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di Elisa Di Agostino 17/10/2017

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La chiesa e il convento di Sant'Agostino a Norcia costituiscono un insieme molto interessante sia per quanto riguarda l'architettura, che per la decorazione, scultorea e pittorica. Questa chiesa, gravemente danneggiata dal sisma del 30 ottobre 2016 che ha provocato il crollo della copertura e di una parete, fu eretta nel XII secolo e poi rimaneggiata e ristrutturata nel XIV. Nonostante i danni, presenta un interessante portale con decorazioni zoo e fitomorfe ad incorniciare una lunetta affrescata. I soggetti presenti in questo piccolo spazio non hanno nulla di particolarmente interessante, se non fosse per un piccolo particolare, quasi invisibile ad occhio nudo, che abbiamo riscontrato ingrandendo le fotografie e che ha necessitato uno studio più approfondito per essere spiegato come segue.
Quest'opera venne restaurata negli anni '90 grazie ad un'iniziativa locale per il restauro e la tutela delle opere d'arte, “una mostra, un restauro”, a seguito del quale è stata riportata alla luce la piccola figura di un committente inginocchiato accanto a Sant'Agostino , ma non risulta essere stata studiata o analizzata in modo specifico.
L'affresco mostra la Madonna con il Divin Bambino benedicente tra due santi, rispettivamente Sant'Agostino, sulla destra, e San Nicola da Tolentino, sulla sinistra. Quest'ultimo fu un personaggio assai famoso all'epoca dell'esecuzione dell'opera, nel XIV secolo. Questo Santo, nato nel 1245 a Sant'Angelo in Pontarno (nei pressi di Macerata, a 90 km da Norcia), fu un colto predicatore dell'ordine degli Agostiniani. Considerato santo ancora in vita dai suoi contemporanei, morì nel 1305; è rappresentato con la tonsura e gli abiti tipici del suo ordine, un libro nella mano sinistra, la destra alzata, una colomba poggiata sulla spalla, rappresentante lo Spirito Santo nell'atto, forse, di suggerirgli le parole per le sue prediche.
Al centro la Vergine, vestita di rosso con un mantello blu e bianco, tiene con la sinistra il Bambino e mostra la destra: l'indice e il pollice sono uniti, in un gesto spesso rappresentato in epoca medievale, come ad esempio nella cappella degli Scrovegni a Padova ad opera di Giotto, nella Madonna dell'Umiltà ad Urbino ad opera di Lorenzo Salimbeni e anche in scultura sulla facciata del Duomo di Orvieto, ad opera Andrea Pisano (1347 ca). I colori accesi e marcati delle vesti e dell'incarnato della Vergine e del Gesù Bambino sono particolarmente esaltati dalla tinta verde del tendaggio di sfondo. Il Cristo, vestito solo di un velo bianco, che conserva traccia di iscrizioni non più leggibili, e di una catenina di coralli al collo, è rappresentato di tre quarti, mentre benedice con la manina destra Sant'Agostino alla sua sinistra.
[caption id="attachment_9534" align="aligncenter" width="1000"] Dettagli della lunetta del portale della chiesa di Sant'Agostino a Norcia, San Nicola da Tolentino, la Vergine con Gesù Bambino e Sant'Agostino. Il particolare del vultus trifons é stato messo in evidenza. [/caption]
Sant'Agostino è rappresentato come un vecchio saggio, vestito degli abiti vescovili, una mitra sulla testa areolata, tiene un pastorale decorato con la destra e tre libri nella sinistra. Ai suoi piedi, la piccola immagine del committente inginocchiato, un agostiniano del convento il cui nome non è indicato. Tra la figura del vescovo di Ippona e del Bambino, si trova la piccola immagine di una testa con tre facce, una di fronte e due di profilo.
Questo particolare lascia perplessi circa il significato esatto da attribuirle: si può facilmente pensare ad una rappresentazione della Trinità, ma questa interpretazione non è coerente con le sue piccole dimensioni e la sua posizione totalmente marginale rispetto al resto della composizione. Tuttavia occorre tener presente che una tradizione della rappresentazione della Trinità sotto forma di testa a tre volti esisteva già all'epoca: ne abbiamo un esempio nel castello di Vignola, nella sala così detta degli Evangelisti dove, al di sotto di un albero, si trova una grande immagine di questo tipo; l'affresco è stato datato al XV secolo, non se ne conosce l'autore.
Nel Museo Stefano Bardini di Firenze, vi è un dossale di altare dell'inizio del XV secolo rappresentante una figura dello stesso tipo, stavolta barbuta, attribuita a Pagno di Lapo Portigiani (immagine 4); sempre nella stessa città, all'interno di Palazzo Vecchio, al centro della volta della cappella di Eleonora di Toledo, sposa di Cosimo I de'Medici, troviamo la stesa iconografia ad opera del Bronzino. Un altro Vultus Trifrons si trova nel refettorio dell'abbazia di San Salvi, sempre a Firenze, sulla volta decorata, assieme alla parete sottostante, con la scena dell'Ultima Cena di Andrea del Sarto. Ancora, ne abbiamo un esempio scolpito nella piccola Orsanmichele.
A Perugia (circa 95 km da Norcia), esistono varie rappresentazioni di questo tipo e anche nella regione alpina.
L'uso del vultus trifrons come raffigurazione della trinità fu contestato già a partire dal Medio Evo, poiché lasciava trasparire un'evidente ambiguità; Sant'Antonino di Firenze (1389/1459) aveva già lanciato delle aspre critiche a questa figura di “cerbero cattolico” ma fu solo sotto Papa Urbano VIII, nel 1628, che questo tipo di rappresentazione fu dichiarata eretica ed infine sotto Benedetto XIV, l'uomo a tre volti fu bandito dal repertorio cristiano a seguito della definizione dei canoni di figurazione della Trinità.
Il fatto curioso è che, allo stesso tempo, esistono moltissime rappresentazioni del diavolo tricefalo, molto comune nell'immaginario popolare del Medioevo: fu Dante Alighieri stesso a descrivere Lucifero, nell'Inferno della sua Comedia “Oh quanto parve a me gran maraviglia, quand'io vidi tre facce a la sua testa!
In un affresco della chiesa di Santa Maria Maggiore e in una scultura sulla facciata della chiesa di San Pietro a Tuscania (immagine 10), troviamo due rappresentazioni di Satana tricefalo, come è trifrons anche il Diavolo del famoso affresco di Buffalmacco nel Camposanto di Pisa, e potremmo elencare ancora molti esempi.
Per comprendere l'origine dell'ambiguità e dell'ambivalenza delle raffigurazioni della Trinità e del Diavolo, abbiamo trovato molto interessante lo studio di Raffaele Pettazzoni, che ne spiega le ragioni in un articolo comparso nel 1946, intitolato "The Pagan Origins of the Three-headed Representation of Christian Trinity" di cui riportiamo un breve passaggio: "Come è possibile che si siano sviluppate due opposte applicazioni cristiane della stessa forma di rappresentazione? Ideologicamente è impossibile concepire che il diavolo a tre teste sia l'immediato antecedente iconografico della Santa Trinità o vice versa. Ciò che era pagano può divenire Cristiano; ma ciò che era, per la Cristianità stessa, diabolico, non può divenire divino. Le due opposte applicazioni iconografiche, una diabolica ed una divina, non derivano l'una dall'altra ma entrambe derivano da un comune prototipo pagano. Ma l'approccio è diverso perché lo spirito è diverso. Da un lato c'è uno spirito religioso vivace, lo stesso che aveva portato alla distruzione degli idoli pagani e che ora si esprime nella degradazione delle loro immagini al livello di demoni. Dall'altro lato c'è un'intuizione estetica usata al servizio del pensiero teologico (…) una forma che sembra fornire la soluzione ad un problema impossibile, quello della rappresentazione iconografica del mistero della divinità Una e Trina” .
Per tornare all'affresco della chiesa di Sant'Agostino, ci poniamo la domanda di quale possa essere il ruolo di questo piccolo vultus trifrons, vista la sua taglia e la sua posizione, assolutamente marginale rispetto al resto della composizione.
In Umbria e in generale nell'Italia centrale, troviamo delle rappresentazioni dell'Estasi di Sant'Agostino durante la sua visione della Trinità: ne abbiamo un esempio nella chiesa di Sant'Agostino a Gubbio, dove si trova un affresco di Ottaviano Nelli datato tra il 1420 e il 1430, con il santo inginocchiato, vestito in modo semplice, la mitra che fluttua dietro di lui o ritratta nell'atto di cadergli dalla testa. Con la mano destra mostra il suo cuore, dove si scorge una miniatura della Trinità, come un riflesso di quello che appare in cielo: “L'affresco di Gubbio riprende la sua iconografia da un repertorio visuale stabilito dalla stigmatizzazione di San Francesco (…) la somiglianza è rinforzata dal Nelli nell'attenzione all'abbigliamento degli Eremiti a discapito del più familiare mantello di Agostino, e dalla rimozione della mitra per rivelare la tonsura del santo”.
Un altro esempio ci è dato da una tavola, datata seconda metà del XIV secolo, rappresentante Sant'Agostino e sua madre Santa Monica in una cappella, davanti alla visione della Trinità che sorge dall'altare, il Padre in alto, il Figlio sulla croce e cherubini tutti intorno. Attualmente conservato presso la collezione Drey a Monaco, non se ne conoscono né la provenienza né l'autore .
Particolarmente interessante, una predella di Filippo Lippi raffigurante il Santo seduto nell'atto di scrivere, quando una Trinità trifronte appare nello studio (1438 ca). Ci domandiamo dunque se questo piccolo vultus trifrons, nella lunetta del portale di una piccola chiesa di provincia, non sia altro che un'ingenua rappresentazione dell'estasi del santo.
[caption id="attachment_9533" align="aligncenter" width="1000"] L'affresco del Vultus Trifrons, si trova all'interno della cappella del IX secolo, la parte più antica della Rocca Flea, una particolare rappresentazione della Trinità con un unico corpo e tre teste. Apparsa fin dal XII secolo nelle architetture romaniche e proto gotiche, questa iconografia ebbe notevole sviluppo tra la fine del XII e l'inizio del XIV secolo, quando sembrò agli artisti il modo migliore di rappresentare il mistero trinitario. Il Vultus Trifrons ebbe, però, anche una valenza negativa, quale emblema del demoniaco, per questo il suo utilizzo fu abbandonato già dal XVI secolo ed espressamente vietato da papa Benedetto XIV nel 1745. L'affresco gualdese, è riconducibile alla mano di un pittore perugino sicuramente influenzato da Pietro Lorenzetti. [/caption]
Dall'altro lato San Nicola da Tolentino è rappresentato come pendant con una colomba bianca sulla spalla, esattamente come in un affresco di Simone Martini a Siena, datato 1324 dove troviamo il beato locale Agostino Novello al centro della composizione, con un angelo sulla spalla che gli suggerisce le parole: “(...) una delle più interessanti ed espressive tavole commissionate dagli Agostiniani (…) è il Beato Agostino Novello di Simone Martini, all'incirca del 1324, che va contro la tradizione, piuttosto diversa, dei dossali istoriati dei santi degli ordini mendicanti (…). Il punto focale, nella tavola di Simone Martini, è il ritratto del frate Agostino, con la tonsura e senza barba (…) concentra l'enfasi nell'apprendimento e nell'istituzionalizzazione religiosa. Comunque il modo in cui Agostino é situato nella tavola di Simone, entro uno arco di legno, mentre riceve l'ispirazione da un angelo, rivela un altro importante aspetto del movimento agostiniano: l'enfasi di un'esistenza eremitica e spiritualmente ascetica.”
In un periodo storico difficile per i mendicanti agostiniani, un ordine relativamente giovane all'epoca dell'esecuzione dell'affresco , che non aveva un santo fondatore come San Francesco per i francescani, viene scelto come Santo patrono uno dei Padri della Chiesa che deve però essere condiviso con gli altri ordini agostiniani già esistenti. In questa delicata epoca di affermazione sociale, gli eremiti/mendicanti cercano un'iconografia che si ricolleghi alla storia di Sant'Agostino ma che sia anche testimonianza della vocazione pauperistica e spirituale propria del loro ordine “(...) il quattordicesimo secolo fu chiamato l'età Agostiniana, durante la quale persino il corpus delle loro scritture si espanse, poiché gli studiosi ricercarono nelle biblioteche e nei manoscritti (…) Agostino di Ippona scrisse molto poco sulle immagini, ma quello che disse non era positivo” .
Questa mancanza di riferimenti portò i committenti o comunque gli ideatori delle opere a prendere ispirazione dagli altri esempi, come i cicli francescani di Giotto ad Assisi (è il caso dell'affresco di Ottaviano Nelli di cui abbiamo parlato precedentemente) ma svilupparono anche caratteristiche originali, particolari e nuove. Nella nostra lunetta troviamo dunque una rappresentazione in linea con la nuova iconografia dell'ordine dei mendicanti agostiniani, che mette in scena la Vergine con il Bambino tra il santo patrono, con i suoi attributi, e San Nicola da Tolentino che, come abbiamo detto, era molto famoso all'epoca, ed che fu tra i primi beati dell'ordine degli eremiti agostiniani.
Il voltus trifrons sarebbe dunque effettivamente la rappresentazione della trinità ma raffigurata come attributo identificativo di Sant'Agostino, come le stigmate per San Francesco o la ruota per Santa Cristina.
 
