13 Giu La Real Brigata Estense: fidelitati et costantiae in adversis
[vc_row css_animation="" row_type="row" use_row_as_full_screen_section="no" type="full_width" angled_section="no" text_align="left" background_image_as_pattern="without_pattern" css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_separator type="normal" color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Fulvio Izzo del 14-06-2022
[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1701618887576{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]Dopo l’incendio rivoluzionario del 1860, che porta alla conquista manu militari delle terre pontificie e degli stati napoletani, i progetti delle forze controrivoluzionarie -che cercano di organizzare la resistenza antipiemontese per il ripristino della legittimità- prendono in considerazione anche l’ eventuale possibilità dell’impiego della Brigata. Ed in effetti lo Stato Pontificio, in occasione dell’invasione delle Marche e dell’Umbria, contatta il Duca per chiederne il soccorso. A questo fine Monsignor Nardi si reca in missione segreta a Vienna per interessare l’Imperatore e conseguentemente Francesco V e trattare le condizioni. Per evitare però che l’operazione possa configurarsi come un intervento di forze regolari straniere, si conviene di non coinvolgere le truppe nella loro specificità di armata modenese, ma di permettere ai singoli uomini di accorrere come volontari. Francesco favorisce incondizionatamente il progetto: è pronto a considerare il servizio da prestare alle dipendenze della Santa Sede come continuazione degli obblighi assunti dai propri uomini ed a ritenere non sciolto il giuramento nei riguardi della sua persona, anche nel caso i cui la Brigata continui a servire il Papa. Nei primi giorni di settembre si approntano già i preparativi per il trasferimento, che deve avvenire con l’imbarco sulle navi del Lloyd austriaco, per effettuare la traversata dell’Adriatico. Ma «la flotta nemica dinanzi ad Ancona, l’irruzione sarda per terra, l’ingresso di Garibaldi a Napoli resero impossibile la partenza delle mie truppe, e quindi il soccorso, che sarebbesi con esse apportato a Sua Santità, la qual cosa fu per alcuni giorni il mio bel sogno» . Il Duca scrive una lunga lettera esplicativa a Monsignor Nardi10. Miglior sorte non ha il tentativo della Corte Napoletana in esilio, che pensa alla Brigata Estense come parte di un corpo di spedizione per intervenire nelle regioni meridionali, dove il fuoco della rivolta antipiemontese divampa con grande intensità. Di questo progetto si rinvengono tracce nel diario di Henri de Cathelineau11, il discendente del famoso eroe vandeano Jacques il santo d’Angiò, che nell’agosto del 1861 viene chiamato da Francesco II di Borbone a Roma, per organizzare la guerriglia e la riconquista. Dopo aver rinviato il progetto -per il sopraggiungere dell’inverno- di una spedizione negli Abruzzi guidata da un Principe Reale (Don Alfonso Conte di Caserta), si decide di stabilire contatti con tutti i principi spodestati, per riunire le forze controrivoluzionarie. «Il Re mi parlò del Duca di Modena -riferisce Cathelineau-. Bisogna convenire, disse, che è un principe straordinario. Non ha mai voluto riconoscere nè Luigi Filippo, nè la regina di Spagna, nè Napoleone. Lui solo ha ragione, lui solo è coerente con i principii che noi rappresentiamo. Si decide pertanto di affidare allo stesso Cathelineau ed al cognato, il Marchese di Kermel, una missione intesa a verificare la disponibilità del Duca al progetto. Cathelineau e Kermel incontrano nell’autunno del ’61 sul lago di Costanza, dove si era ritirata in esilio con i figli, la duchessa reggente di Parma, Maria Luisa di Borbone figlia della duchessa di Berry; a Frohsdorf, in Austria, la contessa di Chambord, Maria Teresa d’Austria-Este, sorella del duca di Modena e moglie di Enrico V di Francia, che esprime loro le proprie preoccupazioni: «Il Re di Napoli è attorniato da persone poco fidate! non temete che sia vittima di sleali consiglieri?»; ed a Brouzée la duchessa di Berry, Maria Carolina di Borbone. Finalmente incontrano anche Francesco V, gli consegnano una lettera del re di Napoli ed il colloquio va certamente a buon fine, se si considera che Cathelineau scrive nel suo diario: «Non posso dire ciò che accadde in queste poche ore, ma rientrando in albergo ringraziai Dio che mi aveva suggerito ciò che bisognava dire per far trionfare la causa che difendevo» . Notizie più chiare si ricavano dal rapporto che il Marchese di Kermel, rientrato a Roma al termine della missione, presenta ai sovrani napoletani e di cui fa menzione in alcuni appunti, riportati da Cathelineau nel proprio diario: «Consegno a S.M. la Regina una lettera della duchessa di Berry, una lettera per il Re ed il rapporto di Cathelineau scritto in modo da non compromettere nessuno[...] riferisco anche che si è convenuto che Cathelineau, dopo essersi assicurato della volontà del Re di confermare le decisioni prese, sarebbe tornato a Vienna per accordarsi col Duca di Modena sulla scelta del momento opportuno per agire. La Regina mi risponde che il Re vuole contattare personalmente il Duca di Modena. L’indomani il Re mi fa buona accoglienza e mi chiede familiarmente di raccontargli il nostro viaggio, di parlargli di tutte le persone che avevamo visto e soprattutto delle intenzioni del Duca di Modena. Faccio del mio meglio e, arrivato al punto più interessante, dico al Re: - Chiedo perdono a V.M. se ripeto integralmente tutto ciò che ho l’incarico di riferire. Monsignore il Duca di Modena ha posto a Cathelineau questa domanda: ‘Il Re di Napoli non nutre, riguardo al governo francese, qualche speranza d’aiuto?’ -Monsignore, non è possibile, gli risponde Cathelineau, perché il Re non vuole servirsi che di legittimisti. Poi gli ha illustrato tutto ciò che V.M. è decisa a fare ed anche la necessità che un principe reale guidi l’insorgenza negli Abruzzi. Il Duca risponde allora che se V.M. è decisa a rientrare nei suoi stati col solo contributo del partito legittimista, egli l’aiuterà con le sue truppe e col suo danaro e che bisogna lavorare tutto l’inverno per essere pronti ad agire in primavera. V.M. deve avere fiducia nella missione di Cathelineau, che è totalmente riuscita poiché il Duca di Modena ha offerto volontariamente la sua Brigata Estense ed il suo patrimonio. - Sono felicissimo, mi disse il Re, non potrò ringraziare mai abbastanza Cathelineau; mi ha reso un grande servigio acquistando alla mia causa i favori del Duca di Modena. Ditegli che sono deciso a servirmi di ogni mezzo: dell’Austria, del Duca di Modena, della signora Duchessa di Parma, degli Spagnoli. Bisogna che quel focolaio di reazione esistente negli Abruzzi sia favorito sino al momento propizio; che la bandiera della legittimità sventoli costantemente[...] Dite a vostro cognato ciò che è deciso fra noi, ditegli soprattutto che occorre agire con prudenza, perché mi è giunta voce che a Roma già conoscono questi ultimi progetti [...] In una ultima udienza il Re mi disse: -Avete visto la Regina e Monsignor Gallo? -Si, Maestà, ed è per questo che avevo bisogno di vedere V.M., perché mi hanno detto che Cathelineau non deve più occuparsi dell’affare del Duca di Modena. Il Re allora mi disse: ‘Io ve ne dirò la ragione che non è conosciuta né dalla Regina né da Monsignor Gallo; figuratevi che sono stato informato che qui a Roma il Governo ha ricevuto questo dispaccio: il Signor Cathelineau è partito da Roma per andare a Vienna a trovare il Duca di Modena, con una lettera del Re di Napoli. Il Duca ha promesso al Re delle truppe. Ora, come volete che mandi Cathelineau dal Duca di Modena? Mi è necessario dare un taglio netto a tutti questi sospetti’. Il Re, parlando del dispaccio sembrava molto preoccupato e passeggiava nervosamente [...] Stupefatto gli espressi la mia meraviglia e non potei fare a meno di insinuargli che egli doveva avere, nel suo entourage, qualcuno che lo tradiva, perché, in verità, chi avrebbe potuto conoscere le cose così bene? [...] Qualche giorno dopo arrivò una lettera di Monsignor Gallo che richiamava mio cognato a Roma il più prontamente possibile; si voleva rinunciare a tutti i progetti».
E’ questa un’ulteriore possibilità per le forze legittimiste che sfuma e che ripropone all’attenzione il clima creatosi nell’entourage borbonico, dove le disparità di vedute, le rivalità e la mancanza di piani accuratamente predisposti, portano ad una successione disarticolata di ordini e contrordini, di marce e contromarce che finiscono col fiaccare il momento della decisione. Intanto, un successivo decreto di amnistia, nei riguardi delle truppe modenesi, di identico contenuto di quello del Farini, viene emanato da Vittorio Emanuele il 21 settembre 1862; in esso viene comminata la perdita dei diritti politici e civili e la decadenza dal diritto di possedere o acquistare beni nello stato o di disporre degli stessi -che sono sottoposti a sequestro- per tutti i militari estensi che si trovino sul suolo austriaco al servizio del Duca di Modena e che non rientrino, entro sei mesi, nel territorio del Regno d’Italia, escludendoli altresì dal diritto a pensione o ai gradi nell’esercito italiano, fermo restando l’obbligo del servizio militare cui possano essere tenuti nel Regno. Al fine di non pregiudicare interessi e di non permettere che i suoi fedeli sudditi si sottopongano ad ulteriori così gravosi sacrifici, Francesco V, nel febbraio del ‘63, autorizzerà il congedo dei suoi uomini: «Noi, che abbiamo avute sì luminose prove della fedeltà dei nostri soldati, non vogliamo lasciar credere che esigiamo sacrificj, i quali potrebbero danneggiare interessi d’intere famiglie. Sappiamo, e stiamo certi, che Noi riconosceremo avere essi interamente adempiuto al loro obbligo d’onore e di dovere verso di Noi coll’essersi, per ormai quattro anni, nelle circostanze più difficili mantenuti in una fedeltà, di cui vi sono ben rari esempj nel mondo; e che, se minacciati essi, i loro eredi e le loro famiglie, di poter perdere in tutto od in notabile parte le loro sostanze e rendite, non considereremo per nessuna mancanza verso di Noi l’atto col quale l’uno o l’altro ci chiederà la propria dimissione» . A tutti i congedati poi riconosce il «diritto, nel caso di restaurazione del legittimo ordine di cose, a riprendere servizio col grado che avrà lasciato, ove il voglia, e ne sia atto e capace: altrimenti verrà pensionato o provveduto con impiego civile, calcolandoglisi gli anni del servizio effettivo prestato. Chi, lasciando al presente il servizio, avesse fin d’ora diritto ad una pensione, potrà, in caso di restaurazione dell’ordine legittimo, far valere le proprie ragioni per ottenere gli arretrati pel tempo intermedio, ritenendo ben inteso che nulla abbia frattanto percepito dal Governo usurpatore» .
