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di Federico Nicolaci del 13/07/2017

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Simili a novelli Amleto, oggi i giovani non provano più “meraviglia” di fronte allo spettacolo di questo mondo, ma disgusto, pessimismo, rassegnazione, perfino cinismo. Del resto, come biasimarli? Chi, di fronte a questo mondo out of joint, disgiunto e disgregato, non è a volte sopraffatto da un disincantato pessimismo? Tutti gli orizzonti di senso sono caduti, il mondo si è fatto piatto e soffocante. In cosa ancora credere? In cosa ancora sperare?
Sulla soglia di questo abisso, che coincide con la più radicale spoliazione di senso in cui l‘umanità si sia imbattuta, ciascuno di noi è spinto a pensare, poiché “pensare” è davvero “oltre-passare”. È solo questa consapevolezza che può venire in soccorso ai giovani: “per quanto corrotto sia il mondo, tu sei venuto al mondo per ricomporlo”. La ricomposizione del mondo, il rinvenimento di un senso che non sia il cimitero di pseudo-valori in continuo mutamento creati e distrutti dalla comunicazione pubblicitaria, è infatti ciò a cui anela il nostro tempo, l‘utopia del nostro saeculum obscurum.
Eppure utopia non è una parola nuova: utopia è la parola con cui si schiude l'età della modernità, che nel suo complesso è tutta una grande utopia. In questo senso "utopia" non è qualcosa di "altro" rispetto al nostro presente, ma è quel "non-luogo" che è il nostro presente. Ou-topia non indicherebbe allora la terra promessa verso cui siamo in cammino, ma la condizione stessa in cui versa l'uomo contemporaneo, il quale da tempo ha preso stabile dimora sull'isola di Utopia. Per certi versi noi siamo infatti cittadini di quella nuova Atlantide descritta all'alba della modernità da Sir Bacon. Qual è infatti la legge, il nómos di "Utopia", di cui siamo cittadini? Un nómos, perfetta immagine del logos.
Noi viviamo in un'epoca tutta informata dal trionfo di un potentissimo impianto tecnico/scientifico. Il logos - concepito come vera natura dell'uomo - è ciò da cui precede l'ordine di Utopia, un ordinamento politico perfettamente concorde con il logos, garante dello "augmentum scientiarum" (la costante crescita del sapere scientifico) in quanto utile all'uomo. Utopia infatti è "il luogo del benessere", il luogo della creazione di duraturi stati di benessere. L'isola in cui "la magia" del sapere tecnico-scientifico può la salvezza dell'uomo, la sua eudemonia (la felicità come fine ultimo dell’agire umano).
Ma il sapere, per "potere" - per produrre il crescente stare bene - deve operare una fusione con il potere politico. Allora Utopia - o la migliore forma di repubblica - nasce nel momento in cui sapere e potere si fondono e cioè l'istanza di progresso si radica fino al cuore del potere politico, diventando la "causa" dello stesso potere politico. È qui che nasce l'idea di una sovranità che si legittima, in virtù della crescita del sapere (e del benessere) che il suo ordinamento rende possibile.
Lo Stato cessa di essere l’immagine di una societas peregrina, di una umanità in cammino verso la propria essenza, per diventare lo stabile presupposto dell’incessante procedere verso nessun-luogo (u-topia) del progresso tecnico-scientifico. Come si sviluppa dunque questo “abbraccio” di sapere e potere? Con la subordinazione del politico al progresso tecnico, da cui direttamente dipende l’aumento indefinito del benessere, che è l’anima spirituale della modernità.
La ricerca dell’utile non è propria del capitalismo, ma di tutta un’epoca: “ipsissima res sunt veritas et utilitas” (assolutamente proprie della cosa sono, la verità e l’utilità), - solo per citare Francis Bacon.
Il moderno politico, non conosce altra causa che non sia la tutela del progetto tecnico-scientifico e quindi cura il suo stesso e implicito fine: l’utile. Qui si scatenano le potenze del moderno: nell’istante in cui il telos, il fine dello Stato, diventa il progresso tecnico, è evidente che la tecnica è diventata – de facto – l’obiettivo di coordinamento dell’intera società. Il sistema funziona sempre più automaticamente, in virtù della razionalità implicita delle sue norme di funzionamento, escludendo ogni necessità di decisione politica. Se infatti quest‘ultima è decisione sullo stato d’eccezione, come dice Carl Schmitt, l’annullamento di ogni “eccezione” nega al politico ogni “luogo” in Utopia.
Questa è la crisi della politica che noi oggi viviamo: la mancanza di una causa, che non si riduca alla tutela, alla promozione e alla protezione del progetto tecnico-scientifico.
[caption id="attachment_9088" align="aligncenter" width="1000"] La nuova Atlantide (in inglese New Atlantis) è un racconto utopico incompiuto, scritto da Francesco Bacone nel 1624 e pubblicato postumo nel 1627. Bacone narra di un gruppo di 50 viaggiatori che, partiti dal Perù per andare in Asia, naufragano nell'isola di Bensalem, nei mari del Sud. Il nome stesso dell'isola deriva dalla conflazione dei nomi di Betlemme e Gerusalemme. Attraverso il racconto in prima persona di uno dei naufraghi, si conosce la cultura e la vita del popolo dell'isola. Cristianizzati grazie ad un'arca contenente una Bibbia inviata direttamente da san Bartolomeo, i bensalemiti vivono in pace fra loro, coltivando la sapienza attraverso i viaggi che alcuni di loro compiono nel mondo civilizzato per carpirne le invenzioni più utili. Sono in grado di parlare più lingue: l'ebraico, il greco, il latino classico, lo spagnolo ma non sembra l'inglese. La famiglia e il matrimonio sono le basi della società di Bensalem. L'istituzione più importante dell'isola è la Casa di Salomone o Collegio delle Opere dei Sei Giorni, istituita dal re Atlantideo Solamona, il quale diede il suo nome la sua fondazione. In un lontano passato l'isola non era isolata come nel momento dell'arrivo dei naufraghi (1612 circa) e ciò caratterizza il mistero attorno a questa popolazione, la quale "conosce molte cose delle nazioni del mondo ma nessuno conosce loro". Nella "House of Solomon" i bensalemiti si dedicano ad esperimenti scientifici realizzati con il metodo baconiano, per controllare la natura e applicare la conoscenza per migliorare la società.[/caption]
Ma Utopia, non è solo eu-topia: essa sta a significare anche “negazione del luogo”. Ovvero “non luogo” che ha fatto di tutti i luoghi un unico spazio – il villaggio globale – e di tutte le convinzioni “la convinzione” sull’efficacia della tecnica per il raggiungimento di qualsiasi scopo. Utopia è così negazione del luogo soprattutto nel senso di “sradicamento”.
