Gerusalemme nel 1939.[/caption]
Il culmine della ribellione fu raggiunto nel 1938, anno in cui i rivoltosi, oltre a controllare le campagne, cominciarono a organizzare un’amministrazione parallela. Nell’estate del 1938 i ribelli controllavano molte città importanti quali Giaffa e Nāblus e il 17 ottobre conquistarono la vecchia città di Gerusalemme. Nelle città controllate parzialmente dagli insorti la milizia sionista, la Haganah, compì attentati nei luoghi pubblici facendo stragi di civili. Il 6 luglio 1938 i miliziani sionisti fecero esplodere una bomba al mercato della verdura di Haifa facendo 23 morti. Ordigni esplosero nelle piazze e nei mercati di Giaffa, Gerusalemme e in altre città. Nel febbraio 1939, mentre era in corso la Conferenza di Londra, un’altra ondata di attentati sionisti colpì i mercati di frutta e verdura uccidendo 38 palestinesi.
La repressione fu spietata. Secondo le stime ufficiali britanniche, che sono di gran lunga inferiori alla realtà, più di 2.000 palestinesi vennero uccisi. Gli studiosi hanno valutato invece in 15.000 il numero dei palestinesi uccisi nella repressione della rivolta. Lo studioso Walid Khalidi ha documentato 5.032 uccisioni, 14.760 ferimenti e 5.600 imprigionati palestinesi.
Il 1948 rappresentò per il mandato di Palestina l’epilogo del ventennio turbolento che era iniziato nel 1929, con la prima rivolta palestinese contro lo Yishuv sionista. Gli avvenimento del 1948 segnarono la nascita dello Stato di Israele e quella del problema palestinese così come lo conosciamo oggi.
 
Per approfondimenti:
_Edward Said, La questione palestinese. La tragedia di essere vittima delle vittime, Roma, Gamberetti, 1995;
_Massimo Massara, La terra troppo promessa. Sionismo, imperialismo e nazionalismo arabo in Palestina, Milano, Teti editore, 1979;
_Benny Morris, Vittime. Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001, Milano, BUR, 2003;
_Nathan Weinstock, Storia del sionismo. Dalle origini al movimento di liberazione palestinese, 2 voll., Roma, Samonà e Savelli, 1970;
_Elias Sanbar, Il palestinese. Figure di un’identità: le origini e il divenire, Milano, Jaca Book, 2005;
_Janet Abu-Lughod, The Demographic Transformation of Palestine, in Id., The Transformation of Palestine: Essays on The Origin and Development of The Arab-Israeli Conflict, Northwestern University Press, Evanston, 1971;
_Marco Allegra, Palestinesi. Storia e identità di un popolo, Roma, Carocci, 2010;
_Ilan Pappé, Storia della Palestina moderna. Una terra, due popoli, Torino, Einaudi, 2005;
_Ilan Pappé, La pulizia etnica della Palestina, Roma, Fazi, 2008;
_Tom Segev, Il settimo milione. Come l’Olocausto ha segnato la storia di Israele, Milano, Mondadori, 2001;
_Antonio Moscato, Israele senza confini. Politica estera e territori occupati, Roma, Sapere 2000, 1984;
_Giancarlo Paciello, La conquista della Palestina. Le origini della tragedia palestinese, Pistoia, Editrice CRT, 2004;
_Nakba. L’espulsione dei palestinesi dalla loro terra, Roma-Salerno, Fondazione Internazionale Lelio Basso, 1988;
_Guido Valabrega, Il Medio Oriente dal primo dopoguerra a oggi, Firenze, Sansoni, 1973;
_Nur Masalha, Expulsion of the Palestinians: The Concept of "Transfer" in Zionist Political Thought, 1882-1948, Washington, Institute for Palestine Studies, 1992;
_Nur Masalha, A Land Without a People, Transfer and the Palestinians 1949-1985, Londra, Faber & Faber, 1997;
_Patrick Seal, Il leone di Damasco. Viaggio nel ‘Pianeta Siria’ attraverso la biografia del presidente Hafez al Assad, Roma, Gamberetti, 1995;
_Patrick Seal, Abu Nidal, una pistola in vendita. I mille volti del terrorismo internazionale, Roma, Gamberetti, 1994;
_Robert Fisk, Il martirio di una nazione. Il Libano in Guerra, Milano, Il Saggiatore, 2010;
_Khaled Hroub, Hamas: un movimento tra lotta armata e governo della Palestina raccontato da un giornalista di Al Jazeera, Milano, Mondadori, 2006;
_Michel Warschawski, Israele-Palestina. La sfida binazionale: un sogno Andaluso del XXI secolo, Roma, Sapere 2000, edizioni multimediali, 2002;
 
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di Gabriele Rèpaci 12/03/2017

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Il brutale omicidio del giovane ricercatore italiano Giulio Regeni, avvenuto tra il gennaio e il febbraio del 2016 in circostanze non ancora del tutto chiare, ha riacceso i riflettori dell’opinione pubblica del nostro paese sull’Egitto paese noto ai più per le Piramidi, la Sfinge e le favolose spiagge di Sharm el-Sheikh. Questo breve saggio, senza alcuna pretesa di sistematicità, ripercorrerà le fasi salienti della storia dell’Egitto moderno dall’epoca del Pascià modernizzatore Muhammad ʿAlī alla Presidenza di Abd al-Fattah al-Sisi, inquadrando le vicende interne del paese nel più ampio contesto internazionale.
La spedizione di Napoleone Bonaparte in Egitto nel 1798-1799 e la successiva presenza francese fino al 1801 vengono tradizionalmente considerate lo spartiacque della storia moderna del paese. Grazie all’impresa napoleonica, infatti la società egiziana ed in particolar modo il suo ceto intellettuale vennero scosse dal vento della modernità. Ci si rese conto che l’Egitto era rimasto per secoli escluso dal progresso scientifico e tecnologico. Ricchezza, benessere, scienza e cultura: furono in molti a percepire che un profondo iato aveva separato la società tradizionale dai più avanzati paesi europei.
[caption id="attachment_8105" align="aligncenter" width="1000"] Due dipinti di Jean-Léon Gérôme. A sinistra "Vista del Cairo" (dettaglio), 1890. A destra "Napoleone e il suo stato maggiore in Egitto, 1824-1904.[/caption]
Uno di questi fu sicuramente l’albanese Muhammad ʿAlī (1769 – 1849) considerato dagli storici il padre fondatore dell’Egitto moderno. Giunto nel paese con il contingente inviato da Istanbul nel 1801, dopo il ritiro dei francesi, si proclamò nel 1805 Pascià d’Egitto ottenendo l’assenso del sultano. Dopo aver fatto massacrare i bey mamelucchi, per consolidare il proprio potere si appoggiò ai funzionari e ai militari di origine ottomana (Turchi, Albanesi, Greci, ecc.) e ai mamelucchi circassi allineati al potere. Questa elite «turco-circassa» dominerà l’Egitto fino alla fine dell’Ottocento.
Consapevole dell’arretratezza che separava il paese dalle società occidentali avanzate, il sovrano decise di avviare alcune riforme volte a modernizzare l’apparato statale. In primo luogo favorì la formazione e lo sviluppo di una burocrazia relativamente efficiente. Essa provvide innanzi tutto a una sistematica recensione catastale delle terre, indispensabile per un efficace prelievo fiscale. L’opera del nuovo governo si indirizzò poi a distruggere il vecchio sistema semi-feudale di riscossione delle imposte agrarie (iltizām), un retaggio ottomano, per centralizzare nella burocrazia l'economia e canalizzarla al tesoro pubblico. Le fondazioni pie islamiche (i waqf), svincolate per tradizione dal controllo dello stato e improduttive dal punto di vista fiscale, furono per così dire «nazionalizzate» e incamerate anch’esse nel tesoro pubblico. Infine alle truppe albanesi, poco disciplinate, sostituì un esercito nuovo, composto inizialmente di schiavi neri razziati in Sudan e, in seguito, a partire dal 1823, di coscritti egiziani, inquadrati sotto il comando di ufficiali turco-circassi. Questo, in sintesi, fu il programma che Muhammad ʿAlī si prefisse, riuscendo in gran parte nello scopo.
[caption id="attachment_14815" align="aligncenter" width="1000"] David Roberts, Intervista con il viceré egiziano al palazzo di Alessandria, Olio su Pannello, 1849.[/caption]
Nel 1820 intraprese la conquista del Sudan per poi intervenire nella guerra d’indipendenza greca su richiesta del sultano ottomano. Avendo ormai a disposizione un esercito ben addestrato, nel 1830 decise di sfidare apertamente la Sublime Porta invadendo la Siria. L’esercito egiziano guidato da suo figlio Ibrāhīm giunse dapprima a Damasco, senza praticamente incontrare resistenza, per poi spingersi a nord fino a Konya e nel 1833 arrivò a minacciare la stessa Istanbul. Il sultano ottomano Mahmūd, spaventato, chiese e ottenne l’intervento della Russia; ma, a questo punto, la Francia e la Gran Bretagna, che in precedenza avevano mantenuto un atteggiamento passivo, si sentirono minacciate nei propri interessi. Da un lato, non volevano in alcun modo che la Russia si affacciasse al Mediterraneo; dall’altro, preferivano di gran lunga salvaguardare il debole e indebitato impero ottomano piuttosto che vedere affermarsi nel Levante l’aggressiva potenza di un nuovo ambizioso Egitto. Così nel 1840 Muhammad ʿAlī dovette per sempre rinunciare all’audace progetto di fare del suo paese lo stato egemone del Vicino Oriente, non senza prima avere però ottenuto che il titolo di Pascià d’Egitto diventasse ereditario.
Ormai malato, Muhammad ʿAlī rinunciò al trono nel 1848 e morì l’anno seguente. Ad ʿAbbās Ḥilmī I (1848-1854), molto conservatore, succedette Saʿīd (1854-1863), che al contrario riprese la politica di modernizzazione avviata da Muhammad ʿAlī, in particolare autorizzando lo scavo del Canale di Suez. Due grandi riforme risalgono al suo regno: le terre concesse a titolo vitalizio divennero a titolo ereditario: cominciò a formarsi una classe di grandi proprietari, mentre i gradi superiori dell’esercito vennero aperti agli egiziani di origine.
Ismāʿīl (1863 – 1879) instaurò nel 1866 un’Assemblea consultiva eletta a suffragio indiretto. L’anno dopo ottenne il titolo di khedivé (vicerè). Allo scopo di «europeizzare» l’Egitto, Ismāʿīl avviò grandi opere infrastrutturali: ferrovie, aperture di molte scuole, tribunali, tutti massicciamente finanziate mediante prestiti contratti sulle piazze europee a tassi esorbitanti. Le opere pubbliche divorarono le riserve del tesoro senza migliorare significativamente la situazione sociale delle campagne e della proprietà terriera. Il debito egiziano divenne così grande che nel 1876 il khedivé ne sospese il pagamento.
A questo punto, per controllare le finanze egiziane, gli europei - in particolare inglesi e francesi - istituirono una Cassa del debito pubblico (Casse de la Dette) col compito di risanare le finanze e garantire alle potenze il recupero dei crediti. Venne formato un governo in cui un inglese deteneva il portafoglio delle finanze e un francese il portafoglio dei lavori pubblici. Le due maggiori potenze coloniali si avviavano così alla gestione duale dell’Egitto, tenendo sotto il proprio controllo i gangli vitali del potere politico ed economico.