L’emanazione del decreto piemontese preoccupa il Gabinetto di Vienna che teme, in presenza delle agevolazioni offerte agli esiliati per il ritorno in patria, una diserzione in massa. Ma questi timori risultano poi assolutamente infondati Ben pochi, infatti, sono coloro che lasciano la Brigata: sei ufficiali in stato di servizio attivo, un ottantenne ufficiale superiore dello Stato Maggiore, cinque ufficiali dei Reggimenti della Milizia di Riserva ed all’incirca 160 uomini tra sottufficiali e soldati. Francesco V ne è orgoglioso e commenta: «l’effetto del decreto del galantuomo [così chiama Vittorio Emanuele II] è stato nullo nella brigata»12. Eppure col passar del tempo la situazione degli uomi va facendosi sempre più precaria e difficile, se si considera che, comunque, sono sempre da ritenersi “ospiti” in terra straniera anche se amica, che le indennità vanno sempre più riducendosi sino ad essere pagato il solo soldo di pace, e che il nuovo regime parlamentare-rappresentativo austriaco cerca ogni motivo per osteggiare la loro permanenza sul suolo dell’Impero . Difatti il destino della Brigata è ormai segnato. Fin dal 1862 la Giunta della Camera dei Deputati austriaca, in occasione dell’esame del bilancio dello stato, nel deliberare lo stanziamento dei fondi per il mantenimento del piccolo esercito modenese, sollecita il Governo a risolvere -entro la fine dell’esercizio amministrativo- la questione del finanziamento «ponendo un termine a questo stato di cose del tutto anomalo». La proposta viene portata in discussione alla Camera, la quale l’accetta, nonostante l’appassionata difesa del rappresentante del Governo, Conte Rechberg, che così ricorda all’assemblea i doveri morali e giuridici assunti col trattato: «Debbo tornare sulle condizioni dei Ducati, che sono possedimenti austriaci. Toscana è una secondogenitura, Modena una terzogenitura. La Toscana venne assunta onerosamente, scambiandola colla Lorena. Estinguendosi la stirpe maschile di quella linea, quel Ducato retrocede all’Austria. Debbo anche richiamarmi ai trattati dell’anno 1847, i quali sono abbastanza noti a questa camera. Appoggiata appunto a questi trattati, l’Austria, al cominciare della guerra dell’anno 1859 chiese, in base agli obblighi assunti, l’aiuto militare di quei Ducati. Il duca di Toscana non si trovò in grado di prestare il soccorso domandato; il duca di Modena fu il solo tra gli antichi alleati, che si fosse attenuto all’Austria anche nelle disgrazie. Riconobbe il vincolo dei trattati del 1847, e quando le truppe austriache si trovavano costrette alla ritirata, venne preso quell’accordo, di cui parla il rapporto della commissione ed il quale consiste in ciò, che le truppe estensi, ritiratesi sul territorio austriaco, abbiano a venire mantenute dall’Austria, sino a che esse combattono accanto alle sue truppe, od il Duca di Modena sarà rimesso ne’ suoi dominii. Quindi emerge lo stipulato dovere di mantenere la data parola al Duca di Modena. E’ questo un dovere, che corrisponde al patto conchiuso: è un dovere dell’onore dell’Austria di non abbandonare un fedele alleato, dopoché egli le è stato fedele nella sfortuna. Del resto il Governo si è, in confronto alla commissione, obbligato di impiegare tutti i mezzi legali per sollecitare la fine di questo stato di cose. Il Governo per quanto sta nelle sue forze, agirà in modo da corrispondere ai desiderii della commissione stessa»13. Nonostante ciò Francesco V si sente ferito, sfiduciato ed umiliato e comprende che la classe politica austriaca, ormai anch’essa imbevuta delle idee nuove, non è più affidabile e che le forze sane sono isolate e del tutto impotenti. Così reagisce e si sfoga col suo fedele De Volo: «Appena oso più sperare! L’Austria è dunque all’altezza dei tempi, sa mancare di parola e abbandonare chi si affida a lei. Il ministro della guerra vi fa un’ ignobile ed iniqua figura, mi dà buone parole, mi chiede proposte, io gliele faccio avere e mi do la pena di scrivere di pugno, egli non ha neppure l’educazione di rispondere ad un SOVRANO e ad un membro della famiglia imperiale e dietro alle spalle dà il colpo di grazia alla mia truppa[…] Voglio, dopo che il sacrificio sarà consumato, stabilirmi in Baviera ove a mia giustificazione pubblicherò tutto dopo aver fatta una protesta formale contro la violazione dei trattati anche per parte della potenza che senza di quelli deve logicamente sciogliersi colle teorie e tendenze moderne[…] E’ un’infamia, potranno farmi ciò che vogliono, ma un’infamia non me la faranno fare quegli eunuchi politici» , e dopo pochi giorni ribatte: «Io non segnerò decreto di morte dei miei, né tacitamente vi acconsentirò, ma… farò anzi scandalo[…] i miei debbono sapere tutto se venissero sciolti o cessasse l’assegno. Lo scrissi[…] che io non avrei riguardo a nessuno e che non peccherò né di connivenza né di apatia né di pietà, sotto la quale parola qui intendono che in famiglia si deve sempre avere una passiva rassegnazione ed ingoiare in silenzio qualunque ingiustizia» . Il Parlamento liberal-costituzionale però, sensibile agli intrighi di Torino, cancella totalmente dall’esercizio finanziario del 1863 la voce di spesa per il mantenimento della Brigata e solo l’intervento diretto dell’Imperatore permette di protrarre il finanziamento14. Tuttavia prende ormai definitiva consistenza l’evento dello scioglimento della Brigata15 ed in tale previsione cominciano a balenare, tra soldati e ufficiali, impossibili progetti di impiego autonomo della stessa: «Molti vedevano quanto sarebbe stato opportuno di formare una legione italiana da tutti gli elementi sani della nazione e contrarii alle usurpazioni, che sarebbe stato un centro e una protesta permanente contro i fatti compiuti, ed un legame fra l’Austria e l’Italia non meno che fra i legittimisti delle diverse parti della penisola; in fine un nucleo prezioso nella prossima guerra che, per quanto dicano gli ottimisti, dovrà presto o tardi riaccendersi. Tale legione avrebbe riunito a se le popolazioni di campagna per un’insurrezione che evrebbe dato un carattere nazionale alla reazione contro il Piemontesismo ed il vassallaggio francese, formando detta legione nello stesso tempo l’embrione di un’armata federale Italiana che sola potrebbe unire le viste nazionali col rispetto alla giustizia ed ai diritti dei singoli Stati Italiani. Questi erano ragionamenti belli e buoni; erano lusinghe che traevano loro appoggio dal