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di Edoardo Cellini 21/03/2018

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Suonare il corpo. I muscoli che si tendono nello sforzo di compiere un gesto, rappresentare una figura e, nell’esatto momento in cui essa è raggiunta, osservarla svanire e mirare a riconquistarla di nuovo, con il medesimo ardore, con rinnovato slancio. La danza è forse tra le forme d’arte quella che vive nella propria “fisicità” il paradosso del tempo: nell’attimo stesso in cui il corpo sembra vincere la forza di gravità per eseguire una forma, questa non diventa altro che il suo ricordo, i piedi tornano a terra e le membra si piegano di nuovo per il passo successivo. Tra i pochi che sono riusciti a segnare una svolta radicale ed esplorare regioni che si pensava fossero al di là dei limiti di detta rappresentazione estetica, spicca su tutti il nome di Rudolf Nureyev.
[caption id="attachment_10105" align="aligncenter" width="1000"] Rudolf Chametovič Nuriev (1938 – 1993) è stato un ballerino e coreografo russo naturalizzato austriaco, internazionalmente noto come Rudolf Nureyev, ritenuto da numerosi critici uno tra i più grandi danzatori del XX secolo insieme a Nižinskij e Baryšnikov.[/caption]  
Unanimemente considerato uno dei più grandi ballerini di tutti i tempi, egli rinvigorì la danza di nuova linfa vitale e seppe farsene ambasciatore nel mondo entrando a pieno titolo tra i protagonisti della vita culturale alta del ‘900. La storia del ballerino, di cui ricorre quest’anno il venticinquesimo della scomparsa, ha dell’incredibile se vista da vicino: da un lato infatti sembra affiorare dagli spazi di una tradizione oramai al tramonto, quella del balletto russo; mentre dall’altro compie un tragitto che arriva a conferire una diversa luce all’arte di Tersicore, trasformandola nel più profondo ed inondandola appieno delle tensioni della modernità.
Rudolf Chametovič Nureyev, oppure Nuriev, o Nureev, (l’indeterminatezza del nome fu dovuta alle difficili condizioni in cui fu trascritto all’atto di nascita) venne alla luceil 17 marzo del 1938 durante un viaggio in treno, tra il lago Baikal e Irkutsk, lungo la linea nota come Transiberiana; la strada ferrata emblema di un intero paese, la Russia, che da questa viene solcata da un suo estremo all’altro, dalle gelide acque del Baltico sino alla periferia più orientale affacciata sull’Oceano Pacifico. Lì, esattamente a Vladivostok, erano destinate la madre Farida e le tre sorelle dell’artista, per raggiungere il padre Hamet, militare di carriera. Tutto ciò costituirà per Nureyev un elemento dal forte significato simbolico, quasi un motivo di presagio di ciò che rappresenterà una costante successiva della sua carriera artistica: la necessità di dover fare i bagagli e viaggiare, di volta in volta, nei più importanti teatri del mondo. «Quando sarò morto», dichiarerà l’artista, «mi erigerete una statua: mi si vedrà mentre mi alzo da una sedia con due valigie, pronto a partire. Quella sarà la storia della mia vita». I primi anni di vita del futuro genio della danza furono però caratterizzati dalle difficili condizioni economiche in cui versava la sua famiglia; motivo in più per Nureyev di rafforzare il legame con la madre, della quale ammirò costantemente la pazienza e la tenacia nel tirare avanti tra le ristrettezze. Fu lei a portare il piccolo ad uno spettacolo di danza a teatro, quando questi aveva 5 anni, nel 1943. L’episodio vide il manifestarsi tangibile della propria vocazione: le porte del destino da ballerino si aprirono per la prima volta nella classe di danza di un piccolo teatro di provincia. Il talento di Nureyev non passò presto inosservato, sebbene in famiglia vi fosse la contraria volontà da parte del padre che mirava piuttosto ad assicurare al figlio un avvenire come ingegnere o chimico al servizio del governo. Per la madre e la sorella Rosa, invece, la vocazione alla danza del piccolo Rudolf era qualcosa di straordinario che necessitava di trovare gli spazi adeguati per compiersi al massimo grado. Ma ad accorgersi delle potenzialità del futuro ballerino fu soprattutto la signora Ana Udeltsova, che aveva una classe di danza nel teatro della città di Ufa. L’anziana insegnante vantava alle spalle un’intensa quanto sorprendente carriera professionistica. La compagnia nella quale molti anni prima Ana Udeltsova aveva militato era quella che Sergej Diaghilev (1871-1929) aveva denominato Ballets Russes, un nome ricordato per aver consegnato alla storia qualcosa come “il fatto teatrale più importante dell’ultimo quarto di secolo”.
Nelle intenzioni del coreografo fondatore la tradizione russa, classica e al contempo folclorica del balletto, si sarebbe dovuta rinnovare e aprire a tutte le istanze che agli albori del ‘900 andavano addensandosi all’orizzonte di un composito, quanto agitato, universo culturale. Dapprima itineranti, in seguito compagnia semistabile presso il Teatro dell’Opera di Montecarlo, i Ballets divennero a tutti gli effetti un elemento artistico nuovo della vita europea di inizio secolo. Il successo e la fama furono straordinari, i critici sottolinearono l’assoluto spessore e le qualità tecniche e stilistiche evidenti nella riproposizione di lavori classici, ma ancor più ebbe risalto il repertorio assolutamente inedito che il direttore artistico russo seppe creare attorno alla sua impresa. Diaghilev non si limitò a lavorare con famosi ballerini e coreografi, per la creazione delle sue opere chiamò attorno a sé pittori e artisti contemporanei quali Picasso, Benois, De Chirico, Derain, Bakst; fra i musicisti rilevanti collaborazioni vennero da parte di Stravinskij, con cui mise in scena il celebre Petrouschka (oltre a Le sacre duprintemps, Pulcinella, Renard, Le noches, Apollon Musagéte), da Manuel de Falla ne Il tricorno, Debussy (L’aprés-midi d’un faune, Jeux), quindi con compositori dal nome di Poulenc, Satie, Strauss, Respighi, Milaud, Prokof’ev e altri. Sul versante del balletto il direttore della compagnia russa si preoccupò di reclutare tra i migliori allievi delle scuole del tempo e una menzione speciale va fatta circa l’italiano Enrico Cecchetti (1850-1928), quasi ignorato in Italia, ma tenuto in altissima considerazione dall’ambiente accademico estero. Il coreografo e ballerino originario di Roma era figlio di Severina Casagli e Cesare Cecchetti, entrambi danzatori classici. All’indomani della rappresentazione del Walhalla di Borri nel Teatro alla Scala di Milano (1870), dove impressionò il pubblico per la sua tecnica strabiliante, intraprese fortunate tournée nei maggiori teatri d’Europa. In seguito, assieme alla moglie Giuseppina de Maria, anch’essa ballerina, si trasferì in Russia dove divenne primo ballerino al Teatro Marijinskij, ruolo che ricoprì sino al 1902, insegnando contestualmente alla Scuola imperiale di San Pietroburgo. Dopo aver lavorato a Varsavia e Milano, tornò di nuovo a Pietroburgo e fu allora che avvenne l’incontro. Per la riuscita del suo progetto, infatti, Serghej Diaghilev espresse il desiderio di avere con sé l’intera classe del maestro italiano, al quale offrì di divenire maître de ballet della neonata compagnia, titolo che questi mantenne dal 1909 sino al 1918. Cecchetti lasciò in seguito il corpo di ballo russo per continuare, ormai anziano, la sua carriera a Londra dove svolse una intensa attività didattica il cui contributo di metodo, in forza di una programmazione dello studio con tecniche e fasi moderne, influenzò significativamente l’insegnamento della danza e diede il via ad un impulso decisivo per lo sviluppo del balletto inglese. Nei Ballets Russes di Diagilev, infine, va sottolineato come sotto l'insegnamento del maestro Enrico Cecchetti si espressero alcuni dei più grandi nomi della danza di inizio ‘900. Su tutti: la russa Anna Pavlova (1881-1931) e il celebre Vaslav Nijinskij (1889-1950), cui Rudolf Nureyev verrà in seguito spesso paragonato per talento e grazia.
[caption id="attachment_10107" align="aligncenter" width="1000"] San Pietroburgo, 1900, al centro della foto Enrico Cecchetti. [/caption]
Appare dunque evidente come dietro i consigli, gli incoraggiamenti e le severe ammonizioni della sua prima insegnante Ana Udeltsova, la sensibilità del piccolo Nureyev non potesse non intuire i tratti di un percorso storico, un sentiero imbevuto di folclore e classicismo, di tradizione e innovazione, che dal lascito artistico dei balletti russi giungeva intatto sino a lui. A testimonianza di ciò si possono leggere le ambizioni che già poneva in nuce il precoce talento del ballerino: “Rudolf Nureyev ambiva al massimo”. Così, dopo i corsi della Udeltsova presso Ufa, partì alla volta di San Pietroburgo con l’intento di entrare nella prestigiosa scuola di ballo del Teatro Kirov. Superate le audizioni, in soli tre anni si diplomò (1955-1958) ed entrò come parte stabile della compagnia divenendo presto ballerino solista. Gli anni passati al Kirov segnarono per Nureyev un momento fondamentale per il proprio percorso artistico, come un nuovo apprendistato della danza, ma al contempo un punto di svolta per la sua carriera futura. Certo, l’ambiente accademico di San Pietroburgo assumeva regole ferree che dovevano andar strette al temperamento acceso e anticonvenzionale di Nureyev; nonostante ciò questi fu sempre grato al maestro di allora Aleksandr-Ivanovič Puškin, tanto da considerarlo come il suo primo importante maestro e da giurargli «riconoscenza eterna» per la dedizione che espresse su di lui. Puškin aveva senza dubbio compreso il talento di Nureyev e lo incoraggiò a proseguire verso una forma di espressione della danza che non fosse solo cristallizzazione di schemi o formule da ripetere all’infinito, ma venisse orientata nel senso di una vera e propria partecipazione emotiva, una interpretazione “recitativa” e dunque più coinvolgente dei personaggi che le storie raccontante con il corpo portavano al ritmo della musica. La notorietà conquistata all’interno dei confini russi era ormai un fatto acclarato per Nureyev sul finire degli anni ‘50, e agli occhi del ballerino assumeva sempre più concretezza la possibilità di uscire dai ristretti ambiti del regime sovietico per calcare i palcoscenici europei ed interpretare in modo libero il suo repertorio. L’occasione venne quando durante un’esibizione della compagnia del Kirov a Parigi, nel 1961, il primo ballerino di allora Konstantin Sergeyev si infortunò e fu concesso in extremis a Rudolf Nureyev di sostituirlo. Fu un successo. La sua rappresentazione de La Bella Addormentata, balletto su musiche del compositore