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di Davide Quaresima del 02/04/2017

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L’Italia ha alle spalle una storia millenaria, ricca di eventi e di figure intramontabili, con un patrimonio culturale superiore a qualsiasi altro paese al mondo, ma da una non esaltante storia coloniale.
Se si adopera un'analisi attenta, si può osservare come l’odio sviluppatosi in tante zone del mondo sia legato ai molti paesi degli ex-imperi. Sicuramente l’Italia non rientra nel novero dei grandi paesi colonialisti. Fra questi ultimi possiamo citare Gran Bretagna, Francia, Spagna, ma non la nostra penisola.
Se si ricercano le motivazioni, una buona analisi deve prendere avvio dall’epoca moderna, tra la metà del XV secolo e l’epoca napoleonica. L’Italia alla fine del quattrocento era uno dei paesi più ricchi d’Europa, sia dal punto di vista culturale (Umanesimo e Rinascimento presero avvio nel nostro paese per poi influenzare tutto il continente), ma anche dal punto di vista economico e commerciale. Fra i più attivi mercanti dell’occidente europeo vi erano veneziani e genovesi, questi ultimi famosi soprattutto per via delle loro operazioni bancarie e di prestito a favore dei grandi regnanti del tempo, mentre la posizione geografica - con un Mediterraneo ancora al centro dei traffici internazionali - era (ed è tuttora) molto pratica. Purtroppo le continue battaglie fra le città stato, guidate dalle potenti famiglie, furono un primo colpo al nostro paese. Nel 1513 un abilissimo osservatore politico del suo tempo come Machiavelli, aveva già intuito le difficoltà della penisola, avversità che ci saremmo portati dietro fino a metà dell’800.
In questo lasso di tempo di circa tre secoli e mezzo l’Italia rimase divisa e alla mercé delle grandi potenze europee, divenendo un luogo estraneo alle nascenti reti commerciali che nel frattempo si andavano affermando nel mondo, e che avrebbero poi contribuito in modo decisivo alla formazione dei moderni imperi coloniali. Questa marginalità,  rese l’Italia un paese periferico per la sua frammetazione politica, rendendolo ammirato e considerato unicamente a livello culturale. Tali fattori furono decisivi per comprendere il tardivo e limitato movimento coloniale italiano, la cui storia è molto recente e spesso, purtroppo, se ne ignorano alcuni aspetti fondamentali.
La seconda metà dell’ottocento fu un’era ricca di eventi dal punto di vista geopolitico. Tutti i paesi volevano possedere un impero coloniale da sfruttare come sbocchi per le proprie merci e in cui poter mandare manodopera in eccesso; per questo motivo preferivano acquisire terre lungo rotte molto frequentate, non disdegnando di scatenare conflitti per arrecare danni ai propri rivali e trarne ovvi vantaggi territoriali. Dopo l’apertura del Canale di Suez nel 1869 le previsioni di ingenti guadagni legati allo sviluppo del commercio nel Mediterraneo portarono molti paesi ad interessarsi alle terre lungo il Mar Rosso e al Golfo di Aden e fra questi paesi, vi era anche il Regno d'Italia. 
 
[caption id="attachment_8324" align="aligncenter" width="1000"] Nella prima immagine di destra, l'inaugurazione - da parte francese - il 17 novembre del 1869, dell'apertura del Canale di Suez. Nell'immagine centrale, vista satellitare del canale, fino al corno d'Africa. Nell'ultima planimetria cartina politica dell'Eritrea: prima colonia del regno d'Italia.[/caption]
La prima penetrazione italiana in Africa avvenne nel 1882, un ventennio dopo l'unità del paese. L’aspetto politico è quanto mai necessario per tali azioni, difatti il nostro paese guardava impassibile gli altri imperi coloniali, sognando di possederne anch’esso una sua porzione. Le motivazioni alla base del colonialismo italiano furono prevalentemente di prestigio; aspirare ad un impero coloniale era un qualcosa di legittimo e per molti era sentito come un dovere. L’Italia avrebbe dovuto rappresentare il paese civile che diffonde la sua cultura e la sua ricchezza intellettuale al paese “sottosviluppato”. Per il Regno d’Italia le motivazioni economiche erano ovviamente importanti, ma non erano le uniche; il complesso di inferiorità di cui soffrivamo nei confronti delle altre potenze doveva essere curato.