Essere cittadini di nessun luogo (Utopia), significa essere infatti consegnati alla sradicante istanza di incessante progresso verso nessun luogo: Utopia, che si configura così come l’eterno presente, l’eterno ritorno dell’uguale.
L’uomo, risucchiato nel vortice del progresso tecnico-scientifico, procede sempre “avanti”, rimanendo tuttavia sempre nello stesso “non-luogo”. La coercizione al progresso e all‘incessante superamento si traduce nel trionfo dell’attualità e quindi nella rottura di ogni possibilità di tradizione. Tutto diventa il continuo necessario superamento di sé. Lo si nota non solo nella moda (mo-dificazione, movimento), non solo nei prodotti di consumo – consumati, prima ancora del loro utilizzo (perché in linea di principio già superati) -, ma lo vediamo nei rapporti tra gli individui, i quali hanno a tal punto assorbito le istanze di incessante rinnovamento tanto da rifletterle nei loro rapporti reciproci: ciò che vediamo è un immedesimarsi di volta in volta con ciò che è presente, che è subito superato e dimenticato. Rincorrendo “un altro” che è sempre “oltre” come può l’uomo contemporaneo amare ciò che attraversa?
Ma se il nostro tempo è perfetto compimento di Utopia, quale significato dare oggi, alla parola Utopia? Evidentemente un altro significato: se Utopia è il nome del nostro presente, pensare Utopia significa ripensare il nostro tempo.
Certo, questo ripensamento è un compito arduo, perché è la seduzione di Utopia è potente: la via dello sradicamento “promette” eudemonia, felicità, lo stare bene; “Vieni qui! Perché qui starai bene! Qui la tua eudemonia sarà oggetto di vero e potente culto! Qui sarà coltivata”!
[caption id="attachment_9089" align="aligncenter" width="1000"] Lucas Cranach il Vecchio: "L'età dell'oro" (particolare). L'eudemonismo è la dottrina morale che riponendo il bene nella felicità (eudaimonia)[1] la persegue come un fine naturale della vita umana. Dall'eudemonismo va distinto l'edonismo che si propone come fine dell'azione umana il «conseguimento del piacere immediato» inteso come godimento (come pensava la scuola cirenaica di Aristippo) o come assenza di dolore (secondo la concezione epicurea).[/caption]
Ma questa via inganna, seduce ingannando: il prezzo di quella eudemonia promessa – una terra promessa, situata sempre al di là – è l’anima dell’uomo. Ciò che l’uomo perde consegnando la sua anima all’istanza di incessante progresso e movimento infinito, è proprio eudemonia! Cioè la possibilità – per citare Nietzsche - di radicarsi nella terra e quindi aprirsi alla linfa della pienezza. Sradicato dalla terra, l’uomo è svuotato e questo vuoto, non può essere colmato da nessun progresso, da nessun andare. Più l’umanità procede verso nessun luogo e più sprofonda nell’abisso del non-senso. Perché dal momento in cui il tuo unico senso è la volontà, è il procedere infinito, l’uomo precipita nel vuoto del non-senso, in un delirio che non ha termine, insensato. Allora il vuoto del non-senso è il prodotto di quell’Utopia, che pensa ad eudemonia come ad un prodotto, come a qualcosa che tu produci o una terra che tu raggiungi, una terra promessa.
Ripensare l’Utopia, significa sottrarre perciò Utopia all’idea di progresso, per riportarla nel suo radicamento nel suo significato più profondo, che è quello di speranza. La speranza che l’uomo possa in ogni momento ricordare se stesso: in ogni istante puoi fare “esodo” dall’isola di Utopia, in ogni attimo puoi rimetterti in viaggio verso te stesso. Come Ulisse: questo viaggio è un Odissea.
In ogni istante vi è la possibilità per l’uomo di mettere in crisi il proprio presente, in discussione se stesso: la filosofia serve proprio a questo e ci giunge in aiuto, nel momento del massimo sconforto.
Cos‘è del resto la filosofia se non questo “itinerario”? Philo-sophia, un mettersi in cammino verso se stessi, per liberarsi dalle catene che ci legano in nessun luogo, l‘irrompere di una crisi di immedesimazione con il mondo. Il mondo può essere mutato solo se prima l’uomo ri-pensa l’idea del proprio rapporto con il mondo e quindi l’idea che forma il suo agire, ma ciò significa – appunto – ripensare il rapporto che ogni singolo individuo ha con se stesso.
Perché solo ripensando l’idea che informa il rapporto dell‘uomo con il mondo è possibile ripensare il rapporto dell‘uomo con se stesso. La filosofia è la speranza che l’umanità, l’uomo, il singolo esserci, possa in ogni momento riattivare questo contro-movimento non verso qualcosa che è “al di là”, non verso qualcosa di “altro”, ma come un movimento che a non altro tende se non a ricondurre il ricercante stesso a sé, alle sorgenti del suo esserci.