Ismāʿīl tentò di riprendersi la sua indipendenza, ma gli europei ottennero - dal sultano ottomano - il suo rimpiazzo con il più docile Tawfīq (1879-1892). In seno all’opposizione, alcuni ufficiali egiziani (non più turco-circassi) acquistarono una crescente importanza sotto la guida del colonnello nazionalista Aḥmad ʿUrābī, il quale nel 1882 divenne ministro della guerra. La tensione crebbe e scoppiarono sommosse ad Alessandria. In luglio, dopo un ultimatum, le navi britanniche bombardarono la città. Le truppe inglesi sbarcarono a Suez e ad Alessandria i primi di agosto.ʿUrābī tentò di resistere alla testa dell’esercito egiziano, ma le sue forze furono sbaragliate a Tell el-Kebīr il 14 settembre del 1882. Dopo essere stato catturato e processato, venne inviato in esilio a Ceylon.
[caption id="attachment_8113" align="aligncenter" width="1310"] Alphonse de Neuville, La battaglia di Tel el Kebir. La battaglia di Tell al-Kebir fu combattuta fra i soldati dell'esercito egiziano, comandati da Ahmad ʿUrābī ed il corpo di spedizione britannico guidato dal generale Garnet Wolseley nei pressi di Tel el Kebir, a circa 80 km a est del Cairo, il 14 settembre 1882, durante la guerra anglo-egiziana del 1882. Il generale Wolseley, dopo aver effettuato un'audace marcia forzata notturna con le sue truppe per portarsi di sorpresa a ridosso delle posizioni difensive egiziane, sferrò la mattina successiva un attacco generale che in breve tempo provocò la completa sconfitta del nemico. La vittoria britannica in questa battaglia decise rapidamente l'esito della guerra e garantì il controllo de facto dell'Egitto da parte dell'Impero britannico fino alla metà del XX secolo.[/caption]
Nonostante al khedivé - vassallo del sultano ottomano - venne concesso di rimanere in carica, da allora in poi sarà la Gran Bretagna ad esercitare il controllo effettivo del paese attraverso il suo console generale al Cairo.
Nel novembre 1914 l’Impero ottomano entrò in guerra contro l’Inghilterra e i suoi alleati. Il mese seguente i britannici instaurarono un protettorato sull’Egitto e deposero 'Abbās Hilmī II che venne rimpiazzato dallo zio Husayn Kāmil, che prese il titolo di sultano e al quale Fu’ād succederà nel 1917.
Alla fine del 1918, una delegazione (wafd) di notabili egiziani, guidati da Saʿd Zaghlūl, richiese la fine del protettorato. Il Wafd diverrà ben presto un potente movimento politico. Quando gli inglesi arrestarono Zaghlūl nel marzo 1919, scoppiarono manifestazioni e scioperi in tutto il paese. I britannici ristabilirono l’ordine, poi avviarono trattative che tuttavia non decollarono. Alla fine Londra proclamò unilateralmente la fine del protettorato nel febbraio 1922.
In realtà il governo inglese aveva solo in apparenza rinunciato al suo dominio coloniale sull’Egitto. La Gran Bretagna infatti, continuava a esercitare il proprio controllo non solo sull’esercito e la polizia (il comandante in capo dell’esercito, il sirdar, era inglese) ma anche sulla politica estera del paese. La costituzione, promulgata nel 1923, instaurò un regime parlamentare riservando tuttavia al Re ampi poteri (designazione del Primo ministro, diritto di scioglimento dell’Assemblea ecc.). La vita politica egiziana dal 1923 al 1945 può essere riassunta come una lotta tra tre forze: il Re (Fu’ād fino al 1936 e poi Fārūq) che tentava di esercitare il proprio potere, gli inglesi, attenti a tutelare i loro interessi, e il Wafd, portavoce della nuova elite egiziana che si opponeva sia alle prerogative del Re che alla presenza inglese.
Nonostante il Wafd vincesse regolarmente le elezioni, il Re riusciva a tenerlo quasi sempre ai margini del potere, manovrando i partiti minori. Dopo un periodo relativamente liberale, tra il 1930 e il 1933, Fu’ād impose un regime molto autoritario. Nel 1936, l’ascesa al trono di Fārūq, popolare all’inizio del suo regno, e il ritorno del Wafd al potere contribuirono a distendere l’atmosfera. Nello stesso anno, l’Egitto firmò con la Gran Bretagna una trattato che ne instaurava (almeno sulla carta) l’indipendenza. Ciò si accompagnava a un’alleanza militare (ventennale), dato che le truppe inglesi si trovavano ormai acquartierate nella zona del Canale di Suez. Le capitolazioni vennero abolite. Lo status del Sudan però, restò in sospeso.
[caption id="attachment_8115" align="aligncenter" width="1024"] Egitto, 1919: la foto ritrae i membri del partito del WAFD con il suo leader Saʿd Zaghlūl[/caption]
In questo periodo cominciarono a diffondersi in tutto il mondo arabo movimenti riconducibili al fascismo. Nel 1933 su iniziativa dell’avvocato Ahmad Husayn nacque il Partito del Giovane Egitto (Hizb Misr al-Fatâ). Dotato di un ala paramilitare, le Camicie Verdi (al-Qumsân al-Khadrâ’), invocavano la liberazione dell’Egitto (e del Sudan) dall’occupazione britannica, l’instaurazione di un regime protezionista per difendere l’industria nazionale dalla competizione straniera, ed una rigida riforma dei costumi che proibisse quelle attività come il consumo e la vendita di bevande alcoliche, la prostituzione e il cinema: considerate contrarie alla morale islamica. Secondo quanto riportato da Maurice Bardèche nel suo libro "I Fascismi sconosciuti", lo stesso Nasser - il cui regime in seguito avrebbe concesso asilo a numerosi criminali di guerra nazisti -, si fece manganellare e arrestare dalla polizia partecipando ad una manifestazione delle Camicie Verdi.
Non risulta difficile comprendere, come mai in Egitto durante la Seconda guerra mondiale la maggioranza della popolazione manifestasse apertamente simpatie verso le potenze dell’Asse. Nel febbraio 1942, quando l’armata tedesca raggiunse l’est della Libia gli egiziani diedero libero sfogo alle loro emozioni. Migliaia di dimostranti si riversarono nelle strade gridando slogan come: «Avanti, Rommel!» poiché vedevano nella sconfitta britannica l’unica via per scacciare le truppe di occupazione fuori dal paese. Gli inglesi furono colti dal panico e iniziarono a bruciare documenti e carte ufficiali e a evacuare i cittadini britannici e i loro sostenitori verso il Sudan. Tuttavia la sconfitta nella battaglia di el-Alamein, nell’ottobre del 1942, frustrò le ambizioni italo-tedesche e quelle dei loro simpatizzanti in Egitto.
A partire dal 1945 il paese cominciò a soffrire di gravi problemi sociali (sovrappopolazione rurale, disoccupazione urbana, inflazione, ecc.) che i governi successivi non riuscirono a risolvere. I movimenti ostili al regime, in particolar modo i Fratelli Musulmani, accrebbero notevolmente i loro consensi presso i ceti più umili.
Sul fronte esterno, la creazione della Lega araba nel marzo 1945, al Cairo, permise all’Egitto di porsi alla guida dei paesi arabi, ma il suo prestigio cominciò a vacillare quando Israele, nel 1948-1949, mise in scacco cinque paesi arabi coalizzati (Egitto, Transgiordania, Siria, Libano e Iraq) e si impose come nuovo stato.
La guerra di Palestina e il disastro affrontato dalle truppe arabe e in particolare da quelle egiziane, senza dubbio catalizzarono il consolidamento degli Ufficiali liberi (al-Ḍubbāt al-Aḥrār), che avrebbe condotto alla rivoluzione del 1952.
Nel 1951 il governo denunciò il trattato anglo-egiziano del 1936: le truppe britanniche vennero fatte oggetto di ripetuti attacchi, al punto che il 25 gennaio, a Ismailiyya, alcuni soldati inglesi uccisero una cinquantina di poliziotti egiziani che avevano assaltato le loro caserme. Il giorno seguente, il «sabato nero», le sommosse devastarono il Cairo: vennero incendiate diverse centinaia di edifici, perlopiù di proprietà di occidentali. L’esercito riuscì a riportare la calma, ma per il regime era giunta ormai la fine.
Nella notte fra il 22 e il 23 luglio 1952 alcuni militari egiziani, gli Ufficiali liberi (organizzazione creata nel 1949), realizzarono un colpo di stato e costrinsero Re Fārūq all’abdicazione, esiliandolo. Istituirono un Consiglio superiore della rivoluzione e misero il generale Muḥammad Naǧīb a capo del governo. La monarchia venne abolita nel 1953 e Naǧīb divenne Presidente della Repubblica.
[caption id="attachment_8116" align="aligncenter" width="1310"]copertina-per-sito55 Nelle immagini, da sinistra a destra: il Re egiziano Fārūq ibn Fuʾād, il generale Muḥammad Naǧīb e i danni agli edifici occidentali del Cairo, dovuti alla sommossa che successivamente sfociò nel colpo rivoluzionario militare.[/caption]
Il golpe venne accolto con freddezza dalle grandi potenze: l’Unione Sovietica parlò di un putsch «fascista», mentre gli inglesi assicurarono che gli avvenimenti avevano origine puramente interna e non avevano nulla a che vedere con il contrasto anglo-egiziano. Il primo provvedimento a essere preso dalla giunta rivoluzionaria fu una riforma agraria che scalzasse i vecchi proprietari terrieri. La legge 178 del 9 settembre 1952 prevedeva:
a) la limitazione della proprietà fondiaria a 200 feddan (acri) per famiglia, anche se un supplemento di 100 feddan era messo a disposizione di mogli e figli del proprietario;
b) la redistribuzione delle terre espropriate ai contadini poveri o nullatenenti nel giro di cinque anni;
c) l’indennizzo ai proprietari espropriati;
d) la nascita di cooperative agricole tra i contadini più indigenti;
e) la nascita di sindacati dei lavoratori agricoli.
La legge del 1952 venne ulteriormente ritoccata nel 1958 e nel 1961. I partiti politici vennero vietati all’inizio del 1953; un anno più tardi la stessa sorte toccò ai Fratelli Musulmani. I negoziati con gli inglesi sfociarono in un accordo sul Sudan nel 1953; poi, nell’ottobre 1954, nell’abrogazione del trattato del 1936. Venne deciso che l’evacuazione della zona del Canale da parte dei britannici si sarebbe dovuta compiere entro il giugno 1956.
Nel 1954, un giovane membro degli Ufficiali liberi, il luogotenente Gamāl ʿAbd al-Nasser, conquistò il potere a spese di Naǧīb. Verso i Fratelli Musulmani, che avevano tentato di assassinarlo in ottobre, Nasser avviò una spietata repressione tanto che uno dei capi più prestigiosi di tale organizzazione, ʿAbd al-Qādir ʿAwda, verrà impiccato. Il movimento non rialzerà più la testa fino agli anni settanta.
Nel 1956 una nuova costituzione instaurò un regime presidenziale forte e, di fatto, un regime a partito unico (l’Unione nazionale). Il 23 giugno di quello stesso anno, un plebiscito eleggerà Nasser Presidente (Raʾīs) della Repubblica con il 99, 9 per cento dei voti.