Ovviamente non tutti nel nostro paese erano concordi verso un’azione del genere. Il mondo militare e quello della borghesia meridionale erano favorevoli all’espansione coloniale; mentre il clero (che condannava più che altro il Paese in quanto “laicista e liberale”), la borghesia settentrionale e i socialisti si schieravano su posizioni opposte, come il deputato socialista Andrea Costa, il quale nel 1887 asserì dopo la sconfitta di Dogali come: “né un soldo né un uomo per le pazzie africane”.
Le mire italiane ricaddero inizialmente sulla Tunisia, terra a noi geograficamente vicina, sperando in una conquista abbastanza agevole. Purtroppo però nel paese africano si stabilì un protettorato francese, che nei fatti tagliò fuori l’Italia, alimentando la frustrazione nel non essere riusciti a conquistare quella terra. Questo evento è passato alla storia come lo “Schiaffo di Tunisi”, l'antica Cartagine. 
A seguito di un episodio così tanto sconveniente il governo italiano decise di agire prontamente e di dirigersi verso terre nel continente africano ancora non possedute da nessuno. Fra le motivazioni di tanta fretta vi era anche quella di gestire manodopera in eccesso sul suolo italiano.
In quegli anni stava iniziando una vera e propria spartizione del continente, passata alla storia per la sua violenza e velocità con il nome di scramble for Africa (sgomitare per l’Africa) che avrebbe portato i paesi europei in un ventennio a divorarne tutto il territorio. Alla vigilia della Prima Guerra Mondiale solo l’Etiopia si poteva ancora definire indipendente.
La scelta perciò ricadde nel 1882 sull’Eritrea, striscia di terra lungo il Mar Rosso. Ma anche in questo caso la politica coloniale italiana fu tutt’altro che felice. Difatti, a pochi passi da queste terre vi era il grande Impero Etiope, una compagine territoriale molto vasta e potenzialmente pericolosa per i domini italiani. Il territorio era retto da due Negus (Re): a nord vi era il Negus Neghesti ("Re dei Re") Giovanni IV, a sud invece il territorio era retto da Menelik II, tristemente conosciuto da tutti sui libri di scuola per la cocente sconfitta inferta alle forze italiane comandate dal tenente generale Oreste Baratieri ad Adua, nel 1896. Nel 1885, d’accordo con la Gran Bretagna, l’Italia occupò Massaua in Eritrea, che dal 1890 formerà con Assab la Colonia Eritrea. Nel 1869 la Baia di Assab (Eritrea) era stata acquistata dalla compagnia privata del genovese Raffaele Rubattino al fine di fornire uno scalo per i rifornimenti di carbone alle sue navi, cedendola poi al Governo italiano nel 1882. In realtà il nostro paese si era interessato in un primo momento a dei territori nel Pacifico, nel Borneo e in Nuova Guinea; progetti che infine non si tradussero mai in realtà, preferendo non interferire negli equilibri internazionali tra Inghilterra e Olanda (tanto che di lì a poco il Borneo settentrionale, l’attuale stato di Sabah nella Malesia, sarebbe stato inglobato dall’impero britannico).
La prima sconfitta arrivò a Dogali, il 26 gennaio 1887, a seguito di una penetrazione italiana nell’altopiano etiope. La colonna del tenente colonnello De Cristoforis venne accerchiata dagli uomini del ras Alula e completamente annientata. Persero la vita 500 bersaglieri. L’eco suscitato nel paese a seguito della sconfitta fu enorme; persino Bismark fece tuonare le sue critiche. Tra il 1889 e il 1892, grazie ad una serie di trattati, il nostro paese riuscì ad istituire dei protettorati sul Sultanato di Obbia e su quello della Migiurtinia; nel 1892 il sultano dello Zanzibar concesse dei porti nel Benadir fra i quali è opportuno ricordare Mogadiscio, capoluogo della zona. Di conseguenza, nel giro di pochi anni anche l’Italia aveva delle terre nella regione. Due mesi dopo la morte del Negus Giovanni IV (marzo 1889) venne firmato il Trattato di Uccialli, tra Menelik - oramai imperatore e Negus Neghesti -  e il conte Antonelli, rappresentante di Re Umberto I e fornitore di armi all’Etiopia.