Per approfondimenti:
_Pettazzoli Raffaele, "The Pagan Origins of the Three-headed Representation of Christian Trinity";
_Bourdua Louise, Dunlop Anne, "Art and the Augustinian Order in Early Renaissance Italy" - edizioni Ashgate, Bodmin, 2007;
_Cordella Romano, “una lunetta e un nicchione da salvare” atti del congresso “una mostra un restauro, XII mostra nazionale di grafica dei maestri contemporanei per il restauro degli affreschi del portale e del terzo nicchione nella chiesa di Sant'Agostino a Norcia”, Norcia, 1991;
_Alighieri Dante, "Divina Commedia" - Edizioni Mondadori.
 
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di Elisa Di Agostino 14/06/2017

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La cattedrale di Santa Maria Annunziata ad Otranto, in Puglia, è una fabbrica medievale, la quale conserva una storia di commistioni culturali e di unicità interessanti. Questa chiesa fu consacrata nel 1088 dal legato Pontificio Roffredo Arcivescovo di Benevento e dedicata alla Madonna Annunziata. L'architettura è in stile romanico, come si evince dalla facciata a salienti; l'esterno mantiene sostanzialmente il suo aspetto originale nonostante il rosone ed il portale siano stati costruiti in epoche successive. L'interno è diviso in tre navate da due file di 14 colonne con capitelli eterogenei.
La facciata medievale a doppio spiovente è stata oggetto di numerosi rimaneggiamenti susseguitisi nei secoli. All'indomani delle devastazioni inflitte nel corso dell'occupazione turca del 1480, fu edificato il grande rosone a 16 raggi con fini trafori gotici di forma circolare convergenti al centro, secondo i canoni dell'arte gotico-araba. Nel 1674 fu aggiunto il portale barocco, composto da due mezze colonne scanalate per lato che sorreggono l'architrave con lo stemma dell'arcivescovo Gabriel Adarzo de Santander retto da due angeli. Ai lati della facciata si aprono due monofore. Un altro portale minore è presente sul lato sinistro della basilica; fu edificato tra la fine del XV e l'inizio del XVI secolo da Nicolò Fernando per volontà dell'arcivescovo Serafino da Squillace che fece scolpire la propria figura sulla struttura.
La pianta basilicale, è composta da tre navate, di cui quella centrale in rapporto di 2:1 con le due laterali. Le navate sono divise da quattordici colonne di marmi diversi e con capitelli di varie fogge, in parte provenienti da edifici antichi. Il transetto non fuoriesce dal perimetro del corpo longitudinale ed è collegato ad esso con l'arco di trionfo a tutto sesto e due archi longitudinali più bassi, mente sul presbiterio si aprono 3 absidi, inglobate nel muro perimetrale - le due laterali trasformate in cappelle oggi appaiono poligonali, mentre quella centrale è semicircolare -; il transetto è percorso da due ampi arconi ribassati che delimitano il presbiterio. Gli archi fra le colonne sono di gusto arabo di forma a ferro di cavallo. Due scale, poste nelle navate laterali, conducono alla cripta. Questa è costituita da una selva di 42 colonne, di provenienza e materiali diversi molte delle quali di reimpiego. Tra i capitelli più belli, spiccano quello dei leoni e quello delle arpie ma ve ne sono di diversissimi, dorici, corinzi, bizantini e persino di influenza araba.
L'interno, come l'esterno, risulta molto rimaneggiato dopo la riconquista cristiana del 1480 e poi in epoca barocca. Il vero tesoro medievale di questa chiesa resta il suo mosaico pavimentale, un capolavoro dell'arte musiva del XII secolo. L'opera fu voluta dal vescovo di Otranto e ideata dal presbitero Pantaleone. Proveniente dal vicino monastero di San Nicola di Casole. I lavori furono eseguiti tra il 1163 e il 1165: ad oggi è uno dei più grandi mosaici in Italia.
La complessità e la vastità dei personaggi, delle scene allegoriche e della simbologia di quest'opera hanno sollevato dubbi e discussioni tra gli storici. La struttura si articola in un gigantesco albero della vita, che comprende tutta la navata e si dirama in girali che incorniciano diverse scene.
Si passa da brani dell'antico testamento come il peccato originale di Adamo ed Eva, l'uccisione di Abele da parte di Caino, il diluvio universale, l'arca di Noè e re Salomone, a scene del tutto profane. Anche se lo stile è piuttosto semplice e privo di profondità spaziale, le figure hanno una grande dinamicità e riescono benissimo a comunicare allo spettatore l'azione ed il movimento. Tra i personaggi che possiamo identificare con sicurezza perché compare il nome, troviamo Alessandro Magno in sella a due grifoni. Secondo una leggenda, tramandata dalla tradizione del Romanzo di Alessandro dello Pseudo Callistene, il grande re greco avrebbe voluto volare fino al cielo.
Nelle immagini sono riportati alcuni personaggi celebri del mosaico, (da sinistra a destra) come Alessandro Magno, Re Artù, la sirena, Eva-il serpente-Adamo.
Per questo avrebbe spinto due grifoni a trasportarlo in volo sempre più in alto allettandoli con della carne (che tiene in mano nel mosaico). Nel pensiero dell'epoca questa scena potrebbe essere interpretata come tracotanza e mancanza di rispetto verso Dio. Un altro sovrano che ci stupisce molto trovare all'interno di questa composizione è Artù, il mitico re dei romanzi cortesi attorno a cui si costruì tutta la saga dei cavalieri della tavola rotonda. Il fatto che sia rappresentato ad Otranto in un'epoca così precoce rispetto alla diffusione a noi nota dei cicli arturiani ne fa probabilmente la più antica rappresentazione della storia.
Non solo: nel mosaico della cattedrale di Otranto il rex Arturus è rappresentato a cavallo di un caprone, notoriamente figura satanica nell'immaginario medievale. Il significato ci appare dunque oscuro, considerando che nei poemi cavallereschi Artù viene raccontato come un re giusto, devoto e saggio.
Il mosaico di Otranto è considerata oggi come un'enciclopedia del sapere e dell'immaginario medievale per la ricchezza e la vastità del repertorio a cui attinse il colto Pantaleone. Anche il fatto che il suo nome compaia scritto proprio all'ingresso della cattedrale è insolito, ma testimonia l'importanza che doveva ricoprire questo personaggio nella zona. La simbologia, sicuramente complessa ma anche criptica per i contemporanei che non hanno più le chiavi di lettura per comprendere a pieno il disegno di Pantaleone rendono questo mosaico ancora più affascinante. Le 600.000 tessere che compongono la pavimentazione della cattedrale di Otranto
sono parzialmente lacunose, ma il significato generale appare piuttosto chiaro: si tratta di una rappresentazione dell'umanità, in tutte le sue forme e di un percorso iniziatico attraverso i vizi in direzione della redenzione.
Accanto alle figure mitiche e dell'antico testamento, vediamo anche i dodici mesi dell'anno, il lavoro dell'uomo, animali mitici come l'unicorno, e reali, quasi a costituire un bestiario. Mostri come le sirene, simbolo del peccato carnale, centauri, rappresentazione della bestialità, un drago, un leone con una sola testa e quattro corpi, un'amazzone e alte strane creature arricchiscono il repertorio incredibile che Pantaleone pensò per la decorazione di questa meravigliosa cattedrale.
Il mosaico di Otranto è la rappresentazione della vita, in tutte le sue contraddizioni e nella continua lotta tra bene e male, peccato e salvezza: come infatti accanto al paradiso compare una rappresentazione dell'inferno, accanto ai simboli dei peccati capitali vi sono rappresentazioni delle virtù. Il mosaico deve infatti essere letto nel suo complesso: le due braccia del transetto ospitano una inferno e paradiso e l'altra varie figure tra cui Atlante, il titano condannato da Zeus a reggere sulle sue possenti spalle la volta celeste. Questa figura nel medioevo fu molto utilizzata per rappresentare l'uomo schiacciato dal peso dei peccati.
Come spiega Laura Pasquini nel suo articolo“salendo lungo la navata centrale della cattedrale di Otranto (secolo XII) , il grande albero a mosaico indica la via che conduce alla salvezza, mentre tra i suoi rami, fitti di ornamenti e immagini simboliche, alcune scene paiono rammentare al fedele tutti gli ostacoli che l’essere umano potrà incontrare nel suo percorso verso l’abside, che è pienezza spirituale. Quali exempla insigni di ubris punita, vanno dunque letti gli episodi dell’Ascensione di Alessandro e della costruzione della Torre di Babele; come immagine dell’inganno per eccellenza e manifestazione subdola del Male (il quale, come nella realtà, adopera a volte per palesarsi le stesse fattezze di Dio) va interpretato invece il grande leone quadricorpore che, nel settore sinistro dell’albero, poggia i suoi poderosi artigli sul dorso di un mostro serpentiforme, a sua volta intento a divorare un altro anguide”.
E' nella navata centrale che si sviluppa la maggior parte del disegno di Pantaleone. Partendo dall'alto, e dunque dall'altare, troviamo i vizi e le virtù degli uomini.
Appena sotto c'è il giardino dell'eden, quindi la cacciata dal paradiso terrestre e subito sotto i dodici mesi dell'anno. Il tempo smette di essere quello di Dio e del Paradiso e diventa tempo dell'uomo, del lavoro della terra a cui è stato condannato dopo il peccato originale, dei ritmi della natura. Poi la narrazione continua con Noè ed il diluvio universale, la torre di Babele, vari personaggi appartenenti al mito ma anche alla storia vera e propria. Non è infrequente che in quest'epoca la storia e le antiche leggende venissero confuse e mischiate.
L'albero della vita, da cui si dirama tutta questa narrazione, è sostenuto da due elefanti, il cui significato non è del tutto chiaro, come quello di molte altre parti del mosaico. All'occhio dei contemporanei non risulta infatti facile interpretare la simbologia dell'opera di Pantaleone in quanto molte di queste figure possono essere viste sotto diversi aspetti e significare una cosa o il suo perfetto opposto, come abbiamo potuto vedere.
La cattedrale di Otranto, anche nei secoli successivi preservò quest'opera straordinaria nonostante i diversi interventi e le vicissitudini della storia. L'edificio infatti, divenne una moschea dopo la conquista turca del 1480. A ricordo del violento scontro militare e culturale di questa guerra, sono conservati nella chiesa i teschi degli 813 cittadini cristiani massacrati perché non vollero rinnegare la propria fede. Otranto e la sua cattedrale ci dimostrano come la commistione di influenze culturali possa dare vita a orribili delitti ma anche a capolavori incredibili, come questo mosaico straordinario.
 