romantico russo Pëtr Il'ič Čajkovskij fu accolta con clamore dal pubblico e dalla critica. L’astro nascente della danza si espresse nel suo pieno fulgore. All’arrivo in palcoscenico catalizzò su di sé il silenzio dell’intero teatro che lo osservò attonito mentre danzava entrando nella psicologia del personaggio oltre i formalismi, al di là dei trucchi e dei gesti di maniera retaggio del passato, per dare nuova vita al dramma posto in scena, in forza del suo carisma e virtuosismo trascinante. A Parigi si assistette però ad una nuova determinante svolta nella carriera del ballerino russo. Alla conseguente notorietà del suo nome in ascesa, fece da contraltare l’ordine categorico da parte di Mosca di fare rientro in patria. Ciò si spiega, in parte, con le reiterate contravvenzioni del danzatore agli ordini del regime, quali ad esempio al divieto di frequentare stranieri, cui Nureyev stesso aveva da sempre opposto il suo carattere ribelle, da egli orgogliosamente attribuito alla componente “sanguigna” delle sue origini tartare, unito ad una ferma volontà di scoperta di nuovi orizzonti culturali. «Ballavo poco al Kirov», come dirà per sua stessa ammissione, «tre o quattro volte al mese e sempre le stesse cose». Non assume molta rilevanza ai fini della nostra analisi se nella decisione ebbe maggior peso il desiderio di far proseguire la propria innovazione artistica sulle scene internazionali, oppure il timore che una volta fatto rientro in patria non gli sarebbe più stato possibile andarsene. Un fatto fu però chiaro, complice forse la somma di tutti questi aspetti: Rudolf Nureyev, dopo una tournée con la compagnia del Kirov, invece di rientrare a Mosca il 17 giugno del 1961 tornò indietro dall’aeroporto di Le Bourget a Parigi chiedendo così, di fatto, asilo politico. Superato un primo periodo di incertezze, il ballerino decise di rimanere nella capitale francese, città che lo aveva insignito quello stesso anno del premio Nijinsky alla Université de la danse. Non tardò molto che anche l’Occidente lo ricoprì di importanti offerte: il primo che lo accolse fu il direttore del Grand Ballet du Marquis de Cuevas, Raimondo De Larrain, il quale lo assunse come protagonista in uno dei classici del balletto La bella addormentata, oltre che ne La Sylphide, e in Infiorata a Genzano di Auguste Bournonville. Al termine del suo periodo parigino Rudolf Nureyev si trasferì in Danimarca, dove strinse un importante sodalizio professionale e umano con il coreografo Erik Brhun, per il quale il danzatore russo provava un’autentica ammirazione. Gli insegnamenti del maestro danese sortirono l’importante effetto di condurre l’innato virtuosismo dei movimenti di Nureyev in una forma d’espressione artistica che fosse posta in stretto contatto con il significato più profondo delle esigenze sceniche. Quindi venne la volta di Londra, città che salutò l’arrivo del danzatore russo come un autentico avvenimento.
A volerlo con sé nel Royal Ballet fu una delle maggiori delle étoiles dell’epoca, la ballerina Margot Fonteyn (1919-1991), la cui aurea appariva sul punto di emettere gli ultimi bagliori di una carriera che, sebbene di assoluto spessore artistico, si era ormai attestata su una tranquilla parabola discendente. Eppure, a discapito delle voci che la volevano prossima al ritiro, la stella inglese trovò nel talento del danzatore russo la scintilla che le permise di ritrovare non solo parte dell’antico splendore, ma di acquistare un’inedita luce in forza di quella fusione di spiriti affini che passò alla storia della danza come la coppia di ballerini più famosa della seconda metà del XX secolo. Il duo Nureyev- Fonteyn debuttò a Londra nel 1962 con la rappresentazione di Giselle riscuotendo un immediato successo. Il pubblico acclamò entrambi i ballerini chiamandoli più volte alla ribalta e al termine dell’esibizione Nureyev stesso baciò la mano della collega elogiandola pubblicamente. La critica fu concorde nel ritenere l’esibizione dei due un fatto artistico dalla portata radicalmente nuova. Sino ad allora infatti nel mondo della danza classica si usava qualificare il ruolo del partner della ballerina con il termine di porteur, che denotava colui che assecondava i movimenti della comprimaria aiutandola fisicamente ad ascendere in quelle figure che esigevano lo stacco da terra. Grazie alle qualità e al carisma di Nureyev tale concezione finì presto in frantumi per lasciar posto, nel pas de deux, all’incontro in scena di due personalità distinte che si rispondevano e assecondavano l’una i passi dell’altra, in un vero e proprio “duetto” musicale. Per i ballerini venne ideato un repertorio su misura della loro specificità artistica; Frederick Ashton creò per loro Marguerite and Armand (1963), Kenneth MacMillan il celebre Romeo and Giulietta (1965), cui seguiranno i lavori di Roland Petit, Martha Graham e John Numeier; il duo si esibì quindi anche in numerosi classici in tournée in tutto il mondo, debuttando in Italia al Festival di Nervi ne Il lago dei cigni nel 1962. La fortuna del sodalizio artistico della coppia Nureyev- Fonteyn si basò su di un inedito connubio tanto di caratteri complementari quanto di un’unione assoluta di intenti circa la miriade di particolari tecnici da ridefinire sulla coreografia che andava messa in scena. Il ballerino russo difatti dirà: «Ballare è come percorrere insieme lo stesso sentiero, la cosa più importante è il modo in cui si balla, ma quando si balla con la Fonteyn c’è un unico obiettivo e una sola visione delle cose, non c’è niente che ci divida». Da parte sua la danzatrice inglese così si esprimerà più tardi circa la personalità del suo collega, cogliendone la portata innovatrice: «Non ho mai incontrato un professionista simile; pretendeva la massima precisione anche dagli altri. Certe sue osservazioni erano forse sgradevoli ma azzeccatissime; mi obbligava con dolcezza a ripensare al mio repertorio». Negli Stati Uniti il ballerino collaborò con le étoiles Sonia Arova del Brooklyn Academy of Music di New York, e con Ruth Page del Chicago Opera Ballet; ma per contro si assistette, a partire dai primi anni ʻ60, ad un uso spesso strumentale della celebrità in ascesa di colui che veniva definito il “tartaro volante”, in riferimento alle sue origini. Se dunque sul suolo statunitense la personalità di Nureyev fu spesso associata a quella di un mito, ciò avvenne più in forza del costante assillo mediatico che circonderà da lì in poi la vita privata dell’artista, quanto per i reali meriti che questi portava con sé. Per contro, va sottolineato come il ballerino riuscì a far leva sulla propria visibilità internazionale per sentirsi libero di scegliere dove e con chi collaborare onde proseguire al meglio la propria opera.
[caption id="attachment_10106" align="aligncenter" width="1000"] Rudolf Nureyev e Margot Fonteyn nel 1963. [/caption]
Incessante sperimentatore, Rudolf Nureyev fu ospite delle maggiori compagnie internazionali arrivando ad interpretare nell’arco della sua carriera tutti i ruoli del balletto classico e moderno. Il personale carisma unito ad una ricerca di perfezione tecnica al limite del maniacale e all’ardente bisogno di spingersi sempre oltre i limiti dell’arte che portava in scena, conquistarono i maggiori coreografi e compositori per balletto contemporanei, i quali “avvolsero” Nureyev di un repertorio scritto su misura per lui, completamente nuovo. Oltre ai già citati Ashton, Graham e Petit, vennero composte appositamente per il ballerino russo opere di Rudi Van Dantzig come The ropes of the time (1970) e Blown in a gentlewind (1975), di Maurice Béjart con il suo celebre Chant du compagnon errant, oltre a Moment di Murray Louis (1975), Le bourgeois gentilhomme di George Balanchine (1979) e Marco Spada di Pierre Lacotte, tutte rappresentate con successo. Non meno importante fu il suo lavoro come coreografo. Anche in tale contesto l’artista russo, munito di una lunghissima esperienza maturata sui palcoscenici di tutto il mondo, operò nel segno di una radicale innovazione dei ruoli e dei personaggi del balletto classico mantenendo sempre la propria sensibilità ad una aderenza stretta con i valori di fondo della tradizione da cui, peraltro, le storie stesse prendevano vita. Molte delle riletture dei classici del repertorio, come: Il lago dei cigni, Raymonda, Tancredi, Il Don Chisciotte, La bella addormentata e Lo Schiaccianoci, portano ancora la firma del Nureyev coreografo e sono rappresentate tutt’oggi soprattutto dal Balletto del Théâtre de l’Opéra di Parigi, che il ballerino diresse dal 1983 (l’anno dopo aver ricevuto la cittadinanza austriaca), sino al 1990, senza mai smettere tuttavia, nemmeno durante quel periodo, di calcare il palcoscenico. Al termine di una vita da girovago, nel 1987, in una sorta di esilio dorato in cui avevano convissuto fama e onori assieme all’impossibilità materiale di rivedere il proprio paese, fu concesso a Nureyev, da tempo malato di AIDS, di far rientro in Russia. Lì il ballerino rivide il teatro del suo debutto, il Kirov, e l’antica insegnante di danza, ma soprattutto riuscì a salutare la madre con cui, nonostante gli anni trascorsi e la lontananza forzosa da casa, non aveva mai smesso di essere in contatto. Quasi ignorando la progressiva debilitazione della malattia, l’artista continuò a lavorare lanciandosi nelle imprese più varie: nel 1989 fu protagonista del musical The King and I e dal 1991 si esibì anche nelle insolite vesti di direttore d’orchestra. Gli ultimi giorni di attività lo videro spostarsi nei maggiori teatri attento ad ascoltare i giovani talenti che si erano formati in quegli anni sotto la sua impronta. Aggravatesi ulteriormente le sue condizioni di salute, Nureyev fece ritorno un’ultima volta a Parigi dove morirà per un arresto cardiaco il 6 gennaio 1993. Considerato dalla critica come uno dei massimi interpreti di tutti i tempi, Nureyev con la sua arte incise in maniera indelebile sui caratteri della danza maschile e non solo: egli si impose ovunque per «il virtuosismo brillante, l’espressività misurata e il carisma elettrizzante» con cui restituiva, attraverso un’attenta lettura del personaggio, nuova vita ai drammi che andavano sulla scena. Il ballerino seppe uscire dai canoni estetici della coreografia classica per toccare le vette di un’autentica forma di rappresentazione artistica ove, ad un’audace padronanza della tecnica, facevano seguito le prodezze di un gesto sempre attento, raffinato e sensuale, pieno di grazia e virilità, nelle cui forme lo spirito di Rudolf Nureyev sembrava librarsi al di fuori del tempo.
 