Il trattato con il quale venne sancito questo rapporto fra il Regno d'Italia e il Regno Etiope venne scritto in due lingue: in italiano e aramaico (la lingua utilizzata nel paese), e da parte del nostro paese venne interpretato in maniera completamente differente. A generare problemi e controversie fu l’articolo 17, che nelle due lingue citava:
• “Sua maestà il Re dei Re d’Etiopia consente di servirsi del governo di sua maestà, il Re d’Italia per tutte le trattazioni d’affari che avesse con altre potenze o governi” (versione italiana);
• “Il Re dei Re d’Etiopia può trattare tutti gli affari che desidera con i regni d’Europa mediante l’aiuto del Regno d’Italia” (versione etiope).
Per l’Italia era a tutti gli effetti un protettorato; per Menelik un affronto: la guerra era nell’aria. Mentre in Italia si vivevano giorni di fuoco, alimentati anche dallo scandalo della Banca Romana e dal ritorno in politica di Crispi, si decise di penetrare in Etiopia (o Abissinia). Fu un’azione disordinata e poco curata dal governo italiano che sottovalutò le forze nemiche, molto più numerose e ben armate (dal conte Antonelli, appunto).
La disfatta di Adua suscitò un grande scalpore in Europa. Per la prima volta un esercito africano era riuscito a schiacciare nettamente truppe europee; la paura più grande adesso era quella di una possibile presa di coscienza da parte del popolo africano nei confronti dei loro “padroni” e, quindi, di possibili loro rivolte contro gli stessi. Per il nostro paese, Adua significherà un grande mutamento politico che spazzerà via la classe dirigente risorgimentale in maniera definitiva. Ci furono rivolte e sommosse da parte dei ceti popolari che decisero perfino di scendere in piazza. La tensione per crisi economica si sommò alla figuraccia di Adua; il governo Crispi terminò qui.
Dal 1901 al 1943 l’Italia gestì una striscia di terra lungo il fiume Hai-Ho, la Concessione di Tientsin (porto di Pechino). Non si trattò di un grande possedimento (erano in totale 457.800 m²), e se si vanno a guardare le mappe della zona appare più uno striminzito lembo di terreno incastrato fra quelli ben più grandi delle altre super potenze. Le ragioni che portarono il Regno d’Italia ad ottenere questa Concessione risalgono alla Rivolta dei Boxer (1899-1901), la quale scoppiò in Cina a causa di un gruppo di nazionalisti chiamatisi inizialmente “Pugno della giustizia e della concordia” oramai stanchi delle ingerenze straniere nel loro paese. Fin da subito i rivoltosi vennero identificati come “Boxer” per via della parola “pugno” nel loro nome, derivante dal fatto che i ribelli avevano spesso come basi operative delle scuole di kung fu. L’Italia partecipò con l’Alleanza delle otto nazioni (Gran Bretagna, Stati Uniti, Russia, Giappone, Austria-Ungheria, Germania e Francia) alla soppressione dell’insurrezione e, a partire dal 7 giugno 1902, le venne riconosciuta la zona di Tientsin.
[caption id="attachment_8326" align="aligncenter" width="1000"]italiacoloniale2 Nella prima immagine, planimetria di Tientsin - possedimento italiano in Cina. Nella foto centrale fanteria montata italiana in Cina durante la Rivolta dei Boxer. Nella foto di destra la piazza Regina Elena a Tientsin con il Monumento ai Caduti e la colonna della Vittoria.[/caption]
Nel periodo in cui si approntava il Corpo, la Regia Marina spedì in avanscoperta le unità navali dell'incrociatore Fieramosca e le Regia Nave "Vesuvio" e "Vettor Pisani", le quali cariche di quattro compagnie di fanti di marina, comandati dell'ammiraglio Risolia. Il Corpo di Spedizione partì la sera del 19 luglio 1900 e dopo aver sostato a Port Said (il 23 luglio), ad Aden (il 29) e a Singapore (dal 12 al 14 agosto), giunse a Taku il 29 agosto 1900. Una volta sbarcato il personale percorse in treno i 150 chilometri che lo separavano da Pechino.  Il contingente internazionale nominò il 26 settembre quale comandante generale il Feldmaresciallo tedesco Alfred von Waldersee. Tale nomina incontrò le forti resistenze di Francia e Gran Bretagna, meno dal Regno d'Italia. Al contingente militare italiano fu affidato il presidio di un quartiere nei dintorni della caserma Huang Tsun. A detta delle cronache gli scontri, i saccheggi e le repressioni in tale zona furono minori che in altri quartieri. Al contingente militare italiano venne inoltre affidato il compito di contrastare le ultime resistenze all'interno della Cina. Il 2 settembre furono conquistati i forti di Chan-hai-tuan con 470 uomini su tre compagnie, due di bersaglieri e una di fanti di marina. In un'altra occasione il contingente militare francese occupò il villaggio di Paoting-fu, in contrasto con gli ordini di von Waldersee che prevedevano l'affidamento dei luoghi a un contingente misto tedesco e italiano. Garioni anticipò il contingente militare francese riuscendo, alla guida di 330 uomini, ad anticipare l'occupazione della cittadina Cunansien originariamente affidata ai francesi.