vero, dalla giustizia e dall’interesse politico ancora»16. Intanto, Francesco V addiviene ad un accordo con le autorità austriache per il passaggio delle sue truppe nei ranghi dell’esercito imperiale. Tutti gli appartenenti all’armata ducale possono essere ammessi al servizio imperiale nei corpi corrispondenti; gli ufficiali conservano i loro gradi ed il rango di anzianità; gli inabili al servizio attivo o a quello c.d. di pace, una volta transitati, vengono collocati a riposo e pensionati conformemente alle norme modenesi. I sottufficiali ed i soldati sono liberi di entrare come volontari e “senza capitolazione” nell’armata imperiale o di ingaggiarsi per 4 anni; resta comunque salva la facoltà di lasciare in qualsiasi momento il servizio austriaco, in caso di chiamata del Duca alle antiche bandiere; anche per quest’ultimi sono assicurati i diritti alla pensione ed al trattamento di invalidità. Lo scioglimento viene annunciato dal Duca, dalla sua residenza di Wildenwart in Baviera, con il sovrano Ordine del Giorno del 16 agosto 1863: «Soldati! Dal Comando dell’Armata I.R. in Italia avrete udito che lo scioglimento della Brigata Estense deve in breve aver luogo[...] Gli ufficiali che volessero rimpatriare per riunirsi alle loro famiglie o per ricondurle alle loro case, ed i soldati poi in specie, che scegliessero il rimpatrio, non mancheranno neppur essi con ciò ai loro doveri verso di Noi. Questi ultimi però rammentino che il Governo usurpatore probabilmente gli obbligherà a servirlo e a dare un giuramento; gli costringerà a farsi istrumenti delle barbarie che tutto dì commette sui loro fratelli italiani del mezzodì della Penisola, in gran parte fedeli al loro Re legittimo, pel quale combattono con rara costanza; gli obbligherà a tener soggetti anche colla forza i popoli dello Stato pontificio, del Nostro Stato, o di quello di altri Sovrani legittimi d’Italia che subirono la Nostra sorte. Se anche Noi rispetteremo i motivi che gli indurranno a secondare le brame loro e delle loro famiglie col rimpatriare, dovremo però, in caso d’una restaurazione del potere legittimo, distinguere fra coloro che non servirono l’inimico, o che furono forzati assolutamente a prendere servigio e si condussero anche d’altronde da uomini onesti, e quelli che volontariamente l’avessero servito, od in altro modo avessero rinegato il loro passato [...] Fra poco Noi saremo in mezzo a voi, Nostri fedeli soldati, purtroppo per farvi, per ora almeno, l’ultimo soggiorno, e per ringraziare la Nostra ottima Ufficialità e la truppa di quanto fecero tutti per Noi; per darvi ancora un attestato di stima e di affetto, distribuendovi una medaglia commemorativa per la fedeltà e costanza nelle avversità che mi avete sì luminosamente addimostrate, qualità ben più rare che il semplice valor militare. La colpa non è vostra se in questi ultimi tempi non avete avuto occasione di dimostrarlo. Non disperiamo però che possa ancor sorgere un giorno fortunato in cui Iddio coronasse le vostre virtù, dandovi nello stesso tempo la soddisfazione di spiegare come militari questa gloriosa qualità»17.
[caption id="attachment_12777" align="aligncenter" width="1000"] A sinistra: Fidelitati et costantiae in adversis (retro della medaglia). A destra: la bandiera del regimento.[/caption]Nella sua solitudine, Francesco V continua ad essere tormentato da una unica preoccupazione: «La sorte di vecchi soldati non assicurata è il punto scuro di tutto; fatto questo si potrebbe tollerare il resto. Il soldato in generale vede due pericoli. Se torna a casa di essere requisito, se prende servizio in Austria di essere esiliato, decaduto dai diritti civili. E’ certo che il governo usurpatore exploite lo scioglimento onde nessuno se la passi bene e tutti soffrano dopo essere stati fedeli, onde mai più altri siano tenuti ad esserlo» . Il 24 settembre è il giorno dell’ultimo saluto e del conferimento della medaglia commemorativa “Fidelitati et costantiae in adversis”, istituita con Decreto del 31 luglio 1863 come pegno d’onore, di stima, di affetto e di gratitudine e intitolata Medaglia della Emigrazione. Sulla spianata di Cartigliano, dinanzi al palazzo Cappello nei pressi di Bassano, tutte le truppe comandate dal fedele Generale Saccozzi vengono passate in rassegna per l’ultima volta dal Duca e dalla Duchessa Adelgonda e dopo la celebrazione della messa, Francesco V, nel distribuire la medaglia, rivolge loro l’ultimo saluto: «Guardie Nobili d’Onore, Ufficiali, sotto-ufficiali e soldati della Brigata Estense! Il momento di darvi l’attestato della Nostra stima e gratitudine è giunto. La Provvidenza non ha permesso di poterlo dare, come speravamo, nella Patria Nostra, dopo aver fatto con voi una gloriosa campagna. Ricevete oggi quindi dalle Nostre mani il contrassegno delle vostre virtù, quali soldati e sudditi fedeli. Tutti sino all’ultimo hanno soddisfatto ai proprj doveri. Vi ringraziamo, e ricevete ora l’espressione della Nostra incancellabile gratitudine. La Duchessa, Nostra amatissima consorte e vostra Sovrana, venuta qui espressamente per vedervi ancora una volta, divide in tutto questi Nostri sentimenti. Conservate puro ed onorato il distintivo, che oggi vi consegniamo. Coloro che non rimpatriano, e che sono la quasi totalità degli Ufficiali ed un numero notabile di sotto-ufficiali e soldati, lo portino con orgoglio in mezzo all’Armata in cui entrano, e che lo apprezzerà. Quelli che ritornano al proprio paese, lo custodiscano con cura sino a migliori tempi, e sopra tutto mantengano nel loro cuore i sentimenti di cui sono animati in questo giorno, e li propaghino nelle loro famiglie, in seno delle quali auguriamo loro che possano tranquillamente rimanere [...]. Nato e cresciuto fra voi, Ci conoscete abbastanza per immaginarvi ciò che proviamo in questa separazione, e nel darvi, se non altro, per ora, come facciamo, un Addio a tutti, ci lusinghiamo che in qualsiasi circostanza non dimenticherete il vostro legittimo Sovrano, che rimarrà sempre affezionato a quelli, che non cesseranno di seguire la via dettata dall’onore e dalla coscienza. Nell’augurarvi da Dio ogni bene, desideriamo di potervi ritrovare un giorno nel numero maggiore possibile, riuniti di nuovo intorno a queste onorate bandiere, che conserveremo preziosamente presso di Noi, facendo voti di poter tutti assieme contribuire al trionfo della causa della religione e della giustizia. FRANCESCO, Bassano 24 settembre 1863»18.