[caption id="attachment_8117" align="aligncenter" width="1000"] Nella foto a sinistra il generale Gamāl ʿAbd al-Nāṣir Ḥusayn. Considerato una figura centrale nella storia moderna del Vicino Oriente nella seconda metà del XX secolo. Nazionalizzò il Canale di Suez e respinse le pretese di Francia e Regno Unito per continuare a controllare il Canale, guadagnando un'altissima popolarità presso le masse arabe. Grande sostenitore dell'anticolonialismo e del panarabismo, Gamāl ʿAbd al-Nāṣer fondò con Jawaharlal Nehru e Josip Broz Tito il Movimento dei paesi non allineati. Perse parte del proprio prestigio dopo la sconfitta nella Guerra dei sei giorni contro Israele, ma mantenne un ruolo chiave in tutti i futuri dialoghi tra le parti avverse.[/caption]
Appena insediato il neo presidente si preoccupò di elaborare una teoria della programmazione economica e sociale che lo portò ad attuare un intervento sempre più pesante nei confronti dell’iniziativa privata. La riforma agraria già iniziata da Naǧīb venne ulteriormente portata avanti. Anche altre attività economiche furono investite e scosse dalla volontà riformatrice del nuovo capo egiziano: banche, compagnie di assicurazione, agenzie commerciali, società di navigazione, già in buona parte dipendenti dal capitale estero, furono nel giro di pochi anni sottratte all’iniziativa privata, sottoposte al controllo dello Stato e poi nazionalizzate, dando origine a una peculiare forma di capitalismo di stato definita dal suo ideatore «socialismo arabo». Seguirono le leggi per la protezione sociale: previdenza, sanità, diritto all’istruzione, sicurezza sul lavoro degli operai di fabbrica e dei dipendenti del settore terziario, blocco dei licenziamenti e assicurazione di un lavoro a tutti i diplomati e laureati. Furono mantenuti prezzi politici per i generi alimentari di prima necessità.
Per effetto di tali provvedimenti le condizioni economiche del paese migliorarono: le entrate passarono da 228 milioni di lire egiziane del 1952-53 a 1.379 milioni del 1961-62. L’istruzione, che nel 1952 copriva il 40 per cento della popolazione in età scolare, nel 1960 salì a coprirne il 70 per cento. Le malattie oftalmiche, che colpivano quasi tutti i bambini della popolazione rurale, dopo una vasta campagna sanitaria e igienica, furono debellate negli anni Sessanta.
In politica estera Nasser assunse una posizione nettamente anti-colonialista e antimperialista sostenendo attivamente i movimenti di liberazione nazionale dei paesi del Terzo Mondo. In tale ottica, il leader egiziano partecipò, nell’aprile del 1955 alla Conferenza di Bandung dove si erano riuniti i principali leader dei paesi emergenti nel tentativo di trovare una terza via tra le opposte egemonie degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica. L’atteggiamento del Raʾīs spaventò Israele e le potenze occidentali, sempre meno disposte a fornire aiuti militari all’Egitto. Nasser, nonostante il suo anticomunismo, cominciò a rivolgersi all’Urss, che diede il suo assenso alla fornitura di armi attraverso la Cecoslovacchia alla fine del 1955. In cima alla lista dei progetti del presidente egiziano figurava la costruzione di una grande diga ad Assuan. Il suo finanziamento fu oggetto di trattative con gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, ma Washington, preoccupata sia dalla politica estera del Raʾīs che dal possibile incremento della produzione cotoniera egiziana che si sarebbe verificato in seguito alla costruzione della diga, la interruppe nel luglio del 1956. Per tutta risposta Nasser decise di finanziare la diga nazionalizzando la Compagnia che gestiva il canale di Suez.
La sera del 26 luglio 1956, in un discorso ad Alessandria tra la folla esultante, il leader egiziano annunciò che per troppo tempo le risorse del canale erano confluite nelle tasche degli occidentali. Il canale e la sua Compagnia vennero perciò trasformati in una proprietà dello Stato egiziano a cui dovevano andare tutti i proventi.
Disse Nasser: «Oggi siamo tutti qui per porre assolutamente fine a un passato sinistro e se ci rivolgiamo verso questo passato è unicamente allo scopo di distruggerlo. Non permetteremo che il canale di Suez sia uno Stato nello Stato. Oggi il canale di Suez è una società egiziana le cui azioni sono possedute dall'Inghilterra per il 44 per cento. L'Inghilterra ha goduto fino a oggi dei benefici di queste azioni. Il reddito del canale, nel 1955, è stato valutato a 35 milioni di lire egiziane cioè a 100 milioni di dollari: di tale somma ci è stato attribuito solo un milione di lire egiziane, vale a dire 3 milioni di dollari. Ecco dunque la società egiziana, creata per il benessere dell'Egeo secondo quanto proclamava l'Atto di concessione! La povertà non è un disonore; lo è lo sfruttamento dei popoli. Ci riprendiamo tutti i diritti perché questi fondi sono nostri e questo canale è proprietà dell'Egitto. La Compagnia è una società anonima egiziana e il canale fu aperto grazie alle fatiche di 120.000 egiziani, che trovarono la morte durante l'esecuzione dei lavori. Sotto il nome di Società del canale di Suez, di Parigi, si nasconde solo uno sfruttamento. Noi costruiremo la diga e otterremo tutti i diritti che abbiamo perduto. Manteniamo le nostre aspirazioni e i nostri desideri. I 35 milioni di lire egiziane che la Compagnia incassa ce li prenderemo per il benessere dell'Egitto. Oggi dunque dichiaro, cari cittadini, che costruendo la diga edificheremo una fortezza d'onore e di gloria. Dichiariamo che tutto l'Egitto è un solo fronte unico e un blocco nazionale inseparabile. Tutto l'Egitto lotterà fino all'ultima goccia di sangue per la costruzione del Paese».
Le cancellerie degli Stati economicamente e politicamente più coinvolti andarono in preda al panico. Contro il Raʾīs egiziano l’Occidente scatenò un’isterica campagna di stampa: mentre la nazionalizzazione della Compagnia del Canale veniva equiparata alla militarizzazione della Renania o all’Anschluss o all’annessione del Sudeti, Nasser era bollato come «fantoccio sovietico», «fascista», «Hitler del Nilo»; ma questi ultimi epiteti conseguivano presso le masse arabe l’effetto contrario a quello desiderato da chi li aveva coniati, sicché la popolarità del Raʾīs ne usciva rafforzata.
Contemporaneamente gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Francia studiavano le possibili soluzioni della crisi: o rovesciare Nasser con un colpo di Stato sostenuto da un intervento militare e insediare al Cairo un governo fantoccio, o esercitare pressioni per indurlo ad accettare che il Canale venisse controllato da un ente internazionale.
Prevalse, a Londra e a Parigi, l’idea della guerra. Mentre i rappresentanti egiziani discutevano pazientemente alle Nazioni Unite e si manifestavano disposti ad una soluzione di compromesso che sarebbe stata firmata a Ginevra alla fine di ottobre, i governi inglese e francese guadagnavano tempo, per preparare in segreto l’aggressione armata.
Gli Stati Uniti non erano d’accordo con questa opzione, perché non intendevano lasciare ai due Stati europei uno spazio d’azione nel Terzo Mondo: il colonialismo di vecchio stampo, doveva essere archiviato per sempre e sostituito dal neocolonialismo fondato sull’egemonia finanziaria.
L’intesa franco-britannica si allargò anche verso lo Stato d’Israele, che assisteva preoccupato da molto tempo alla crescita della potenza militare egiziana. Parigi cominciò fin dai primi di agosto a rifornire Tel Aviv di considerevoli quantitativi d’armi, violando in tal modo quel patto tripartito del 1950 con cui Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna si erano impegnati a mantenere l’equilibrio militare tra Egitto e lo Stato d’Israele.
Nella notte tra il 29 e il 30 ottobre, mentre l’attenzione dell’opinione pubblica occidentale era monopolizzata da quanto stava avvenendo in Ungheria, Israele - adducendo come motivazione, che nella striscia di Gaza operavano terroristi i quali programmavano attentati - invase il Sinai e una volta inflitte gravi perdite all’esercito egiziano, marciò speditamente verso il canale. Gran Bretagna e Francia finsero di presentare un ultimatum per costringere le parti ad arrestarsi e, al prevedibile rifiuto di Nasser, passarono all’attacco. Il 31 ottobre l’aviazione franco-britannica bombardò gli aeroporti egiziani e i sobborghi del Cairo. Il 5 novembre le truppe coalizzate europee sbarcarono a Porto Said e procedettero velocemente verso sud, lungo il canale in direzione delle città di Suez e di Ismailiyya.
[caption id="attachment_8119" align="aligncenter" width="1310"]cairo4 La crisi di Suez fu un conflitto che nel 1956 caratterizzò l'occupazione militare del canale di Suez da parte di Francia, Regno Unito ed Israele, a cui si oppose l'Egitto. La crisi si concluse quando l'Unione Sovietica minacciò di intervenire al fianco dell'Egitto e gli Stati Uniti, temendo l'allargamento del conflitto, costrinsero britannici, francesi ed israeliani al ritiro. Fu un conflitto ricordato dagli storici per varie particolarità: per la prima volta Stati Uniti e Unione Sovietica si accordarono per garantire la pace; per la prima volta il Canada s'espresse e agì in contrasto verso il Regno Unito; fu l'ultima invasione militare del Regno Unito senza l'avallo politico degli Stati Uniti, segnando secondo molti la fine dell'Impero britannico; allo stesso modo, fu l'ultima invasione militare della Francia e quindi ultimo atto dell'impero coloniale francese; e fu infine una delle poche volte in cui gli Stati Uniti furono in disaccordo con le politiche d'Israele.[/caption]
L’opinione pubblica mondiale, rappresentata all’Onu, dimostrò subito grande ostilità nei confronti della guerra e condannò l’aggressione tripartita all’Egitto. La Siria e la stessa Arabia Saudita sospesero le forniture di petrolio agli aggressori. L’India prese in considerazione l’idea di uscire dal Commonwealth. L’Unione Sovietica minacciò un intervento nucleare. Gli Stati Uniti videro nell’azione franco-britannica e israeliana un motivo di grave turbativa della delicata situazione strategica del Medio Oriente che miravano a controllare. La Gran Bretagna e la Francia, isolate, furono perciò costrette ad accettare il cessate il fuoco imposto dall’Onu e quindi a ritirare - umiliate - le loro truppe. Israele oppose maggiore resistenza, ma infine nei primi del 1957, abbandonò il Sinai e Gaza. Nell’aprile del 1957 il canale fu riaperto alla navigazione e, contrariamente alle aspettative degli europei, gli egiziani si rivelarono perfettamente in grado di gestirne il traffico e di pilotare le navi. I proventi del canale costituirono da allora in poi, insieme al turismo e allo sfruttamento del petrolio del Sinai, una delle voci più importanti dell’economia nazionale.
L’Egitto aveva subito una sconfitta militare, ma Nasser aveva raccolto uno straordinario successo politico, emergendo come il leader incontrastato del mondo arabo.
Oltre ad aver segnato la sconfitta delle ambizioni imperiali europee in Africa e in Asia e accelerato il processo di indipendenza delle nazioni ancora soggette al dominio coloniale, la guerra di Suez del 1956 ebbe come fondamentale conseguenza il rafforzamento dei legami tra l’Egitto e l’Unione Sovietica che si impegnò a rifornire d’armi il regime di Nasser e ad aiutare tecnicamente e finanziariamente  - attraverso prestiti concessi a condizioni più che vantaggiose - i piani di sviluppo economico, in primo luogo i lavori per la diga di Assuan.