Filosofia è questo ricordare, è una lotta contro l’oblio, specialmente nel tempo della dimenticanza e del trionfo dell’attualità. Ciò che è dimenticato non é però negato: il dimenticato può essere in ogni momento ricordato (ricordare, ovvero rimettere nel cuore), ponendolo al centro del nostro esserci. Questo è il pensiero filosofico vero: un movimento che riporti l’uomo a raccogliersi in se stesso, richiamandolo dalla dispersione in questo mondo disgiunto. Allora Utopia diviene sinonimo di speranza, il più umano dei sentimenti, ma non per modo di dire – solo l’uomo è capace di sperare, perché solo l‘uomo è capace di trascendenza. Ed è proprio alla nostra trascendenza, ovvero al carattere estatico del nostro esserci, che la speranza ci riconsegna. Utopia allora diventa la speranza di una gioventù, capace di ridare un senso e un fine elevato alla propria esistenza, a partire dalla coscienza di sé in quanto uomini aperti per essenza alla dimensione che mai tramonta e in cui ogni uomo è chiamato a cercare il proprio senso.
 
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di Federico Nicolaci del 08/05/2017

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L'epoca che permea l'attuale società ha da tempo smarrito il significato di un termine lungamente sviscerato: quello della politica. Se attuiamo un'attenta analisi, possiamo iniziare con l'affermare che "Respolitica" è il calco latino del greco “ta politikà”, che letteralmente significa “le cose che attengono alla polis (città)”. La politica è essenzialmente l’ambito in cui ne va del governo della città.
Ma come ci insegnano i padri della politica occidentale – i greci, naturalmente -, governare la polis è la tecnica più alta, più difficile e più delicata in cui possa declinarsi il fare dell’uomo – quella in cui molto si decide del suo destino: la prosperità o la miseria, la cultura o l’ignoranza, la libertà o la schiavitù, la felicità o l’infelicità di popoli interi o, più precisamente, di quelle comunità di uomini che, variamente organizzate nel corso dei secoli, corrispondono oggi alle nazioni, più o meno unite, del mondo.
La politica è così la suprema delle arti. Essa definisce infatti il perimetro, l’orizzonte e il contesto immediato in cui si dispiega e si svolge il vivere degli uomini.
Per questo è stata definita, sempre dagli antichi, come “arte regia”: chi governa è colui che guida per l’alto mare aperto della storia quel vascello che è la Città, la comunità, lo Stato. Immensa è la responsabilità del compito, e grande dovrebbe essere la saggezza del nocchiere: a differenza di quanto avviene nelle altre arti, infatti, colui al quale la tecnica politica si rivolge e risponde non è soltanto il singolo individuo, ma la comunità, presente e futura, in quanto tale.
Questa consapevolezza, che ci riporta alla vertigine della politica in grande stile, è tuttavia proprio ciò che sembra essere venuto progressivamente a mancare all’azione e alla riflessione politica negli ultimi decenni.
Si è smarrita o dimenticata la res – la “cosa” e insieme la “causa” (die Sache, per dirla con Weber) – che dovrebbe animare l’agire di chi si dedica alle “questioni politiche”. Si è perso di vista il senso più intimo del governare come ambito delle decisioni che riguardano il bene degli uomini che abitano lo spazio della polis.
Soprattutto, la politica stessa sembra aver rinunciato, in un folle gesto di auto-rinuncia, alla convinzione di poter e dover mantenere il comando della Nave, affidando ad altri – spesso espressione d’interessi particolari ed estemporanei – il compito di determinare la Rotta.
L’azione politica ha così perso unitarietà e coerenza, oltre che lucidità e lungimiranza, disarticolandosi e disperdendosi in miriadi di unità decisionali acefale e autoreferenziali, ognuna delle quali invoca – di volta in volta – l’assolutezza e la necessità del proprio punto di vista particolare (idiotès) spacciandolo per universale, spesso avendo i mezzi e le risorse per farlo con successo.
La storia degli ultimi trent’anni è tutta racchiusa in questa evaporazione della politica. Il risultato è stato catastrofico: un’azione politica senza strategia né memoria, un’interpretazione settoriale degli eventi, una miopia tecnicistica diventata suprema forma di saggezza, la rimozione e la dimenticanza del senso supremo dell’azione politica – il benessere della collettività – hanno riaperto le porte della Città alla figure inquietanti del disordine, della miseria e del conflitto. Eppure non siamo reduci dalle distruzioni di alcuna guerra (almeno in questa parte del mondo), né di qualche cataclisma naturale. Il presente che viviamo e che attraversiamo è l’immagine più impietosa del fallimento della politica degli ultimi trent’anni.
Da questa palude possiamo e dobbiamo uscire con uno sforzo collettivo. L’idea da cui nasce questa iniziativa editoriale, ad opera di un gruppo di trentenni, è quella di contribuire al faticoso quanto indispensabile compito di recuperare un’interpretazione coerente degli eventi e una visione più profonda della decisione politica.
Per questo abbiamo voluto chiamare questo spazio di analisi e riflessione Respolitica. La politica, infatti, non è solo la “cosa pubblica” (res publica), come forse in modo troppo semplicistico si suole ricordare, ma anche ed essenzialmente l’arte di (saper) condurre, che poi è l’etimo del greco kubernao, da cui l’italiano governo, l’inglese govern, il francese gouvernement…
Per sapere in quale direzione è meglio dirigere la Nave, occorre tuttavia capire dove siamo e come ci siamo arrivati, anche a costo di mettere radicalmente in discussione le nostre certezze e le nostre “idee politiche”: ovvero quei dogmi consolidati e quelle verità di comodo con cui abbiamo convissuto per anni senza troppo attardarci sul problema della loro effettiva consistenza.
Ecco perché a nostro avviso è assolutamente necessario recuperare una “prospettiva politica” su tutte le grandi questioni del nostro presente: dalla crisi dell’euro ai fenomeni migratori; dal futuro dell’integrazione europea alla definizione delle direttrici fondamentali della politica estera; dalle questioni monetarie ai problemi connessi ai processi di globalizzazione e di mobilità dei fattori produttivi.