Nel pomeriggio il Duca riceve presso la sua residenza di Bassano, dal corpo degli ufficiali guidato dal Generale Saccozzi, le bandiere della Brigata. E’ una cerimonia commovente e nello stesso tempo composta. Tutti gli ufficiali si affollano intorno al Duca ed alla Duchessa e baciano loro le mani bagnandole di lacrime, come il cronista si affretta ad evidenziare ed il Duca salutandoli per l’ultima volta esclama: “Addio, miei ragazzi, ricordatevi di me e siate sempre degli uomini d’onore”. Il giorno dopo scrive a Bayard de Volo: «Non occorre dirle cosa sento, sono del tutto sbalordito oggi; ieri sinchè li vedevo era meno, ma oggi incomincia il dolore quieto che abbatte, e non posso occuparmi d'altro che di loro che mi furono sì ingiustamente strappati da una politica che tratta di ragion inversa del contegno dell’altro cioè al peggio chi è più amico. Ciò non porterà benedizione a chi tiene così la parola data» . Anche il Generale Saccozzi sente il dovere di salutare i suoi uomini ed il 30 settembre emana il suo ultimo ordine del giorno: Un solo ufficiale e circa 1.200 tra sottufficiali e soldati riprendono la via della patria, mentre l’altra metà delle truppe, con la intera Ufficialità, sceglie volontariamente l’esilio. Con circolare del Ministero della Guerra del 1863 , il Governo italiano dispone che i reduci estensi chiamati con la leva sino al 1855 vengano completamente sciolti da ogni obbligo di ulteriore servizio militare e sono collocati in congedo assoluto. Gli altri, che avevano servito nella Real Brigata dal 1856 al 1859, vengono arruolati, ma sono poi congedati con l’obbligo di “correre la sorte delle altre cerne estensi levate nell’anno cui appartengono”.
Per i soldati che dopo il 1859 hanno prestato servizio sotto l’ex Ducato viene disposto l’arresto ed il giudizio dinanzi al Consiglio di guerra, come disertori o renitenti. In caso di condanna per diserzione si dispone per un nuovo arruolamento per tutto il tempo prescritto alle loro classi, non tenendosi conto del servizio già prestato nella Brigata; nel caso invece di condanna per renitenza sono incorporati nell’esercito nazionale e dalla ferma non viene detratto il tempo prestato in servizio sotto la bandiera estense e quello trascorso in carcere a seguito di condanna19. La maggior parte degli ufficiali e dei soldati che scelgono di rimanere in esilio transita nelle file dei reggimenti dell’Impero austriaco, e ad essi l’I. R. Tenente Maresciallo Luigi Pokorny di Furstenschild, il 5 ottobre 1863, all’atto della prestazione del giuramento, rivolge queste parole: «Soldati! Quali soldati d’onore avete dato al mondo un raro esempio di forza d’animo, fedeltà ed attaccamento all’Augusto vostro Sovrano. Il destino altrimenti dispose di quanto una tanta fedeltà, eternamente duratura nelle pagine della Storia, avrebbe meritato. Sua Altezza Reale lasciò al libero vostro arbitrio di ritornare ai patrj lari, in seno alle vostre famiglie: varj ne fecero uso. Voi però preferiste di rispondere, da valenti militari, alla graziosa concessione offerta dal magnanimo cuore di Sua Maestà Imperiale Reale Apostolica, nostro clementissimo Imperatore e Signore, e siete in procinto di entrare nelle file dell’Armata Imperiale. Senza essere vincolati menomamente, voi potete, se e quando così alla Divina Provvidenza piacerà, seguire ad ogni chiamata le onorate bandiere di quell’Augusto Sire, che fino ad ora vostro Sovrano salutaste. Da questa generosa maniera, colla quale è suprema mente di Sua Maestà che voi siate contemplati, vogliate apprendere quanto si tenga in onore e stima nell’I. R. Armata la provata fedeltà militare. Dell’Austria i guerrieri di tante nazioni salutandovi, vi chiamano i benvenuti. Io in loro nome vi stringo la mano, e vi consegno la vostra nuova bandiera, pur essa vessillo della legittimità e della religione, ed in cui pure risplende il glorioso stemma estense. Vi consegno il nostro, e d’ora in poi pure il vostro, sacro palladio d’onore, al quale giurerete fedeltà, e che al pari di noi difenderete sino all’ultimo sangue».
Il Giornale della Brigata si chiude con queste parole: «Col 1° ottobre l’esistenza della Reale brigata Estense era pur troppo di fatto e del tutto cessata. Essa soggiacque vittima del turbinio rivoluzionario. Gli individui di lei che in quel dì rimanevano, o stavano per essere congedati od erano divenuti soldati Austriaci. Gli uni dovevano poco dopo rivedere la loro patria, ma desolata ed in preda di un nemico usurpatore; quelli che stavano per spargersi per paesi diversi onde trovarsi intanto un asilo e una nuova carriera onorata, dovevano separarsi da tutti i loro compagni[…] La sventura fu immensamente grande, ma, come pur ci disse l’amatissimo Sovrano, l’onore era salvo. –Sì era salvo l’onore; tutti, anche negli ultimi e ben disastrosi e difficilissimi momenti dell’esistenza della brigata, fecero a gara per mantenervelo. Come onorato e senza macchia si ripiegò il nostro vessillo, onorata e senza macchia si chiuse l’esistenza della truppa Estense. Dessa nella sua dissoluzione non lasciava appresso gli onesti, qualunque ne fosse il partito politico, tracce ingrate di se e della memoria sua. Come sempre seppe anche sin allora osservare la più stretta e la più perfetta disciplina, e niun atto d’insubordinazione o d’intemperanza qualsiasi ne ha macchiato gli estremi istanti. Potranno esservi, lo diciamo con verità ed in uno con orgoglio, potranno esservi, potranno formarsi forse truppe che l’eguaglino, ma che la superino o possano superarla in costanza, in abnegazione ed in tutte le virtù del vero soldato, non mai. Non meritava certamente la sorte toccatale, ma con pazienza e rassegnazione sublimi ha saputo sottomettervisi. Anche in quel grande disastro tutti i membri di lei furono sorretti da una speranza, dalla speranza, che il sacrificio fosse transitorio. E di poter fra non molto rilevarsi e contribuire al trionfo della causa santa che sempre propugnarono»20. Com’era stato previsto, la sua odissea non era ancora finita.