Nel 1954, un colpo di Stato aveva portato al potere in Siria Shukrī al-Quawatlī, appoggiato dalla sinistra. Questi aveva subito dimostrato particolari simpatie per l’Urss e aveva preso le distanze dagli Stati Uniti. Nel 1957 il partito Baʿath aveva trionfalmente vinto le elezioni. A Damasco le condizioni sembravano particolarmente propizie, per stringere un legame privilegiato con l’Egitto rivoluzionario di Nasser, eroe del mondo arabo. L’idea di un’unione organica con i siriani tuttavia non entusiasmava il Raʾīs, il quale non aveva nessuna ambizione a governare gli affari interni del paese, tanto meno accollarsene i problemi. Quel che il leader egiziano propugnava era piuttosto la «solidarietà araba», intendendo con essa che gli arabi dovessero allearsi con lui e spalleggiarlo nella lotta contro le grandi potenze. Lo attraeva l’idea di controllare la politica estera siriana per tenere sotto scacco i suoi nemici, sia arabi che occidentali.
Alla fine comunque Nasser si renderà conto che, se voleva la rosa, avrebbe dovuto prendersi anche tutte le spine. Il 1 febbraio 1958 fu annunciata ufficialmente l’unione tra Siria ed Egitto che prese il nome di Repubblica araba unita (RAU) presieduta dal leader egiziano.
Il Raʾīs mise in piedi una struttura al contempo autoritaria e malferma. Tutte le decisioni venivano prese al Cairo, mentre a Damasco il potere venne lasciato nelle mani di un insulso colonnello della polizia, Abdel Hamed Sarraj, nominato ministro dell’Interno. La capitale siriana venne ridotta a un semplice capoluogo di provincia e le ambasciate estere presenti in città furono chiuse. Gli affari dell’unione, decretò Nasser, sarebbero stati gestiti da un gabinetto centrale del quale avrebbero fatto parte anche due siriani, mentre gli affari interni di Egitto e Siria, ribattezzati rispettivamente Regione Meridionale e Regione Settentrionale della RAU, sarebbero stati affidati a consigli esecutivi locali. Le due regioni avrebbero inviato a loro volta i propri delegati ad un’unica Assemblea generale, con sede al Cairo, composta da 400 egiziani e 200 siriani, ma non liberamente eletti bensì nominati da Nasser stesso. Quando il 28 settembre 1961 la Siria si separò dall’unione con un golpe di destra - spalleggiato da Giordania e Arabia Saudita oltre che dalla grande borghesia siriana, spaventata dall’ondata di nazionalizzazioni decretata quell’anno da Nasser - , nessuno in tutto il paese sparò un colpo in difesa della RAU.
La secessione della Siria fu vissuta da Nasser come uno smacco personale, come il segno del fallimento di una politica - a suo avviso - generosa. Non si rese conto che fu proprio il suo spirito accentratore e dispotico a provocare la fine di quell’esperimento politico. Egli tuttavia non volle seppellire il riferimento alla Repubblica araba unita che rimase il nome ufficiale del solo Egitto fino alla fine della sua presidenza (e oltre).
Nel settembre 1962 scoppiò nello Yemen una insurrezione militare, che proclamò la repubblica. Nasser appoggiò il capo degli insorti il colonnello Sallāl e in suo aiuto mandò armi e truppe, impegnandosi in una lunga ed estenuante lotta con le forze rimaste fedeli all’imam Muḥammad al-Badr che godevano dell’appoggio dell’Arabia Saudita e della Giordania. Nel 1964 venne promulgata una nuova costituzione che portò all’elezione di un’Assemblea nazionale formata da membri dell’Unione Socialista Araba, l’unica organizzazione politica riconosciuta.
A metà degli anni sessanta si moltiplicarono gli incidenti tra Israele da un lato e Siria e Giordania dall’altro. Ciò spinse Nasser ad agire. Nel maggio 1967 richiese il ritiro delle forze dell’ONU (poste a schermo tra Israele ed Egitto) e chiuse lo stretto di Tiran alla navigazione israeliana. Il 31 maggio il Re di Giordania firmò un accordo di difesa con il Cairo. Israele reagì il 5 giugno, radendo al suolo gran parte dell’aviazione egiziana. Cominciò così la guerra dei Sei Giorni (5-10 giugno), che per l’Egitto si risolse in un disastro: Israele occupò la totalità del Sinai e dei suoi pozzi petroliferi. Nasser si assunse le responsabilità della sconfitta e offrì le proprie dimissioni che furono però respinte a furor di popolo.
La disastrosa disfatta militare degli arabi nel 1967 è stata cruciale per la storia del Medio Oriente. Ha segnato contemporaneamente la fine del nasserismo e il definitivo consolidamento di Israele. Ha determinato uno dei problemi di più difficile soluzione della storia delle relazioni internazionali del XX secolo: quello dell’indipendenza e dell’identità del popolo palestinese, problema la cui apparente irrisolvibilità è a tutt’oggi ben nota. Ha indirettamente alimentato lo sviluppo del radicalismo islamico, sia nei territori occupati da Israele sia, più globalmente, in tutto il mondo arabo. È proprio in risposta all’esaurirsi della spinta ideale del socialismo «laico» di Nasser che, prima in Egitto e poi nel resto del mondo musulmano, si sviluppò, e attecchì il cosiddetto fondamentalismo islamico contemporaneo.
La sera del 28 settembre del 1970, Nasser, vittima del diabete e del superlavoro, ebbe una terza crisi cardiaca e morì nella sua casa di Manshiyyat el-Bakri, a 52 anni. Il suo corpo venne trasportato nella vecchia sede del consiglio della rivoluzione, il palazzo al-Qubbah. I funerali furono imponenti e gli osservatori ne rimasero impressionati: milioni di egiziani seguirono il feretro in lacrime, sconvolti da un dolore senza dubbio sincero. Con lui moriva, nonostante i limiti della sua azione, un uomo che aveva sfidato l’arroganza delle potenze coloniali e che aveva incarnato il riscatto del mondo arabo dinnanzi all’Occidente.
Il vicepresidente Anwar al-Sādāt prese il posto di Nasser, successione approvata dal referendum dell’ottobre 1970. Nato nel 1918 come il suo predecessore, durante la Seconda guerra mondiale aveva avuto a che fare con delle spie tedesche e aveva trascorso qualche tempo in carcere per aver progettato di uccidere alcuni collaboratori filo-britannici. Nel 1952 era stato lui ad annunciare al mondo la rivoluzione degli Ufficiali liberi. Nel 1971 la denominazione RAU, mantenuta anche dopo il 1961, fece posto a quella di Repubblica araba d’Egitto. Lo stesso anno Sadat destituì il suo maggior rivale Ali Sabri, difensore dell’ortodossia nasseriana (in seguito sarà incarcerato). Cominciò anche a correggere alcuni provvedimenti del suo predecessore: vennero restituiti, almeno in parte, i beni confiscati dopo il 1961. E nel 1972, in segno di distensione nei confronti dell’Occidente, cacciò dal paese i consiglieri militari sovietici.
Intanto in Siria, il 16 novembre del 1970, Hāfiz al-Assad aveva preso il potere destituendo Ṣalāḥ Jadīd. Il nuovo presidente era deciso più che mai nel recuperare i territori perduti nella Guerra dei Sei Giorni e riscattare l’immagine del proprio paese dopo vent’anni di continue umiliazioni da parte degli israeliani. Mentre cercava le armi per combattere, Assad trovava nell’Egitto di Sādāt, l’alleato naturale e privilegiato per sconfiggere Israele. Agli inizi del 1971 il presidente siriano e il suo omologo egiziano iniziarono così a elaborare una serie di piani per un attacco congiunto sino ad arrivare all’agosto del 1973, quando nel quartier generale della marina egiziana di Raʾs at-Tin, si tenne una riunione segreta del Consiglio supremo delle forze armate siro-egiziane.
In quell’occasione le più alte cariche dei due eserciti firmarono il documento formale in cui si impegnavano a muovere guerra nel prossimo autunno. Ulteriori consultazioni fissavano la data e l’ora: il 6 ottobre alle 14.00.
In realtà Siria ed Egitto avevano obiettivi assai divergenti: Assad voleva la guerra perché era convinto che ogni colloquio con Israele non avrebbe portato a nessuna restituzione dei territori occupati; Sādāt invece voleva il conflitto per aver maggior potere negoziale al tavolo della trattativa separata che già conduceva (apertamente, ma anche segretamente) con Tel Aviv tramite la mediazione americana. Per Damasco si trattava di una guerra di liberazione, per il Cairo era una mossa essenzialmente politica per rilanciare la propria diplomazia. Entrambi avevano bisogno l’uno dell’altro, e Sādāt sapeva bene che Assad si sarebbe rifiutato di combattere se lo scopo comune non fosse stato la liberazione del Sinai e del Golan. Il presidente egiziano scelse così di non rivelare le sue vere intenzioni al collega siriano, mentre quest’ultimo, troppo preso dai suoi obiettivi di guerra, non si poneva nemmeno il problema di quel che sarebbe potuto accadere dopo la fase bellica, né si garantì una rete diplomatica di sicurezza in caso di insuccesso.
In questo contesto, il 6 ottobre 1973 ebbe inizio la Guerra d’Ottobre (anche detta del Ramadan o dello Yom Kippur perché iniziata in concomitanza con le omonime festività musulmana ed ebraica): il massiccio attacco congiunto siro-egiziano colse di sorpresa i militari e i dirigenti israeliani, e mentre da nord i siriani riuscirono ad avanzare fino a conquistare importanti posizioni (compresa la vetta del Monte Hermon/ash-Shaykh), da sud, gli egiziani, si arrestarono subito dopo attraversato il Canale di Suez.
[caption id="attachment_8121" align="aligncenter" width="1310"] Nella foto centrale Moshe Dayan: generale e politico israeliano. Dopo la morte di Levi Eshkol, nel 1969, divenne primo ministro Golda Meir. Dayan, rimase al dicastero della difesa. Era ancora in carica quando, il 6 ottobre 1973, iniziò la Guerra del Kippur. I primi due giorni di guerra furono traumatici per Israele. Dayan porta indubbiamente alcune responsabilità nelle sconfitte iniziali. Assieme alle altre massime autorità civili e militari, aveva sottovalutato i segnali d'allarme che provenivano da diverse fonti. Si era rifiutato di mobilitare le Forze di Difesa Israeliane per lanciare un attacco preventivo contro Egitto e Siria, in quanto credeva che le stesse IDF avrebbero potuto vincere con facilità anche se gli arabi avessero attaccato per primi. Dopo le pesanti sconfitte dei primi due giorni di guerra, le ottimistiche idee di Dayan cambiarono radicalmente. Fu sul punto di annunciare "la caduta del Terzo Tempio" ad una conferenza stampa, dimenticandosi di parlarne prima con la Meir. Cominciò anche a parlare apertamente di usare armi di distruzione di massa contro gli arabi. Riuscì comunque a recuperare il controllo della situazione e condurre la guerra fino alla vittoria finale. Anche se la Commissione Agranat, sorta per indagare su quanto non aveva funzionato nella guerra dell'ottobre 1973, non attribuì responsabilità particolari alla dirigenza politica del paese, a cui Dayan apparteneva, un'ondata di proteste da parte dell'opinione pubblica costrinse lui e Golda Meir a dimettersi.[/caption]
Sādāt infatti decise di non avanzare nel Sinai, come invece si aspettava la Siria, la quale si troverà a combattere da sola per un’intera settimana, soccombendo alla fine ad Israele. Quest’ultimo infatti non dovendo più preoccuparsi di difendere i suoi confini meridionali poté concentrarsi interamente su quelli settentrionali costringendo le truppe di Damasco alla ritirata fino alle linee del 1967 e, in seguito anche al di là di esse.