Per approfondimenti:
_Rudolf Nureyev. Biografia di un ribelle. Bertrand Meyer-Stabley; _Nureyev.Ralph Fassey, Valeria Crippa; _Enciclopedia della musica. Ed. Garzanti.
 
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

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di Edoardo Cellini 08/11/ 2017

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Molti hanno ritenuto che fosse un’aurora, invece si trattava solo di un bel tramonto”. Così Claude Debussy si esprimerà su Richard Wagner: l’immagine crepuscolare, presa in prestito da Victor Hugo, di cui si serve il compositore francese per illuminare il suo giudizio sul collega tedesco, può ben estendersi sino a descrivere i contorni esatti di un’intera epoca e rivelare così i tratti di un mondo in piena transizione, dove, insieme agli spettri del passato andavano addensandosi più indefiniti presagi di cambiamento.
[caption id="attachment_14322" align="aligncenter" width="1000"] Anton von Werner (1908), Lo Scoprimento del Memoriale di Richard Wagner a Berlino.[/caption]
L’universo musicale europeo nell’ultimo quarto del XIX secolo restava ancora profondamente segnato dall’esperienza radicale operata su tutti i campi da Richard Wagner (1813-1883): il compositore tedesco aveva infatti scosso nelle fondamenta gli impianti teorici ed estetici sino ad allora dominanti, coinvolgendo ogni aspetto dell’espressione musicale, dal tessuto più strettamente connesso ai rapporti tra i suoni (affermando la consunzione dello strumento tonale dell’armonia classica), sino ai rapporti tra poesia e dramma, passando per i soggetti delle rappresentazioni del teatro lirico (non più scene storiche ma veri e propri miti del folklore germanico), per non tacere della disposizione più minuta e capillare di ogni singolo elemento dell’orchestra e della scena. Questa indomabile volontà, questo “eroismo della volontà che rasenta la pazzia” (M.Mila) rende appena l’idea dell’urgenza vitalistica con cui Wagner sentiva di dar credito alle proprie visioni, le quali culmineranno poi nella costruzione finanziata da Ludwig II Re di Baviera dell’apposito teatro di Bayreuth, in cui “la tenacia di Wagner era riuscita finalmente a realizzare tutti i suoi piani, tutti i suoi desideri, tutte le sue aspirazioni di riforma drammatica". Da un’impronta del genere era impossibile prescindere: negli anni a cavallo tra il XIX e il XX secolo, i compositori che emersero dagli ultimi stadi del tardo Romanticismo si videro costretti tra il peso di una eredità ‘ingombrante’, quella di portare avanti il linguaggio musicale wagneriano, e i prodromi di una crisi, legata a elementi di instabilità politica e sociale, che si apprestava a portare l’intero continente Europeo sull’orlo della catastrofe della prima guerra mondiale.
Da un lato infatti il fascino esercitato dalla figura di Wagner costringeva i contemporanei a cercare di affrancarsi dal suo esempio per cercare nuove strade, nuovi idiomi, che finirono molto spesso per imitare l’odiato/amato maestro; ma dall’altro la stessa granitica egemonia che aveva esercitato la Germania in campo musicale andava sempre più sgretolandosi: le opposte spinte dei fermenti nazionalistici nascenti (dapprima molto sentiti in Russia e in Boemia, ma ben presto nei paesi baltici e scandinavi, sino alla Spagna, all’Italia e, non ultimo, alla giovane potenza degli Stati Uniti d’America) portarono al sorgere delle prime vere scuole nazionali di composizione: una su tutte, quella di Francia. Scrive lo storico Donald Jay Grout: “le opposte influenze del tardo Romanticismo, il nazionalismo e la scuola francese sono gli elementi essenziali della storia della musica dal 1870 al 1910”, sottolineando come le agitazioni culturali e sociali dell’epoca si specchiarono similmente nel campo musicale: “attraverso una sperimentazione differenziata e radicale; in quegli anni non solo si concluse il periodo classico romantico, ma si esaurì anche la concezione globale di tonalità come i secoli XVIII e XIX l’avevano intesa”.
Il confronto con l’esperienza radicale operata da Richard Wagner, rivelò ai compositori successivi tutte le difficoltà di una strada imitativa che mai come nessun’altra precedente “s’era mostrata più paralizzante delle originali facoltà artistiche. Come avverà per Debussy, egli non addita una via su cui sia possibile proseguire e provoca un impaziente bisogno di reazione. Chi si arresta nella sua orbita rimane, tutto sommato e in quanto vi si arresti, una mezza figura”. Così Mila descrive il contesto culturale in cui operarono i cosiddetti post-wagneriani.
A ben vedere la nuova sensibilità estetica, gravida di crisi e contraddizioni, che si espresse in ambito musicale negli ultimi decenni del 1800, portò a un desiderio misto di ammirazione e distacco, a una ricerca e a uno sviluppo delle varie correnti del pensiero wagneriano: ciascuno dei nuovi compositori infatti non fece altro che proseguire lungo il cammino di uno dei tanti rivoli della riforma lasciata aperta dal vecchio maestro. In Germania si assistette ad esempio, al ritorno del gusto per la vecchia Märchenoper, o opera-favola, al cui genere ricorse Englebert Humperdinck (1854-1921) il quale con la sua “Hänsel und Gretel”, rappresentata a Weimar nel 1893, cercò, non sempre riuscendoci, di combinare l’armamentario polifonico-orchestrale, unito all’uso dei Leitmotive di wagneriana memoria, con elementi fiabeschi evocati grazie all’uso di una scrittura melodica agile e semplice.
Ma un vero e proprio culto per Wagner, lo riservò piuttosto il compositore tedesco Hugo Wolf (1860-1903), il quale, attingendo ai repertori del maestro intese rielaborare con arrangiamenti personali la particolare struttura dei Lieder (canti popolari tedeschi, di breve ampiezza vocale, dotati di autonomo valore melodico) ponendo l’accento sul peculiare rapporto tra musica e poesia. L’attenzione che Wolf diede per la declamazione melodica della parola in versi lo portò a concentrarsi su di un singolo poeta alla volta, tanto da indicarne in ogni partitura il nome sopra quello del compositore. Egli arrivò a comporre raccolte di canti dedicate a Eduard Möriche, Eichendorff e Goethe, di cui emerge la splendida versione in musica del suo “Kenmst du das Land?”. L’intento programmatico del compositore fu quello evidente di dare pari dignità e valore al canto e all’accompagnamento strumentale, non accentuando l’enfasi della tessitura orchestrale quanto piuttosto con un accorto bilanciamento d’insieme: “in breve Wolf adottò i metodi di Wagner con discriminazione; la fusione di voce e strumento è raggiunta senza sacrificare né l’una né l’altro” (D.J.Grout).
I tentativi di salvaguardare le istanze del classicismo con gli ultimi bagliori di un romanticismo morente si possono invece cogliere con nobile evidenza nell’austriaco Anton Bruckner (1824-1896), il quale troppo ingiustamente è stato accusato di essersi adagiato all’ombra di Brahms e di essersi troppo a lungo specchiato nell’ammirazione per l’amato maestro Wagner. In realtà il compositore, vissuta un’esperienza travagliata, segnata da numerosi lutti in famiglia, oltre che da problemi economici che ne condizionarono gli studi iniziali, non si arrese e proseguì sulla strada di quella che credeva la sua vocazione: divenuto organista nella chiesa di Linz, ebbe modo di assistere in maniera diretta alla grande musica del secolo; egli poté quindi approfondire la conoscenza delle partiture di Beethoven e Weber, affinando un gusto per la ricerca che lo porterà a proseguire sempre gli studi, non cessando di frequentare corsi di perfezionamento nemmeno all’indomani della sua nomina, a 43 anni, a professore di contrappunto, organo e armonia, presso il conservatorio musicale di Vienna.
Nelle sue opere il maestro infuse con limpida onestà tutto il suo spirito risultando “un’anima di candida e ingenua religiosità e concepì”, come ha scritto Massimo Mila, “la musica come un continuo atto di grazie e di lode al signore, sentendo l’orchestra come un gigantesco organo”.
Anton Buckner in un fermo e solenne anelito religioso, sentì di dar nuova vita alla forma della sinfonia e, oltre all’impianto armonico di chiara derivazione wagneriana (che ci rivela come egli fosse attento ai cambiamenti del suo tempo) recuperò moduli tecnici e formali della tradizione assorbiti, con estatica ammirazione, grazie allo studio continuo dei vecchi maestri, e su tutti, ancora una volta, di Beethoven. Da quest’ultimo infatti il compositore e docente viennese derivò la concezione stessa della forma sinfonica e una struttura tipica con cui far aprire le sue stesse nove sinfonie: gli aspetti ricorrenti che ricorrono in Bruckner si possono sintetizzare in alcuni elementi tipici, quali ad esempio l’enfatizzazione iniziale della triade di tonica, il movimento che segue l’esposizione del primo tema concepito nella forma della sonata ortodossa, insieme all’intento di mostrare ogni volta una sezione di finali i quali nel complesso riprendono l’idea iniziale, quasi a suggerire una sorta di ricorrenza ciclica.
Se da un lato il linguaggio delle sue tre Messe e delle sue nove Sinfonie è improntato a canoni di austera e sentita religiosità, dall’altro la scelta di Bruckner di ampliare l’organico orchestrale risente in maniera evidente della “elefantiasi wagneriana”, i cui aspetti si possono inoltre cogliere tanto nella lunghezza delle opere quanto nell’idioma armonico complessivo, che ci mostra come, ormai da tempo, il percorso dell’armonia tonale classica era in disfacimento e lasciava presagire, nel suo stesso andare in ‘frantumi’, un nuovo procedimento compositivo, la cui forma, dalle prospettive ancora quasi inesplorate, lasciava presagire illimitate possibilità.
Il richiamo di queste nuove possibilità formali dovette giungere presto alle orecchie di uno degli allievi più illustri di Bruckner della scuola di Vienna, Gustav Mahler (1860-1911), definito l’“erede legittimo della tradizione classica austriaca”, ma allo stesso tempo, nientemeno che da Arnold Schönberg in persona (padre della dodecafonia, metodo compositivo totalmente svincolato dalla tonalià), visto come “il precursore della musica moderna”, tanto da riservare alla sua memoria la dedica del proprio “Trattato d’armonia”. La personalità di Mahler è complessa se vista da vicino; la sua storia si colloca esattamente al centro del periodo storico preso in esame (fine XIX, inizi XX sec) ed insieme alle contraddizioni riflette le aspirazioni e le agitazioni della temperie culturale nella quale è immersa.
[caption id="attachment_9619" align="aligncenter" width="1000"] Max Oppenheimer, Gustav Mahler conduce a Vienna la Philharmonic Orchestra. Olio su tela. [/caption]
A cavallo tra due secoli, ma anche al confine tra due mondi: Gustav Mahler nasce nel piccolo paesino di Kaliste, tra la Boemia e la Moravia, settimo di dodici figli, il 7 Novembre 1860 da Bernhard e Marie Hermann commercianti ebrei, i quali, sebbene stretti dalle necessità economiche, non rinunciarono a dare al figlio una solida preparazione culturale. Da parte dei genitori, nonostante gli opposti caratteri che li distinguevano, vi era la volontà di inserirsi entro l’orbita culturale tedesca, e questo spiegherebbe anche la scelta di risiedere in un territorio da sempre noto per i contrasti tra tedeschi e slavi. Le doti musicali di Mahler non tardarono a manifestarsi precocissime e furono tali da convincere i genitori, dopo un primo apprendistato presso alcuni maestri del luogo che gli insegnarono pianoforte, a mandare il giovane a studiare a Vienna.
Iscritto al conservatorio della capitale austriaca a soli 15 anni, sotto gli entusiastici giudizi del maestro Julius Epstein, vi rimase per tre anni e ne uscì diplomato nel 1878, dopo aver terminato gli studi liceali l’anno precedente. Mahler si trovò ben presto inserito nella vita culturale del proprio secolo: a Vienna conobbe personalmente Hugo Wolf, discepolo di Wagner, e strinse una duratura amicizia, di reciproca ammirazione e stima, con il proprio maestro Anton Bruckner, della cui Terza sinfonia il giovane aveva già fatto una riduzione per pianoforte a quattro mani. Sebbene il compimento naturale della propria indole lo portasse a scegliere la strada del compositore, Mahler, per aiutare la famiglia bisognosa, nell’estate del 1880 esordì come direttore d’orchestra.
Questa fu la prima svolta per la sua carriera. Inizialmente nel circuito di piccoli teatri della provincia austriaca, il giovane Mahler divenne presto richiestissimo ovunque anche nelle più grandi orchestre. A soli 23 anni venne nominato vice direttore al teatro di Kassel, in Germania; conquistò quindi il pubblico di Praga dirigendo a memoria la Nona sinfonia di Beethoven. A Budapest Mahler si fece notare per la prima esecuzione integrale in ungherese della Tetralogia di Wagner e “per le impeccabili esecuzioni delle opere di Mozart” tanto che “dopo aver assistito ad una sua esecuzione del Don Giovanni, Brahms divenne suo grande ammiratore”.
La sua fama crebbe in virtù della sua conduzione attenta e ricercata, corroborata da una maniacale fedeltà alla partitura originale (dato rilevate se si considera che la filologia moderna si afferma almeno mezzo secolo più tardi), e per il suo spiccato senso musicale che lo portò ovunque ad eseguire opere di contemporanei, tra cui Wolf, Bruckner, del quale eseguì tutte le sinfonie, e a dirigere inoltre le prime esecuzioni fuori d’Italia delle opere di Mascagni e Puccini.
Ma la propria vocazione di compositore non cessò di ardere nonostante gli impegni febbrili: Mahler prese l’abitudine di scrivere le sue sinfonie e i suoi Lieder nelle pause di lavoro tra una stagione e l’altra. Fu solo il decennio in cui visse a Vienna, città che lo incoronò direttore del proprio Teatro l’8 Ottobre 1897, a donargli un po’ più di relativa stabilita: durante questo periodo il compositore produsse alcune tra le sue più note opere quali la Quarta, la Quinta, la Sesta, la Settima e l’Ottava sinfonia, oltre a tutti i Lieder su poesie di Friederich Rückert (poeta tardoromantico tedesco). Nel 1902 sposò la bellissima Alma Schindler, figlia di un noto paesaggista viennese, dalla quale ebbe due figlie. In quegli stessi anni strinse amicizia con il maestro di musica di Alma, Alexander von Zemlinsky, grazie al quale fu accolto nella cerchia di Arnold Schönberg e dei suoi discepoli.
Durante il suo periodo di direzione del Teatro di Vienna, Mahler espresse ammirazione per molti dei suoi contemporanei, tra cui Strauss, del quale difese la controversa opera Salomè; ma i rapporti del compositore con l’orchestra furono destinati a guastarsi paradossalmente proprio nel periodo di massimo apogeo di questa istituzione viennese; ciò in reazione, pare, alla tenace convinzione, e ferma volontà, con cui Mahler difendeva le sue scelte in campo artistico. Di tutto questo egli ne risentì sino a che nel 1907 non avvenne un’altra svolta fatale per la sua carriera: nell’estate dello stesso anno la figlia primogenita del compositore, che in precedenza aveva perso entrambi i genitori e sua sorella minore, morì di difertite.
Esasperato dal dolore e dagli intrighi che operavano ai suoi danni sin dalla sua nomina a Vienna, egli si dimise dalla carica di direttore artistico e rivolse il suo sguardo ben oltre i confini della capitale austriaca. Gli ultimi anni videro Mahler intraprendere numerosi viaggi negli Stati Uniti, dove eseguì opere al Metropolitan (1908-1909), diresse la New York Philarmonic Society (1909-1911), e presentò per la prima volta nel continente americano, oltre ad alcune versioni delle proprie, il repertorio completo delle sinfonie di Bruckner.
Il compositore non rinunciò tuttavia a tornare in Europa e a dedicarsi alla stesura delle sue sinfonie durante le pause di lavoro, arrivando a comporre tra le sue opere più famose quali: “Das Lied von der Erde, la Nona e la Decima sinfonia, durante le vacanze estive trascorse in Alto Adige, in Moravia e a Vienna”. L’esecuzione di tali lavori, in particolare della Sinfonia Ottava e della Sinfonia dei Mille, in una sala da concerti costruita appositamente a Monaco, costituirà forse per Mahler il suo più grande successo come compositore quando egli era ancora in vita: al termine di un concerto a New York nel Novembre 1911, ebbe un collasso; la sua salute si aggravò ulteriormente, e a causa di una intossicazione del sangue fu presto ricoverato in una clinica a Parigi e successivamente trasferito nel sanatorio Löw di Vienna, dove morirà il 18 Maggio 1911.