Una prospettiva, questa, che sappia rimettere al centro dell’azione politica il benessere della comunità, e non parametri tecno-metafisici imposti da incomprensibili “vincoli esterni” in nome di altrettanti vuoti e, come la storia recente si è purtroppo incaricata di dimostrare, fallimentari dogmi politici, forzosamente applicati anche a costo di sacrificare interi popoli sull’altare di una presunta “necessità storica”. Per riformare la politica occorre, prima di tutto, ripensare a fondo il senso dell’azione politica – e si tratta di un esercizio che non può essere più rimandato, se non aggravando le già spaventose contraddizioni e difficoltà.
Questa intenzione definisce la linea editoriale di Respolitica: una linea che, è bene precisarlo, non si accoda ad alcun partito né corrente politica, anche se naturalmente rivendica una visione politica, precisa e coerente: una prospettiva che, in ultima istanza, trova nel tanto vituperato – e altrettanto frainteso – concetto di interesse nazionale il fuoco prospettico delle sue analisi e dei suoi contributi.
Perché interesse nazionale?”, si chiederà interdetto e forse infastidito più di un lettore. Perché interesse nazionale non è sinonimo di quel “sano egoismo” invocato nel 1915 da Salandra – una forma di opportunismo politico e dilettantistica improvvisazione che tanti danni ha arrecato alla credibilità della nostra azione diplomatica e all’immagine stessa dell’Italia -, quanto piuttosto la traduzione moderna di un concetto vecchio quanto la politica: l’idea, cioè, che governare sia lo sforzo che una comunità di uomini compie (in modo possibilmente collettivo e democratico) per giungere a deliberare nel modo più corretto intorno a ciò che è meglio per il benessere della comunità stessa, tenendo presente il contesto concreto delle relazioni storiche con le altre comunità politiche e il bene fondamentale del sistema internazionale.
Questo fa il “politico”. Tutto il resto, ancorché chiamato in senso lato politica, è catastrofica ignoranza o bieco interesse particolare, che come tale cade fuori dall’ambito del governare nel senso più alto del termine. Certo, per i sacerdoti del “liberalismo” – il piccone ideologico con cui è stato screditato pezzo dopo pezzo il concetto stesso di politica – ogni platea è buona per inneggiare alla “de-politicizzazione” come panacea di tutti i mali, accusando di “nazionalismo” (quando non di fascismo) chiunque osi timidamente ricordare che la politica è per definizione quella praxis in virtù della quale una comunità di uomini ha cura del proprio destino. È vero, l’eccesso di politica, la totale politicizzazione, soffoca le società e le conduce nel baratro del totalitarismo: questo è fuori causa. Ma è sorprendente come gli apologeti del tramonto della politica omettano di aggiungere, probabilmente per ignoranza, quello che i filosofi occidentali vanno spiegando da almeno due millenni, ovvero che senza politica e autentico governo dei fenomeni non c’è libertà, ma solo anarchia, caos e miseria.
 
Note:
_Su gentile concessione del giornale culturale "Respolitica".
 
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di Federico Nicolaci del 28/08/2016

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Non è facile rispondere a una domanda che chiede cosa sia l’essenza dell’uomo. Dobbiamo anzitutto cercare di capire che non è possibile pensare uomo ed essere come due cose separate, da una parte l’essere come una specie di oggetto, dall’altra l’uomo come qualcosa di isolato, come un essere animato a sé stante. È il loro essere insieme, il loro essere consegnati l’uno all'altro nel modo più radicale ad essere fondamentale per intravvedere l’essenza dell’uomo nell’essere in relazione. Ad esempio, l’uomo è aperto all’altro nel dialogo, ma solo perché è originariamente aperto a quell’Altro da sé che è il divino, e cioè solo perché egli stesso è essenzialmente dialogo.
[caption id="attachment_14629" align="aligncenter" width="1000"] Lawrence Alma-Tadema, Under the Roof of Blue Ionian Weather (1903)[/caption]
Chiedi cosa sia il divino. Il divino è tutto ciò che ti circonda, è tutto ciò che è già davanti a te, che ti precede e ti sorprende. L’uomo è certamente quell’ente che è aperto all’ente nel suo insieme: ma come è possibile questa apertura dell’uomo al mondo? Per mondo s’intende qui non la terra o un pianeta, ma la Physis (Φύσις), la natura: ciò che sorge da sé, ciò che è l’eterno sorgere, il divenire da sé: ciò che mai tramonta. Non è un caso che la radice di physis risuoni in fui e futurum: ciò che era e ciò che sarà. Il movimento della Physis è lo stesso movimento in cui consiste il dispiegarsi dell’Assoluto, del Principio, in greco dell’Arché. E cos’è il Principio? Un abisso, proprio perché ciò che sempre era e sempre sarà (Physis). Un abisso che si lascia intuire, si lascia ‘vedere’ senza tuttavia lasciarsi mai comprendere, rinchiudere nel nostro concepire, nel nostro concetto: si lascia ‘vedere’ perché appunto in questo momento noi lo stiamo pensando, è obiectum mentis. Ma non si lascia mai de-finire, cioè racchiudere in un concetto che lo esaurisca. Possiamo dire qualcosa di più? Forse sì: Arché è Principio non solo e non tanto nel senso cronologico di ciò che sta all’inizio, come per esempio nella parola “archeologia”: lo studio di ciò che è prima, di ciò che è remoto. L’Arché è il Principio nel senso, ben più radicale, di ciò che comanda, di ciò che domina: l’arché era infatti anche il generale, il capo dell’esercito. Quando infatti diciamo “anarchia” facciamo riferimento all’assenza di potere, poiché manca l’Archè, nel senso di ciò che comanda, domina, di ciò che è principio perché sovrintende in senso essenziale allo sviluppo di tutto ciò che si sviluppa.