Nonostante l’arrivo di alcuni reparti iracheni, seguiti il giorno dopo da quelli sauditi e giordani, le forze siriane erano ormai allo sbando e i militari israeliani arrivarono a solo 35 km da Damasco, oltre venti chilometri più avanti delle linee della tregua del 1967. Dopo numerosi appelli inascoltati alla tregua - il 22 ottobre la risoluzione 338 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu chiedeva l’applicazione in tutte le sue parti della 242 del 1967 - e l’intervento diretto di Mosca e Washington (gli Usa dichiararono l’allarme generale atomico di terzo grado), il 25 ottobre venne firmato un primo cessate il fuoco.
Muhammad Heikal, confidente di Sādāt, avrebbe in seguito dichiarato che la scelta di non avanzare sino ai passi del Sinai presa dal presidente egiziano fece perdere al paese un’occasione storica: «Sono convinto – disse Heikal – che se avessimo raggiunto ed occupato i passi, l’intero Sinai sarebbe stato liberato, ed una simile vittoria avrebbe trascinato con se incalcolabili conseguenze politiche».
Nel 1973 Il Cairo ristabilì le relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti, interrotte nel 1967, i quali intendevano facilitare i negoziati tra Egitto e Israele. Nel 1975 gli egiziani rioccuparono la parte occidente del Sinai e il Canale venne riaperto.
L’apertura economica (infitāh) e l’abbandono graduale delle opzioni socialiste, contraddistinsero l’opera di denasserizzazione dell’epoca di Sādāt. La svolta ebbe avvio nella primavera del 1974 e proseguì nel 1977. Furono approvate alcune leggi che promossero gli investimenti mettendo fine al monopolio del sistema bancario. Si cercò di facilitare la circolazione del denaro consentendo di acquistare valuta estera per mezzo della valuta locale. Le transazioni commerciali, vennero stimolate ricorrendo alla diminuzione o addirittura all’abolizione dei carichi fiscali e doganali. Vennero create enclave extraterritoriali per favorire la presenza di investitori europei e americani.
I risultati economici dell’apertura furono però modesti, se non addirittura negativi. La liberalizzazione del mercato portò contemporaneamente sia a un incremento delle importazioni e dunque al deficit della bilancia dei pagamenti, sia al vertiginoso aumento dell’inflazione, che raggiunse il 40 per cento. Per quanto riguarda il deficit della bilancia dei pagamenti, esso fu di 833 milioni di dollari nel 1974 ma di ben 3.166 milioni di dollari nel 1976. Le richieste di nuovi beni con le connesse difficoltà di approvvigionamento condussero ad un fiorente mercato nero. Inoltre, l’Egitto divenne strettamente dipendente dall’aiuto esterno per riequilibrare il debito; e la dipendenza economica non poteva che risolversi in dipendenza politica. L’inflazione provocò un divario tra la crescita dei prezzi e quella dei salari che, formalmente aumentati, in realtà diminuirono perdendo potere d’acquisto. La speculazione e la concorrenza provocarono la nascita di una ristretta élite di milionari (pare circa 500 già alla fine del 1975) corrotti e rapaci, spregiativamente chiamati «gatti grassi». A fronte dei nuovi ricchi, la situazione delle masse peggiorò sensibilmente, soprattutto nelle campagne.
Nel gennaio del 1977, in seguito alla decisione del governo di tagliare drasticamente i sussidi governativi alle famiglie povere per poter ottenere nuovi prestiti dal Fondo monetario internazionale, una rivolta cieca e distruttiva, innescata dagli studenti - che subito mobilitò i disperati delle baraccopoli -, esplose da Alessandria al Cairo sino all’Alto Egitto. La violenza dei moti convinse il presidente a far intervenire l’esercito insieme alla polizia. La repressione fu durissima: si ebbero settantanove morti (ufficiali), circa mille feriti e millecinquecento arresti.
Per logorare la sinistra egiziana e quella base nasseriana, che continuavano a godere di consensi fra le fasce più povere della popolazione, Sādāt decise di sfruttare il fondamentalismo religioso. È in tale ottica che nel 1971 aprì le porte delle prigioni per liberare i Fratelli Musulmani precedentemente incarcerati da Nasser. Il movimento fondato da Ḥasan al-Bannā poteva così ricominciare una lenta ricostruzione, e rimodellare la propria ideologia in funzione delle esperienze acquisite. I Fratelli Musulmani rilasciati dalle carceri si rivelarono buoni alleati di Sādāt sostenendone la politica di infitāh, che doveva ai loro occhi rappresentare una opportunità di cogliere per la costruzione di una società islamica. Dal 1976 con il placet del regime, ripresero in maniera sistematica la pubblicazione della rivista «al-Daʿwa», dalla quale diffonderanno il loro messaggio.
Il condizionamento della scelta «islamica» di Sādāt sulle istituzioni fu notevole. Nel 1978 venne promulgata la cosiddetta «legge della vergogna»: un testo grazie al quale venivano istituiti tribunali per la salvaguardia della morale pubblica, che potevano giungere a emettere sentenze molto pesanti, fino a privare il colpevole dei diritti politici. Si ravvivò così l’antica pratica della legge islamica della hisba: si tratta del dovere comunitario di «ordinare il bene e proibire il male» che, oltre a prevedere l’istituzione di un funzionario (il muhtasib), responsabile della moralità pubblica, del controllo dei divertimenti e della correttezza delle transazioni commerciali, vincola il singolo individuo a correggere il «peccatore», eventualmente attraverso esposti ai tribunali ordinari. Gli emendamenti alla Costituzione nel 1980 prevedevano che la sharīʿa diventasse la fonte primaria del diritto; mentre nella Costituzione del 1971 era solo una delle fonti principali.
Nel 1977 Sādāt si recò a Gerusalemme - iniziativa condannata da tutti i paesi arabi - secondo i quali il successore di Nasser si era macchiato di tradimento. Tale decisione lo avrebbe portato direttamente nella tomba. Nella Knesset, il presidente egiziano ascoltò in silenzio Menachem Begin rievocare l’antica storia della nascita di Israele, di Davide e Golia, del minuscolo stato che si batteva contro giganti per la propria sopravvivenza. Se il silenzio significava assenso, allora il mondo arabo aveva visto Sādāt acconsentire al riconoscimento dello Stato di Israele. «Ha parlato al mondo dal parlamento del suo nemico» scrisse all’epoca il giornalista inglese Robert Fisk sull’Irish Times. «Ma non ha detto se pensa, sedendosi con gli israeliani, di aver anche firmato la sua condanna a morte».
Nel settembre 1978, infine, gli accordi di Camp David, sotto l’egida del presidente americano Jimmy Carter, stabilirono i termini di un trattato di pace separata, firmato a Washington. L’accordo consisteva fondamentalmente nella restituzione del Sinai all’Egitto (che però non avvenne subito, ma nel giro di tre anni, visto che solo nel 1982 le ultime truppe israeliane abbandonarono la penisola); nell’avvio di normali relazioni diplomatiche tra i due paesi; nella garanzia della vendita a Israele per quindici anni del petrolio del Sinai. La pace con lo stato ebraico ebbe tuttavia il suo prezzo: l’Egitto venne escluso dalla Lega araba, che trasferì a Tunisi la propria sede e cessarono gli aiuti finanziari arabi.
Il 6 ottobre 1981, durante una parata militare per ricordare l’inizio della guerra del Kippur contro Israele, tre soldati infiltrati si staccarono dal corteo, gettarono tre granate verso il palco e spararono contro il presidente. Sādāt fu crivellato di proiettili e morì quasi subito. Gli attentatori erano legati al movimento integralista Al-Jihād di ʿAbd al-Salām Faraj e guidati dal tenente Khāled al-Islambulī, condannato a morte un anno dopo. Il vicepresidente dell’Egitto, Ḥosnī Mubārak, rimase ferito e, dopo l’attentato a Sādāt, ne prese il posto.
[caption id="attachment_8122" align="aligncenter" width="1160"]copertina-per-sitko Nella prima foto a sinistra Golda Meyer dialoga con Muḥammad Anwar al-Sādāt, durante la prima visita a Gerusalemme del leader egiziano. La seconda immagine è scattata pochi secondi dopo l'attentato fatale al primo ministro egiziano, da parte degli esponenti del partito Al-Jihād di ʿAbd al-Salām Faraj.[/caption]
Contrariamente a quanto era avvenuto con Nasser non ci furono manifestazioni di emozione o di cordoglio popolare per la morte del suo successore. Il popolo egiziano aveva così implicitamente condannato la politica di Sādāt.
A Sādāt succedette il vicepresidente Ḥosnī Mubārak, già comandante in capo dell’aviazione. Mubārak cercò prima di tutto di preservare la stabilità del paese e la sua stessa posizione: verrà riconfermato presidente nel 1987, nel 1993, nel 1999 e nel 2005. Mantenne i legami militari ed economici con gli Stati Uniti, ma riallacciò anche i rapporti con i paesi arabi: nel 1989 il paese rientrò nella Lega araba. Nel 1991 impegnò l’Egitto nella guerra del Golfo, all’interno della coalizione anti-irachena.
Sotto Mubārak si è avuta una continua accelerazione del liberismo economico promosso da Sādāt nonostante le resistenze della burocrazia e dei lavoratori. Sebbene le liberalizzazioni e le privatizzazioni abbiano arginato l’inflazione contribuirono ad aggravare le diseguaglianze sociali: fu la fine dello stato sociale che Nasser aveva tentato di instaurare. Sul piano politico, Mubārak si mostrò inizialmente abbastanza liberale, ma a partire dal 1985 dovette far fronte alle rivendicazioni dell’islamismo radicale. Alla violenza, che crebbe e toccò l’apice negli anni 1992-1997, il regime rispose in modo sempre più brutale. I leader islamisti, per lo più imprigionati, annunciarono una sospensione degli attentati nel 1998. Fino alla fine del regime di Mubārak la vita politica del paese restò dominata, nonostante un pluripartitismo di facciata, dal Partito Nazionale Democratico (al-Ḥizb al-Waṭanī al-Dīmuqrāṭī).
Con i moti di Piazza Taḥrīr che, nel febbraio 2011, portarono al rovesciamento di Mubārak, il movimento della Fratellanza Musulmana ha acquisito una grande forza, che lo ha portato, in seguito, a vincere le elezioni godendo dei favori degli USA. 