 Per approfondimenti:
_Hubert Houben, Otranto nel Medioevo: tra Bisanzio e l'occidente;
_Rossella Cataldo, Giorgio De Nunzio, Integrated methods for analysis of deterioration of cultural heritage: the Crypt of “Cattedrale di Otranto” in Journal of cultural heritage;
_Laura Pasquini, L’Amazzone, demone della diversità, nella Leggenda del Prete Giannie nel
pavimento musivo della cattedrale di Otranto.
 
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di Elisa Di Agostino 21/04/2017

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La chiesa di San Clemente al Celio è una delle più importanti di Roma, non solo sotto l'aspetto artistico ma anche perché rappresenta bene una città che è stata costruita a strati sovrapposti. L'edificio visibile oggi, risale al XII secolo, ma nasconde parti ben più antiche. Sotto l'attuale pavimento furono infatti scoperti, nel 1857, diversi strati comprendenti un mitreo, un'antica casa romana ed i resti della prima basilica. La posizione di questa chiesa, a pochi passi dal Colosseo, tra i fori e la via Labicana, ha favorito la stratificazione degli edifici, distrutti a più riprese da varie vicissitudini.
La basilica di San Clemente a Roma, dedicata a papa Clemente I, sorge nella valle tra l'Esquilino e il Celio, sulla direttrice che unisce il Colosseo al Laterano, nel rione Monti. Ha la dignità di basilica minore. Attualmente è retta dalla provincia irlandese dei domenicani.
La chiesa attuale venne ricostruita da Pasquale II sull'aprirsi del XII secolo, quando il monaco benedettino venne proclamato pontefice proprio in questo edificio. Ancora nel pieno dell'aspra lotta tra papato ed impero, mentre le famiglie nobili romane si schieravano dall'una e dall'altra parte, Pasquale II operò una serie di rinnovamenti nelle più antiche ed importanti chiese romane, volti ad affermare il potere spirituale su quello temporale e a rendere le chiese luoghi di raccoglimento e preghiera su modello di quelle benedettine.
San Clemente è l'esempio più lampante di questa renovatio : la chiesa era già in fase di trasformazione tra il 1080 e il 1099 anno in cui fu eletto papa. Probabilmente l'edificio preesistente era stato danneggiato da Roberto il Guiscardo e dalle sue truppe nel 1084. Il saccheggio di Roma da parte dei normanni fu uno degli episodi più violenti del periodo della lotta per le investiture. Le truppe erano state chiamate da papa Gregorio VII stesso, per contrastare l'assedio dell'imperatore tedesco Enrico IV ma, una volta sconfitto l'esercito imperiale, i normanni del Guiscardo saccheggiarono e devastarono Roma. La zona più colpita dalle distruzioni fu proprio quella tra il Colosseo ed il Laterano, ragione che spinse la popolazione a radunarsi intorno alla zona del Tevere e di Castel Sant'Angelo.
Da sinistra a destra: Pasquale II, nato Rainerio Raineri (1050 - 1118), è stato il 160º papa della Chiesa cattolica dal 1099 alla morte; Enrico IV di Franconia (1050 – 1106) è stato dal 1056 rex romanorum e dal 1084 imperatore del Sacro Romano Impero; Roberto d'Altavilla, detto il Guiscardo (l'Astuto), in latino Robertus Guiscardus o Viscardus (1015 circa – 1085), è stato un condottiero normanno.
Per quanto riguarda San Clemente, ciò che è certo, è che la vecchia struttura fu interrata e sfruttata come base per la nuova, inaugurata nel 1118. Questa chiesa è stata spesso portata come esempio di basilica paleocristiana anche per via del suo quadriportico che in realtà è frutto di ristrutturazioni successive e risulta pesantemente rimaneggiato. Il manufatto attuale si presenta a tre navate, divise da colonne di spoglio, interrotte nel centro da pilastri che determinano una sorta di divisione della navata in due spazi. Le colonne in granito si alternano a quelle di marmo scanalato. La divisione della chiesa in due diverse parti, coincide con la schola cantorum, elemento reimpiegato dalla basilica precedente ma con delle aggiunte del XII secolo. All'interno del recinto sacro, vi sono un magnifico ciborio medievale e un candelabro pasquale cosmatesco. Il vero capolavoro della chiesa è però il mosaico absidale. Sullo sfondo dorato bizantineggiante si staglia un Cristo in croce tra la Vergine e San Giovanni Evangelista. Dalla croce si diramano girali di acanto a formare l'albero della vita, simbolo della chiesa che dà vita all'umanità intera.
Tra le foglie spiccano figure zoomorfe ed umane, mentre sulla croce vi sono dodici colombe rappresentanti gli apostoli. Ai piedi del crocifisso si diramano i quattro fiumi del Paradiso, a cui si abbeverano vari animali, immagine del popolo di Dio che si avvicina alla verità e alla vita eterna. Ciascuna di queste creature ha un significato simbolico molto preciso: il pavone, ad esempio, è simbolo di immortalità, poiché la sua carne era creduta incorruttibile.
Al di sopra della scena, tra raggi luminosi, la mano di Dio protende una corona verso la croce. Ai lati del catino absidale troviamo invece San Pietro e San Paolo, sotto di loro i profeti Isaia e Geremia. Al di sopra troneggia il Cristo pantocratore circondato dal tetramorfo.I pavimenti della basilica sono a lungo stati considerati tra i più bei pavimenti cosmateschi di Roma.
Di recente è stato però dimostrato che tale pavimentazione ha subito numerosi rifacimenti nei secoli, ragione per la quale quello che vediamo oggi non può dirsi l'originale medievale.
San Clemente custodisce però importanti tracce del suo passato: scendendo al livello inferiore infatti, si può accedere alle strutture più antiche. Il primo edificio identificato è di forma rettangolare e risale alla fine del I secolo d.C. Si è ipotizzato possa trattarsi di un horreum, cioè un magazzino per le merci, forse legato ai giochi dell'anfiteatro Flavio o allo stoccaggio del grano. I muri sono realizzati in grandi blocchi di tufo e travertino, ma la scarsità dei resti non ci permette di definire con sicurezza la sua funzione.
Alla metà del II secolo d.C. risale invece un'insula, cioè una casa privata che accolse al suo interno un mitreo, si pensa verso il III secolo, di cui si possono ancora vedere le decorazioni a fresco e l'altare.
Su questa seconda struttura fu poi edificato il nucleo della prima basilica, in cui venne aperto un abside nel IV secolo. Nello strato della prima chiesa, da cui fu prelevata parte dei materiali per la struttura nuova, si trovano ancora affreschi e testimonianze di grande importanza. L'esempio più famoso è uno dei primi documenti di volgare italiano: si tratta delle storie di San Clemente, risalenti all'XI secolo. Quest'opera narra di San Clemente e Sisinnio, un prefetto romano che perseguitava Clemente poiché cristiano.
Nelle scene, quasi fumettistiche, si vede il prefetto fare irruzione durante una messa del santo: per effetto di un miracolo, l'aguzzino diventa improvvisamente cieco e sordo e deve andarsene senza potere procedere all'arresto.
La scena sottostante è molto divertente: si vedono il santo che ha fatto visita a Sisinnio per guarirlo e lui che reagisce ordinando ai suoi sottoposti di gettare Clemente fuori dall'edificio. Grazie ad un altro miracolo, il santo ne esce illeso, mentre gli uomini si ritrovano a dover sollevare una pesante colonna di pietra.
Le figure sono accompagnate da didascalie con le loro parole. I sottoposti del prefetto, gente del popolo, si esprimono in dialetto volgare mente il santo pronuncia in latino “Duritiam cordis vestri, saxa traere meruistis”ossia “per la durezza del vostro cuore, avete meritato di trascinare pietre” mentre Sisinno “Fili de le pute, traite, Gosmari, Albertel, traite. Falite dereto co lo palo, Carvoncelle!” ossia “figli di puttana, tirate, Gosmari, Albertel, tirate. Spingete da dietro con il palo, Carvoncelle!”. La differenza di registro segna ovviamente la distanza tra il santo educato e colto ed i suoi persecutori, ignoranti e volgari; per noi tuttavia questo documento è fondamentale perché ci fa capire come la lingua parlata a Roma in quell'epoca fosse ormai lontana dal latino.
San Clemente non custodisce quindi solo tesori d'arte e di storia, ma anche un'importantissima testimonianza linguistica. La chiesa fu a più riprese rimaneggiata, come si nota dal soffitto barocco, dalla facciata settecentesca e da varie altre aggiunte. Ciononostante, San Clemente ha mantenuto il suo fascino primitivo ed è una chiesa unica proprio grazie alla sua storia di stratificazione, in cui possiamo vedere tutte le epoche sovrapposte e fuse in un unico edificio.
 