Il rientro in Italia del Contingente ebbe inizio nell'agosto 1901. Due compagnie di bersaglieri fecero ritorno nel 1902, mentre le restanti compagnie, unite in un battaglione misto, rimasero in Cina sino al 1905 e fecero ritorno con la Perseo della Compagnia Florio Rubattino nell'agosto 1905.
[caption id="attachment_8327" align="aligncenter" width="1000"] Durante la permanenza in Cina del Corpo di spedizione italiano, rimane la ricca testimonianza di due ufficiali "fotografi": Il tenente medico Giuseppe Messerotti Benvenuti di Modena (al centro) armato di una Kodak e il tenente Luigi Paolo Piovano di Chieri con una Goertz (a sinistra). Entrambi non mancheranno di fotografare anche gli orrori della repressione, ovvero le fucilazioni, le decapitazioni, le gogne e le macerie. Nella foto di destra: truppe della Alleanza delle otto nazioni, Tianjin 1900.[/caption]
Con il Trattato di Pace del 7 settembre 1901, venne ottenuta la Concessione italiana di Tientsin, una zona di 450.000 m², costituita da un terreno lungo il fiume ricco di saline, un villaggio e un'ampia area paludosa adibita a cimitero. Dopo un periodo di disinteresse, fu avviata una bonifica. La presenza italiana perdurò sino al 10 settembre 1943, quando le truppe giapponesi occuparono Tientsin e fecero prigionieri civili e militari italiani.
Formalmente il dominio italiano dell’area venne riconosciuto fino al Trattato di Parigi del 1947, ma di fatto l’occupazione giapponese nel 1943, a seguito dell’armistizio dell’8 settembre, aveva già tolto la zona dalle disponibilità italiane.
Tornando verso il mediterraneo e in maniera specifica in nord-Africa, oggi si parla spesso nei telegiornali del problema migranti, della Libia e delle altre terre insanguinate dal fondamentalismo islamico, delle misure che possono essere prese al fine di proteggere l’Europa dagli attacchi dell’ISIS. L’Italia è senza dubbio al centro di tali questioni che la legano indissolubilmente alla terra libica. Gli stessi rapporti fra Berlusconi e Gheddafi ci portano a riconsiderare le relazioni che la nostra penisola ha avuto nel corso del tempo con questa zona sempre particolarmente calda dal punto di vista geopolitico.
L’Italia nel settembre 1911 dichiarò guerra al decadente Impero Ottomano per la conquista di due regioni, Cirenaica e Tripolitania, che successivamente, nel 1934, avrebbero formato insieme ad altri possedimenti la colonia di Libia. La guerra, che terminò nell’ottobre del 1912, permise all’Italia di conquistare anche le isole del Dodecaneso. Con il Trattato di Losanna nel 1912 venne inoltre riconosciuto dalla Turchia il possesso italiano delle zone appena conquistate, comprese le isole nel Mar Egeo, non più rivendicate dal paese sconfitto.