[caption id="attachment_14818" align="aligncenter" width="1000"] Muḥammad Mursī nel suo periodo di governo ha applicato i dettami del Fondo monetario internazionale con una politica anti-popolare e repressiva contro tutte le forme di crescente mobilitazione e organizzazione del proletariato egiziano. La disuguaglianza nei salari è continuata a crescere mentre le condizioni di vita dei settori popolari sono continuate a peggiorare. Il numero della popolazione egiziana che viveva con meno di due dollari al giorno è passata dal 20 per cento del 2005 al 40 per cento nel 2012.[/caption]
La disoccupazione, colpiva soprattutto la popolazione giovanile salendo dal 9,7 per cento nel 2009 al 13 per cento nel 2013. Nel frattempo il rallentamento economico dell’economia egiziana ha raggiunto il 2,2 per cento, mentre l’inflazione è aumentata del 10 per cento. La delusione delle aspettative popolari egiziane riposte nel governo islamista, con un peggioramento delle condizioni di vita e un aumento dei prezzi dei beni essenziali, ha spinto il paese verso una rinascita delle proteste sociali in Egitto. Una parte importante delle mobilitazioni si è verificata proprio nei centri di lavoro con un incessante incremento degli scioperi. Nel 2012, anno in cui ha assunto l’incarico Mursī, si sono svolti in Egitto circa 3400 proteste di carattere socio-economico, con il governo della FM che non ha esitato a reprimere con maggiore durezza di Mubārak i movimenti operai e sindacali. Decine e decine di arresti sono stati operati contro i dirigenti sindacali con la proclamazione di una legge anti-sciopero basata su quella attuata dai colonialisti britannici per sopprimere la rivolta del 1919. Al fianco delle politiche anti-operaie e anti-popolari, venne imposta una riforma costituzionale mirata all’islamizzazione delle istituzioni dello Stato e della società. La nuova Costituzione, sospesa in seguito al colpo di Stato del luglio 2013, riproponeva la conservazione dell’articolo 2 così come formulato nel 1971 e riformato nel 1980: «L’Islam è la religione dello Stato, l’arabo la lingua ufficiale, i principi della sharīʿa sono la principale fonte della legislazione». A tale norma si aggiungeva, in maniera del tutto inedita, come frutto della negoziazione tra i Fratelli Musulmani e i Salafiti, una nuova disposizione. Si trattava del famigerato art. 219, il quale enucleava una nozione esplicita dei principi della sharīʿa, definendoli, in maniera ampia e generica come l’insieme delle sue fonti fondamentali, dei principi tratti dalle fonti (usul) e dal fiqh, nonché dalle altre fonti riconosciute dalle scuole giuridiche sunnite. Inoltre, per la prima volta nella storia costituzionale dei paesi islamici, veniva attribuita una funzione di interpretazione della legge sacra, in via esclusiva all’Università teologica di al-Azhar. Sul piano internazionale il governo Mursī ha sostenuto «materialmente e moralmente» la guerra contro la Siria, chiedendo l’attuazione della no-fly zone sopra il territorio siriano (proponendo l’aviazione egiziana a svolgere tali operazioni), denunciando l’intervento del Hezbollah sciita libanese al fianco del popolo siriano e del governo Assad e chiedendo per quest’ultimo il giudizio «per crimini di guerra».
Da questi fattori nacque la grande mobilitazione unitasi nel movimento Tamàrrud (che in arabo significa ribellione), che ha raccolto più di 22 milioni di firme contro Mursī in tutti i settori e classi della società egiziana, anche all’interno di istituzioni e organismi statali in tutte le regioni del paese. Da qui la rivolta che ha portato in piazza 30 milioni di persone in tutto l’Egitto a cavallo tra giugno e i primi di luglio del 2013 e che ha visto la risposta di massa della classe media e in parte minore della classe operaia. Il 3 luglio del 2013, le Forze Armate egiziane hanno risposto alle richieste del popolo, rovesciando il governo Mursī e prendendo in mano la guida del paese.
Ciò ha posto Stati Uniti e UE in seria crisi, in quanto per la prima volta in 40 anni l’Esercito egiziano è andato in una direzione opposta rispetto alle volontà di Washington. Il ruolo e la posizione geo-strategica fondamentale dell’Egitto, fa si che nessuna potenza imperialista può permettersi di perdere la sua influenza e controllo su questo paese.
Alcune cifre ci aiutano a capire: gli investimenti di capitali degli Stati Uniti verso l’Egitto ammontano a circa 1.400 milioni di dollari ai quali si aggiungono i 1.300 milioni di dollari che ogni anno vengono versati all’esercito egiziano. L’Unione Europea fornisce inoltre aiuti con un potenziale che può raggiungere i 5.000 milioni di dollari di esborso totale. Il FMI ha concesso un prestito di 4.800 milioni di dollari e la Banca Mondiale ha «donato» 6.000 milioni di dollari.
Nessuno dei principali attori politici, militari e sociali in campo in Egitto può pertanto esser considerato immune dall’influenza delle potenze imperialiste. A seguito del rovesciamento di Mursī e la formazione del governo di transizione «controllato» dall’Esercito, Washington e Bruxelles non hanno condannato tale atto come «colpo di stato» con tutte le conseguenze giuridiche che ne sarebbero conseguite, ma hanno riconosciuto il nuovo governo cercando di mantenere la propria forte influenza sull’Egitto, intervenendo direttamente per la mediazione verso i Fratelli Musulmani e Mursī ed adoperando pressioni sull’esercito affinché non intervenisse contro la Fratellanza Musulmana in piazza.
Mediazione che ha solo rimandato lo scontro dei Fratelli Musulmani con il corpo militare egiziano. Il primo atto seguito all’offensiva delle Forze Armate e del governo di transizione sono state le dimissioni dalla carica di vicepresidente di El-Baradei, uomo USA (da molti considerato l'individuo che avrebbe dovuto guidare il governo di transizione), principale leader del campo liberale anti-Mursī. A questo punto la Casa Bianca annunciò il blocco delle esercitazioni con l’Esercito egiziano e i governi europei accusarono i militari e minacciarono la rivalutazione degli aiuti. La Turchia si schierò con i Fratelli Musulmani contro l’Esercito. L’Arabia Saudita rispose alle minacce di sanzioni degli USA e dell’UE nei confronti dell’Egitto, assicurando ai militari il proprio intervento per colmare le perdite. Il Generale al-Sisi rifiutò le chiamate di Obama. L’uomo degli USA, El-Baradei venne posto sotto accusa di tradimento. L’UE decise di bloccare le forniture all’Esercito egiziano e discusse su possibili «ripensamenti» inerenti gli aiuti economici.
L’atteggiamento ostile dell’Occidente nei confronti della giunta militare egiziana ha spinto il presidente Abd al-Fattah al-Sisi a rivolgersi alla Russia di Putin. Mosca e il Cairo il 19 novembre 2015 hanno firmato un accordo intergovernativo per l'utilizzo di tecnologie russe e del loro impiego nella costruzione della prima centrale elettronucleare nella regione di El-Dabaa affacciata sul mar Mediterraneo, e un ulteriore accordo sulle condizioni del prestito Russo. L'importo del prestito sarà di 25 miliardi di dollari. Grazie all’intesa con l’Egitto, Putin potrebbe riuscire a realizzare il grande obiettivo del nazionalismo russo: lo sbocco sul Mediterraneo, mai riuscito all’Urss, ma che è ora alla portata di Mosca.
Con la sconfitta di Hillary Clinton, artefice della scalata dei Fratelli Musulmani al potere e l’arrivo del magnate newyorkese Donald Trump alla Casa Bianca, i rapporti tra Washington e il Cairo potrebbero migliorare. La vittoria del tycoon è un’ottima notizia per al-Sisi, che avrà mano libera nella repressione degli oppositori interni e un margine di manovra più ampio in politica estera.
È cominciata una nuova guerra fredda fra Stati Uniti e Russia e in questo scenario l’Egitto potrebbe esserne, come lo fu all’epoca di Nasser, uno dei principali teatri.
 
Per approfondimenti:
_Massimo Campanini, Storia dell’Egitto contemporaneo. Dalla rinascita ottocentesca a Mubarak, Edizioni Lavoro, Roma 2005.
_Bruno Aglietti, L’Egitto dagli avvenimenti del 1882 ai nostri giorni, Ipocan, Roma 1965.
_Paolo Minganti, L’Egitto moderno, Sansoni, Firenze 1959
_Guido Valabrega, Il Medio Oriente. Aspetti e Problemi, Marzorati editore, Milano 1980.
_Jean Lacouture, Nasser, Editori Riuniti, Roma 1972
_Maurice Bardèche, I Fascismi sconosciuti, Ciarrapico, Roma 1969.
_Il programma del Partito "Giovane Egitto", in Oriente Moderno, Anno 18, Nr. 9 (Settembre 1938), pp. 491-494. Consultabile all’url: http://www.jstor.org/stable/25810190
_Gamāl ʿAbd al-Nasser, Filosofia della Rivoluzione, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2011.
_Jack Damal e Marie Leroy, Nasser. La vita, il pensiero, i testi esemplari, Sansoni, Firenze 1970.
_Gianfranco Peroncini, La guerra di Suez, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1986.
_Benny Morris, Vittime. Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001, BUR, Milano 2003.
_Patrick Seale, Il leone di Damasco. Viaggio nel ‘Pianeta Siria’ attraverso la biografia del presidente Hafez al Assad, Gamberetti, Roma 1995.
_Robert Fisk, Il martirio di una nazione. Il Libano in Guerra, Il Saggiatore, Milano 2010.
 
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di Gabriele Rèpaci del 25/10/2016

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La violenza commessa nel Libano ricadrà su di voi. Sarete pieni di terrore per gli animali che avete massacrato. Tutto questo vi succederà a causa del sangue che avete sparso e della violenza usata contro la nazione, le città e i tutti i suoi abitanti. (Bibbia, Libro di Abacuc, 2-17)

Il Libano è un piccolo lembo di terra che si estende tra la Siria e Israele. Questo paese un tempo considerato la “Svizzera del Medio Oriente”, per l’importanza regionale del suo sistema finanziario, è precipitato, tra il 1975 e il 1990, in una guerra civile che ha causato circa 250.000 morti e l’esodo di un milione di persone. Da allora, il “paese dei Cedri” è al centro di una competizione geopolitica da parte dei più importanti attori della regione mediorientale – da Israele alla Siria, fino all’Arabia Saudita e l’Iran – divenendo quasi un oggetto, più che un soggetto, delle dinamiche politiche del Medio Oriente.

Dopo la Prima Guerra Mondiale, alla Francia è stato dato dalla Società delle Nazioni un mandato sul Libano e sulla vicina Siria che prima costituivano un'unica entità politica all’interno del vasto territorio dell’Impero Ottomano. La Francia li divise in due amministrazioni coloniali separate, creando un nuovo stato che toglieva Tiro, Sidone, Tripoli, la valle della Beqaa e la stessa Beirut alla Siria per annetterli al sanjak (distretto amministrativo) ottomano del Monte Libano, vera e propria spina dorsale della cristianità maronita. La Siria fu separata dai suoi porti più importanti e Damasco (centro del nazionalismo arabo e musulmano che si opponeva al dominio francese) fu indebolita a scapito di Beirut e del nuovo regime retto dai cristiani. Lo «stato del Grande Libano», proclamato dal generale francese Henri Gouraud il 31 agosto 1920, era così un’entità del tutto artificiale creata dai francesi. Dopo vent’anni di regime mandatario francese, l’indipendenza del Libano fu proclamata il 26 novembre del 1941, tuttavia la piena sovranità del paese venne raggiunta solo nel 1946 con l’evacuazione delle ultime truppe francesi.
[caption id="attachment_6549" align="aligncenter" width="1754"] A sinistra cartina del Libano oggi. A destra - il generale francese Joseph Eugène Henri Gouraud proclama, il 1°settembre del 1920, la proclamazione del "Grande Libano" (foto in alto a destra). 1945, il presidente del Libano Bishāra al-Khūrī saluta la folla dopo la partenza delle truppe coloniali francesi (in basso a destra).[/caption]
Secondo un Patto Nazionale non scritto, le differenti comunità religiose vennero rappresentate nel governo da un Presidente della Repubblica cristiano maronita, un Primo ministro musulmano sunnita e un Presidente del parlamento (speaker) musulmano sciita. Questo accordo funzionò per due decenni.