Per approfondimenti:
_Gianluca Lauta, “ancora sull'iscrizione di San Clemente”,Lingua Nostra, 2007
_Nicola Severino, Pavimenti Cosmateschi di Roma: Storia, Leggenda e Verità. Basilica di San Clemente
 
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di Elisa Di Agostino 24/03/2017

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Il duomo di Modena è uno dei monumenti più importanti dell'arte romanica. Sono diverse le peculiarità di questa chiesa magnifica, a partire dalle condizioni che ne determinarono la costruzione nel XI secolo. Dopo la fine dell'impero carolingio, iniziò il periodo cosiddetto della lotta per le investiture che vide contrapporsi da un lato gli imperatori e dall'altra il pontificato, ciascuno dei quali voleva riconosciuta la propria supremazia sull'altra fazione. Il pretesto fu l'opposizione del Papa nell'investitura dei vescovi da parte del sovrano laico. In realtà in gioco c'era il riconoscimento del potere su tutta l'Europa.
Dopo la morte di Carlo Magno, il continente era stato di nuovo vittima di invasioni barbariche da parte dei normanni sulle coste tedesche e francesi, degli ungari in Europa centrale e dei saraceni che erano giunti sulle coste meridionali sino a conquistare la Sicilia e che ancora detenevano il potere in gran parte della penisola Iberica.
La morte di Carlo Magno, miniatura dal manoscritto. Fr. 2820 della Biblioteca nazionale di Parigi
In questa difficile situazione politica - aggravata da carestie e malattie, nel X e XI secolo - i villaggi si erano andati sempre più organizzando intorno a grandi e ricche abbazie: prima tra tutte quella di Cluny, in Francia. Le abbazie erano centri di cultura, oltre ad essere vere e proprie cittadelle, spesso fortificate e completamente autosufficienti. Allo stesso modo nelle città, i vescovi avevano sempre più preso potere ed erano diventati veri e propri amministratori del potere non solo religioso ma anche temporale.
Era dunque normale che sia il Papa che gli Imperatori si contendessero il potere della loro investitura per garantirsi indirettamente il controllo dei territori che i vescovi amministravano. La situazione era degenerata nel 1075 quando papa Gregorio VII aveva emanato la bolla "Dictatus Papae" in cui si dichiarava che il pontefice, essendo guida spirituale della cristianità, era superiore all'imperatore che deteneva solo il potere temporale e che conseguentemente poteva essere deposto attraverso la scomunica. La reazione dell'imperatore non si fece attendere: radunò i vescovi a lui fedeli e depose il Papa. Seguì un lungo periodo in cui papi ed antipapi - eletti dal clero e degli imperatori -  imperatori scomunicati ed eredi cospiratori, si contesero il potere e la supremazia in Europa, ma soprattutto in Italia. Nel frattempo però nella nostra penisola andava nascendo una nuova classe sociale che sempre più accumulava ricchezze e potere: la borghesia, retta dal commercio.  Le città si preparavano a combattere per la propria indipendenza: tale situazione condusse molti comuni - o floride repubbliche marinare - verso l'autogestione.
In tale contesto storico, anche l'architettura muta: una delle innovazioni nel duomo di Modena la riscontriamo già nell'edificazione del manufatto, il quale fu edificato per volontà popolare, in un momento in cui la cattedra vescovile era vacante. Fu deciso da tutti i cittadini - di ogni estrazione sociale - e fu finanziato in gran parte proprio dalla classe commerciante, come simbolo della propria potenza, autonomia e ricchezza. Quando il nuovo vescovo venne ad installarsi in città, trovò il cantiere già attivo.
Nelle immagini, la facciata principale, posta ad est, uno spaccato assonometrico e il dettaglio della porta con le statue zoomorfe, raffiguranti i due leoni.
Le firme dei due artisti, rarissime nel medioevo, denotano l'inizio del cambiamento sociale di queste figure: pensato fino ad allora come un semplice artigiano, l'artista iniziava a diventare invece un personaggio importante e riconosciuto, proprio come i mercanti cominciavano a diventare signori e gli artigiani iniziavano a raggrupparsi in associazioni per avere maggior riconoscimento del loro lavoro. Lanfranco e Wiligelmo sono dunque due nomi che fanno da battistrada ai successivi grandi del rinascimento.
La chiesa è in stile romanico e comprende anche la torre campanaria dette Ghirlandina. La struttura, dopo la scomparsa di Lanfranco, fu continuata dai maestri campionesi, provenienti dall'area alpina tra la Lombardia e la Svizzera e quindi aggiornati sulle tecniche costruttive d'oltralpe. La chiesa, a tre navate e priva di transetto, si presenta con una facciata a salienti in tre campiture divise da grandi paraste. Sei archi con trifore scandiscono il ritmo della parte superiore e continuano lungo la navata. Il portale maggiore è sormontato da un protiro su due livelli con un'edicola sorretta da due leoni stilofori di origine romana.
Il grande rosone e i due portali laterali sono aggiunte del XIII secolo. Molti i materiali di reimpiego di origine romana sia per le pietre della muratura che nella decorazione. Nella struttura vi sono alcune irregolarità, dovute probabilmente ad errori di calcolo: lungo la navata infatti la serie di loggette tripartite si interrompe e lascia spazio ad una bifora. Errori di questo genere sono frequenti nelle chiese medievali e particolarmente romaniche poiché le tecniche di costruzione non erano ancora perfettamente padroneggiate e l'erezione di una cattedrale era spesso equiparata ad un miracolo. Tuttavia la struttura risulta armonica anche grazie alle sue proporzioni: l'altezza infatti è esattamente pari alla larghezza.
Originali e vivaci, le sculture di Wiligelmo animano e allo stesso tempo espletano una funzione didascalica, raccontando quattro scene della Genesi.
I quattro lastroni dovevano in origine essere visibili in facciata ma poi vennero spostati con l'apertura dei portali laterali. Troviamo la creazione dell'uomo, della donna ed il peccato originale, la cacciata dal paradiso, il sacrificio di Caino e Abele, l'omicidio di Abele e la condanna divina, l'uccisione di Caino, il diluvio universale e l'uscita di Noè dall'arca.
Vista prospettica sud della cattedrale metropolitana di Santa Maria Assunta in Cielo e San Geminiano - sita in piazza Duomo - chiamata comunemente Duomo di Modena.
Una pietra posta all'esterno dell'abside riporta la data di fondazione della chiesa 23 maggio 1099 e, per la prima volta, il nome dell'architetto: Lanfranco. Un'altra lapide ricorda il valente scultore che decorò questo edificio, mastro Wiligelmo.
Queste scene sono narrate in modo consecutivo a gruppi di tre, come se fossero un fumetto. A scandire i tempi, gli archetti tripartiti divisi da colonnette, che riprendono la decorazione stessa dell'esterno del duomo.
Wiligelmo e la sua scuola decorarono con sculture tutta la struttura. Particolarmente interessante anche il maestro delle metope, che decorò con un originalissimo repertorio fantastico, le metope appunto, oggi conservate nel museo del duomo. Di questo artista, come del suo maestro Wiligelmo, colpisce la ricerca di volume, di movimento e di narrazione, derivati senz'altro dall'osservazione dell'antico. Le figure non sono anonime ma ben caratterizzate dai loro atteggiamenti e movimenti. Si veda Adamo che nella scena del peccato originale si porta una mano al mento in atteggiamento pensoso o come Abele si accasci in terra sotto il colpo del fratello. Le sculture risultano un efficace mezzo di narrazione e in questo perfetto esempio di romanico, narrano tutto ciò che c'è da sapere: troviamo i mesi dell'anno rappresentati con i lavori tipici di ogni periodo, il ciclo arturiano con le leggende di origine francese (precedente persino alla prima versione scritta conosciuta), interessanti raffigurazioni come la verità che strappa la lingua alla frode, scene della vita di San Gimignano (le cui reliquie sono conservate all'interno del duomo) etc.
Come scrive la Romanini “Il rapporto tra l'architettura di Lanfranco e la scultura di Wiligelmo è in questo senso esempio principe -nell'Europa romanica- di uno spazio modellato come forma plastica, identificato con il plastico snodarsi rotante di un corpo vivo”. 
[caption id="attachment_8259" align="aligncenter" width="1000"]copertina-per-sito2 Vista interna e della cripta.[/caption]
Internamente la chiesa si suddivide in tre navate, terminanti ognuna con un’abside, e senza transetto. Il presbiterio e il coro sono sopraelevati sulla cripta. Nella navata centrale si succedono colonne e pilastri, su quest’ultimi poggiano le volte della navata centrale, invece sulle colonne poggiano le volte delle navate laterali. La navata centrale è suddivisa in quattro campate, mentre le navate laterali ne hanno otto, poiché la lunghezza delle prime è doppia delle altre. Nell’interno si trova un finto matroneo. La copertura originale era costituita da capriate lignee, poi però nel XV secolo vennero create al loro posto le volte a crociera. Il rivestimento interno è in laterizio. Oltre alle sculture di Wiligelmo, il duomo contiene altre opere di grande valore artistico. Tra le tante è giusto citare il pulpito che compare nella navata nord, fatto nel 1322 da Enrico da Campione, il San Sebastiano realizzato su tavola da Dosso Dossi, il Pontile Campionese, caratterizzato dai simboli dei quattro evangelisti e dalla raffigurazione dell’Ultima Cena, una statua di marmo di San Geminiano opera di Agostino di Duccio del XV secolo, gli “stalli intarsiati” di Cristoforo e Lorenzo Canozi da Lendinara del XV secolo e alcune tele di Francesco Stringa, Bernardino Cervi e Lodovico Lana. Il duomo di Modena, oltre ad essere un capolavoro assoluto dell'arte romanica, è anche una preziosa testimonianza della crescente autonomia della comunità cittadina.
 