Artista dotato di raffinatissima sensibilità musicale, Mahler trasfuse tutta la sua intensa e ardente vita interiore nella creazione dei Lieder e delle sue Sinfonie, ciascuna delle quali, più volte rielaborata durante gli anni di lavoro, doveva essere concepita per sua stessa ammissione, come un’architettura, un “mondo costruito con i suoni”. Appare evidente, ad una prima lettura, come in questo sforzo di combinare il “Tutto”, di consegnare la propria ricerca all’assoluto, vi sia intatta una matrice faustiana del proprio pensiero che lo condurrebbe, in un certo senso, nell’alveo della sensibilità tipica del post-Romanticismo. Ma ad una più attenta analisi, la personalità di Gustav Mahler difficilmente può essere inquadrata nel solco di una estetica definita: la complesse sfaccettature del suo carattere, insieme alle vicissitudini dell’epoca in cui si trovò a vivere, ne fanno il prototipo dell’artista “di transizione”, in tutte le sue contraddizioni.
A partire dalla sua stessa condizione di ebreo-tedesco, nato al confine della regione boema, è evidente un dualismo di fondo che emerge con forza in ogni sua opera. Da un lato infatti Mahler si integrò perfettamente entro il clima culturale tedesco adottandone il linguaggio di scrittura musicale e dedicando, ad esempio, alla costruzione delle proprie sinfonie, una cura maniacale per il dettaglio che lo porterà ad indicare minuziosamente l’organico orchestrale, le dinamiche timbriche e i tempi, in ogni partitura; ma dall’atro il complesso apparato formale lascerà presagire ed emergere dal denso tessuto sonoro tutto un mondo intatto fatto di canti tradizionali, di temi corali e marce popolari, di elementi parodistici e grotteschi.
Lo sforzo di combinare le lotte cosmiche più nobili e universali al lirismo, al canto popolare austriaco, alla descrizione della natura” è presente con forza nelle prime composizioni quali il suo “Lieder eines fahrenden Gesellen” (1883-1885), ciclo di canti che narrano la storia di un innamorato schernito dalla sua bella. Il materiale tematico presente in esso è ben più che una semplice citazione degli elementi del proprio retroterra culturale: i temi popolari vengono elaborati spesso in maniera contrappuntistica ed inseriti in un contesto sinfonico; come la melodia del terzo dei Lied della raccolta, la quale diventa poi il tema stesso della sua Prima Sinfonia presentato sotto forma di canone combinato. Caratteristiche ricorrenti sono una certa “predilezione per gli arcaismi armonici, la nostalgia della melodia slava e la curiosa insistenza sui primitivi ritmi di marcia”. La dicotomia espressa dal gusto per le melodie popolari e le tensione dell’animo di Mahler verso l’assoluto, sarà una espressa costantemente sino a toccare i vertici di tensione lirica nella sua Seconda Sinfonia detta “della Resurrezione”.
Il lavoro del compositore indica in tutte le prime opere un contenuto programmatico di carattere filosofico che ne funge da chiave interpretativa, ma si stabiliscono numerose connessioni con elementi per così dire ‘extra-musicali’, quali la “pittura michelangiolesca” e le suggestioni dell’arte poetica. In una sua lettera del 1987 ad Arthur Seidl, lo stesso Mahler ci consegna una descrizione ideale dell’ispirazione da cui fa derivare la sua Seconda Sinfonia:
Io ho chiamato il primo tempo ‘Riti funebri’…E’ l’eroe della mia sinfonia che ho posto nella tomba, la cui vita io rifletto come se si rispecchiasse in un puro specchio da una posizione elevata. Nello stesso tempo si pone il presente problema: a che scopo sei vissuto? Chiunque allora udito questa domanda deve rispondere. E io do questa risposta nell’ultimo tempo”.
In tale ultimo tempo, come Beethoven nella Nona, Mahler inserisce le voci nel finale e presenta un monumentale apparato per solisti e coro, alla cui base vi sono le liriche di Klopstick, poeta tedesco del Settecento. Sempre Mahler spiega così il contenuto programmatico dell’ultimo movimento della Seconda Sinfonia: “La Resurrezione, la Resurrezione vi sarà concessa’. Appare Dio nella sua gloria. Una meravigliosa dolce luce penetra nel profondo dei nostri cuori. Tutto è pace e felicità. Ed ecco: Ammira! Non ci sono giudici! Non ci sono peccatori e giusti; non ci sono potenti e miserabili; non c’è punizione e premio…Un potente sentimento d’amore ci trasfigura e ci rende consapevoli della nostra condizione”.
A stati d’animo elevati fanno spesso da contraltare sentimenti crepuscolari in cui si riflettono appieno i motivi di crisi dell’epoca tra i secoli XIX e XX. Se con la Sesta sinfonia in la minore (1903-1905) i toni diventano più pessimisti e “la lotta eroica sembra finire con la sconfitta e la morte”, le sinfonie Quinta e Settima sembrano oscillare tra sentimenti di luttuosa tristezza e l’esaltazione e il trionfo della gioia. Ma è forse con il celebre “Das Lied von der Erde” (il canto della terra), composto nel 1908 sulla base di un ciclo di poesie tradotte dal cinese da Hans Bethge, che le istanze del genio di Mahler giungono al suo maggiore livello d’espressività.
Elaborato più volte come tutte le sinfonie, eccetto le ultime tre, delle quali la Nona sarà l’ultima completa di Mahler, il Canto della terra rappresenterà quasi un punto d’arrivo e, insieme, un doloroso commiato dalle gioie terrene; come scrive lo storico Grout: “In nessun altro lavoro egli ha definito e portato a equilibrio così perfettamente quel peculiare dualismo di sentimenti, quella ambivalenza di piacere estatico sottomesso a un presentimento di morte, che sembra caratterizzare non soltanto il compositore stesso, ma anche l’intero stato d’animo autunnale del tardo Romanticismo”. In “Das Lied von der erde” l’organico orchestrale si fa più asciutto e l’austerità del linguaggio musicale si fa strada in luogo delle “tessiture dense e affollate dei lavori precedenti”. Mahler ricorre ad un linguaggio quasi cameristico, un andamento contrappuntistico dalle sonorità trasparenti che contiene al suo interno, come sostiene Grout: “un implicito andamento armonico tipico dell’armonia cromatica post-wagneriana che, ridotto in questo caso all’essenziale, raggiunge una freschezza e una chiarezza che sono all’opposto dell’ampollosità e dell’enfasi che normalmente associamo ad esso”.
Incessante sperimentatore, Mahler s’impadronì delle tecniche che indebolirono l’organizzazione tonale classica, senza tuttavia distaccarsi troppo dalle istanze formali e linguistiche della tradizione romantica, ma anzi dimostrando “nella fedeltà alla scala diatonica” il suo “estremo punto di usura”; e ciò lo rese, per dirla con le parole di M. Mila, “un testimone dolente della crisi esistenziale in cui è involto l’uomo moderno”.
Se la personalità di Mahler può accostarsi, con le dovute cautele, al novero degli artisti di fine Romanticismo; pur rimanendo nell’ambito dello stesso nucleo di ideali, la figura di Richard Strauss (1864- 1949) può ascriversi piuttosto tra gli epigoni della parabola wagneriana. Considerato uno dei più eminenti musicisti tedeschi della prima metà del secolo XX, egli condivise con Mahler il fatto di dovere i suoi successi inizialmente per i meriti di direttore d’orchestra. La fama di Strauss come compositore è legata senza dubbio alla forma del poema sinfonico: è dunque con questa scelta che l’artista bavarese segue una delle ramificazioni ultime della corrente di pensiero wagneriana, la quale pure aveva annoverato tra i cultori del gemere, maestri del calibro di Liszt, Beethoven e Berlioz. L’orizzonte tracciato da questi ultimi costituisce la quinta scenica prediletta da Strauss per animare la propria immaginazione e gettare così una luce sulle vicissitudini di un mondo in profonda trasformazione. Il peso artistico della sua figura come compositore viene posto dagli storici sullo stesso piano della personalità di Debussy, definendo con entrambi “la fine di una fase e l’inizio di qualche cosa che risponde alla denominazione usuale di ‘musica moderna’”. In realtà l’opera di Strauss sembra voltare le spalle a quella del collega francese proprio nel suo ritornare sovente e con malinconica ammirazione, agli stilemi propri della vita musicale di fine XIX secolo.
[caption id="attachment_9621" align="aligncenter" width="1000"] Un sodalizio artistico, spesso un'alleanza, talvolta una complicità, forse mai una vera amicizia: per oltre vent'anni Hugo von Hofmannsthal (a sinistra) e Richard Strauss (a destra) lavorarono insieme, quasi sempre restando lontani, l'uno in Austria, l'altro in Germania. Nelle loro lettere il poeta viennese e il compositore bavarese si scambiano idee e progetti, ma anche gioie e malumori, incoraggiamenti e rimproveri, disegnando ciascuno un autoritratto segreto e dando uno sfondo ideale alle opere nate dalla loro collaborazione, interrotta nell'estate del 1929 dalla morte improvvisa di Hofmannsthal, che stava lavorando al libretto di Arabella. [/caption]
Sebbene infatti egli abbia all’inizio sconcertato i più strenui difensori della armonia tonale classica additando proprio il Tristano di Wagner come personale punto di partenza, invano si cercherebbero in Strauss tanto la polemica del rivoluzionario quanto le generiche rivendicazioni di un avanguardista. Il compositore bavarese guarda, nella sostanza, alle più riuscite esperienze sorte in campo romantico, riprendendone le formule con una “dedizione incondizionata”; tanto da far sembrare la sua poetica, come afferma Mila, una “romantica ribellione al romanticismo”.
I princìpi wagneriani della musica continua, della predominanza dell’orchestra polifonica e “dell’uso sistematico dei Leitmotive” furono assorbiti da Strauss senza farne “uno strumento di propaganda delle dottrine filosofiche e religiose come aveva fatto Wagner nel Ring e nel Parsifal”. In altri termini, nonostante l’uso reiterato di dissonanze e modulazioni diatoniche non preparate, che tanto sconcertarono il pubblico conservatore all’indomani dell’esecuzione della sua opera Elektra (1909), gli ideali armonici di Strauss si posero in continuità con il gusto romantico, sua prediletta forma d’espressione musicale. Nelle partiture della stessa Elektra infatti “la prevalente armonia cromatica post romantica, è compensata da alcuni passaggi dissonanti politonali, come pure da altri in puro stile tonale diatonico”.
D’altro canto, nella suddetta opera, tra i fattori di novità che introdusse Strauss, figura certamente una concezione della armonia complessiva come generata da un singolo accordo germinale, di fatto “anticipando una tecnica usata da alcuni posteriori compositori del secolo XX”. Se il nome di Mahler può essere inserito nel novero dei compositori ancora legati “all’idea classica di una sinfonia come una composizione in diversi movimenti distinti e in una forma determinata sostanzialmente da principi di architettura musicale”; Strauss fu quello maggiormente attratto dalle possibilità che, nel solco degli ideali romantici, erano racchiuse nel genere del poema sinfonico.
Quest’ultimo, caratterizzandosi come “musica a programma”, suole distinguersi nelle due vesti di programma a contenuto “filosofico” (che afferisce al campo delle emozioni ed è privo pertanto di ogni riferimento ad avvenimenti particolari) e poema a carattere “descrittivo”. L’analisi degli storici è pressoché concorde nel non ritenere la differenziazione uno schema di demarcazione netto e definitivo. Nel primo genere infatti vi possono ricorrere aspetti del secondo, e viceversa. La distinzione tra contenuti può essere operata in linea di massima considerando la maggiore o minore ponderazione degli elementi dell’un tipo sull’altro. Strauss compose poemi sinfonici sia a programma filosofico che descrittivo. Tra i lavori più riusciti del primo tipo emergono il suo “Tod und Verklärung” (Morte e Trasfigurazione, 1889) e il celebre “Also sprach Zarathustra” (Così parlò Zarathustra, 1886).
Tale creazione appare, ad una prima lettura, come il tentativo dell’artista di elaborare un commento musicale al poema in prosa di Friedrich Nietzsche, “la cui dottrina del superuomo stava scuotendo, alla fine del secolo tutta l’Europa (e la scelta dell’argomento è tipica del senso, altamente sviluppato in Strauss del valore della notorietà)”. Solo in un’ottica più ravvicinata tuttavia, i motivi per così dire “celebrativi” delle teorie filosofiche appaiono per quello che realmente sono: essi fungono più come ispirazione per la fantasia musicale di Strauss piuttosto che apparire in qualità di materiale programmatico in senso stretto. In altri termini, per l’artista bavarese, la musica non viene adoperata nel “tentativo di descrivere un sistema filosofico attraverso le note” quanto piuttosto “come illustrazione e coloritura di un’impalcatura letteraria incapace di realizzarla nella sua autonomia puramente sonora”.
Nel poema “Also sprach Zarathustra” l’immaginazione di Strauss si piegò al simbolismo tutt’al più in sporadici casi: nella concezione, ad esempio, di una fuga il cui tema esposto utilizza tutte e dodici le note della scala cromatica, al fine di “simboleggiare il dominio totale, anche se oscuro e nebuloso, della Wissenschaft (scienza, cultura, conoscenza)” e nel rafforzamento di detto schema con l’uso di registri orchestrali bassi (contrabassi, violoncelli) a cui viene affidata l’esposizione del tema fugato. Non devono ingannare gli aspetti armonici più ‘aggressivi’, nonché gli artifici orchestrali e sonori cui fece ricorso Strauss nelle sue composizioni, le quali scandalo produssero nella critica dell’epoca: egli mirava a “destare nello ascoltatore la meraviglia” attraverso “effetti imitativi realistici e convenzionali” dimostrando, in tal modo, l’estremo limite di quel “materialismo sonoro” di cui, con estrema raffinatezza tecnica, Strauss stesso si fece portatore.
Il materiale più “provocatorio” adoperato dal compositore non è da intendersi dunque come il materiale semantico di un linguaggio d’avanguardia, quanto piuttosto come la ricerca di elementi funzionali all’esaltazione di caratteri quali ora la rusticità dei personaggi, il sancho Pansa del “Don Chichotte” (1897), ora l’invidia dei nemici nella “Vita d’eroe” (1898), così come la “poesia della volgarità e della sensualità” del suo “Don Giovanni” (1889) e l’ambiguità di carattere delle tormentate protagoniste delle opere “Salomè” ed “Elektra” (1909). Dietro le sperimentazioni il punto di vista di Strauss rimane saldamente ancorato agli ideali del “naturale” e del “bello” sonoro così come la tradizione romantica li aveva consegnati sul finire del XIX secolo e che “risiedono per Strauss nella melodia e nell’armonia derivanti dalla scala diatonica, e nella loro apoteosi: la cadenza perfetta”.
Tutt’al più critiche sono state mosse nei confronti di una certa incapacità del maestro di cogliere la sostanza spirituale di una realtà che egli preferiva descrivere musicalmente in termini di mera “sensazione”. Ma una concezione dell’arte simile non potrebbe invero costituire un difetto nella misura in cui si considera il contesto storico culturale in cui operò il compositore: si stava assistendo ormai all’ascesa di “una prospera borghesia materialista e positivista come quella del tardo secolo XIX”.
L’ottica da cui partirono Strauss e Mahler fu quella infatti di osservare il secolo che nasceva “sporgendosi”, per dirla usando le parole di Italo Calvino su Thomas Mann, “da un’estrema ringhiera dell’Ottocento”: sebbene con risultati differenti, la prospettiva che accomunava entrambi i compositori fu quella di abbracciare con un ultimo sguardo il tramonto di un epoca espresso nei termini di “una dolente consapevolezza della caducità dei beni terreni” (M.Mila) e di “una disperata nostalgia della vita effimera, eppure sentita come unica ricchezza dell’uomo”.
 