Il 15 luglio del 1958, sbarcarono a Beirut 15.000 marines americani per sedare gli scontri tra l’esercito fedele al Presidente filo occidentale Camille Chamoun e le milizie filo nasseriane di ispirazione ideologica nazionalista e panaraba, sostenute dal Premier Rashid Karame.
Negli anni successivi continuarono i conflitti tra le forze legate agli interessi della borghesia cristiana, sempre più esasperata dalla crescente forza sociale e politica dei palestinesi che erano affluiti in massa nel paese dopo il 1948, e le organizzazioni popolari riunite attorno ai partiti di sinistra sostenitori invece della causa dei fida’iyyn.
Dopo un vasto confronto militare tra guerriglieri dell’Olp ed esercito regolare libanese nel novembre del 1969, ve ne furono altri nel maggio del 1973 e nell’anno successivo a cui parteciparono militanti del partito delle Falangi (Kata’ib) di Pierre Gemayel, la più antica, meglio organizzata e meglio armata delle milizie maronite.
La «Sarajevo» della guerra civile libanese fu un incidente verificatosi a Ain Rummaneh, un quartiere cristiano di Beirut, il 13 aprile del 1975. Alcuni sconosciuti aprirono il fuoco durante una funzione religiosa a cui stava assistendo il leader delle Falangi, Pierre Gemayel, uccidendo la sua guardia del corpo ed altri due uomini. I miliziani maroniti, come rappresaglia, attaccarono un autobus palestinese di passaggio, massacrando 28 passeggeri, per la maggior parte fida’iyyn (combattenti) palestinesi di ritorno da una parata militare. Rappresaglia dopo rappresaglia la violenza si allargò a tutto il paese per lasciare sul terreno, soltanto nel primo anno e mezzo del conflitto, più di 30.000 morti, 200.000 feriti e 600.000 rifugiati. In questa prima fase della guerra civile due furono le coalizioni avverse. Da una parte il Fronte libanese composto da tre gruppi principali a larga predominanza maronita: quello del Presidente della Repubblica Suleiman Frangieh con il suo quartier generale nella località settentrionale di Zghorta; quello dell’ex Presidente Camille Chamoun sostenuto dai suoi 3.500 uomini armati e infine le Falangi di Pierre Gemayel che con una milizia di 15.000 uomini formava il nucleo forte della coalizione di destra. Dall’altra parte il Movimento nazionale libanese (Mnl): esso riuniva una quindicina di partiti di centro e di sinistra e aveva un carattere multi confessionale, disponendo del consenso di gran parte dei musulmani sunniti ma anche di alcuni cristiani e dei drusi. Druso era appunto il suo leader Kamal Jumblatt, dirigente del Partito Socialista Progressista (Psp) il quale poteva contare su una forza personale di 3.000 uomini. Tra le altri componenti del Mnl figuravano il Partito Comunista Libanese (LCP), il Partito Nazionalista Sociale Siriano (SSNP) fondato da Antun Saade, baathisti e nasseriani.
[caption id="attachment_6550" align="aligncenter" width="1754"] da sinistra a destra: Suleiman Kabalan Frangieh, Camille Nimr Chamoun, Pierre Gemayel, Kamal Jumblatt e Antun Saade. I leader degli schieramenti che hanno dissanguato il Libano nella guerra civile.[/caption]
Obiettivo primario del Fronte libanese era quello di annientare i palestinesi e distruggere la loro struttura militare e politica nel paese ripristinando l’egemonia politica della borghesia maronita sullo Stato. Le forze del Mnl intendevano invece sostenere la causa dell’Olp e avviare un processo di laicizzazione dell’intero Libano. Tra le due fazioni, furono in molti a non schierarsi: alcuni dirigenti maroniti e altri rappresentanti sunniti che cercheranno di accontentarsi di una ridistribuzione dei poteri, e i partiti rappresentanti le altre confessioni cristiane come armeni e greci-ortodossi. Gli sciiti, presenti per lo più nel sud, si riuniranno inizialmente nel Movimento dei diseredati (che poi diventerà Amal) fondato dal carismatico imam Musa al-Sadr, che dall’estate del 1976 scenderà a fianco del Mnl.
La prima fase della guerra, fino al gennaio del 1976, registrò una certa superiorità da parte del Fronte libanese, mentre l’Olp (eccetto alcune sue frange) rimase per il momento a guardare. All’inizio dell’anno però, le milizie maronite lanciarono una vasta offensiva contro i campi profughi palestinesi. L’Olp sembrò non avere scelta e scese in campo a fianco delle forze del Mnl. A questo punto intervenne la Siria, preoccupata per la crescente situazione di instabilità nel vicino Libano, troppo esposto secondo Damasco agli appetiti regionali di Israele. Gli interessi nazionali di Damasco imponevano infatti di mantenere un equilibrio di forze in Libano: ora che l’alleanza Olp-Mnl sembrava avere la meglio sul Fronte libanese Assad decise di intervenire per ripristinare la parità tra gli schieramenti.
I primi di giugno del 1976 le truppe siriane superarono il confine sostenendo le milizie del Fronte libanese, le quali prima liberarono dall’assedio una delle loro roccaforti Zahle, quindi passarono all’attacco dei palestinesi (nell’agosto del 1976 più di 3.000 civili palestinesi e libanesi vennero trucidati dalle “tigri” dell’ex Presidente Chamoun). La spirale di violenza venne momentaneamente interrotta da una breve tregua decisa dopo un mini-vertice arabo convocato in ottobre a Riyadh in Arabia Saudita. Ufficialmente la guerra civile venne dichiarata conclusa con l’invio nel paese di 30.000 «caschi verdi» (per lo più siriani) per sorvegliare il cessate il fuoco: le truppe di Damasco si dispiegarono in gran parte del paese arrivando a controllare alla fine del 1976 circa i due terzi del suo territorio (escluso il sud e la costa).
Poco più di un anno dopo, nel marzo del 1978, in risposta alle incursioni compiute dai guerriglieri palestinesi sul loro territorio, anche gli israeliani intervennero direttamente nello scenario libanese invadendo il sud del paese cercando di provocare lo scontro con le truppe siriane. La prima invasione israeliana del Libano si sarebbe conclusa nel giugno del 1978 dopo che il Consiglio di sicurezza dell’ONU creò una forza militare di interposizione composta da 6.000 uomini denominata UNIFIL.
Il 3 giugno del 1982 un gruppo di guerriglieri palestinesi sparò, appena fuori dall’Hotel Dorchester di Londra, all’ambasciatore israeliano Shlomo Argov, ferendolo gravemente. Gli attentatori di Argov facevano parte di al-Fatah-Consiglio Rivoluzionario una scissione di al-Fatah nata nel 1974 per iniziativa di Sabri Khalil al-Banna (Abu Nidal), nemica giurata del’Olp di Yasser Arafat e considerata da molti un’organizzazione semimercenaria. Tre giorni dopo, come ritorsione per tale attentato, le truppe israeliane, da mesi ammassate lungo il confine settentrionale col Libano, decisero di oltrepassare la frontiera: ebbe inizio l’operazione "Pace in Galilea", guidata dall’allora ministro della difesa Ariel Sharon.
[caption id="attachment_6551" align="aligncenter" width="1000"] Ariel Sharon, nella quinta guerra arabo-israeliana del 1982 "Pace in Galilea". Nato con il nome di Ariel Scheinermann, in ebraico אריאל שרון, è stato un politico e militare israeliano.[/caption]
Dal 5 giugno in poi tutti i principali campi profughi nel sud del Libano vennero sottoposti a incessanti bombardamenti da terra, dal cielo e dal mare. L’intenzione di Tel Aviv sembrava quella di radere al suolo i campi rendendoli permanentemente inabitabili. Nell’opera di annientamento dei palestinesi, Israele poteva contare sul volenteroso incoraggiamento maronita.
Poco tempo dopo, di fronte alla Knesset, l’allora Primo ministro israeliano Menachem Begin difenderà i massicci attacchi contro la popolazione civile: «Da quando in qua la popolazione civile del Libano meridionale è diventata “per bene”?», chiese con sarcasmo. "Neanche per un istante ho dubitato che la popolazione civile meritasse quella punizione" affermerà Begin. I prigionieri palestinesi vennero costretti a restare per lunghissime giornate, legati e bendati, sotto il sole cocente, senza ne cibo né acqua, spesso picchiati e costretti a soddisfare i loro bisogni corporali lì dove stavano. Molti di loro vennero condotti in Israele per essere incarcerati, stipati in camion o autobus sotto i colpi e gli insulti delle guardie, quando non vennero intrappolati a gruppi in reti e con queste trasportati, così appesi, dagli elicotteri.
Sebbene più volte Begin avesse assicurato di non volere uno scontro diretto con la Siria, le forze messe in campo da Tel Aviv e le manovre messe in atto dal suo esercito facevano pensare proprio il contrario: in poche settimane le truppe israeliane inondarono il sud del paese e raggiunsero la strada Damasco-Beirut, ingaggiando scontri con gli stessi soldati siriani e, di fatto, isolando i militari di Damasco presenti a Beirut dal novembre 1976. Assad rispose muovendo altre batterie di Sam nella Beqaa, ma questa volta Tel Aviv non attese la diplomazia e bombardò pesantemente le postazioni distruggendo tutte le rampe. Damasco sapeva di non poter combattere ad armi pari, ma non avendo scelta, il 9 giugno diede ordine ai suoi caccia di affrontare gli aerei israeliani: si scatenò una delle più memorabili battaglie aeree della storia mediorientale, dove ben settanta velivoli siriani soccomberanno contro un centinaio di quelli nemici. La battaglia di terra si rivelò ben più ostica per gli israeliani che incontrarono una coraggiosa resistenza da parte delle truppe siriane, prive di copertura aerea.
Nonostante un primo cessate il fuoco l’esercito di Tel Aviv continuò ad avanzare verso Beirut circondandone la parte occidentale, dove erano rimasti numerosi soldati siriani. L’assedio di Beirut Ovest continuò per ben nove settimane, fino al 9 agosto, con un Assad che non poteva far altro che assistere impotente.
Intanto il 23 agosto del 1982 Bashir Gemayel, figlio minore del fondatore delle Falangi lo sheikh Pierre, venne eletto Presidente grazie alla maggioranza semplice ottenuta in parlamento. Tuttavia il suo mandato durerà poco. Il 14 settembre infatti una spaventosa esplosione a Beirut Est, uccise Bashir insieme a una trentina di suoi collaboratori. Poco dopo le Forze Libanesi annunciarono di avere arrestato l’uomo che presumibilmente avrebbe piazzato la bomba, Habib Tanios Shartuni un membro clandestino del Partito Nazionalista Sociale Siriano (SSNP), ideologicamente legato a Damasco ed alleato fedele di Assad nel resistere alle ambizioni israeliane. In seguito tuttavia qualcuno avrebbe insinuato che a uccidere Bashir Gemayel sarebbero stati gli stessi israeliani a causa dell’opposizione del leader falangista alla proposta di Begin di un trattato di pace formale fra il Libano e Israele. Nessun libanese avrebbe mai contestato questa tesi.