Per approfondimenti:
_Angiola Maria Romanini e Marina Righetti Tosti Croce “arte medievale in Italia”, Sansoni editore;
_Pierluigi De Vecchi, “Arte nel tempo”, Bompiani editore.
 
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata
 
 

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di Elisa Di Agostino 02/03/2017

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Il 25 dicembre dell'800 avvenne un fatto straordinario per la storia d'Europa. A Roma, durante la messa di Natale, il papa Leone III incoronò Carlo imperatore. Nessuno portava più quella carica in occidente da dopo la deposizione di Romolo Augustolo, l'ultimo imperatore romano nel 476 d.C..
L'imperatore passerà alla storia come "Carlo Magno", il quale  riconquistò l'Italia Longobarda, combatté gli arabi in Spagna e unificò sotto un'unica bandiera un impero che dalla Francia arrivava sino all'attuale Ungheria. Sotto la sua guida, questi territori videro una ripresa della cultura e delle arti.
Raffaello Sanzio, Incoronazione di Carlo Magno - affresco, 500×670 cm , 1516-1517 - Città del Vaticano, Musei Vaticani
Venne inventato un nuovo carattere di scrittura, la minuscola carolina, che permise di unificare la grafia, allora diversa a seconda delle località, che comportò un risparmio di spazio per scrivere sui preziosi fogli di pergamena.
In storia dell'arte questo periodo è stato spesso definito «rinascenza carolingia». Ovunque si recuperarono i modelli classici, pur reinterpretati per dare vita a nuovi capolavori. Lo si vede a Roma con i mosaici bizantineggianti nel sacello di San Zeno in santa Prassede, a Lorsch dove viene costruita una porta a tre archi quasi come un arco di trionfo e nella capitale, Acquisgrana, dove viene costruita una cappella palatina di forma ottagonale ispirata al battistero di San Giovanni in Laterano e al mausoleo di Santa Costanza. I nuovi monumenti sono innovativi perché nascono per esigenze nuove in un'epoca diversa: è una rielaborazione del modello non una semplice imitazione.
E' proprio in quest'epoca di grande fermento culturale che troviamo una delle prime opere d'arte firmate. Si tratta del magnifico altare della chiesa di Sant'Ambrogio a Milano.
Secondo Marina Righetti Tosti-Croce docente di Storia dell’arte medievale alla Sapienza dell'università di Roma: “Nel 784 accanto alla Basilica ambrosiana, fondata da Sant'Ambrogio nel 386, era stato costruito un monastero benedettino (…). La struttura, adatta alle necessità liturgiche di una fiorente comunità, era incentrata sull'altare dove erano deposte sia le reliquie dei santi Gervasio e Protasio, depositate da Sant'Ambrogio, sia quelle dello stesso fondatore".
La facciata a capanna nel suo complesso si presenta alquanto bassa. Due logge - molto diverse - si sovrappongono tra loro, composte da archetti pensili che ne ingentiliscono l’esterno. La parte superiore del loggiato è costituita da cinque arcate, le quali differiscono in altezza, dove la più alta si presenta posizionata centralmente, mentre le arcate più basse si trovano verso i lati della facciata. Differentemente, quella inferiore consta di tre arcate uguali, che si uniscono con il portico, formando un’unica struttura. Ai lati della facciata ci sono due campanili risalenti a periodi storici differenti: quello situato a sud è similare ad una torre di difesa e prende il nome di "Torre dei Monaci" - risalente allo VIII secolo -venendo attribuita agli stessi monaci che vivevano all'interno dell'edificio; parallelamente - costruito con mattoni di scarso valore - la torre nord, definita "Torre dei Canonici", è edificata nel XII secolo, ad eccezione degli ultimi due piani che sono stati costruiti successivamente, nel XIX secolo.
Internamente, la basilica è divisa in tre navate, ognuna delle quali terminante con un’abside. La spazialità è composta dall'alternanza di grandi pilastri appartenenti alla navata centrale con altri di dimensioni ridotte, facenti parte delle navate laterali. La pianta è longitudinale e le sue dimensioni sono identiche a quelle presenti nel quadriportico se non vengono presi in considerazione le absidi. La navata centrale è costituita da quattro campate quadrate e l’ultima campata quadrata - in prossimità del presbiterio - è ricoperta da una cupola, le altre differentemente presentano una volta a crociera. Nelle navate laterali si trovano i matronei. Lo studio della luce è stato pensato solamente passante dalle aperture presenti sulla facciata e dalle finestre che si trovano nell’abside. Proseguendo con l'analisi troviamo il sacello (cappella) di San Vittore in Ciel d’Oro - una cappella costruita nel IV secolo, prima della basilica stessa e dedicata dal vescovo Materno a San Vittore - un mosaico che raffigura alcuni santi, tra i quali anche Sant’Ambrogio. L’edificio sacro ha anche una cripta costruita nella seconda metà del X secolo. Sul catino absidale compare un mosaico che rappresenta il Cristo in trono, giudice, seduto con in mano il libro della legge aperto. Ai lati del Cristo si trovano i due santi martiri Gervasio e Protasio e sopra - in volo - due arcangeli, mentre ai suoi piedi compaiono tre medaglioni con le immagini di santi legati ad Ambrogio: Satiro e Marcellina, fratelli di Ambrogio, e Candida, martirizzata durante le persecuzioni romane.
La basilica di Sant'Ambrogio, il cui nome completo è basilica romana minore collegiata abbaziale prepositurale di Sant'Ambrogio, è una delle più antiche chiese di Milano e si trova in piazza Sant'Ambrogio. Essa rappresenta ad oggi non solo un monumento dell'epoca paleocristiana e medioevale, ma anche un punto fondamentale della storia milanese e della chiesa ambrosiana. Essa è tradizionalmente considerata la seconda chiesa per importanza della città di Milano.
All'interno del manufatto fu costruito, tra l'830 e l'840, il magnifico altare voluto dal vescovo Angilberto. Il committente è ritratto su una delle lastre nell'atto di offrire l'altare al santo. L'aspetto è quello di una grande cassa, quasi fosse un sarcofago fatto per contenere le reliquie dei santi. Il lato visibile dai fedeli è diviso in tre sezioni: in quella centrale vi è una grande croce con il Cristo Pantocratore al centro. Sulle braccia della croce campeggiano i simboli dei quattro evangelisti: il leone di Marco, l'aquila di Giovanni, il toro di Luca e l'angelo di Matteo. Nei quattro angoli vi sono i dodici apostoli divisi in quattro gruppi da tre, perfettamente simmetrici. Ai lati scene della vita di Cristo; le varie parti dell'opera sono separate da cornici decorate con pietre preziose e smalto cloisonné. La parte dell'altare rivolta verso l'officiante, è egualmente tripartita. Ai lati vi sono scene della vita del santo fondatore della Basilica ma al centro, sotto gli arcangeli Michele e Gabriele, è rappresentato il santo in due situazioni analoghe ma diverse. Da una parte Ambrogio incorona Angilberto, che è inginocchiato nell'atto di offrigli l'altare stesso, dall'altra incorona Vuolvino “magister phaber”.
Questa firma dell'artista, che si erge alla stregua del vescovo committente e a cui viene tributato l'onore di essere incoronato dal santo, testimonia l'importanza che questa figura andrà via via riacquistando nel corso del medioevo sino a giungere ai grandi maestri del Rinascimento. Vuolvino, maestro fabbro, conscio della straordinarietà della sua opera, è sicuramente l'ideatore di questo magnifico altare ma non lo ha realizzato tutto da solo: lo stile delle figure infatti, permette di identificare diversi artisti all'opera nelle varie formelle.
Sull'altare aureo corrono anche delle iscrizioni: in una si mettono in guardia i fedeli dal non farsi abbagliare dai materiali preziosi e a guardare al vero tesoro, cioè le reliquie del santo. In un'altra il vescovo spera che un dono tanto ricco possa garantire la protezione del santo sulla sua chiesa e sulla città.
Questo tributo, è determinato anche da una precisa scelta politica di Angilberto: Ambrogio infatti detenne anche il potere politico della città, cosi come i missi dominici che venivano inviati dall'imperatore per il controllo dei territori.
Le figure degli arcangeli, del santo che incorona l'artista e il committente si aprono, creando un'apertura che rende visibile la vera tomba di Ambrogio, posta al di sotto. E' significativo che le scene cristologiche siano rivolte verso l'assemblea dei fedeli mentre le scene della vita del santo vescovo siano rivolte verso il clero: sono loro che devono ispirarsi al fondatore, alle sue opere e alla sua vita.
Le figure di Vuolvino e dei suoi allievi sono semplici, lineari e perfettamente caratterizzate. E' stato messo spesso in relazione con le miniature del Salterio di Utrecht, realizzato un decennio prima.
In conclusione, riprendendo le parole del professor De Vecchi: “I personaggi delle scene sono quelli indispensabili al racconto ma, in compenso, affermano con decisione la propria presenza plastica contro lo sfondo neutro e i loro corpi ben costruiti risaltano in un panneggio netto e fasciante”.
Il genio di Vuolvino fu libero di esprimersi grazie alla rinnovata stabilità politica del governo carolingio, stabilità che purtroppo non durò a lungo, ma che permise un tale rifiorire delle arti che ancora oggi stupisce per bellezza e ricchezza.
 