[caption id="attachment_8329" align="aligncenter" width="1000"] Mappa che mostra i movimenti militari del regio-esercito italiano nella regione che oggi chiamiamo Libia. Nell'immagine centrale una stampa raffigurante i combattimenti durante le conquiste contro l'esercito ottomano. Nella foto di destra, bersaglieri al riparo di una trincea durante gli scontri vicino Sidi Messri.[/caption]
Questo conflitto fu importante sotto vari punti di vista. Innanzitutto, fu appoggiato in pieno dalla Francia che così sperava di limitare la presenza britannica nella zona. Come vediamo, ancora una volta si preferisce avere accanto un nemico di “serie B” come l’Italia piuttosto che la potenza inglese. Inoltre, la campagna di Libia mise in mostra le difficoltà dell’Impero Ottomano, una compagine oramai in piena decadenza, sulla quale le forze balcaniche avrebbero potuto avere gioco facile in un eventuale conflitto. Infine, questa guerra va ricordata per i progressi tecnologici in campo militare che vennero utilizzati. Fu il primo conflitto nel quale si utilizzarono automobili (prodotte dalla FIAT); fecero la loro comparsa gli aeroplani, anche se siamo lontani ancora dal loro utilizzo massiccio come avverrà invece nella Seconda Guerra Mondiale. Infine, si registra l’utilizzo della radio al fine di permettere una migliore cooperazione fra le truppe, con Guglielmo Marconi che collaborò con il regio-esercito. Dopo il Trattato di Losanna l’impero coloniale italiano contava Eritrea, Somalia italiana (prima protettorato, poi dal 1908 colonia), Libia e isole del Dodecaneso.
Abbiamo già detto in precedenza come, al termine della spartizione dell’Africa nell’ultimo ventennio dell’800, solamente l’Impero Etiope, assieme al piccolo stato della Liberia, fosse rimasto indipendente. In Italia l'avvento della rivoluzione fascista, poi sfociata in regime, riuscì per poco tempo, ad occupare anche questo territorio e ad istituire successivamente l’Impero.
A seguito del primo conflitto mondiale l’Italia era riuscita ad ampliare leggermente alcuni suoi possessi in Somalia ed in Libia e le mire verso i territori nei Balcani e in Africa naufragarono nel vuoto. Sul finire degli anni ’20 il nuovo Capo del governo Benito Mussolini, leader del partito nazionale fascista, rispolverò il progetto imperialista - mai sopito - richiamandosi nei suoi discorsi all’antico e glorioso impero romano. Con un passato così importante alle spalle era inconcepibile che l’Italia non possedesse un impero, mentre paesi come la Gran Bretagna o la Francia avessero terre in Asia e Africa; addirittura il piccolo Portogallo veniva accusato di avere un impero tropo esteso rispetto alle sue dimensioni.
La scelta ricadde sull’Abissinia, perché la sua annessione avrebbe rappresentato un ottimo colpo, permettendo all’Italia di rafforzare la sua presenza nella regione ai danni delle altre potenze (Gran Bretagna e Francia in primis). Inoltro la nazione italiana nel 1935 era in piena recessione economica, per le politica errate del regime, il quale - dopo tre rivoluzioni industriali - aveva attuato il progetto di uno Stato rurale. Tale recessione poteva essere superata solo con un conflitto bellico che facesse smuovere l'economia del paese. Vi era, in aggiunta, la remota possibilità di connettere il territorio etiope con quello libico, divisi dal Sudan anglo-egiziano. La conquista di Khartoum avrebbe consentito di collegare le colonie italiane nel Corno d’Africa con la Cirenaica e dare così una grossa spallata ai guadagni economici britannici nella zona, isolando praticamente l’Egitto. Inoltre, era quanto mai necessario vendicare la cocente sconfitta operata da Menelik nel 1896.
Si presentavano però anche notevoli difficoltà. La zona era nevralgica per l’economia inglese, e la loro presenza nella regione non li avrebbe visti certo indifferenti di fronte ad un’azione del genere da parte dell’Italia. Inoltre, le truppe etiopi, mediante guerriglia, avrebbero reso la conquista del territorio estremamente difficoltosa. Infine, l’Etiopia era dal 1923 membro della Società delle Nazioni, e un’azione militare di un membro contro un altro membro avrebbe portato a dure sanzioni.
L’articolo XVI dell’organizzazione citava: “se un membro della Lega ricorre alla guerra[…]sarà giudicato ipso facto come se avesse commesso un atto di guerra contro tutti i membri della Lega, che qui prendono impegno di sottoporlo alla rottura immediata di tutte le relazioni commerciali e finanziarie, alla proibizioni di relazioni tra i cittadini propri e quelli della nazione che infrange il patto, e all'astensione di ogni relazione finanziaria, commerciale o personale tra i cittadini della nazione violatrice del patto e i cittadini di qualsiasi altro paese, membro della Lega o no”. 