L’assassinio di Bashir Gemayel ebbe come conseguenza immediata la tristemente nota carneficina di civili nei campi profughi di Sabra e Chatila, organizzata dal capo dei servizi segreti falangisti Elie Hobeika, con la complicità degli israeliani.
[caption id="attachment_6552" align="aligncenter" width="1000"] Libano, 1976. Una donna ‎palestinese implora un falangista di risparmiare la vita al proprio marito, storico scatto della ‎fotografa francese Françoise Demulder.[/caption]
A poche ore dalla morte di Bashir, il 15 settembre 1982, Sharon, rompendo l’accordo stipulato con il diplomatico statunitense Philip Habib, fece entrare il suo esercito a Beirut Ovest, occupandola completamente in 24 ore. Per giustificare un simile gesto l’allora ministro della difesa israeliano affermò che Arafat aveva lasciato dietro di sé 2.000 combattenti palestinesi che si nascondevano nei campi di Sabra e Chatila. Alle 6.00 del pomeriggio del 16 settembre, Amir Drori, capo del Comando Settentrionale Israeliano, autorizzò le milizie di Hobeika ad entrare nei campi per cercare i guerriglieri. L’eccidio di civili inermi iniziò immediatamente e andò avanti per tutta la notte, per il giorno dopo e la notte successiva: la carneficina non si fermerà prima delle 8.00 del mattino del 18 settembre. Circa un migliaio tra uomini, donne e bambini vennero brutalmente massacrati. Per tutte le quaranta ore dello sterminio le truppe israeliane fecero cordone intorno ai campi, e durante la notte lanciarono bengala affinché nei campi così illuminati i falangisti potessero proseguire il loro “lavoro”.
Il 16 dicembre 1982, l'Assemblea generale delle Nazioni Unite condannò il massacro, definendolo «un atto di genocidio» (risoluzione 37/123, sezione D). La definizione fu approvata con 123 voti favorevoli, 22 astenuti e nessun contrario.
Il massacro nei campi profughi fece sì che venisse inviata nel paese il 29 settembre 1982 una forza multinazionale di pace (MNF) e le truppe di Sharon si ritirarono da Beirut Ovest. In principio la missione era nata come iniziativa ONU, ma il veto dell'URSS annullò l'egida internazionale mentre il contingente era in navigazione verso il Libano, per cui la missione si trasformò in corso d'opera in uno sforzo eminentemente nazionale, di USA,Francia e Italia, cui si aggiunse nel febbraio 1983 la Gran Bretagna, con il 1' reggimento Dragoni della Regina.
[caption id="attachment_6553" align="aligncenter" width="1092"] Truppe italiane del 2°reggimento del battaglione Bersaglieri "Governolo" appartenenti alla Multi-national Force (MNF) in Libano in 1982[/caption]
Fu un momento cruciale durante il quale cambiarono rapidamente gli equilibri in campo: Assad non vide altra via che abbandonare lo scontro militare tradizionale e iniziò ad appoggiare e coordinare diversi gruppi guerriglieri palestinesi, militanti baathisti, comunisti e miliziani sciiti, organizzando attorno alla città di Baalbek nella valle della Beqaa il centro di arrivo, di addestramento e smistamento dei guerriglieri. Tra questi gruppi spiccava il Jihad Islamico, un’organizzazione islamista sciita che traeva la propria ispirazione dall’ideologia khomeinista, la quale si rese responsabile di una serie di rapimenti, omicidi e attentati verso ambasciate e basi militari, il più noto dei quali si verificò il 23 ottobre 1983, quando due camion bomba guidati da attentatori suicidi colpirono contemporaneamente le caserme dei marines statunitensi e del contingente francese uccidendo 241 soldati americani e 58 francesi.
Intanto il nuovo governo israeliano presieduto da Yitzhak Shamir, chiamato a sostituire il dimissionario Begin, decise per un ripiegamento delle sue truppe a sud del fiume Awwali lasciando i maroniti indifesi a fronteggiare gli attacchi congiunti di sciiti e drusi. Nel frattempo nella capitale, mentre i siriani conquistavano la parte meridionale, intensi combattimenti a Beirut Est costrinsero alla ritirata le milizie falangiste.
Preoccupati dal corso degli eventi, a Washington decisero di far intervenire la VI flotta della marina contro i combattenti palestinesi e drusi, arrivando a minacciare di colpire anche unità siriane. Nel settembre del 1983, si arrivò a un nuovo cessate il fuoco dal quale la posizione di Damasco uscì comunque rafforzata.
Intanto si intensificarono gli attacchi ai contingenti americani e francesi della forza multinazionale, che si ritirò completamente nei primi mesi del 1984.
La politica di Begin e dei suoi alleati americani sembrava davvero sconfitta: i soldati siriani erano ormai stabilmente nella valle della Beqaa, le montagne dello Shuf erano controllate dai drusi di Walid Jumblatt (figlio di Kamal, assassinato nel marzo 1977) mentre a sud le milizie sciite di Amal contrastavano abilmente le truppe israeliane.
A questo punto, privo del sostegno israeliano e della protezione del contingente internazionale, Amin Gemayel, fratello del defunto Bashir e nuovo leader delle Falangi, si recò a Damasco a omaggiare il suo acerrimo nemico, Hafez al-Assad.
Quest’ultimo, nel conflitto con Israele combattuto in territorio libanese è comunque riuscito a mantenere le proprie posizioni frustrando le ambizioni egemoniche di Tel Aviv.
A cavallo tra il 1985 e il 1988, ebbero luogo feroci combattimenti all’interno di quella che è stata chiamata la «Guerra dei Campi» che vide contrapposti la milizia sciita di Amal (sostenuta dalla Siria) da una parte e i palestinesi, la sinistra e i drusi dall’altra.
Il 22 settembre 1988, ebbe termine il mandato del presidente libanese Amin Gemayel, che era succeduto a suo fratello Bashir, assassinato nel settembre dell’82. I deputati, cui la costituzione dava il diritto di eleggere un nuovo presidente della Repubblica, non riuscirono a trovare un accordo neppure sulla data delle elezioni.
Amin Gemayel diede allora l’incarico ad un cristiano, il generale Michel Aoun, di formare un nuovo governo. Aoun - al momento dell’insediamento - annunciò il suo ambiziosissimo progetto: ristabilire in Libano l’autorità dello Stato, sciogliendo tutte le milizie armate e liberando il Paese dagli eserciti di occupazione israeliano e siriano. Migliaia di libanesi gli manifestarono il loro sostegno. Anche se cristiano, Aoun, a capo dell’esercito libanese, cominciò ad attaccare le stesse milizie cristiane restie alla consegna delle armi ed in primo luogo le Forze libanesi guidate da Samir Geagea.
[caption id="attachment_6554" align="aligncenter" width="1000"] In una foto recente a sinistra Amin Gemayel e a destra il militare cristiano Michel Aoun.[/caption]
Come era già avvenuto tra le file dei musulmani, scoppiò così una guerra tutta interna alla comunità cristiana. Una guerra particolarmente devastante. Il 14 marzo 1989, Michel Aoun fu in grado di lanciare la sua «guerra di liberazione» contro l’occupante nemico. I siriani risposero bombardando in maniera intensiva il settore cristiano di Beirut ed il palazzo presidenziale.
Aoun - sotto scacco - si rifugiò nell’ambasciata francese della capitale e accettò di lasciare il Libano alla volta di Marsiglia. I siriani penetrano allora nel settore cristiano di Beirut est, controllando ormai appieno tutto il paese. Il 22 ottobre 1989, i deputati libanesi riuniti a Ta’if, in Arabia saudita, sotto la pressione dei Paesi arabi e della comunità internazionale, firmarono un accordo - detto «d’intesa nazionale» - che pur senza rimettere in discussione il sistema confessionale libanese - ridisegnava un equilibrio dei poteri istituzionali (la maggior parte dei poteri passarono nelle mani del primo ministro che doveva essere un musulmano sunnita) e, soprattutto, riconosceva la presenza - definita «fraterna» - dell’esercito siriano in Libano. La mano siriana sul Libano venne ufficializzata il 22 maggio 1991 da un altro trattato - detto di «fraternità, cooperazione e coordinamento» - nel quale il Libano accettava di non prendere alcuna decisione importante in materia economica, di sicurezza e di politica estera senza un accordo preventivo della Siria. Da questo momento l’egemonia politica siriana sul Libano diventò assolutamente legale e accettata dalla comunità internazionale.
[caption id="attachment_14840" align="aligncenter" width="1000"] Soldati siriani davanti ad una casa martoriata dal conflitto il 27 maggio del 1988. Periferia sud di Beirut.[/caption]
Nel giugno del 1999, poco prima che il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu lasciasse il suo incaricò, Israele bombardò il sud del Libano, il più grave attacco contro il paese dall’operazione «Grappoli d’Ira» del 1996. Nel maggio del 2000, il nuovo premier Ehud Barak, ritirò le truppe israeliane dopo 18 anni di occupazione.
Nel 2005 anche la truppe siriane, in seguito alle proteste suscitate dall’assassinio dell’ex premier libanese Rafiq Hariri, abbandonarono definitivamente il paese.
Il 12 luglio del 2006 scoppiò l’ennesimo conflitto fra lo stato ebraico e il Libano. Il casus belli sarebbe stato il rapimento di due militari israeliani da parte di Hezbollah nei pressi della “linea blu”, la fragile demarcazione terrestre tracciata dall’Onu nel giugno del 2000, dopo il ritiro delle forze israeliane dal sud del Libano.
Il conflitto ha ucciso più di seimila persone, la maggior parte delle quali era libanese e ha gravemente danneggiato le infrastrutture del paese. Anche dopo il cessate il fuoco una gran parte del sud del Libano è rimasta inabitabile a causa delle bombe a grappolo inesplose.
La crisi siriana ha determinato un riacutizzarsi dello scontro settario libanese che ha visto le fazioni sunnite sostenere i ribelli, mentre quelle sciite, e in particolare la milizia Hezbollah, legata all’Iran, sostenere il governo siriano. Lo sconfinamento del conflitto non ha solo coinvolto le cittadine al confine siriano, ma anche i grandi centri urbani, tra cui Beirut, Sidone e Tripoli dove si sono verificati scontri armati, rapimenti e attentati.
Parallelamente alla violenza settaria, in Libano si è ulteriormente inasprita la storica e profonda divisione politica che vede contrapposti i partiti antisiriani, guidati dall'Alleanza del 14 marzo, a quelli filosiriani, guidati dall'Alleanza dell'8 marzo. Ulteriore elemento di destabilizzazione è stato il massiccio afflusso di profughi in territorio libanese, che ha modificato l'equilibrio etnico-religioso in alcune zone del Libano.
Sebbene la situazione sia ancora sotto controllo non è improbabile che un eventuale caduta del regime di Bashar al-Assad in Siria e il conseguente cambiamento dei delicati equilibri regionali non possa far sprofondare il piccolo «paese dei Cedri» in una nuova devastante guerra civile.
 
Per approfondimenti:
_Robert Fisk, Il martirio di una nazione. Il Libano in Guerra, Il Saggiatore, 2010
_Patrick Seal, Il leone di Damasco. Viaggio nel ‘Pianeta Siria’ attraverso la biografia del presidente Hafez al Assad, Gamberetti, 1995
_Rosita Di Peri, Il Libano contemporaneo. Storia, politica, società, Carocci, 2009
_Fadi S. Rahi, Il Libano politico. Tra partiti, famiglie e religioni nella situazione contemporanea, Marcianum Press, 2016
 
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