Per approfondimenti:
_Angiola Maria Romanini e Marina Righetti Tosti Croce “arte medievale in Italia”, Sansoni editore;
_Pierluigi De Vecchi, “Arte nel tempo”, Bompiani editore.
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

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di Elisa Di Agostino 14/02/2017

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La chiesa di San Salvatore a Spoleto è uno dei più importanti edifici di epoca longobarda, appartenente alla Longobardia Minor. Fu realizzato, come d'abitudine, con materiali di riuso di epoche precedenti ed è oggi considerato una delle più importanti testimonianze architettoniche alto-medievali italiane, nonché rappresenta il maggiore monumento spoletino dell’antichità.
Di origine germanica, i Longobardi, si videro protagonisti dal II fino al VI secolo da una migrazione che li fece giungere dal basso corso dell'Elba fino all'Italia, dove entrarono in contatto con la politica mediterranea e la cultura bizantina. Nel 568 d.C. una volta insediatosi in Italia Re Alboino, diede vita ad un regno indipendente che estese progressivamente il proprio dominio sulla massima parte del territorio italiano continentale e peninsulare.
Nella foto di sinistra, la posizione dove è situata la basilica di San Salvatore con adiacente il sottostante cimitero civico, progettato nel 1836 dall’architetto Ireneo Aleandri. Nella foto centrale, la facciata della basilica romanica. Nella cartina di destra l'Italia suddivisa in zone di influenza longobarde e bizantine. La Langobardia Minor era il nome che, in età altomedievale, veniva dato ai domini longobardi dell'Italia centro-meridionale, corrispondente ai ducati di Spoleto e di Benevento. Dopo la conquista del regno longobardo da parte di Carlo Magno, nel 774, rimase ancora a lungo sotto controllo longobardo.
Casta militare separata dalla popolazione romanica, i Longobardi si integrarono progressivamente con il tessuto sociale italiano, grazie all'emanazione di leggi scritte in latino (Editto di Rotari, 643), alla conversione al cattolicesimo (fine VII secolo) e allo sviluppo, anche artistico, di rapporti sempre più stretti con le altre componenti socio-politiche della Penisola (bizantine e romane). La fusione tra i germani e i romanici pone la base per la nascita e lo sviluppo della società italiana dei periodi successivi.
Spoleto conobbe in quei secoli un certo splendore poiché divenne ducato e centro di potere: come era consuetudine in quel periodo, spinti sia da ristrettezze economiche, da ovvie ragioni pratiche ma anche da motivi ideologici, la chiesa di San Salvatore a Spoleto fu realizzata quasi interamente con materiali di riciclo e si trova leggermente disassata rispetto al borgo medievale cittadino.
L'edificio si presenta a tre navate, dove lungo quella centrale corre un fregio dorico di spoglio, sorretto da grandi colonne doriche e corinzie, appartenenti all’età classica.
Se i Longobardi non sempre riuscivano nell'intento di dare agli ambienti - da loro concepiti - l'armonia degli edifici romani qui “Nel restauro di San Salvatore a Spoleto viene tuttavia raggiunto un risultato di straordinaria coerenza classicista, sia dal punto di vista della struttura architettonica, con il grande ordine corinzio a colonne e semicolonne del presbiterio, sia come imitazione dei motivi decorativi romani (...)”.
Sulla facciata si aprono tre portali e tre finestre, tutti decorati con splendidi elementi di reimpiego: sulle architravi dei portali sono scolpite girali fitomorfe tipicamente classiche, dentelli e volute che hanno ispirato generazioni di decoratori successivi in tutta la regione. La pietra dell'architrave centrale pare provenga da un monumento funerario romano risalente al I secolo d.C..
Viste interne della basilica di San Salvatore a Spoleto.
Si pensa che l'origine della basilica del Salvatore risalga addirittura al IV o V secolo: si racconta che fu ivi sepolto il corpo del martire Concordio e che sui resti di un'antica villa fu costruita questa chiesa in memoria del santo. I primi dedicatari dell'edificio furono proprio Concordio e Senzia, ma probabilmente il nome fu cambiato verso l'VIII secolo, quando i Longobardi effettuarono dei lavori di ristrutturazione a seguito di un incendio e fu così chiamata San Salvatore.
Vi è, non lontano da Spoleto, un altro edificio che ha suscitato la curiosità e la perplessità degli studiosi per molti secoli, il cosi detto tempietto del Clitunno. L'edificio è situato nel comune di Campello sul Clitunno (PG), nella frazione di Pissignano. E’ iscritto alla Lista dei patrimoni dell'umanità dell'UNESCO nel giugno 2011.
Si tratta di una piccola chiesa ("chiesa di San Salvatore"), a forma di tempietto corinzio. In passato era ritenuto essere un sacello romano riconsacrato come chiesa, ma la presenza di una croce al centro del timpano, coerente e integrata al resto della decorazione scolpita, sembra provare che fu invece sin dall'inizio un edificio di culto cristiano. La costruzione dell'edificio è stata attribuita al IV-V secolo. 
Sull'architrave si trovano, rispettivamente sui lati ovest, sud e nord, le seguenti iscrizioni in caratteri maiuscoli romani quadrati, rarissimo esempio di epigrafia monumentale alto-medievale.
Il manufatto è costituito da un basamento con camera, accessibile da un portale sul fronte, e da una parte superiore in forma di tempietto. L'ambiente ricavato nel basamento, coincideva con i resti di un più antico edificio pagano. La parte superiore conserva la facciata tetrastila corinzia in antis (a quattro colonne). Il fusto delle colonne si presenta scanalato a spirale e sorreggono la trabeazione ed il frontone. L'accesso alla parte superiore avveniva per mezzo di due scalinate laterali con protiri e, in origine, precedute da un proprio pronao, che venne demolito nel XVIII secolo per riutilizzarne i blocchi.
copertina-per-sito3 Nascosto tra gli alberi e poco visibile dalla strada principale, il Tempietto del Clitunno sorge ad 1 km di distanza dall’ingresso alle Fonti. Come descrive Plinio il Giovane in una lettera ad un amico, lungo il corso del fiume sorgevano diversi templi in onore del Dio Clitunno, che oggi per la maggior parte sono andati perduti.
Internamente è presente la cella o naos, coperta da volta a botte, con un’edicola che inquadra l'abside sul fondo. Sono presenti affreschi del VII secolo (il Salvatore tra i santi Pietro e Paolo e Angeli), che hanno somiglianze con quelli di Santa Maria Antiqua a Roma.
Nonostante la scarsa propensione dei duchi longobardi ad accogliere la contemporanea rinascita anticheggiante che si sperimentava a Roma, gli interventi sul tempietto raggiunsero - come poco più tardi la chiesa di San Salvatore a Spoleto - una coerenza classicheggiante eccezionale, sia nella struttura architettonica sia nella ripresa dei modelli decorativi romani.
Questa struttura è il frutto di elementi di riporto che ne rendono molto difficile la datazione, con la maggior parte degli ornamenti scolpiti - a differenza di altre opere architettoniche longobarde – che sono manufatti originali e non reimpieghi di elementi di età romana.
Le analogie tra i due edifici sono così evidenti che Judson Emerick li chiama “sister buildings” praticamente “strutture sorelle” e li mette in stretta relazione cronologica. Anche il tempietto del Clitunno infatti presenta elementi di riporto e una decorazione eterogenea che lascia dubbi sulla datazione. Come la chiesa di San Salvatore, si tende a datarlo verso l'VIII secolo, in epoca longobarda.
Come la cripta longobarda di S.Eusebio a Pavia, San Salvatore – così come il tempietto del Clitunno - presenta un'eccezione nella cultura dei nuovi invasori. Questi esempi rappresentano l'uso diffuso - da parte dei Longobardi - nel creare edifici utilizzando parti diverse di architetture più antiche, le quali furono riadattate con una certa creatività e un certo gusto.
Questi due edifici testimoniano ancora un periodo che per secoli è stato buio e che per la mancanza di dati scritti risulta ancora di difficile lettura per gli storici dell'arte, di contro – invece - ha lasciato chiare tracce di una volontà di conservare e allo stesso tempo innovare, lo stile classico riadattandolo alle nuove esigenze del culto.
 
Per approfondimenti:
_Judson Emerick, The Tempietto del Clitunno and San Salvatore near Spoleto: Ancient Roman Imperial Columnar Display in Medieval Contexts in "Architecture and the classical tradition from Pliny to Posterity", Harvey Miller Publishers
_Angiola Maria Romanini, L’arte medievale in Italia, Sansoni
_Pierluigi De Vecchi, L’arte nel tempo, Bompiani
 
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di Elisa Di Agostino del 14/01/2017

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Sono stati versati fiumi d'inchiostro sulla chiesa di Santa Maria Antiqua, questo perché si tratta di uno dei luoghi di culto più emblematici ed importanti dell'alto medioevo romano. La sua origine risale al VI secolo, quando i bizantini, guidati dal generale Belisario, riconquistarono gran parte dell'impero romano d'occidente, tra cui anche Roma. Nel periodo in cui la città eterna fu sotto il loro dominio, vennero ripristinati gli acquedotti, ricostruite le vie di comunicazione, i palazzi, le terme e molti antichi edifici. L'imperatore Giustiniano sognava di ripristinare la gloria dell'antico impero e non badò a spese per cercare di restituire alla capitale la sua antica gloria. Fu in questa occasione che, riutilizzando parte di una struttura precedente (di epoca domizianea) fu fondato uno dei primi edifici dedicati al culto della Vergine di cui si abbia notizia, la così detta Santa Maria Antiqua. La nuova chiesa si ergeva ai piedi del colle Palatino nel pieno centro di Roma in una zona particolarmente importante dal punto di vista simbolico poiché in quest'area sorgevano le antiche residenze degli imperatori.
Il riutilizzo di edifici precedenti fu piuttosto comune in epoca medievale, sia per ragioni economiche che pratiche. Tuttavia a Roma quest'uso, iniziato già in epoca paleocristiana, assunse anche un valore simbolico di continuità e riconversione: ciò che era pagano diventa cristiano, ciò che era degli imperatori diventa della chiesa, ciò che un tempo era gloriosa testimonianza del grande impero può rivivere trasformandosi. Questo è il secondo edificio di culto cristiano ad installarsi nel cuore della città,  dopo il foro e la chiesa dei Santi Cosma e Damiano. Ma gli eventi gli riserveranno una storia radicalmente diversa. La nuova struttura cambierà gli ambienti preesistenti: come si legge in “Santa Maria antiqua tra Roma e Bisanzio” “(...) il quadriportico, probabilmente su due livelli e con impluvium centrale, fu trasformato in tre navate e gli ambienti di fondo diventarono rispettivamente protesi, diaconico e presbiterio, dove solo in un secondo momento fu aggiunta, scavandola nel muro di fondo,l’abside”.