Per approfondimenti:
_Donald Jay Grout, Storia della musica in occidente, edizioni Feltrinelli;
_Massimo Mila, Breve storia della musica, edizioni Einaudi;
_La Musica, Enciclopedia storica, sotto la direzione di Guido M.Gatti, a cura di Alnerto Basso, Enciclopedia storia parte prima, ed. Unione tipografico- editrice torinese;
_Enciclopedia della musica, edizioni Garzanti;
_ Claude Debussy, Monsieur Croche e altri scritti (1901-1914), edizioni Gallimard.
 
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di Edoardo Cellini 02/ 06/ 2017

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Lo spirito che pervade il mondo intellettuale europeo, agli inizi del periodo noto come “Età dei Lumi”, assume sempre più i caratteri di un desiderio indagatore e classificatore della realtà: un bisogno costante di ricerca che finisce per identificarsi nel mito stesso della “luce”, quella dell’intelletto umano, in grado di porre sotto il suo sguardo intere regioni dello scibile umano prima affidate, si pensava, all’arbitrio e all’ignoranza. Che posto poteva occupare dunque tra le arti “belle” quella dei suoni, che si presentava come “oscura”, asemantica, priva di definizioni univocamente accettabili eppure di ascolto così immediato e diretto? In un mondo che s’avviava all’affinamento della scienza e della tecnica, per meglio rispondere a rinnovate esigenze di produttività e di espansione dei mercati, quale ruolo doveva avere una forma di espressione del tutto sfuggente e indeterminata, ma allo stesso tempo così viva e presente nel tessuto connettivo della vita sociale dell’epoca?
[caption id="attachment_14330" align="aligncenter" width="1000"] Francisco Goya, Il sonno. 1800[/caption]
L’ondata riformatrice del sapere e l’anelito alla ricerca scientifica nell’Europa a cavallo dei secoli XVII e XVIII, cui si legheranno imprescindibili le idee di fede nella scienza e progresso, invasero infatti ogni campo finendo per scontrarsi proprio circa la definizione di un’arte che più di tutte rifugge da certe e univoche classificazioni: la musica, appunto. Questo avvenne in quanto da un lato la realtà che s’imponeva lasciava presupporre un desiderio di distacco con le precedenti forme di trasmissione della conoscenza, mentre dall’altro, la forza nascente di una classe borghese in espansione, necessitava di mezzi tecnici e scientifici adatti alle esigenze particolari, così come di un impianto nozionistico radicalmente nuovo e universale. Di qui il bisogno di dare un significato nuovo a concetti vecchi, o per meglio dire, tradizionali.
Secondo il filosofo e storico Enrico Fubini, due furono le invenzioni che segnarono nuove tappe nel corso della storia della musica: l’invenzione dell’armonia e quella del melodramma. Fu proprio quest’ultimo, con il suo fatale intreccio di musica e poesia, a costituire la “pietra dello scandalo” per tutti quei filosofi, intellettuali e critici, ansiosi di ridefinire il concetto di arte musicale. Quel che è certo, scrive Fubini, è che: “armonia e melodramma nascono non a caso contemporaneamente, dal momento che il melodramma implica necessariamente un accompagnamento musicale che consenta e favorisca una successione temporale dei dialoghi e dell’azione drammatica, ciò che la polifonia con il suo sovrapporsi parallelo di più voci svolgentesi contemporaneamente non poteva permettere”. Tale rivoluzione in campo artistico segnò, a partire dal Seicento, l’avvento di una nuova sensibilità estetica che inevitabilmente sollevava questioni filosofiche inerenti lo stretto rapporto tra musica e poesia. Da una parte infatti l’Opera, che serbava già in sé la bellezza e la contraddizione di tale rapporto, e che cresceva sempre più nei gusti del pubblico conquistando, a partire dal Cinquecento, i favori trasversali di tutte le classi sociali; mentre dall’altra vi era la sensibilità razionalistico- cartesiana del Seicento le cui problematiche invece finivano per escludere, con la condanna di questo genere musicale, tutta l’arte in quanto tale. Difatti per lo spirito scientifico dominante nella vita culturale seicentesca, “l’arte e il sentimento non hanno una loro autonomia e non assolvono a nessuna funzione essenziale nella vita dell’uomo; essi rappresentano solamente forme inferiori di conoscenza”. Qui un punto fondamentale: le esigenze di trasformazione di un mondo dove la borghesia cresceva acquistando sempre nuovi spazi, ponevano in essere una sempre maggior fede nelle capacità della tecnica e della scienza governate da un intelletto consapevole e raziocinante. A fronte di ciò, si pensava, la musica non assolve al compito fondamentale di garantire “conoscenza” in quanto essa si rivolge ai sensi, all’udito; laddove la poesia, per il sol fatto di servirsi di mezzi già codificati, le parole, parla alla ragione dell’individuo e ad essa va il primato nella classificazione gerarchica delle arti.
Una cosa su cui da tempo ormai gli intellettuali dibattevano era il concetto di imitazione della natura: senza andare nello specifico delle teorie adoperate, ai fini della nostra indagine, preme rilevare come, se la visione seicentesca della natura si identificava nel concetto di ordine razionalistico e universale, le cui leggi potevano essere indagate e conosciute dalle capacità dell’intelletto, va da sé che la musica acquistava un posto in secondo piano, per alcuni anche di infimo rilievo, per giungere alla conoscenza della realtà. “Nel Seicento”, scrive Fubini, “il termine natura è per lo più usato come sinonimo di ragione e di verità, e il termine imitazione per indicare il procedimento che abbellirà e renderà più accetta e piacevole la verità di ragione”. Bisognerà aspettare gli inizi del Settecento per assistere all’uso del termine natura “quale sinonimo di sentimento, di spontaneità, di espressività, e il termine imitazione per indicare la coerenza e la verità dell’arte drammatica, il legame dell’arte con la realtà”. Negli ambienti intellettuali di corte la musica verrà recepita piuttosto come un piacevole intrattenimento, un’imitazione dei sentimenti incapace di presentare null’altro che un piacevole scorrere di suoni e emozioni, non in grado quindi di suscitare nello spirito altro che gradevoli sensazioni assimilate a stimoli emotivi; laddove, per il primato delle arti si vedrà riconfermata ancora una volta la poesia per le sue potenzialità di descrivere la natura avvicinandosi al principio di verità e, quindi, per l’ intrinseca capacità di fare appello alla ragione.
La polemica ancora una volta in Francia, sorta su questo punto tra gli intellettuali Lecerf de La Viéville, Seigneur de Freneuse (1674-1707) e l’abate François Raguenet (1660-1722), non fa altro che confermare tale concezione. Il motivo della disputa è ancora una volta il melodramma, ma qui si confrontano i fautori dei due generi, il melodramma francese e quello d’oltralpe, italiano. Per i due teorici, invero divisi su tutto, la musica appare come un piacevole lusso per l’orecchio e nulla più. D’altronde, sempre Fubini: “l’accusa che più frequentemente si rivolgeva alla musica si riferiva appunto alla sua insignificanza e quindi alla sua incapacità di imitare alcunché. Nel melodramma il suo ufficio sarebbe limitato a ornare convenientemente e modestamente i concetti espressi dalle parole per renderli meglio accetti alla ragione. Ma di fronte ad una musica che tendeva sempre più ad estendere il suo dominio nel campo del melodramma (grazie all’ opera italiana- nda) e allo stesso tempo si imponeva ormai anche come musica strumentale bisognava… includerla nel Parnaso e attribuirle un qualche valore imitativo”.
La discussione sorge quindi sul modo di avvicinare questa, all’arte della poesia: per far ciò, sembrava a Lecerf di non trovare altro rilevante mezzo espressivo all’infuori del melodramma francese, il favorito dell’aristocrazia di corte, per la sua chiarezza, precisione di schemi e per la sua “monotonia”, qui vista in positivo come il programmatico ripetersi di formule melodiche e ritmiche, che sostenevano la poesia, vero “motore” del dramma. Nel Raguenet invece, la preferenza di gusto virava decisamente verso il genere dell’opera italiana, che in Francia riscuoteva un sempre maggior successo, tra tutte le classi sociali, soprattutto quella popolare, in virtù di una maggiore libertà di forme e periodi musicali, in forza della bellezza del suo “bel canto”, che ne avvantaggiavano la godibilità delle melodie in luogo della sterile ripetizioni di versi di idilli privi ormai di ogni riferimento al “reale”.
A spostare l’accento e ad infrangere così la barriera che si era venuta ad erigere nella cultura illuminista tra arte e razionalità, tra ragione e sentimento, si troverà, suo malgrado nonostante le polemiche, il compositore e teorico della musica francese Jean Philippe Rameau (1683-1764).
[caption id="attachment_14328" align="aligncenter" width="1000"] Jean-Philippe Rameau (Digione, 25 settembre 1683 – Parigi, 12 settembre 1764) è stato un compositore, clavicembalista, organista e teorico della musica francese.[/caption]
Questi non aveva nessun interesse ad inserirsi nelle “querelles” in corso, soprattutto per quanto riguardava la difesa dell’opera francese o italiana, tutt’altro: Rameau fu musicista raffinatissimo che produsse alcune tra le più significative pagine di musica strumentale dell’epoca, elaborando inoltre teorie sulla concezione dell’armonia e della musica che esonderanno dagli intenti didattici originari dell’autore per giungere a un superamento delle dispute dottrinali sino ad allora espresse. Quello che Rameau produsse lo fece con l’intento di restituire all’arte dei suoni dignità e valore; ciò senza essere un rivoluzionario (fu assimilato anzi, dai successori, ai musicisti dell’aristocrazia conservatrice), ma piuttosto affermando un principio, nell’ambito dei rapporti fra i suoni, che si richiamava nientemeno che ai teorici medievali e rinascimentali quali Zarlino, Mersenne, Cartesio e classici, come Pitagora.
Il mio fine è di restituire alla ragione i diritti che essa ha perduto in campo musicale”, sentenzia Rameau. Questi infatti, pur senza i toni del polemista, non accetta l’idea dominante della cultura illuministica di un’arte che non è in grado di porsi in rapporti di indagine con la realtà e, nel momento in cui imita i sentimenti, non costituisce un mezzo di conoscenza quanto piuttosto un lusso che accarezza le orecchie distraendo lo spirito dalla “vero” e “reale”.