I soldati aventi diritto a pensione, circa 329, che scelgono di rimanere in territorio non italiano, si stabiliscono tra Mantova ed il Veneto e si dibattono tra gli stenti della misera pensione e l'ostilità delle popolazioni locali, che la propaganda rivoluzionaria spinge ad atteggiamenti di grave intolleranza nei loro confronti. La situazione è denunciata al vecchio generale Saccozzi che tiene una fitta corrispondenza con i suoi ex militari: «i nostri fuori di patria -scrive un tenente- nessuno li può vedere, non trovano chi li darebbe né lavoro, né un bicchier d’acqua, e creda Eccellenza che siamo malevisi più noi che gli Austriaci»; il medico della Brigata riferisce: «di ingiurie e vilipendi non si difetta»; un sergente racconta che alcuni datori di lavoro «avendo saputo essere un rinegato, lo hanno rifiutato»; un altro perde il posto di maestro in un collegio «perché fu scoperto essere emigrato estense, e più[…] aver fatto parte delle Reali Truppe»; «fanno veramente compassione, ma d’altronde bisogna convincersi che sono all’elemosina e che non trovano da lavorare essendo troppo malevisi da queste popolazioni»21. Per gli uomini passati nell’esercito imperiale la situazione è meno difficile, vivendo in un ambiente militare che, per sua natura, può considerarsi protetto ed esclusivo, anche se la società civile e politica, convertita alle nuove idee, non nasconde il suo astio: «i nostri nemici –scrive un maggiore- non cessano ancora di perseguitarci in ogni maniera, in ciò si distinguono innanzi tutto varj Signori Deputati della camera bassa, i quali non solo sputano il veleno contro gli Estensi, ma ancora contro il militare austriaco»; ed ancora: «l’essere modenese è la più cattiva raccomandazione» . Ma il morale è ancora alto, tanto da far riscontrare ancora incrollabili manifestazioni di fedeltà e di orgoglio: «io non mi pentirò mai di una condotta che onora me ed i miei compagni di fede e d’infortunio presso tutti i contemporanei che non hanno affatto perduto il buon senso e per cui molto più ci onoreranno i posteri nella storia».
«Ufficiali, sotto-ufficiali e soldati estensi! Ancora una parola del vostro Generale sul punto di lasciarvi: una parola di riconoscenza e di affetto per le tante prove datemi di ossequiosa subordinazione, e di cieca obbedienza, durante i quattro anni e mesi trascorsi lontani dal patrio suolo; e più specialmente per la calma dignitosa e l’ordine con cui, addolorati certo, ma insieme sottomessi ai Decreti della Provvidenza, avete saputo contenervi nell’atto dell’inatteso scioglimento di questa Reale Brigata; contegno che vi ha maritata la stima e l’ammirazione della stessa I. R. Armata Austriaca, ove molti di voi vanno a far parte, e degli uomini d’onore, che apprezzano le virtù militari nelle avversità. Ovunque andrete, in qualsivoglia luogo io sarò, rimanga fra noi indissolubile il vincolo dello scambievole amore; e la Medaglia commemorativa, di cui ha degnato fregiarci il nostro Augusto Sovrano in questi ultimi momenti, sia simbolo della nostra inconcussa fedeltà verso di lui, sia sprone a tutti di onorata e valorosa condotta nella carriera avvenire, sia segnale di riunione quando il vostro vessillo ritorni ad alzarsi. Ufficiali, sotto-ufficiali e soldati! Io vi do un affettuoso addio; e grato verso ciascuno dell’ajuto datomi sin qui nel difficile disimpegno de’ miei doveri, mi dico pronto sempre, per quanto sarà da me, ad adoperarmi a vantaggio di tutti, e specialmente di quelli, i quali per qualsiasi causa furono costretti passare in pensione. Il Generale Comandante Saccozzi m.p.». In verità, non solo non si verificano ripensamenti sulle scelte effettuate, ma si nutrono ancora sentimenti di rivalsa e speranze di liberazione del Ducato, tanto più che dalla Patria giungono notizie che riferiscono di una popolazione affatto contenta della nuova amministrazione e in attesa del miracolo: «le domande dei campagnoli, per conoscere se e quando possa ritornare il nostro Sovrano ne’ Suoi Stati, sono continue[…] turbe di contadini senza mistero si protestano pronti ad ogni istante a tutto sacrificare e ad insorgere a pro del Sovrano nostro» . Lo stesso Duca continua ancora a pensare ad una restaurazione, tanto da elaborare, nel 1865, un progetto che intitola «Massime da osservarsi pel caso di una ristorazione in Italia» che invia al suo ministro Bayard de Volo , ma è forse solo un’esercitazione letteraria. Con l’inesorabile trascorrere del tempo però, i sogni, le illusioni e le speranze si affievoliscono, ed alcuni veterani, pur di continuare a battersi, vanno a saldare, in Messico, il loro conto in sospeso, al fianco di Massimiliano d’Asburgo, risolvendo così la loro inattuale vicenda22. Per quelli che rimangono, il sogno si spegne definitivamente con l’infrangersi delle speranze che erano state riaccese dal conflitto tra Austria ed Italia del 1866, nel quale ciò che rimaneva della Brigata fece «onore all’antica loro bandiera, poiché, oltre ad essere alcuni caduti gloriosamente sul campo, non pochi si esposero senza risparmio ai gravi pericoli della guerra e, se ne riportarono salva la vita, non ne ebbero illesa la persona»23. Al termine del conflitto la maggior parte di essi rientra in Italia grazie all’amnistia concessa a seguito del trattato di pace del 3 ottobre 1866, amnistia che prevedeva tra l’altro la cessione dei territori mantovani e veneti, dove già da tempo molti di essi si erano stabiliti.