Tuttavia la particolarità di questo edificio sta nei suoi 250 metri quadri di decorazione pittorica, tutti in stile “bizantino” e tra i pochi esempi rimasti perfettamente conservati di quest'epoca perché sopravvissuti all'iconoclastia e non soggetti ad interventi posteriori. Santa Maria antiqua venne infatti isolata completamente nell'847, quando un terremoto la rese inagibile: fu quindi ricoperta di terra e ricostruita con il nome di Santa Maria Nova (oggi santa Francesca Romana). La chiesa fu scavata e studiata solo nel 1900 a cura di Giacomo Boni e presto divenne quello che La Mantia definisce “(...)un monumento che, per l’eccezionalità delle sue decorazioni pittoriche, sarebbe ben presto divenuto una ‘bussola’ nella storiografia artistica alto medievale”. Quello che ci è arrivato è dunque una testimonianza diretta di un'epoca travagliata, in cui Roma fu centro di influenze diverse, tra cui quella bizantina che a più riprese lasciò tracce in questa chiesa incredibile. Ad oggi vi sono ben sette strati ben identificabili ed alcuni databili con precisione grazie ai personaggi presenti con il nimbo quadrato e quindi ancora viventi all'epoca dell'esecuzione degli affreschi. 

In particolare la parete a destra dell'abside è chiamata parete palinsesto perché è l'unica in cui questi strati sono tutti visibili. Una prima decorazione tardo-antica, a contatto con il muro in laterizio, risale al IV o V secolo ed è presente anche in altre aree della struttura. La seconda decorazione è in intonaco e risale probabilmente al secolo V: i resti di questo strato sono molto esigui. Il terzo strato, risalente al VI secolo, fu eseguito prima della realizzazione dell'abside in quanto vi è rappresentata la Vergine in trono con bambino e un angelo. Probabilmente vi era un angelo anche dall'altro lato di Maria, poiché queste composizioni erano di solito simmetriche, ma con l'apertura del catino absidale una parte della decorazione deve essere andata perduta.
Sul Palatino sorgeva in epoca imperiale il palatium degli imperatori: il nome che deriva proprio dal toponimo di questo colle. Ancora oggi viene rievocato in tutte le lingue di derivazione latina: “palazzo” in italiano, “palais” in francese, “palat” in rumeno e “palacio” in spagnolo. Il quarto strato mostra invece i frammenti del volto della Madonna e di un angelo che costituivano probabilmente un'Annunciazione. E' stato datato alla prima metà del VII secolo ed altri frammenti della stessa epoca sono stati rinvenuti in altre parti dell'edificio. Per la tecnica quasi impressionistica ed i colori splendidamente sfumati, la figura è stata soprannominata “l'angelo bello”. Del quinto strato restano solo piccoli frammenti e due volti con nimbo quadrato nella calotta absidale.

Il penultimo strato è datato al pontificato di Martino I (649-653) poiché due figure mostrano una pergamena con allusioni al concilio lateranense del 649. Il settimo ed ultimo strato risale agli inizi dell'VIII secolo e ve ne sono brani sia sulla parete palinsesto che nelle pareti laterali dell'abside. L'abside fu ridipinta per l'ultima volta sotto Paolo I tra il 757 e il 767. L'importanza di questi strati e delle loro diversità e peculiarità risulta per noi fondamentale per capire come è evoluto lo stile bizantino e come questi dipinti influenzarono l'arte a Roma durante l'alto medioevo. Secoli di concili, la fuga dall'iconoclastia, papi di provenienza e di tradizioni diverse, intenti educativi differenti, tecniche ed abilità artistiche varie, secoli di storia della Chiesa e della cristianità, di un impero in rovina e di un nuovo assetto politico, tutto questo e molto altro si può leggere sui muri di Santa Maria Antiqua che costituisce quindi “(...) un’eccezionale testimonianza dello sviluppo della pittura romana e di tutto il mondo greco bizantino alto medioevale: l’iconoclastia, infatti, cancellò gran parte delle immagini sacre di quell’epoca. L'edificio, con i suoi dipinti, ha giocato un ruolo centrale nella cristianizzazione del Foro Romano post-classico e nel rapporto di Roma con Bisanzio e la sua cultura, in un’area strategica dove si andavano concentrando la vita religiosa e i servizi di approvvigionamento per cittadini e pellegrini

  Per approfondimenti – Maria Andaloro, Giulia Bordi, Giuseppe Morganti, Santa Maria antiqua tra Roma e Bisanzio, Electa – Pierluigi De Vecchi, L’arte nel tempo, Bompiani – Giuseppe Morganti, Giacomo Boni e i lavori di S. Maria Antiqua: un secolo di restauri, colloquium – Giulia Bordi, Santa Maria Antiqua: prima di Maria Regina, in “L’officina dello sguardo”, Gangemi editore – Serena La Mantia, ‘Santi su misura’: la parete di Paolo I a Santa Maria Antiqua, Comune di Cividale del Friuli editore © L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

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di Elisa Di Agostino del 26/12/2016

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Dopo la deposizione dell'ultimo imperatore Romolo Augustolo nel 476, ci fu il crollo definitivo dell'impero romano d'occidente e si ebbe un periodo di recessione dal punto di vista sociale ma anche artistico e culturale.
Diverse popolazioni in ondate susseguenti, si stanziarono nella nostra penisola: una tra le più importanti fu quella dei Longobardi che si insediarono in Italia nel 568, guidati dal loro re Alboino. La loro lenta migrazione era iniziata due secoli prima, e dall'Elba, erano giunti fino allo Stivale.
Il loro insediamento interessò quasi tutta la penisola: nell'Italia settentrionale fondarono una Langobardia Maior con capitale Pavia e al centro sud una Langobardia Minor con i ducati di Spoleto e Benevento. I prodotti artistici dei nuovi conquistatori, erano costituiti soprattutto da arti minori, in particolare manufatti di oreficeria con intrecci e figure geometriche, arricchiti da pietre e paste vitree colorate. Questa popolazione nomade infatti, non era abituata a costruire edifici in pietra o grandi sculture proprio perché in continuo spostamento.
A Pavia nel VII secolo fu costruita la chiesa di Sant'Eusebio ma dell'originale oggi resta solo una spoglia cripta. L'arte romana influenzò notevolmente i nuovi conquistatori che si cimentarono nella costruzione di edifici complessi: nel nostro caso però ci fu una commistione di influenze artistiche che ben rappresenta questo periodo di transizione.
In piazza Leonardo da Vinci a Pavia (PV) è situata la cripta dell'ex Chiesa - oggi distrutta - di S. Eusebio. E' protetta da una pensilina di copertura.
Paolo Diacono, da cui provengono buona parte delle notizie che abbiamo sui Longobardi, racconta che la chiesa fu dapprima eretta da re Rotari (636-652) come cattedrale ariana, religione ufficiale della popolazione longobarda.
Tuttavia il processo di conversione al cattolicesimo iniziato da Teodolinda, si concluse proprio quando il Vescovo Anastasio la rese la sua sede e cambiò il nome in Sant'Eusebio, che era stato un accanito persecutore di ariani. La scelta del nome rappresenta proprio il passaggio al cattolicesimo e l'abbandono della vecchia dottrina considerata eretica dal Papa, rendendo questo edificio, ancora una volta, l'emblema di un periodo di passaggio e cambiamento.
Oggi la cripta si presenta come una struttura seminterrata semicircolare a cinque navatelle, divise da file di sottili colonne. Nella parte concava, per rendere lo spazio più facilmente fruibile, si sono eliminate due colonnine. Cicli di affreschi del XII-XII secolo, ancora parzialmente leggibili, la decoravano probabilmente in modo integrale.
La cripta di Sant'Eusebio fu rimaneggiata nel XI secolo, epoca a cui appartengono probabilmente anche le volte a crociera. Sicuramente originali sono i capitelli, uno dei rari esempi di scultura longobarda pervenuto sino a noi.
Probabilmente questi capitelli di forma tronco-piramidale erano decorati con pietre, come le fibule alveolate, in modo da sembrare preziosi monili. La commistione di due arti con scopi diversi, l'oreficeria cloisonné e la scultura/architettura, rende questi capitelli fondamentali per capire l'influsso che ebbe la cultura classica su una popolazione “barbarica”.
In un periodo di grande cambiamento l'assimilazione e l'incontro di due culture diverse, rese possibile la creazione di capolavori originali ed inusuali. La stilizzazione delle forme, che vorrebbero somigliare forse a delle foglie e riprendere la tradizione dei capitelli corinzi, raggiunge esiti estremi e diventa quasi decorazione geometrica.
Come scrisse Angiola Maria Romanini :
In altre parole la forma del capitello viene ricreata ex novo, in modo del tutto indipendente dagli esempi greci e in genere cosi antichi come tardo-antichi o bizantini; il che è affatto nuovo, inaudito, nell'area dell'antico impero. Servendosi delle forme dell'oreficeria “colorata”, l'autore di questi capitelli reinventa il concetto di capitello come “stretta di nodo” o “momento di passaggio” tra struttura “portante” ad elemento “portato”.
La struttura fu risistemata e studiata negli anni '60 del secolo scorso: gli scavi portarono alla luce tombe di epoca longobarda addossate alla struttura absidata assieme a porzioni di muratura di epoche e tecniche diverse. Sul muro absidale esterno si possono rinvenire laterizi sesquipedali manubriati, nella parete occidentale della cripta si distinguono laterizi frammentari di dimensioni diverse mentre le volte sono costituite da mattoni quadrati. Le differenze della muratura sono da leggersi come rifacimenti successivi o interventi di restauro ed integrazione dall'epoca longobarda sino al periodo protoromanico.
I capitelli oggi spogli - i rifacimenti successivi - gli affreschi sbiaditi e l'assenza di una struttura architettonica ben visibile rendono questo edificio difficilmente leggibile ed inscrivibile nel periodo in cui fu concepito e costruito. Resta però intatto il suo fascino di antica cattedrale, di punto di incontro di culture, religioni e tradizioni artistiche.
 