La sua sfida, il compositore francese, la combatte sullo stesso terreno dei teorici della “Età dei lumi”: arriverà infatti ad affermare che la musica imita sì la natura, ma non si allontana dal principio di ragione; di contro, essa ne svela i rapporti più profondi poiché risulta governata dai medesimi principi di unità e armonia che sono presenti nell’intero mondo sensibile. Se dunque può essere razionalizzata, la musica non può essere più vista come un qualcosa di estraneo alla natura, ma anzi, come un modo di rivelare all’intelletto i suoi schemi originari e immutabili. Nel suo “Traité de l’Harmonie réduite à son principe naturel” pubblicato nel 1722, Rameau afferma: “La musica è una scienza che deve avere delle regole stabilite, queste regole devono derivare da un principio evidente, e questo principio non può rivelarsi senza l’aiuto della matematica”. Tale concezione dell’arte, di impianto per certi versi ancora razionalistico-cartesiano, non si pone in antitesi con le teorie che privilegiano i piaceri dell’orecchio: se infatti all’ascolto della musica proviamo piacere, ciò è possibile in quanto attraverso di essa possiamo giungere ad un divino ordine universale, alla conoscenza diretta della natura stessa. Possiamo concordare con Fubini quando afferma: “Un concetto fondamentale sta alla base del pensiero di Rameau: tra ragione e sentimento, tra intelletto e sensibilità, tra natura e legge matematica non c’è nessun contrasto, ma esiste di fatto un profondo accordo: questi elementi devono quindi armonicamente cooperare”, e ancora: “Rameau supera così le posizioni dei suoi contemporanei e si pone fuori dalle polemiche in cui suo malgrado si trova immerso. Infatti non sente alcuna esigenza di prendere posizione a favore della musica italiana o francese: la musica è anzitutto razionalità pura ed è quindi per sua natura il linguaggio più universale”.
Arriviamo dunque agli enciclopedisti. Nella monumentale opera di classificazione e sistemazione del sapere umano (la prima edizione va dal 1751 al 1780), gli intellettuali che presero parte alla stesura delle varie parti, sotto la direzione di Denis Diderot (1713- 1784) e di Jean Baptiste Le Rond d’Alambert (1717- 1783) provenivano dalle più disparate esperienze di studio in ogni campo scientifico e umanistico. E’ ovvio che anche per quanto riguarda le voci musicali, della cui stesura nell’opera se ne contano più di 1700, circolassero i pareri più discordanti. Quello che più di tutti emerge dalla concezione degli intellettuali impegnati nell’ Encyclopédie è la vena polemica, non priva anche di una certa pungente ironia, con cui essi difendevano le loro visioni in netto contrasto con l’impostazione del passato. Nello specifico ci preme sottolineare come, nella ben nota diatriba tra i fautori del melodramma francese e quelli del melodramma italiano, gli enciclopedisti capitanati da Jean Jacques Rousseau (1712-1778) si schierarono con fermezza proprio a favore di quest’ultimo. Questo perché nella loro ipotesi di riforma totale del sapere, pur non essendo musicisti, ma fruitori ed accesissimi appassionati dell’arte dei suoni, i pensatori francesi guardavano con sempre maggiore interesse alle libere forme della melodia italiana, in tal modo restituendo dignità e valore all’espressione musicale, ma allo stesso tempo ponendosi in netto contrasto con i valori tradizionali, nel cui solco, finì per essere relegato anche un musicista “riformatore” come Rameau.
Se le teorie di quest’ultimo sull’armonia risentivano dell’impostazione naturalistica di fine Seicento, per gli enciclopedisti i tempi erano maturi per una netta rottura con tutti gli schemi del passato: l’accento, dissero, andava posto più che sui rapporti tra i suoni, sulla successione di questi. In altri termini, all’armonia doveva essere preferita la ricerca della melodia. E del rapporto tra natura e musica, tra sentimento e imitazione? In questo campo, come si è detto, si cercò ancora una volta di dare un significato nuovo a terminologie di cui la tradizione aveva fatto largo uso: nella riforma del sapere in atto, per i pensatori dell’Encyclopédie la natura non era più considerata il regno della verità e della ragione, quanto piuttosto la voce libera, istintiva, al cui canto affidarsi per spiegare le teorie degli affetti umani. Se dunque, come si è detto, alla musica veniva riconosciuta la capacità di imitazione della natura, ormai tale accezione non poneva nessun esito negativo: l’arte dei suoni infatti poteva e doveva essere rivalutata proprio in virtù della sua forza di espressione dei sentimenti, per la sua vena istintiva e libera. Ciò, si comprende bene, in antitesi, sia con le critiche del pensiero scientifico precedente, sia con la visione di Rameau, che riconosceva alla natura un principio di ordine divino e universale.
[caption id="attachment_14327" align="aligncenter" width="1000"] Louis-Léopold Boilly: Il Circolo. Nel dipinto Jean-Jacques Rousseau e René Louis Gerardin (marchese de Vauvray), presso lo Chateau d'Ermelonville.[/caption]
Su tutti, spicca la figura del pensatore ginevrino, Jean Jacques Rousseau; questi guadagnò sempre maggior rilievo nella stesura dell’enciclopedia tanto che a lui venne affidata la stesura della maggior parte delle voci musicali in essa, le quali voci confluiranno poi nel suo “Dictionnaire de musique”. L’originalità della concezione del filosofo svizzero non risedeva tanto nei propri gusti musicali, egli preferisce naturalmente l’opera italiana a quella francese: il tratto di straordinaria novità del suo pensiero si rivela nell’aver saputo, scrive Fubini, “sviluppare adeguatamente questo concetto di musica come linguaggio dei sentimenti e di aver elaborato una teoria sull’origine del linguaggio che giustificasse e fondasse tale concetto”. In altri termini, la definizione dell’arte dei suoni trovava la sua ragion d’essere in riferimento ad un linguaggio, quello umano, affatto disgiunto da quello dei sentimenti: ma che anzi vedeva quest’ultimo preesistente alla creazione del primo, sin dall’origine dei tempi. Infatti, per Rousseau musica e poesia non potevano porsi in antitesi; egli, circa la nascita delle lingue, afferma che in origine queste dovevano essere tutte musicalmente accentuate, e solo successivamente, nel parlato quotidiano, avrebbero perduto la melodiosità primigenia per divenire ormai solo uno strumento di espressione dei ragionamenti. Nel suo trattato, “Essai sur l’origine des langues”, pubblicato postumo solo nel 1781, il filosofo afferma: in origine “non ci fu altra musica che la melodia, né altra melodia che il suono modulato della parola; gli accenti formavano il canto, le quantità formavano la misura e si parlava sia per mezzo dei suoni che del ritmo che delle articolazioni e delle voci”.
Ormai il termine natura viene contrapposto proprio al concetto di ragione, in antitesi completa con le opinioni tradizionali; in quest’ottica, sostiene Rousseau, l’arte dei suoni acquista autorevolezza in quanto è l’espressione più pura e originaria degli affetti umani, “essa”, la musica, “non imita solamente, essa parla; e il suo linguaggio inarticolato ma vivo, ardente, appassionato possiede cento volte più energia della parola stessa. Ecco donde nasce la forza dell’imitazione musicale, ecco donde attinge il potere che essa esercita sui cuori sensibili” (op. cit. XII).
Infine, nonostante le tiepide prese di posizione dei vari Voltaire (1694-1778), forse il meno interessato tra gli enciclopedisti alle teorie sulla musica, e D’Alambert, il quale sposò tiepidamente le tesi che appoggiavano l’opera italiana, risentendo della vecchia impostazione illuministica, colui che rivoluzionò del tutto le teorie espresse fu proprio Denis Diderot. Il maggior fautore dell’Ecyclopédie sin dai primi scritti, “Principes généraux d’acoustique” (1748) e “Leçons de clavecin et principes d’harmonie” (1771), espose quella che fu chiamata “teoria dei rapporti”, in base alla quale, il piacere stesso della musica sarebbe dovuto alla “percezione dei rapporti dei suoni”.
[caption id="attachment_14325" align="aligncenter" width="1000"] Voltaire, pseudonimo di François-Marie Arouet (Parigi, 21 novembre 1694 – Parigi, 30 maggio 1778) è stato un filosofo, drammaturgo, storico, scrittore, poeta, aforista, enciclopedista, autore di fiabe, romanziere e saggista francese.[/caption]
Ma qui sta la novità: sebbene infatti un’intuizione del genere risenta dell’impostazione fatta propria da Rameau, per Diderot tale percezione dei rapporti relativi ai suoni non sembra svelarci un’ordine eterno e universale, secondo la concezione della musica matematico- pitagorica, quanto piuttosto il richiamo ad un valore inconscio e istintivo, tutto celato nel sentimento, piuttosto che nell’intelletto. Appare chiaro che un pensiero simile finiva per oltrepassare anche i limiti dell’impostazione di Rousseau, evidentemente troppo incentrata sulla rivalutazione della melodia come linguaggio originario, a scapito dell’armonia. La successione di più suoni emessi contemporaneamente svelava, per Diderot, tutta una serie di rapporti che mostravano come dietro la natura vi fosse un segreto essenziale per la vita dell’uomo: una ragione che poteva essere colta più dal sentimento che dalla ragione. Secondo tale visione la musica, essendo svincolata dalle apparenze del mondo esterno, costituiva la via privilegiata tra le altre forme di espressione artistica per giungere alla vera essenza delle cose. Si ribaltano in questo modo tutte le concezioni del passato: “Come mai”, si chiede il filosofo, “delle tre arti imitatrici della natura, quella la cui espressione è più arbitraria e meno precisa, tuttavia parla con più forza alla nostra anima? Forse che la musica mostrando meno direttamente gli oggetti lascia più spazio alla nostra immaginazione, oppure avendo noi bisogno come di una scossa per commuoverci, essa è più atta che non la pittura e la poesia a produrre in noi quest’effetto di tumulto?” (Oeuvres, I, p.409). Ed è proprio tale predilezione per il non finito, per il regno dell’indistinto, che, lungi dal propendere per una sorta di evasione nell’irreale, nel “nonsenso”, trovava la sua ragion d’essere nel richiamo alla natura, alla più profonda e vera essenza delle cose, celata dalle apparenze esteriori. Ormai i tempi segnavano un desiderio di abbandono delle visioni classicheggianti di un arte come innocente evasione, di puro lusso estetico, per tracciare invece la via di un sempre più stentoreo appello alla musica come vera e propria “cris animal”, come il prorompere degli istinti, come la voce reale del tumulto delle passioni umane. Ed è qui che risiede la forza rivoluzionaria di un pensiero come quello di Diderot. Egli, seppur in modo asistematico e “provocatorio” (non svolse mai le sue teorie sulla musica in trattati ordinati, ma le sparse nei suoi scritti apparentemente legati agli argomenti più vari) rappresentò infatti una innovativa sintesi tra le concezioni dell’arte di Rameau e Rousseau: il suo pensiero, in virtù di una affermazione della musica come valore finalmente autonomo, fu in grado di superare i limiti delle concezioni estetiche di un’epoca e di imporsi con tutta la sua straordinaria visionarietà per aprire, ormai definitivamente, le porte al romanticismo.
 