Il 3 ottobre 1935 l’Italia dichiarò guerra all’Etiopia. Per la prima volta, dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, un paese europeo rompeva l’ordine postbellico. Mussolini seppe sfruttare abilmente un attacco operato dagli etiopi un anno prima a Ual Ual, nel quale 80 italiani persero la vita nel cercare di difendere la postazione. Il dispiegamento di truppe fu imponente; perfino gli aerei giocarono un ruolo decisivo nelle sorti del conflitto. I combattimenti terminarono l’anno seguente, quando Vittorio Emanuele III venne incoronato Imperatore d’Etiopia, il 9 maggio del 1936. Da questo momento sarebbe più opportuno parlare di Africa Orientale Italiana (A.O.I.), comprendente Impero Etiope, Eritrea e Somalia Italiana.
[caption id="attachment_8336" align="aligncenter" width="1000"] I Regi corpi truppe coloniali (RCTC) erano dei corpi delle forze armate del Regno d'Italia nei quali vennero raggruppate tutte le truppe di ogni colonia, fino alla fine della seconda guerra mondiale in Africa. Tali truppe dipendevano direttamente dai governatori delle colonie italiane. Erano corpi autonomi pluriarma, con unità di fanteria, artiglieria, cavalleria e genio proprie. Dal 1924 ai RCTC di Tripolitania e Cirenaica e alle forze armate dell'AOI vennero aggregate le legioni e battaglioni della Milizia Coloniale della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale. Tutti gli Ufficiali erano nazionali del Regio Esercito, i sottufficiali sia nazionali che indigeni, mentre la truppa era nella quasi totalità composta da eritrei, somali, etiopi, libici ed in piccola parte yemeniti e sudanesi. Queste truppe furono impiegate su tutti i fronti africani a partire dalla guerra d'Eritrea e dalla guerra di Abissinia, poi nella guerra italo-turca, fino riconquista della Libia. Nella campagna di conquista dell'Etiopia il RCTC d'Eritrea fornì un intero Corpo d'armata eritreo. Nel 1940 erano presenti 182.000 ascari nell'Africa Orientale Italiana e 68.000 nazionali, mentre 74.000 ascari erano di stanza in Libia durante la seconda guerra mondiale.[/caption]
Nei cinque anni nei quali l’Italia gestì questo territorio vennero costruite strade, porti e ferrovie, ma anche scuole, ospedali ed acquedotti, favorendo l’inizio dell’industrializzazione; venne inoltre regolamentata la caccia e incentivata la protezione ambientale nei territori dell’A.O.I. Purtroppo però, il mito degli “italiani brava gente” può essere facilmente smentito osservando le feroci rappresaglie operate dai militari e le armi da essi utilizzate nei territori appena conquistati: gas asfissianti ed iprite vennero rivolti contro civili inermi, così come i molti campi definiti "della morte" in Libia, dove la gli internati erano ridotti alla fame e a dure fatiche: un lato oscuro e triste nella storia coloniale italiana. Da capire come, le vessazioni verso la popolazione indigena erano perpetrate in tutte le nazioni europee sia in africa che in asia e questa pratica - oggi condannata giustamente da tutte le nazioni democratiche - era considerata "normale"; anzi sotto i possedimenti italiani le angherie - soprattutto dopo aver allontanato il generale Graziani - erano molto meno pesanti che nei possedimenti anglo-francesi. L'Italia ebbe il merito di aver costruito di più tra tutte le potenze coloniali europee. 
A seguito dell’attacco all’Etiopia le sanzioni della Società delle Nazioni non tardarono ad arrivare il 6 ottobre del 1935. Si trattava di limitazioni economiche che vietavano l’esportazione di prodotti italiani all’estero e l’importazione di prodotti utili per la continuazione della guerra in Africa. Il tutto non fece altro che accentuare le politiche autarchiche mussoliniane, provocando grossi danni ad alcuni settori della nostra industria e costringendo quindi molti contadini a dover lasciare il paese per cercare fortuna e terra in Africa, investendo per le infrastrutture di queste regioni piuttosto che per quelle del Mezzogiorno.