Il punto decisivo, la vera maturazione di un giovane uomo, sta nell’arrivare a comprendere come tutto non sia che un unico sviluppo, come tutto sia uno. Platone ed altri filosofi parlavano dell’uno (non a caso dell’uno, e non del duo o del tre) perché avevano capito che tutto ciò che è, è Uno (uni-verso!): per capirci, qualsiasi scoperta in campo astronomico, vuoi anche la scoperta di un universo parallelo, non sconvolgerebbe nulla, l’universo rimane uno, poiché si tratterebbe semplicemente di un’altra dimensione in un unico universo. Dall’Uno, dall’unità del tutto, non si esce, perché l’altro è altro solo in quanto, in realtà, non è affatto altro dall’Uno, ma è solo un altro uno – e cioè voce, espressione dell’Uno a cui appartiene.
In un senso più profondo, che tutto sia Uno significa che anche noi siamo parte di questo Uno. Anzitutto, noi siamo interni a questo sviluppo: non siamo stati infatti calati nel mondo come un attore sul palcoscenico, come invece una certa interpretazione del Cristianesimo (fondata su una certa interpretazione dell’ebraismo) ha portato a pensare. Così la cosa sembrerebbe prefigurare un rapporto a tre: ci sarebbe Dio, l’uomo e poi natura. È l’idea che prima ci sarebbe Dio che crea la natura e successivamente l’uomo, che viene calato nel Giardino. È in fondo l’idea da cui anche noi oggi spesso prendiamo le mosse: l’idea per cui da una parte c’è l’uomo e dall’altra c’è la natura. Invece non è così! L’uomo non è altro dalla natura, nel senso che non è altro che una espressione, una manifestazione sublime e straordinaria (“deinotaton”, terribile e meravigliosa) della natura. Come diceva Sofocle nella tragedia Antigone: “molto vi è di inquietante, nulla tuttavia si erge più inquietante dell’uomo”.
Ma cosa significa che siamo espressione della Physis, e perché ciò sarebbe in qualche modo inquietante? Perché a rendersi conto, a vedere che in realtà siamo parte ed espressione della natura è proprio quell’ente (l’uomo) che è una fioritura della natura: l’abisso che così si apre è inquietante perché misterioso. Senza dubbio la natura ha in sé il logos (la parola e la coscienza) come sua determinazione più alta e qui entrano in gioco problemi enormi. Arrivati al momento di intuire di essere parte di un’unica cosa (di un unico Essere Vivente che l’uomo ha variamente indicato come Uno, Physis, Dio etc.), è come se il Principio, la “natura” entrasse in rapporto con sé.
Se l’uomo è Physis ed è al contempo aperto sulla Physis, significa che questa si apre su se stessa, che la natura vede se stessa, il proprio abisso: ma ciò significa che l’assoluto si è dovuto scindere in sé, si è ritmato in sé, si è mediato. Che cosa ne discende? L’assoluto si mostra in questo modo non come qualcosa di immediato, ma come qualcosa che è andato oltre la propria muta immediatezza, si è mediato in sé ‘creando’ in sé un altro da sé – l’uomo - in cui si specchia e si sa. Ovvero l’assoluto è autocoscienza, ha coscienza di sé, diventa consapevole di sé. L’uomo, che lo sappia o no, in quanto è essenzialmente aperto al mondo (alla dimensione che ci sovrasta, ci domina e alla quale siamo consegnati) è momento essenziale dell’autocoscienza dell’assoluto (dell’Uno).
In qualsiasi istante della nostra esistenza, in qualsiasi luogo, noi e-sistiamo: siamo aperti al mondo. Tutti gli uomini hanno una distanza tra sé e il mondo (infatti ci sentiamo “altro” dal mondo), sentiamo uno scarto tra la natura e ciò ci è dato dalla riflessione: l’animale vede, si muove, corre dietro gli istinti; l’uomo, invece, sa di sentire, vede il suo vedere, sente il tuo sentire e questa è la coscienza; ed è questo che produce il distacco. Ma questo distacco deve essere anche sanato, deve essere riportato sotto l’abbraccio infinito dell’Uno, a cui la coscienza dell’uomo appartiene. L’uomo sa che esiste e ha davanti a sé l’oggetto che sta vedendo entrando in relazione con esso, l’animale no. Ma l’oggetto che gli appare fuori come altro da sé deve essere compreso in modo più profondo.
Infatti la coscienza di sentire e vedere è la coscienza naturale, quella che tutti abbiamo senza sforzo, perché è immediata: ma questa autocoscienza non è il punto più alto a cui può giungere l’autocoscienza dell’umano. Stiamo parlano di un’autocoscienza più alta a cui dobbiamo pervenire, che non è il sapere finalmente tutto su noi stessi, è bene chiarirlo subito! Per quanti sforzi infatti noi facciamo e per quanto cerchiamo di conoscere noi stessi, siamo destinare a rimanere un abisso per noi stessi, così come abisso rimane per noi l’altro, perfino la persona amata, che pure crediamo illusoriamente di conoscere molto bene: ma anche la persona amata, per fortuna, è sempre incatturabile, la sua anima non si lascia mai definire ed esaurire nel nostro conoscerla. D’altronde, solo perché l’uomo è abisso (“mai troverai i confini dell’anima”, diceva Eraclito), solo per questo non è mai riducibile a cosa. Possiamo anzi dire che solo perché siamo abisso possiamo davvero dire di essere “a immagine di Dio”: come Dio, anche noi non siamo riducibili a un oggetto determinato e quindi comprensibile. Come non possiamo comprendere (prendere-con) il divino, così non possiamo mai ridurre l’altra persona in nostro potere: ciò che possiamo comprendere è infatti ciò che dominiamo, ciò che per il fatto stesso di esaurire nel nostro sapere riduciamo in nostro potere: comprendere in tedesco si dice Verstehen non a caso, perché comprendere è distruggere lo stare (stehen) autonomo di ciò che ci sta davanti (il prefisso ver porta al limite estremo - all’estremo possibile, l’im-possibile - l’azione, in questo caso lo stare). Ciò che ho tutto risolto nel mio sapere, l’ho anche in pugno.