Per approfondimenti:
_L’Estetica musicale dal Settecento ad oggi - E.Fubini - Edizioni Einaudi;
_Breve storia della musica, M.Mila - Edizioni Einaudi;
_Enciclopedia della musica - Edizioni Garzanti;
_Traité de l’Harmonie réduite à son principe naturel, J. P. Rameau - Edizioni Les fiches de lecture d’Universalis;
_Essai sur l’origine des langues, J.J. Rousseau - Edizioni Essais folio;
_Principes généraux d’acoustique, Leçons de clavecin et principes d’harmonie, Oeuvres, D.Diderot - Edizioni Hermann éditeurs.
 
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

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di Edoardo Cellini 16/ 03/ 2017

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La Follia è uno dei temi musicali più antichi della storia europea ed individua, nello specifico, una melodia portoghese in uso nei secoli XVI e XVII. Le sue origini si fanno generalmente risalire al diffondersi di rappresentazioni - in forma di danza e di canto - che accompagnavano feste di carattere popolare e profano, già nel tardo Medioevo.
Fu soltanto in forza del progressivo distacco dalle primordiali forme coreografiche che la Follia, preso il nome dal carattere vivace e mosso della danza che la sosteneva, si fece idea musicale autonoma e riuscì ad emergere come prezioso strumento armonico e melodico in grado di farsi strada negli ambiti della musica colta conquistando, in particolare, i favori delle corti europee sul finire del cinquecento. Una struttura semplice eppure ricca di molteplici possibilità espressive, con cui i compositori dei secoli successivi, di volta in volta vinti dal suo mistero, si confrontarono arrivando ad elaborare alcune tra le più toccanti e suggestive “variazioni su tema”.
[caption id="attachment_8195" align="aligncenter" width="1000"] Il Giardino delle delizie (o Il Millennio) è un trittico a olio su tavola (220x389 cm) di Hieronymus Bosch, databile 1480-1490 circa e conservato nel Museo del Prado di Madrid. [/caption]
Anche ai fini di un’analisi generale è bene ricordare come dietro le forme più “nobili” entrate nel patrimonio linguistico-compositivo della musica classica, vi si possa spesso leggere la cristallizzazione di temi e melodie dalle origini più “umili” legate alle festività del mondo contadino e ai riti che vi si svolgevano. In altri termini, rispetto al tema di ogni “ciaccona”, “sarabanda”, “pavana” o “giga”, vi è all’origine una danza di carattere popolare e profano che riflette il complesso intrecciarsi delle vicende storiche del paese in cui è nata, sino ad identificarsi con la sua anima più profonda. D’altro canto, dietro le “Danze Ungheresi” di Listz o le “Polacche” di Chopin, non bisogna solo leggere le orgogliose rivendicazioni (siamo in epoca romantica) di compositori fieri delle proprie culture di appartenenza, quanto piuttosto il recupero di melodie popolari tradizionali rilette attraverso una spiccata sensibilità moderna, altrettanto aperta alle sperimentazioni.
Il tema della Follia non si sottrae certo a tutto questo e la sua storia lo mostra in maniera evidente: convenzionalmente infatti, si suole dividerne l’intero corso in due tronconi, il primo, detto quello della “primitiva” Follia e l’ultimo, cosiddetto della “tarda” Follia, a noi certamente più nota. La prima parte della storia evidenzia, come in parte anticipato, uno stretto legame della melodia con il contesto dai toni “accesi” e popolari in cui nacque.
Il termine Follia - in portoghese “folia” - indica letteralmente: “baldoria, divertimento sfrenato, follia” ed appare subito chiaro, sebbene non ci siano pervenute trascrizioni, quanto lo stesso nome richiami alla mente il carattere di gioiosità e convivialità - oltre che di eccessi -, delle rappresentazioni che accompagnavano le danze rurali. Un richiamo a tale universo è compiuto dal “padre nobile” del teatro rinascimentale portoghese, il commediografo e poeta della corte di Lisbona Gil Vincente (1465-1536), il quale menziona in numerosi suoi testi una “folia” come una danza ballata da pastori e contadini ed accompagnata da canti vivaci, probabilmente a fronte di talune festività ricorrenti.
Il fatto che il tema musicale sia dunque di origine popolare e che le sue origini rimandino alla parte più occidentale della penisola iberica, il Portogallo appunto, sembra essere confermato anche dal celebre trattato: “De musica libri septem”, pubblicato nel 1577, ad opera di Francisco de Salinas (1513-1590) che fu musicologo, organista ed erudito umanista e che visse gran parte della sua vita tra Roma e le varie corti castellane tra cui Salamanca, dove insegnò nella Università locale. Non bisognerà aspettare molto però, perché la Follia arrivi a strutturarsi nel tema con cui noi oggi siamo abituati a pensarla: la seconda parte della sua storia presenta un’idea musicale che si sveste del vecchio tessuto grezzo, dalle tonalità chiassose ed allegre, per indossare i panni austeri e finemente ricamati con cui farà poi il suo ingresso nelle corti d’ Europa.
La “tarda” Follia, pur mantenendo un forte richiamo alla melodia originaria, si schematizza e diventa una progressione accordale (ripetizione di una medesima formula partendo da note diverse) basata su un tempo ternario e diviso in due parti di quattro battute ciascuna. La più antica composizione pervenutaci, di detto tema in tali vesti, risale alla metà del secolo XVII; ma numerosi sono i riferimenti precedenti verso uno schema compositivo che recupera la melodia ben nota nella penisola iberica per farsi formula musicale su cui l’autore poteva, rispettando una linea di basso ripetuto, impiantare vari contrappunti ed essere libero di comporre, anche improvvisando, numerose “diferencias”, in spagnolo “variazioni”, appunto. Nel “Tratado de glosas” del 1553, Diego Ortiz, presenta vari richiami a questa serie di variazioni adoperando il clavicembalo per costruire le armonie sul basso ostinato della Follia, onde sviluppare progressioni accordali in cui veniva affidato alla viola il compito di liberarsi in evoluzioni melodiche dal respiro già virtuosistico. Una fonte anonima di detto schema armonico e formale risale inoltre al “Cancionero de Palacio” (1475-1516) nella canzone anonima: “Rodrigo martinez Adoràmoste”. Successivamente se ne occupa la versione per organo di Antonio de Cabezòn del 1557, senza escludere il contributo fondamentale di Juan del Encina, di poco antecedente, che risale al 1553. 
La maggior parte dei musicologi però è concorde nel ritenere che il primo ad introdurre il tema della “tarda” Follia nella musica colta europea sia stato il compositore Jean- Baptiste Lully (1632-1687), fiorentino di nascita (Giovanni Battista Lulli) poi naturalizzato francese nel 1661, che fu attivo per gran parte della sua vita alla corte di Luigi XIV. Il suo apporto allo sviluppo dell’estetica musicale francese, con particolare attenzione alle forme del balletto classico, fu di grande importanza; ma ai fini di questa analisi preme di ricordare come egli fu il primo a richiamarsi espressamente ad un tema noto come “Folies d’ Espagne” in forma di marcia, probabilmente destinata ad essere eseguita dalla Grand Ecurie, la banda militare della corte del Re Sole.
[caption id="attachment_8191" align="aligncenter" width="1200"]le-roi-danse Jean-Baptiste Lully o Giovanni Battista Lulli (1632 – 1687) è stato un compositore, ballerino e strumentista italiano naturalizzato francese. Trascorse gran parte della sua vita alla corte di Luigi XIV, ottenendo, nel 1661, la naturalizzazione francese. Lully esercitò una considerevole influenza sullo sviluppo della musica francese; molti musicisti, sino al XVIII secolo, faranno riferimento alla sua opera. Suoi collaboratori o seguaci furono il contemporaneo Marc-Antoine Charpentier, Pascal Collasse, Marin Marais, Henry Desmarest, Jean-Philippe Rameau e Christoph Willibald Gluck.[/caption]
L’antico tema portoghese non è più molto inerente con la formula ormai in uso presso le corti europee: queste identificano la melodia con l’intera penisola iberica e così essa viene diffusa grazie all’opera dei compositori dei secoli successivi, i quali porteranno a compimento l’idea di uno schema musicale che, sopra l’incedere grave e solenne di una linea di basso, prevedeva delle progressioni accordali sulle quali impiantare melodie lasciate libere all’istinto dell’interprete di turno. Una formula dunque affine alla “passacaglia” o alla “ciaccona”, che garantirà grande libertà d’espressione pur nei suoi stilemi ormai codificati.
Tra le più riuscite composizioni impiantate sul tema spicca senza dubbio l’opera di Arcangelo Corelli (1653-1713) il quale diede alla luce una “Follia” tra le più celebri in assoluto. Corelli fu compositore di grandissima fama, ricercato per le sue doti di esecutore e didatta. Il suo nome si lega al fondamentale sviluppo che impresse alla musica strumentale occidentale: egli incentrò infatti gran parte del suo lavoro nella forma della sonata a tre, o della sonata per violino solo e basso (col termine sonata si intendeva ancora una successione di vari tempi in forma di suite- Enciclopedia della musica ed. Garzanti) mirabilmente espressa nella “Sonata op.5 n.12, a violino, violone o cimbalo” pubblicata nel 1700.
La sua “Follia” appare come la dodicesima di detta raccolta e arriva a coronamento non solo di tale opera, quanto anche della storia del tema stesso: da qui in poi infatti tutti i successivi compositori non potranno che confrontarsi con quanto scritto da Corelli, il quale appare come uno dei vertici espressivi più riusciti e basati sul fiero tema iberico, in quanto - oltre al recupero dell’antica melodia - il compositore arriva a sviluppare attenti cambi di ritmo, studiate dissonanze e ad elevare, sopra le fondamenta del basso continuo (clavicembalo), una serie di variazioni affidate in gran parte ad un violino dal respiro ora deciso, ora lirico, quasi “virtuosistico”.
[caption id="attachment_8193" align="aligncenter" width="1648"] Hugh Howard, Ritratto di Angelo Corelli (particolare) del 1697. [/caption]
Così si esprimerà Francesco Geminiani, allievo di Corelli, dichiarando: “Non pretendo di esserne l’inventore: altri compositori, della più alta classe, si sono avventurati nello stesso tipo di viaggio e nessuno con maggior successo che il celebrato Corelli, come si può vedere nell’opera quinta sull’ Aria della Follia di Spagna. Io ho avuto il piacere di discorrere con lui su tale soggetto e l’ho udito di riconoscere quanta soddisfazione ebbe nel comporla, ed il valore che gli attribuiva”.
Un altro nome illustre legato alla Follia è senza dubbio quello del compositore Antonio Vivaldi che scrisse una sua versione del tema nel 1705 nella sua “Sonata op.1 num.12”. Senza dimenticare l’opera precedente di Marin Marais nel suo “Secondo libro per viola” del 1701. Tra gli altri non mancarono di produrre alcune tra le più significative “follie” compositori del calibro di Alessandro Scarlatti (1660-1725) nel 1710 e Johan Sebastian Bach, che introduce il tema nella “Cantata dei contadini” nel 1742.
Lungo il IX secolo il cammino della Follia sembra subire una battuta d’arresto, o quantomeno, procedere più sommessamente dietro le numerose altre forme musicali che apparivano più in grado di avvicinarsi allo spirito dei tempi. In realtà ciò è vero solo in parte, in quanto, sebbene non così in voga come nei secoli precedenti, il tema iberico riappare in pochi, ma luminosi, episodi tali da far sembrare che l’antica forma musicale abbia recuperato la maestosità di un tempo.
Significativa la figura di Antonio Salieri (1750-1825) il quale, essendo noto come eccellente compositore e didatta, dedicò il suo ultimo lavoro alle “26 Variazioni Orchestrali de la Folia Spagnola” nel 1815.
In esso il maestro veneto, forse più intenzionato a creare una sorta di “studio” circa possibilità espressive della neonata orchestra sinfonica, che consapevole della forza innovativa della sua opera, arriva a consegnarci un capolavoro appassionato e coinvolgente: una raccolta di variazioni capace di porsi in netto contrasto con l’estetica propria delle sue composizioni settecentesche, per esprimere una sorta di sensibilità ormai alle porte del Romanticismo.
Proprio in questo periodo si avverte come il luminoso esempio di Franz Liszt (1811- 1886) preluda ad una sorta di futura riscoperta del tema della follia che avverrà nei fatti solo un secolo più tardi: la “Rapsodia spagnola”, composta nel 1863 dal pianista ungherese, costituisce tanto un compendio di virtusismo tecnico abbinato alla ricerca delle possibilità espressive dello strumento, quanto una vera e propria riscoperta dei temi musicali che, nell’ottica romantica, abbracciano l’identità culturale di un dato paese. Antecedente alla creazione di Liszt, troviamo l’opera di Mauro Giuliani (1781-1886) con le sue “Variazioni sul tema della Follia di Spagna” op.45, per chitarra. La creazione di Giuliani si distingue per esprimere, quasi sommessamente, una severa e asciutta rielaborazione del tema.
[caption id="attachment_8194" align="aligncenter" width="1000"]copertina-per-sito55 Nei dipinti: Antonio Salieri, Mauro Giuliani, Franz Liszt, Sergej Rachmaninov[/caption]

Bisognerà infine aspettare solo il XX secolo per assistere alla “rinascita” della Follia. Questa tornerà di nuovo ad essere uno degli schemi musicali in uso, grazie al gusto novecentesco per il recupero e l’analisi filologica (scevra dunque da ogni romanticismo) dei temi dal carattere popolare, oltre che in forza di una nuova sensibilità volta a rileggere in chiave incerta e dissonante le ansie della modernità. Su tutti gli esempi di Manuel Ponce (1882-1948) con “Preludio, Tema, Variaciones y Fuga” per chitarra del 1930 e del grande compositore russo Sergej Rachmaninov (1873- 1943), con le sue “Variazioni su un tema di Corelli” del 1931. Come un fiume che scorre dietro l’affresco delle vicende storiche, l’idea musicale su cui si basava la formula della Follia affiorerà infatti, di volta in volta, negli spartiti dei più grandi compositori, i quali si richiameranno all’idea originaria per sondarne i limiti ed alimentarne le possibilità espressive con l’apporto delle visioni proprie di ciascuna epoca.