5Sul rilevantissimo fenomeno il giornale mazziniano L’Unitario scrive: «E’ con dolore e vergogna che dobbiamo annunziare che contadini estensi si sottraggono all’obbligo della leva con fuga infame! […]. Che la maledizione di Dio e degli uomini piombi sul capo sciagurato di quei vivissimi traditori della patria, e più tremenda ancora su quei perfidissimi che li consigliarono allo esecrato tradimento, loro somministrando i mezzi per condurlo ad effetto […]. Ci si assicura, ciò che pare incredibile, che costoro fuggono insieme raccolti. Possibile che queste masse compatte non destino in alcuno sospetti? Ohhh!! Prenda il Governo risolutamente le più energiche rigorosissime misure, e ci liberi da tanta piaga! Non sarebbe difficile indovinare i subornatori. Bando alla moderazione e mano di ferro!» (in Civiltà Cattolica, Vol. I, S. V, 1862, p. 231);
6Civiltà Cattolica, Vol. XII, S. IV, 1861, p. 624. L’articolista poi continua: «Se queste cose non fossero tanto notorie, e bisognassero di prove, queste si avrebbero prontissime all’uopo nelle stesse sperticate bugie che, per accreditare il contrario, si spacciano dai giornali del Governo piemontese. A che pro battersi i fianchi ogni ventiquattr’ore, per strillare che la Brigata modenese del Duca non è più che un branco di disperati, i quali adocchiano l’istante propizio per disertare, se veramente fosse così? Leggiamo, per esempio, nell’Opinione del 23 novembre un brandello della Gazzetta di Modena del 21, in cui si affastellano le parole di malcontento, di rinnegati, di traditori, di licenziati, di disertori, di malviventi per dimostrare che oggimai la Brigata Estense è ridotta a pochi individui. Dunque, dobbiamo conchiudere, essa dee trovarsi in istato floridissimo. La Perseveranza di Milano su questo punto va più schiettamente, e confessa che i disertori e refrattari Modenesi, scappando dall’onor di divenir soldati del Piemonte, giungono a drappelli in Mantova, d’onde passano ad essere incorporati nell’esercito del Duca; ed i pochi che s’erano potuti incorporare tra i piemontesi, se la svignano quasi tutti oltre il Po» (ivi, p. 625). La stessa Civiltà Cattolica, nel luglio ’62 ritorna sull’argomento: «I liberatori d’Italia si sentono ognora trafitti da un pruno che sta loro negli occhi, e per niun modo poterono fin qui levarsi quel fastidio; onde di tanto in tanto si sfogano in grida di dolore e di rabbia. Il pruno consiste in quell’eletta di fedeli soldati che, seguito il Duca di Modena nella sua ritirata degli Stati Estensi invasi da forze cento volte più poderose degli usurpatori, pure gli stettero fin qui devotissimi al fianco, a nulla valendo, quanto al farli disertare dalla loro bandiera, né le promesse, né le minacce, né le beffe, né le calunnie, né altro qualsiasi degli argomenti solidi ad usarsi dai restauratori dell’ordine morale» (Vol. III, S. V, 1862, p. 240);
7Cfr. Anonimo, Cinquantadue mesi d’esilio delle Ducali truppe Estensi, Venezia, Tipografia Emiliana 1863; 8 Indirizzo dell’Ufficialità Estense in occasione del decreto 27 settembre 1859 del Dittatore delle Provincie Modenesi e Parmensi; 9 Indirizzo della Reale Brigata Estense in occasione del decreto medesimo, Ibidem, pp. 60 sg;10«Essendo impossibile di esporle tutto per telegrafo, credo bene spedirle un corriere latore della presente. Io sono da due giorni a Bassano, ma non credetti ancora di mettere al segreto troppe persone, affine di evitare precoci giudizi, che appoggiati a sfavorevoli circostanze scoraggerebbero anche i più fermi. I pochi Ufficiali Superiori coi quali parlai della cosa, senza occultarne la parte onorifica e lusinghiera, ne scorgono peraltro le materiali difficoltà. Essi prevedono che il generale Lamoricière sarà quanto prima assediato per terra e per mare in Ancona dall’intera armata e flotta sarda, e che senza ajuti esteri (e purtroppo niuno vede donde potrebbero venirgli) un poco prima, un poco dopo, dovrà cedere la piazza, per quanto abilmente ed eroicamente la difenderà. Secondo essi il contingente delle mie truppe è per sé stesso scarso, affine di cambiare essenzialmente le condizioni delle parti belligeranti, tutto al più ne differirebbero di ben pochi giorni il risultato finale. Ciò non consente, se vi fosse anche un barlume di speranza, che prolungando la difesa di Ancona, la piazza potesse essere soccorsa, o che una diversione sul Po od altro permettesse di riprendere l’offensiva, tutti accorrerebbero con entusiasmo. Sopra tutto ciò, avvi sempre la minaccia della probabile comparsa di una flotta nemica nell’Adriatico, contro la quale non si è neppure ottenuto a Vienna l’ordine di mettere alla bocca del golfo, cioè fra la Vallona e il Capo di S. Maria, una crociera di semplice osservazione; per cui ove i miei fossero imbarcati su bastimenti da trasporto non atti ad una valida resistenza e difesa, si rischierebbero migliaia di esistenze di fronte ad un esito più che incerto, pericoloso. I sudd. Ufficiali superiori mi riflettevano altresì, che se per i non italiani, dopo una brillante difesa, è sempre a contarsi su di una onorevole e vantaggiosa capitolazione; pei nostri invece che la Sardegna, mediante il Decreto di Farini 15 ottobre 1859, considera fuori della legge, la sorte che li attende sarebbe delle più deplorevoli, e trarrebbe seco lo scioglimento della Brigata, il rientro forzato dei singoli componenti in patria, per assoggettarveli ad un prolungamento indebito di servizio militare. A questa assai triste prospettiva, si contrappone il confronto di un avvenire irto esso pure di difficoltà, ma non escludente un possibile migliore successo. Ove in fatti la Brigata seguiti a tenersi nelle sue attuali guarnigioni, non le si toglie la speranza di prendere parte gloriosa alla difesa della Venezia, la quale, secondo la opinione degli Ufficiali summenzionati avrebbe a svolgersi in una guerra generale traente seco la scomparsa del sistema bonapartista in Francia e la conseguente caduta dell’edifizio rivoluzionario in Italia. Ad onta di tutte queste gravi obbiezioni, dietro la mia insistenza per pure far trionfare l’idea della spedizione, si concluse, che ove il Generale Lamoricière riportasse qualche sebbene parziale vantaggio contro le truppe regolari che gli stanno a fronte, e che si sapesse almen garantito il tragitto da alcune navi austriache poste in osservazione verso la bocca dell’Adriatico, la cosa potrebbe essere fattibile ancora, e così i miei soldati mostrerebbero la loro devozione alla Santa Sede e l’orrore all’infame attacco, che subisce per parte di potere sleale ed