Chiarito questo, l’autocoscienza “vera” a cui l’uomo è chiamato ad avvicinarsi è una consapevolezza ben diversa dalla prima (naturale) citata sopra. Poiché io posso benissimo – come sempre avviene - vedere di vedere, essere cosciente di sentire etc., e ciononostante non aver affatto raggiunto l’autocoscienza umana, anzi vivere nella forma dell’isolamento e della solitudine: vivere cioè le forme astratte dell’autocoscienza, nelle quali l’uomo non è arrivato alla suprema autocoscienza di sé in quanto, in termini teologici, “figlio di Dio”. Quando in teologia ascoltiamo la formula “figlio di Dio”, a cosa pensiamo?
Il linguaggio metaforico deve essere scavato, disseppellito dalla sabbia che l’ha coperto e ritornare all’idea originale, alla sorgente vivente spirituale da cui quelle parole sono scaturite. Allora la sorgente spirituale di questa idea si rivela la stessa indicata dai greci: “l’uomo è un fiore della natura” di cui è parte, di cui è momento, ma soprattutto “di cui è momento essenziale” perché è il momento in cui la natura vede se stessa.
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Da un punto di vista speculativo, come dicevamo, la Physis si rivela immediatamente non come un “uno” chiuso in sé: il Principio non è un unum-assoluto, come pensa invece l’Islam, ed ecco perché il cristianesimo diventa essenziale per comprendere tutta la nostra cultura. Non si può pensare l’assoluto come un qualcosa di “chiuso in sé” come un “totalmente altro” perché se così fosse innanzi tutto non se ne potrebbe parlare: come si può parlare di qualcosa che è veramente assoluto, cioè senza alcuna mediazione? Non è vero che è assoluto, se già se ne parla. Si è già assolto dalla sua assolutezza. Ma cosa significa ab-solvere l’Uno dall’immediatezza? Significa che l’Uno si fa molteplice e il Cristianesimo (in questo senso) è superiore all’Islam. Non è un caso che Hegel parlasse del Cristianesimo come la religione assoluta, ma su questo tema c’è poco da discutere. Bisogna, invece, pensare a come questa unità sia qualcosa che è scissa in sé: cioè si è mediata, ha creato in sé la coscienza di sé. Se non avesse adempito a questo compito non si potrebbe parlare di assoluto: l’assoluto senza l’autocoscienza non è pensabile. Come potrebbe esserci l’assoluto se non ci fosse nessun punto di vista che lo testimoniasse, che lo “vedesse”? Non sarebbe l’assoluto. Io sono questo punto di vista aperto dall’assoluto sull’assoluto stesso, sono l’essersi totalmente donato dell’assoluto. Per questo poi l’assoluto non è qualcosa che si lasci totalmente comprendere da me: io sono infatti colui che ha ricevuto il dono, non colui che l’ha fatto. Se sono compreso da questa Physis che mi abbraccia, come potrei comprendere ciò da cui io stesso sono compreso? Comprendere è l’idea che io possa stringere in abbraccio (l’assoluto), ma ciò è impossibile: l’assoluto è ciò da cui io stesso sono abbracciato. Tutti i tentativi di riportare al centro la soggettività, spacciandosi per rivoluzionari, dimenticano proprio questo: dimenticano questa relazione in nome della quale non è affatto vero che il soggetto, cioè la coscienza, è il fondamento ultimo dell’essere. Che sia così (che l’uomo sia il fondamento) è certamente falso nella misura in cui tale idea viene assolutizzata, perché per certi versi è anche vero che l’uomo è colui che porta alla presenza l’essere. Ma ciò non può essere vero nel senso per cui l’io sarebbe fondamento ultimo del reale, dal momento che questa stessa coscienza, che in effetti è il fondamento del presentarsi dell’ente, è essa stessa dono che proviene dal Principio, è già espressione della Physis. Qui dovremmo fare un cenno a Kant.
La “Critica della Ragion Pura” di Kant è un momento di svolta: un grande momento di autoriflessione, che però è come camminare lungo un pauroso crinale, dove se si sbaglia a mettere il piede di un solo millimetro si può cadere nel burrone dell’errore: il senso della critica era la famosa rivoluzione copernicana di Kant: attenzione, non esiste l’uomo qui e poi la natura fuori, esiste piuttosto la coscienza e le forme a priori con cui io schematizzo la natura. In precedenza, invece, vi era il mondo e l’uomo che si adeguava ad esso, il famoso rispecchiamento della natura.
Kant prende le distanze da questa linea perché non esiste una divisione fra le parti, è tutto per così dire dal lato della coscienza: la natura non è altro che il prodotto delle mie forme a priori (spazio, tempo, che sono le forme a priori della sensibilità, e le categorie con cui io predico – cioè dico e percepisco - l’ente). Se si osserva un paesaggio, questo non esiste indipendentemente dalla mia “mente”, dalle mie facoltà schematizzanti, ma è nella coscienza il fondamento del suo apparire. Oggi uno scienziato direbbe più o meno lo stesso osservando che i colori sono creati dai “neuroni” dell’uomo e quindi non esiste qualcosa fuori dalla mente: la natura come prodotto delle forme a priori dell’uomo.
Dunque, se la coscienza è il fondamento della natura (dove questa non esiste se non attraverso la coscienza che la schematizza e la rende formalmente visibile), allora l’uomo è il fondamento del reale. Peccato che la questione insoluta e insolubile di Kant fosse come queste forme a priori, con cui l’uomo crede di aver liquidato la questione della natura, siano esse stesse un prodotto della natura. Kant aveva presente che c’era questo abisso: di questa dimensione non ha voluto parlare fino in fondo, perché Kant era più interessato a indicare i limiti del conoscere, ma così facendo questo abisso l’ha indicato in più luoghi della sua opera, soprattutto attraverso l’evocativa e celeberrima espressione della “cosa in sé”. Cos’è la “cosa in sé”? I manuali alla buona di filosofia spiegano: la cosa prima dell’attività schematizzante della mente, la cosa prima di venire fenomenizzata. È una definizione fuorviante e superficiale, che fa perdere di vista la questione fondamentale, una banalizzazione che alimenta la disputa da bar tra nuovi realisti e nuovi idealisti: entrambi non colgono i termini della questione. In realtà Kant, con l’idea di “cosa in sé” voleva indicare come ciò che noi possiamo conoscere sia solo ciò che appare (i fenomeni, appunto): ma i fenomeni stessi fanno segno a qualcosa che pur apparendo in essi e grazie ad essi non si lascia comunque mai esaurire nel e dal fenomenico. Pensiamo a ciò abbiamo davanti, al manifestarsi di ciò che chiamiamo natura: essa appare sempre, ora in questo fiore, ora in questo frutto, ora come giorno, ora come notte. Ma la natura, che in questo momento si manifesta ‘perfettamente’ davanti a noi, al contempo si nasconde e si cela, e proprio mentre si manifesta: quando si mostra come frutto, ad esempio, si assenta come fiore, e quando si mostra come notte si assenta come giorno, senza con ciò venire mai meno a se stessa. Si manifesta perfettamente, ma non si lascia mai esaurire nell’ente che appare (nel fenomeno).