 
Per approfondimenti:
_Angiola Maria Romanini, L’arte medievale in Italia, Sansoni
_Pierluigi De Vecchi, L’arte nel tempo, Bompiani
_Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, libro IV, 42
_Adriano Peroni, La cripta di Sant'Eusebio, problemi e prospettive di un restauro in corso, in “Pavia”, 1966
 
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di Elisa Di Agostino del 09/12/2016

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Corre il III secolo d.C. quando inizia il declino dell’Impero romano. L’instabilità politica, economica e sociale si aggrava con le invasioni barbariche. In questo momento di profonda crisi, si diffonde il cristianesimo, grazie soprattutto all’editto di Flavio Valerio Aurelio Costantino, l’imperatore romano (274/ 337 d.C.) che nel 313 d.C. riconosce la libertà di culto, con la capitale imperiale traslata a Costantinopoli, antica Bisanzio – oggi Istanbul. Le tipologie architettoniche romane, come la basilica e gli edifici a pianta centrale, vengono adattate alle nuove esigenze del culto cristiano. Anche i soggetti delle figurazioni sono ripresi dalla mitologia greco-romana, ma acquistano nuovi significati legati al messaggio cristiano.
[caption id="attachment_7068" align="aligncenter" width="1000"] A sinistra, cartina politica dell'Impero romano dopo la morte di Costantino. A destra l'Imperatore Costantino in un mosaico.[/caption]
Alla morte dell’imperatore il secolare Impero romano si dividerà in due porzioni principali: quella occidentale con capitale Roma e quella orientale con capitale Costantinopoli. Dunque, soffermandoci sugli edifici di culto, la prima architettura cristiana prende il nome di architettura Paleocristiana, la quale comprendeva manufatti a forte influenza classica. Le Basiliche sono grandi sale dove si potevano riunire i fedeli per la celebrazione dei riti e riprendono proprio il nome delle Basiliche romane. Gli interni sono similari, ma la struttura spaziale è molto diversa e risponde a funzioni diverse.
Oggi possiamo classificare due tipologie di Basiliche, quella romana e quella cristiana. La prima presenta due absidi ed aveva una funzione civile, diversamente la seconda solitamente era provvista di un solo abside, possedeva un altare ed era riservata al rito. L’ingresso delle basiliche cristiane aveva un asse preferenziale che va dall’ingresso all’altare: percorso obbligato che stava a simboleggiare l’avvicinamento a Dio. Altro simbolo divino era dato dalla luce, che significava proprio lo sguardo della divinità filtrante dalle finestre. Alle volte la struttura era preceduta dal quadriportico: un cortile porticato destinato ai non battezzati.
Nella città eterna di Roma – di forte rilievo – il mausoleo di Santa Costanza è un edificio a pianta centrale, di forma circolare situato, sulla via Nomentana, nei pressi della basilica di Sant'Agnese. Il mausoleo è costruito tra il 337 e il 361 e nel VII secolo, sorta S. Agnese, ne diviene il battistero.
In questo mausoleo fu sepolta Costanza, figlia del già citato Costantino. La struttura e la decorazione risalgono all'incirca al 350 d.C., ma questa struttura presenta delle particolarità che la rendono unica ed importantissima dal punto di vista storico artistico.
[caption id="attachment_7071" align="aligncenter" width="1000"] Il Mausoleo di Santa Costanza[/caption]
L'impero romano – dopo l’editto di libertà religiosa - era ancora a maggioranza pagana. Per promuovere la nuova religione - scelta dall’imperatore - anche per avere appoggi politici, era necessario progettare un edificio che potesse ospitare la celebrazione delle cerimonie in una modalità artistica che potesse trasmettere, in maniera originale, i nuovi contenuti sacri.
Quasi come in una campagna pubblicitaria si decise di utilizzare la basilica, date le caratteristiche di ampiezza e perfezione che le permettevano di ospitare il culto cristiano. L'entrata, che di solito avveniva sui lati lunghi, venne spostata su uno dei lati corti, con la conseguenza della perdita di un abside. In questo modo l'attenzione del visitatore venne concentrata sull'altare, ospitato nell'abside in fondo alla basilica.
L'organismo è formato da un'aula centrale e circolare, coperta a cupola, inscritta in un deambulatorio voltato a botte. Aula e deambulatorio sono ritmati da 12 coppie di colonne di granito disposte in senso radiale, a sostegno di altrettanti archi a tutto sesto su pulvini e architravi convergenti verso il centro dell'aula. Gli intercolumni (spazio che intercorre fra le colonne) corrispondenti agli assi sono più larghi e più alti degli altri. La serie degli archi è sovrastata, al livello del tamburo, da altrettanti finestroni centinati.
La struttura è in laterizio, e la cupola - dal diametro di 22,5 metri - è alleggerita (come per il Tempio di Minerva) da nervature e archi tra concrezioni più leggere di tufo e pomice. In origine, l'interno era rivestito con marmi disposti a tarsia, con volte e cupola decorate da mosaici.
[caption id="attachment_7072" align="aligncenter" width="1000"] Vista interna e disegni tecnici in planimetria e sezione.[/caption]
onstantino dispose prudentemente la costruzione delle prime enormi basiliche al di fuori delle mura della città, sulle tombe dei martiri a cui erano dedicate (San Pietro, San Lorenzo, Sant'Agnese). In questo modo il Senato non poteva rimproverargli di riempire di edifici cristiani il centro della città e allo stesso tempo le basiliche divennero i primi edifici monumentali che si incontravano lungo le vie più importanti, prima di entrare in città.
Queste enormi manufatti erano oggetto di grande venerazione tra i fedeli, che iniziarono a pagare cifre sempre più alte pur di essere sepolti accanto ai santi più importanti: fu in questo contesto che sorse il mausoleo di Costantina, addossato all'antica basilica di Sant'Agnese di cui oggi non rimangono che i resti di alcuni muri.
All'interno del mausoleo si possono ancora ammirare i bellissimi mosaici che corrono lungo l'anello esterno e nelle due piccole nicchie. Per i romani non era usuale utilizzare i mosaici per decorare i soffitti: l'arte era solitamente riservata ai pavimenti.
Fu proprio sotto Costantino, che si iniziò ad utilizzare il mosaico per rivestire catini absidali e porzioni di parete. Forse un tempo anche la cupola del mausoleo era ricoperta da un mosaico, ma oggi ci rimangono solo quelli della volta.
Proprio in questo mausoleo vi è uno dei primi passaggi dall'arte “classica” all'arte “bizantina”. Proprio l’Impero romano d’oriente fu denominato in epoca medievale “Bizantino o greculo” – denominazione fondamentale per permettere un distinguo temporale fra l’età tardo-antica e l’età medievale. L'arte cosiddetta “bizantina” difatti subì nei secoli un progressivo distaccamento dalla riproduzione della realtà perché il suo ruolo era di rappresentare santi e sante di un mondo che non è terreno. Per questo le figure medievali divennero sempre più statiche, ieratiche, immateriali e bidimensionali, schiacciate un fondo d'oro, simboleggiante l’immortalità e il divino.
Sulle volte del mausoleo di Santa Costanza vi sono mosaici con motivi geometrici e tipici del repertorio classico: frutta e fiori, piccole girali e scene di vendemmia. Queste ultime sono però state interpretate come allegoria del sacrificio di Cristo il cui sangue (vino) fu versato per l'umanità. Nelle nicchie invece troviamo le scene della consegna della legge in cui si vede Gesù tra i santi Pietro e Paolo e la scena della traditio clavium, in cui il Salvatore consegna le chiavi a San Pietro. Le scene sono costruite in modo molto semplice se paragonate ad altri mosaici romani sia per come sono rappresentati i personaggi, che per come sono inseriti nello spazio e nel paesaggio, che risulta appena accennato da qualche elemento vegetale.
In un solo monumento troviamo a confronto due correnti artistiche, due obiettivi diversi, che testimoniano un periodo di passaggio delicato e fondamentale non solo per la storia dell'arte, ma per la storia dell'Europa intera.
[caption id="attachment_7073" align="aligncenter" width="1000"] Il Mausoleo in una pubblicazione del 1820[/caption]
Nel 1254 è trasformato in chiesa (di S. Costanza) e successivamente nel 1620 i mosaici della cupola sono sostituiti da affreschi. Dal 1600 al 1720 il tempio diviene il luogo di convegno di artisti fiamminghi; per la dedizione a piaceri, baccanali e riti pagani non confacenti alla "città santa", il gruppo è ricordato come i Bentvogels, ossia, la "banda di uccelli".
Arrivando ai giorni nostri l’architetto Valter Vannelli nel suo rinomato saggio “Architettura e psiche” citando il mausoleo riporterà:
“Sontuosità e cromatismo lasciano ora spazio al fascino di una struttura potente e luminosa, sobria e raccolta, discreta anche per l'isolamento dal tessuto edilizio più immediato. L'immagine dominante è quella irriducibile della centralità, della circolarità, della riduzione del tutto al suo centro: il luogo assoluto che, all'origine delle cose, appaga lo spirito. Il carattere, anch'esso dominante, è quello della razionalità della riflessione; ossia, di questa proprietà della coscienza che la psiche esercita quando è vissuta in armonia ai giudizi di valore sul senso della memoria (delle sue permanenze, delle sue ricorrenze), e in accordo sia alle potenzialità dell'intuizione destate dalle suggestioni della bellezza, sia al piacere dei sensi quando sono impregnati da tanta evidenza e verità (anche storica) dei materiali”.
 
Per approfondimenti:
_Angola Maria Romanini, L'arte medievale in Italia, Sansoni
_Pierluigi De Vecchi, L'arte nel tempo, Bompiani
_Richard Krautheimer, Early Christian and Byzantine Architecture, Penguin Books
 
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