 
Per approfondimenti:
_Baroni, Fubini, Petazzi, Santi, Vinay – Storia della musica – edizioni Piccola biblioteca Einaudi
_Elvidio Surian – Manuale di storia della musica, vol.1 – edizioni Rugginenti (6°)
_F. Geminiani, A Treatise of Good Taste in the Art of Musik, London 1749
 
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di Edoardo Cellini del 20/01/2017

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Come tasselli di un variegato mosaico, furono molti i contributi culturali e le influenze estetiche che arrivarono a comporre l’immagine di una forma spirituale e culturale completamente nuova, che si andava formando in Europa: l'Umanesimo. Senza dubbio furono fondamentali uno spazio e un’epoca, la Firenze del cinquecento; ma le tensioni intellettualistiche che animavano dall’interno questa innovazione culturale, seppero farsi cifra stilistica universale in grado di affermare il valore di una espressione artistica in tutta la sua dirompente visionarietà e sorprendente carica innovativa.
Con il termine Opera, o Melodramma, non ci si riferisce solamente ad un dato genere musicale: esso sta ad intendere, nella sua stessa radice etimologica, la natura dualistica che lo compone: l’espressione del canto (dal greco ‘melos’) e la componente scenico-rappresentativa entro cui si esprime (il dramma, appunto). In termini rigorosi, infatti,“l'Enciclopedia della Musica" (ed. Garzanti) definisce l’Opera come: lo spettacolo entro cui l’azione teatrale si realizza attraverso la musica e il canto”, aggiungendo, “(...)poiché si avvale di scenografie e, spesso, di azioni coreografiche l’ Opera può essere considerata una delle manifestazioni artistiche più complesse”.
[caption id="attachment_7499" align="aligncenter" width="1000"] Pieter Paul Rubens, Arrivo della regina a Marsiglia (particolare) - 1622-1625.[/caption]  
Ma l’intento di coniugare tra loro, parole e musica, recitazione e canto, lirismo e dramma, non nasce da un semplice contributo unitario: occorre anzitutto calarsi nel contesto di un’epoca (sulla fine del XV, inizi XVI secolo) per analizzare da vicino le dinamiche intellettuali e le molteplici influenze artistiche che daranno poi alla luce la moderna Opera lirica. Alla base del nuovo genere ci furono due grandi cambiamenti negli aspetti principali che lo compongono: lo storico Massimo Mila (1910- 1988), nella sua “Breve storia della musica" (ed. Einaudi) annovera in campo musicale “l’avvento della monodia” e in campo letterario “il gusto intellettuale ed umanistico della resurrezione del teatro antico nella sua supposta completezza di parola cantata ed azione scenica”.
Veniamo al primo elemento: occorrerà anzitutto ricordare come la ‘monodia’, (canto ad una sola voce, privo di accompagnamento musicale) viveva già come espressione artistica di largo uso nella musica popolare agli inizi del Medioevo. Da contraltare al canto monodico, le classi intellettuali agli ordini dei signori feudatari e i ceti religiosi dominanti, prediligevano una forma musicale più complessa, quale la polifonia (sovrapposizione di due o più voci) fino a creare lo stile del ‘contrappunto’ (punto contro punto, nota contro nota) quale “arte di sovrapporre due o più linee melodiche (...) come avvenne in tutta la produzione vocale colta fino alla fine del ‘500, o in forme strumentali posteriori”. Le due istanze però non si tennero separate a lungo e presto si dovette assistere alla vittoria della ‘popolare’ monodia sulla ‘colta’ polifonia, con un effetto tale da far piegare le rigidità formalistiche in cui s’era evoluta quest’ultima, verso le forme di un canto sempre più permeato da un maggiore senso tonale: una forma musicale più semplice e - per questo - più ‘sentita’, che costituiva il centro su cui si veniva ad orientarsi ogni ramo della musica profana, dunque, popolare.
Il secondo aspetto, sottolineato dallo storico Mila, che concorse alla creazione dell’Opera fu il suddetto elemento letterario, che portò con sé, sia la rottura con un’epoca, sia la riscoperta delle sue eredità classiche. Se la ‘monodia’ irrompe nelle Chiese e porta il canto a confrontarsi con il vento di rinnovamento che circolava nella piazze comunali sul finire del Quattrocento ad essere messa in discussione fu addirittura gran parte, se non l’intero, dell’ impianto della cultura sino a quel periodo dominante. Gli aspetti e le ragioni, per cui sorse nel nostro Paese un fenomeno unico che coinvolse - nella sua portata - l’intero mondo occidentale di allora, sono molteplici. Ma un dato è certo: il nuovo gusto intellettuale che prese piede nel cinquecento in Italia, fu uno dei maggiori impulsi per la genesi del Melodramma. Gli intenti del nascente Umanesimo partivano da un presupposto chiaro: andare alla riscoperta della parola antica per esprimere intorno al suo valore, le ansie e le attese della modernità. Questo aspetto assunse ben presto i caratteri di una vera e propria “caccia al tesoro”; ad emergere per primi furono i testi del teatro antico, nello specifico, i classici greci. Che valore aveva la parola nel dramma antico? E se essa era sorretta da un valore musicale, in che modo veniva a confrontarsi con esso?
Presto l’interrogativo - preminenza nei drammi classici della musica sulla parola - fu posto nei termini di una vera e propria sfida intellettuale cui gli umanisti risposero in maniera raffinata e sorprendente. Per gli studiosi dell’epoca, assetati com’erano di una ricerca che desse risposte il più possibile ‘armoniche’ e circolari, il quesito non si poneva: la parola nel teatro antico doveva essere cantata e vivere - si supponeva - in perfetta completezza con il dramma dell’azione scenica. Ma la vividezza e la novità con cui tale visione s’impose non deve corrompersi se consideriamo che già in opera medievale si possono rintracciare in talune forme di spettacolo, i germi della futura Opera lirica. Su tutti la celebre rappresentazione “Le Jeu de Robin et Marion” di Adam de la Halle, data alla corte di Napoli nel 1282. Per taluni storici si tratta di una sorta di opera ante-litteram, secondo altri studiosi invece: “non sempre è ravvisabile in questi sporadici tentativi una continuità diretta con la futura opera. Essa è invece reperibile nei vari spettacoli popolari, soprattutto feste e drammi liturgici, che erano diffusi nel Medioevo”. Da qui emerge come anche le ‘sacre rappresentazioni’ erano permeate dall’abbraccio di musica e teatro; sintomatico è però il fatto che tra i primi drammi liturgici di inizio Rinascimento, si scelse di recuperare proprio tematiche classiche: un “Orfeo” del Poliziano fu rappresentato a Mantova nel 1471, “cui si aggiunse una 'Rappresentazione di Febo e Pitone' o di 'Dafne' avvenuta sempre a Mantova nel 1486” (Massimo Mila, op.cit.).
[caption id="attachment_7500" align="aligncenter" width="1000"] Il Teatro Comunale di Bologna fu costruito da Antonio Galli da Bibbiena nel luogo in cui, un tempo, sorgeva Palazzo Bentivoglio, distrutto nel 1507. Una parte dei resti formano gli attuali Giardini del Guasto, compresi tra via del Guasto e Largo Respighi, dove invece c'è l'ingresso artisti. Nella foto: sala Bibiena del Teatro Comunale di Bologna.[/caption]  
Gli spettacoli, pur conservando la veste della officialità sacra, sembrano affermare uno spirito del tutto laico e pagano, affrontando tematiche mitologiche e dunque profane. Tali rappresentazioni non devono apparirci come antenati della moderna Opera, quanto piuttosto come veri e propri tasselli del mosaico che andrà a comporne l’immagine completa solo un secolo più tardi. Tra le maggiori influenze alla base del nuovo genere, oltre agli spettacoli sacri, o drammi liturgici, va annoverata quella singolare forma degli ‘intermedi’: episodi scenici e coreografici che fondevano ballo, canto e recitazione, fungendo da intervalli tra un atto e l’altro di drammi, feste o commedie. Ancora dall'Enciclopedia della Musica: “l’avvento della monodia- canto ad una sola voce (n.d.a)- accompagnata e la cura sempre maggiore ad essi dedicata dai musicisti, resero spesso gli intermedi la parte più interessante ed espressiva del complesso spettacolo rinascimentale, facendone gli immediati antecedenti del Melodramma”. Tali intermedi assunsero presto una importanza spropositata, come è possibile constatare nella prefazione della commedia del Lasca, dove è la Commedia stessa - in forma di persona - che si esprime: “Misera, da costor che già trovati fur per servirmi e per mio ornamento, lacerar tutta e consumar mi sento”.
Infine se da un lato gli spettacoli, come commedie o drammi liturgici, assunsero ben presto un carattere ‘popolare’, non è da sottovalutare l’apporto - per la creazione dell’Opera - di un altro ‘sotto-genere’ della stessa: la favola pastorale.
Tale rappresentazione fu la forma prediletta dalla società intellettuale agli inizi del Cinquecento e i motivi si possono scorgere facilmente: gli episodi scenici presentano tematiche simbolico-allegoriche di forte rimando idillico-bucolico, un carattere musicale che presupponeva l’alternanza tra recitato e cantato (nella nuova forma della melodia) ed infine l’inclusione di forme coreografiche e balletti. Tra le rappresentazioni le più note furono sicuramente: “L’Egle” di Giambattista Giraldi Cinzio, e il “Sacrificio” di Agostino de’ Beccari, del 1554. Quest’ultimo sicuramente interessante perché fondato su una concezione del canto nettamente monodica, ferme restando, le influenze ‘severe’ del canto gregoriano. Alfonso della Viola - Maestro di Cappella del duca Ercole II d’Este - fu uno dei musicisti più attivi, sue furono le musiche del “Sacrificio”, ma anche dell’ “Aretusa” su testi del Lollio (1563) e “Lo Sfortunato” dell’ Argenti (1567). Stante la popolarità dei suddetti generi, fu solo nel 1589 che, convenzionalmente, si vedono per la prima volta affiorare le radici del Melodramma.
[caption id="attachment_7501" align="aligncenter" width="1000"]gaspard-dughet-aminta Gaspard Dughet (1615 – 1675), Aminta nel salvataggio di Silvia - 1633-35[/caption]
Quell’anno infatti vide le nozze, a Firenze, del Granduca Ferdinando I con Cristina di Lorena; all’evento parteciparono quasi tutti i musicisti che poi diedero vita al nuovo corso: durante la festa vennero rappresentati circa 26 intermedi nei quali, al virtuosismo dei cantanti, facevano da sfondo lussureggianti ornamentazioni. L’evento dovette mutare radicalmente la concezione della ‘forma spettacolo’ che albergava già nella mente degli artisti fiorentini. Questi, ben prima di creare gli intermedi di quel 1589, avevano l’abitudine di riunirsi a Firenze nel palazzo di proprietà del conte Giovanni Bardi di Vernio (1534-1612) per formare una schiera di intellettuali che discutesse circa quel problema di fondo che li assillava: si poteva davvero conoscere l’antica musica dei Greci? In che modo essi potevano farla rivivere nei tempi moderni?
Il circolo del conte presto ribattezzato la "compagnia de’ bardi", seppe approdare al compimento di una poetica che rappresentava la visione unitaria e organica dei vari tentativi messi in atto sino ad allora. Le forme della rappresentazione greca, secondo gli studiosi, potevano e dovevano essere rinnovate solo attraverso l’uso accorto della monodia. La parola antica per rinascere nel dramma moderno, doveva essere dunque spogliata degli orpelli contrappuntistici fino ad imitare la lingua stessa del parlato, ridonandole - grazie ad una sola linea di canto - nuova luce e significato. Tale processo fu sintetizzato, in maniera esemplificativa, nella nuova teoria del “recitar cantando”; detta forma, del ‘recitativo’ appunto, viene descritta come lo “stile di canto tendente a riprodurre, attraverso una recitazione intonata, la naturalezza e la flessibilità della lingua parlata”. Viene inoltre specificato che tale stile “è caratterizzato da due elementi fondamentali: un ritmo libero e irregolare, modellato su quello verbale (...) e la mancanza di un’autonoma struttura formale, che, che è sostituita da un libero modellarsi della musica sui nuclei sintattici del testo”.
L’idea di adoperare il canto per mettere in luce la parola fu accolta con entusiasmo dai musicisti fiorentini. Tra i principali ispiratori della nuova teoria troviamo, membri della "compagnia de’ bardi", il liutista Vincenzo Galilei (1533- 1591), autore di un trattato, dal titolo significativo: “Della musica antica e della moderna” (1581), il cantore romano Giulio Caccini (1550-1618), il fiorentino Jacopo Peri (1561-1633) e il romano Emilio de’Cavalieri (c.1550-1602). Ma tra i musicisti che avevano preso parte all’allestimento degli intermedi fu probabilmente Caccini il primo che adoperò il nuovo stile musicando in forma di Opera la Dafne di Ottavio Rinuccini.
I testi di quest’ultimo furono musicati anche da Peri, il quale si propose di “imitar col canto chi parla”. La storia di Mila (op.cit.) riporta le parole di Caccini che sposano appieno le tesi del compagno, quando dice, nella prefazione alla propria “Euridice”: “non avendo mai nelle mie musiche usato altr’arte che l’imitazione dei sentimenti delle parole”.
[caption id="attachment_14357" align="aligncenter" width="1000"] Nelle immagini, da sinistra a destra: Vincenzo Galilei, Jacopo Peri, Giulio Caccini.[/caption]
Gli umanisti fiorentini seguirono l’impianto di tale poetica con tutta la radicalità che una nuova scoperta porta con sé. Sicchè le prime opere risentirono inevitabilmente degli schemi intellettualistici entro cui erano mosse, presentando - nella messa in scena dei primi drammi una netta preminenza del ‘recitativo’ - scarne modulazioni (passaggi da una tonalità ad un’altra), e artificiosità meccanica del ritorno alle solite tonalità (quasi sempre contrapposizione di modo maggiore con il modo minore, oppure transizione alla dominante). Nel ‘recitar cantando’ vi era anche, per dirla con Massimo Mila (op.cit.): “la libertà del discorso, l’assenza di ogni quadratura strofica, la perfetta adesione all’organismo sintattico del testo” a conferire al genere “una duttilità inesauribile”.
Fu questo dunque il percorso che, passando per il recupero degli schemi precedenti (drammi liturgici, intermedi, favole pastorali), seppe superare tali influenze, che pure avevano dato un contributo determinante in termini espressivi, per giungere alla creazione di una forma di rappresentazione artistica destinata a durare nei secoli.
 
Per approfondimenti:
_Baroni, Fubini, Petazzi, Santi, Vinay – Storia della musica – edizioni Piccola biblioteca Einaudi
_Elvidio Surian – Manuale di storia della musica, vol.1 – edizioni Rugginenti (6°)
_Enciclopedia della musica, edizioni Garzanti
_Massimo Mila, Breve storia della Musica - Edizioni Einaudi
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