Ciò che si nasconde nell’atto stesso di manifestarsi è precisamente la “cosa in sé”: la cosa in sé non la puoi conoscere non perché sei limitato o non hai capito che l’oggetto è sempre oggetto per un soggetto, ma perché la cosa in sé è l’ombra che appare là dove appare l’oggetto che tieni nella coscienza. La cosa in sé è cioè il fenomeno stesso, non qualcosa prima o sotto il fenomeno. È proprio l’oggetto che hai davanti, che tieni nella tua coscienza e credi di aver compreso (nel senso letterale di essere tu, soggetto, il fondamento del suo apparire) a sfuggirti di mano: l’oggetto non si esaurisce nel tuo possederlo, nel tuo essere condizione del suo apparire. Il tuo tenere ora quell’oggetto specifico nella tua coscienza (questo suono, questa luce) non esaurisce “l’oggettità” dell’oggetto, non esaurisce l’essenza dell’oggetto, che è con tutta evidenza irriducibile a ciò che di volta in volta appare attraverso la tua coscienza: e infatti l’oggetto che tieni lo perdi subito. Non è un caso che i “nuovi idealisti” non sappiano fare altro che limitarsi a ripetere in indefinitum la tautologia con cui credono di aver svelato l’arcano: l’oggetto (ma di quale oggetto parlano? Non esiste infatti l’oggetto in generale, esiste la sensazione di questo tavolo, il suono di questa campana, il ricordo di questo profumo) è sempre il risultato del porre di un soggetto, un prodotto della coscienza! Tutto chiaro? Assolutamente no. È strano infatti che questa tautologia, trionfalmente sventolata come la Formula definitiva della Verità, non dica poi nulla del perché al soggetto l’oggetto sfugga sempre dalla coscienza, nell’attimo stesso in cui lo possiede: il soggetto non riesce a tenersi l’oggetto, evidentemente perché l’essenza dell’oggetto non è quella di essere proprietà del soggetto, a cui quindi non appartiene nel senso del pieno possesso. D’altronde un bene che è in mio pieno possesso posso decidere se tenerlo o darlo via, mentre non sembra che sia così con gli “oggetti” della coscienza. La stessa coscienza non è un bene che mi appartiene, non me la sono data io, e d’altronde con il morire la perdo. Ma se anche stessimo sul piano dell’avere ora nella coscienza, devo riconoscere che mentre posseggo l’oggetto come frutto, mi è gia sfuggito come fiore. L’oggetto non lo posseggo mai, anche se io sono momento essenziale del suo essere presente ed apparire. Vi è qui il principio, l’indicazione di una relazione essenziale, che ogni soggettivismo ingenuo e triviale cancella d’un colpo.
Kant era perfettamente consapevole di questa relazione, tutta problematica e da pensare, relazione che si annuncia già nel fatto che io posso schematizzare il dato empirico, ed essere effettivamente condizione dell’apparire dell’ente, solo perché sono affetto da una datità che non sono io a darmi, ma che al contrario ricevo. Ed è chiaro che ciò che ricevo non mi appartiene: mi è dato, e così pure tolto.
Ma questa impostazione di Kant è stata tradita dalla traduzione che della sua filosofia avrebbe fatto l’idealismo di Fichte, che asseriva come non ci fosse alcuna “cosa in sé”, ma solo l’Io: è il momento in cui l’uomo capisce che c’è una relazione, nell’Uno, dell’Uno con sé, ma poi pensa di potersi collocare dal punto di vista dell’Uno, come se fosse lui a scindersi, e non l’Uno: è il tentativo impossibile e perfino ridicolo dell’uomo di porsi nel punto di vista dell’Inzio. Così Fichte, figlio di contadini, finisce per pensare, ridicolizzandola, la cosa in sé come un ente separato dalle forme a priori (un oggetto separato dal soggetto): ma questo è impossibile, dunque nulla esiste fuori dell’Io. Ma così ha ridotto l’essere a un ente, e di questo ha ribadito il suo essere solo un fenomeno, cioè un prodotto dell’Io. Perché certo non c’è oggetto che non sia senza un soggetto, senza una coscienza. Ma Kant non voleva dire questo quando pensava alla cosa in sé, ma qualcosa di più raffinato: l’assoluto è un “oggetto” che nessun soggetto può catturare nel “fenomeno”, anche se si manifesta in ogni fenomeno. Questo il paradosso!
[caption id="" align="aligncenter" width="1000"] Caspar David Friedrich Wanderer, Il viandante sul mare di nebbia - 1818[/caption]

Non è vero, sta dicendo Kant, che tutto è nella mia coscienza ed è riducibile alla mia coscienza, che l’oggetto si risolve completamente nel suo essere oggetto-per-un-soggetto. Shakespeare giustamente canzonava questa ingenua credenza dei filosofi di poter comprendere e possedere tutta la realtà, ricordando al borioso di turno che ci sono molte più cose in cielo e in terra di quanto la sua filosofia possa sognare!