invasore. Le raccomando pertanto di adoperarsi per ottenere la crociera di osservazione, affinché si sappia almeno se e fino a quando il tragitto rimarrebbe libero. Se Iddio intanto facesse trionfare anche solo parzialmente il bravo Lamoriciére, la pregherei a farmi sapere in quanti giorni sarebbero a Venezia ed a Trieste i bastimenti necessari all’imbarco. Conti che in questa ipotesi due mila soldati di infanteria coll’indispensabile bagaglio e munizioni si imbarcherebbero a Venezia, ed altri mille, coi cavalli, i cannoni, ed il grosso bagaglio a Trieste, sperando che il Governo darà man forte, perché la strada da Udine a Nabresina ultimata e servibile, ma non aperta ancora al pubblico, sia attivata per questa occasione. Pel momento conviene limitarsi a semplici predisposizioni prese con cautela e quasi in secreto, giacché tutto quanto divulgasse anzi tempo il progetto (e purtroppo alcuni giornali hanno già commesso qualche indiscrezione) contribuirebbe a mandarlo a vuoto. Anche nei telegrammi conviene essere prudenti e guardinghi, perché gl’impiegati, purtroppo non tutti meritevoli di fiducia, ben presto indovinano e i termini di convenzione ed anche le cifre, di che ho fatto esperienza assai svantaggiosa in addietro. Dunque per riassumermi dirò: che sotto l’impressione delle tristi notizie attuali, ed incerti se il mare Adriatico continui ad essere libero dai nemici, nulla di ostensibile può farsi intanto a pro della spedizione. Il mandare le batterie, senza la Brigata, è un semplice allarme infruttuoso, anzi dannoso, perché atto a precludere le vie all’invio successivo della Brigata medesima. Se prima della spedizione, Lamoricière si troverà obbligato a chiudersi in Ancona per sostenervi l’assedio, qual pro, quandanche riescisse eseguibile, ne verrebbe da questo aumento di difensori, i quali nella inevitabile arresa, essendo italiani, sacrificano se stessi, senza aver avvantaggiato la Causa del Santo Padre? Ma se al contrario Lamoricière riportasse vantaggi, che sebbene passeggeri riaprissero l’adito a qualche speranza, ed allo stesso tempo una crociera di osservazione al sud di Ancona, mantenesse libero il passaggio, allora metterò in opera i mezzi morali che sono in mio potere, per eccitare l’entusiasmo della truppa, e 24 e 48 ore dopo giunte nuove rassicuranti, potrò effettuare la spedizione, confidando che non si perda tempo per difetto di mezzi di trasporto. Io credo che dal momento della decisione, che diverrà immediatamente palese, sino a quello dell’imbarco non debbano passare più di tre o quattro giorni» ( T. Bayard de Volo, op. cit., IV, pp. 568 sg.);
11 H. De Cathelineau, Sa vie et ses Mémoires pp.187-90; 12 In G. Bertuzzi, Lettere dall’esilio di Francesco V, ultimo duca di Modena, in Atti e Memorie cit., Serie X, Vol. II, 1967, p. 235; 13 Anonimo, Cinquantadue mesi… cit., pp. 24 sg;14 «Ancora testè a Torino si facea gran festa perché, supposto dover essere tolto dall’Austria l’assegno pel mantenimento di tali truppe, si credea pure che tra poco sarebbero sciolte. Ma, con buona loro pace, la cosa va al rovescio, ed il loro desiderio non sarà punto appagato. L’Austria fu fedele al suo dovere d’onore e di gratitudine verso il leale suo alleato, e mantenne i fondi assegnati per la Brigata Estense; e questa continua a meritarsi col suo contegno le più belle lodi. L’ultima volta che S. M. l’Imperatore d’Austria passò a rassegna le milizie dell’ottavo corpo d’esercito, volle assistere allo sfilare della Brigata Estense; della quale, avuti a sé gli ufficiali, parlò in questa sentenza “Che era ben grato al Duca per avergli procurato il piacere di vedere le brave sue truppe, che, in tempi così difficili e così ricchi di seduzioni, sapevano dare sì bello esempio di fedeltà al legittimo sovrano”. Certo è che dovendosi, per motivi d’economia modificare alcun che dell’Amministrazione, fu offerto il congedo a chiunque avesse compiuto il tempo della capitolazione. Or egli avvenne che pochissimi l’accettassero, ed i più di que’ pochissimi sol perché non più atti a portare le fatiche ed i disagi della vita militare. Gli altri rimasero, impegnandosi molti a durare nel servizio i sei ed otto anni; sicchè la Brigata sul cominciare del Maggio contava più di 3.000 uomini» (Civiltà Cattolica, Vol. III, Serie. V, 1862, pp. 240 sg.);
15 Il giornale Scharf annunzia difatti che «molto probabilmente, benché non sia certo, la Brigata Estense sarà tra poco sciolta; gli ufficiali che già appartennero alle milizie austriache, vi ripiglieranno il loro posto col proprio grado; quegli altri che vorranno entrarvi, saranno ammessi, del pari che i sott’ufficiali e soldati; ed a chi vorrà far altrimenti, sarà dato un giusto compenso e lasciata piena balia di tornarsene alla sua patria» (in Civiltà Cattolica, Vol. V, Serie V, 1863, p. 246);
16 Giornale della Reale Ducale Brigata Estense, Aedes Muratoriana, Modena 1977, ristampa anastatica, p. 285; 17 Anonimo, Cinquantadue mesi… cit., pp. 69 sg. 18 Anonimo, Cinquantadue mesi… cit., pp. 76 sg. 19 Cfr. Civiltà Cattolica, Vol. VIII, S. V, 1863, pp. 363 sg. 20 Giornale della Reale Ducale Brigata Estense, cit., pp. 326 sg.21 In A. Menziani, Dopo lo scioglimento della Brigata Estense: le vicende dei militari ducali nella corrispondenza del Generale Agostino Saccozzi (1863-1865), in Atti e Memorie della Deputazione di Storia Patria per le Provincie Modenesi, Serie XI, Vol. X, 1988, pp. 269 sg.
22 Prima che a Massimiliano, la corona del Messico è offerta a Francesco di Modena che nelle sue memorie così ricorda: «Al conte Rechberg, che venne espressamente per rinnovarmi la proposta relativa al Messico, della quale avevo già parlato al conte De Volo, dissi, senza mistero alcuno, che io era bensì grato del pensiero avuto a mio riguardo e della stima che gli ottimi Signori messicani mi attestavano; ma che risguardando io la piccola sovranità di Modena, più come un dovere che come un diritto, non ero disposto in modo alcuno a rinunziarvi, nemmeno a fronte di qualsiasi compenso, fosse pure brillante, vantaggioso, lusinghiero. Cosicchè ove avessi dovuto sottopormi di nuovo all’ufficio di sovrano, reso dai tempi ognor più arduo e pesante, l’avrei fatto solo per lo Stato di Modena e pei miei sudditi, ai quali mi sentivo legato da vincoli di reciproco affetto, non mai per un estraneo paese, da cui, meno poche eccezioni, non potevo essere risguardato se non come un intruso, e dove non avevo titolo veruno di preventiva generale simpatia» (in T. Bayard De Volo, III, op. cit., p. 216).
23 In A. Menziani, op. cit., p. 290.