Ma superata questa dialettica tra l’oggetto e il soggetto nel senso di un definitivo risolvimento di ogni esitazione presente invece in Kant (punto di svolta della modernità), possiamo capire cos’è l’idealismo e la contemporaneità.
Detto questo, torniamo ora all’uno che non possiamo comprendere ma solo immaginare, intuire: a questa Physis che si auto-ritma in sé, si auto scinde: un uno che non può quindi essere assoluto, come crede invece l’Islam, perché l’uno si auto-media in sé, crea in sé un altro da sé, che è l’uomo, cioe è il logos. Nel Cristianesimo è Dio che si è mediato (si è fatto uomo), l’uno cioè si scinde, è in sé molteplice.
Noi siamo la relazione aperta, dall’uno, nell’uno, siamo un momento di Dio. Ecco perché il Dio cristiano è uno e trino. Il divino ripiega su di sé, cioè è aperto a se stesso e instaura questa relazione bellissima, perché l’uomo, anche quando non ne è pienamente cosciente, è in relazione costante con il divino a cui appartiene, e per questo dipinge, costruisce chiese e templi, scrive poesie etc. L’animale, che non ha la parola, non è aperto in questo modo al divino (è “povero di mondo”, diceva Heidegger), non ha autocoscienza: non vede di vedere, non sente di sentire, sente, vede e vive nell’immediato, è una coincidenza immediata con la natura. È l’essere in atto della Physis. Noi siamo qualcosa di più, anche se siamo da cima a fondo “naturali” (i processi di digestione corporea, per esempio, o tutti questi processi interni, avvengono indipendentemente e prima di ogni nostra coscienza: non dominiamo neanche quelli, figuriamoci la realtà!).
Ecco perché si parla del Dio uno e trino: Dio non è solo Padre, chiuso in sé, ma è un Dio che crea l’altro da sé, il Figlio: l’uomo, a cui dona lo Spirito, che è la relazione fra il Padre e il Figlio. Lo spirito è la parola. L’uomo è aperto al divino, che gli è davanti e può essere aperto al mondo, solo perché dotato di parola. Ma cosa è la parola (logos)? È quel raccogliere (legein) che porta alla presenza ciò che già è presente davanti. È davvero un raccogliere: un collaborare con l’essere, quasi come se l’assoluto avesse bisogno di noi per essere per sé. Ad esempio se si percorre un sentiero lungo e in salita, l’uomo inizia a pensare che questo sentiero è lungo! Dunque dicendo “il sentiero è lungo” raccoglie e porta alla presenza ciò che è già presente davanti (il sentiero).
In conclusione, si giunge sulla soglia di un abisso, che è terribile e meraviglioso allo stesso tempo: perché nel momento in cui io prendo consapevolezza del mio essere aperto, del mio essere trascendente, cioè rivolto costantemente verso l’ente nella sua totalità, di essere l’essere in atto del dispiegarsi del divino, tutto il nostro mondo dovrebbe modificarsi, poiché ci si rende conto che tutti i discorsi sulla morte di Dio, i discorsi sulla fine degli assoluti, sulla fine delle verità… sono solo parole, perché non hanno compreso neanche qual è il punto: non esiste un uomo potente che ci bacchetta, ci punisce, che ci premia.
Non è affatto di questo, invece, di cui si deve parlare, ma del nostro essere costantemente aperti ad una dimensione che è il divino, che non è una dimensione che abbiamo fatto noi, anzi è una dimensione di cui facciamo parte e alla cui relazione noi siamo stati consegnati: ci è stato donato, perché questo essere aperti è anche un prendersi cura. L’uomo in quanto con la parola porta alla luce l’ente, è anche colui a cui l’ente viene affidato. D’altronde a livello empirico noi vediamo come sia l’uomo a dominare il mondo, ma in senso più profondo questo mondo è letteralmente donato e dato in mano all’uomo. L’uomo è quell’ente a cui l’essere si è consegnato per poter essere cosciente di sé.

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di Federico Sergio Nicolaci del 10/04/2016

[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1471004138991{padding-top: 15px !important;}" el_class="titolos6"]Giornalisti, intellettuali, ben pensanti: mi rivolgo a voi, che con la foga dei missionari avete sostenuto, giustificato e plaudito gli «interventi umanitari» contro la Libia di Gheddafi, l'Iraq di Saddam Hussein, la Siria di Assad, consegnando le loro terre al caos e alla furia di tagliagole iperfondamentalisti: voi che avete ricoperto le pagine dei giornali con le menzogne del potere, lasciandovi ancora una volta prendervi in giro, chiedo a voi, sacerdoti del bene universale: come potete pensare oggi di lavarvi la coscienza gridando ai quattro venti gli strali della vostra indignazione per gli innocenti che sono morti mentre fuggivano dalle conseguenze di scelte politiche che ieri avete applaudito e giustificato? Dovreste vergognarvi!

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di Federico Sergio Nicolaci del 02/04/2016

[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1471009199054{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]Sono atterrato a Creta in pieno agosto, il mese forse peggiore per visitare l’isola dove è nata Europa: ogni giorno, infatti, giganteschi aerei riversano nei due aeroporti internazionali dell’isola migliaia di turisti in maglietta e bermuda, ansiosi di lasciarsi alle spalle il pallore del Nord Europa e immergersi nel sole della più meridionale delle grandi isole del Mediterraneo.

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2° incontro DAS ANDERE

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Si è felicemente svolto il secondo incontro dell'Associazione Culturale DAS ANDERE. Ospite l'autore Federico Nicolaci il quale ha presentato il suo ultimo saggio, incentrato sulla questione europea, "Tempio Vuoto" (Mimesis Edizioni).
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Tema centrale dell'incontro è stato un appassionato e appassionante discorso intorno alla crisi e al senso dell'Europa. Nel finale, interessante dibattito, da parte del pubblico al quale la direzione DAS ANDERE da un ringraziamento speciale. L'associazione ringrazia il Dott.Nicolaci per la cortesia e la professionalità con le quali si è cimentato con la consueta passione.