Per la prima volta nella storia, la Società delle Nazioni multava un paese membro. Purtroppo però le sanzioni vennero facilmente aggirate, e paesi che al comitato le avevano decise e successivamente votate, alla fin fine si astennero dal rispettarle. La Società delle Nazioni nacque con un onorevole obiettivo, evitare con ogni mezzo altre guerre e sconvolgimenti: questo fu uno dei suoi più clamorosi insuccessi (addirittura le sanzioni verranno revocate da lì a sette mesi). La sua presa di posizione nei confronti dell’Italia non fece altro che velocizzare l’avvicinamento tra il nostro paese e la Germania di Hitler.
Dal 7 aprile 1939 anche l’Albania venne annessa all’impero, mentre Kosovo, parte della Macedonia e del Montenegro furono aggiunti nel 1941. Nel 1940 si provò ad includere anche il Somaliland (Somalia britannica), ma già l’anno successivo queste zone, compresa la Somalia Italiana e gli altri territori dell’Africa orientale, vennero occupate una volta per tutte dagli inglesi, decretando la fine dell’A.O.I.
L'Italia coloniale si ritrovò subito - fin dal 1940 - nell'impossibilità di combattere una guerra pari a quella del nemico, il quale disponeva dei carri armati: armamento e materiale bellico che il regio-esercito non aveva e che non poteva perforare. Inoltre i britannici avevano la possibilità di ricevere continui approvvigionamenti (dati dal vasto impero coloniale), mentre il nostro contingente africano era isolato completamente: l'esito fu scontato, nonostante gesti eroici come quello di Amedeo Guillet o di Amedeo di Savoia duca d'Aosta.
[caption id="attachment_8335" align="aligncenter" width="1000"] L'immagine ritrae la battaglia di Culqualber, combattuta in Abissinia (l'attuale Etiopia) dal 6 agosto al 21 novembre 1941 fra italiani e britannici. Eroica la resistenza dei reali-carabinieri del regio-esercito.[/caption]
Diverse le vicende in Libia (e in Tunisia), persa nel 1943 ad opera delle forze alleate nella Campagna del Nord Africa. Nello stesso anno anche i territori nei Balcani subirono un forte ridimensionamento mentre le isole nel Mediterraneo vennero formalmente perse poiché passarono sotto il controllo tedesco dopo l’8 settembre.
Da questo momento sarebbe sbagliato parlare di Impero coloniale. In Italia la situazione era completamente degenerata e tutti i progetti di Mussolini potevano dirsi tramontati. Il progetto di unificazione fra i territori dell’A.O.I e la Libia avrebbe sicuramente permesso all’Italia di essere determinante negli equilibri della zona, assicurandole il controllo di Suez e degli introiti ad esso connessi. Purtroppo però l’inefficienza degli approvvigionamenti e alcuni errori militari degli alti comandi, giocarono un ruolo decisivo e l’Italia si trovò a dipendere sempre di più dall’alleato tedesco.  Nel 1947, con il Trattato di Parigi, il nostro paese venne spogliato ufficialmente di tutti i suoi possedimenti.
Un’ultima parentesi, anche se di poco conto, si ebbe in Somalia (comprendente adesso anche i territori della vecchia Somalia britannica), la quale ci venne affidata per dieci anni in amministrazione da parte delle Nazioni Unite nel 1950 fino alla costituzione della Repubblica indipendente di Somalia (1960).
Concludo con questa frase di Ferdinando Martini, che forse riassume le prospettive italiane in ambito coloniale: “Si dice che gli italiani non sanno mai quello che vogliono, ma su certi punti sono irremovibili: vogliono la grandezza senza spese, l’economia senza sacrifici e le guerre senza morti. Il disegno è stupendo, forse è difficile da effettuare.”
 
Per approfondimenti:
_Emanuele Felice, Ascesa e declino. storia Economica d'Italia
_Sabbatucci-Vidotto, Storia contemporanea. Il novecento
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

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di Davide Quaresima del 27/11/2016

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"Tutta la mia esperienza, da quando sono al governo, mi ha mostrato che il potere temporale non è in grado di compiere la sua missione senza il sostegno del potere spirituale. Questo è - per altro - l’insegnamento della storia".
Da questa breve frase possiamo apprendere molto dalla concezione politica di António de Oliveira Salazar. Questi nacque da una famiglia di agricoltori a Santa Comba Dão il 28 aprile 1889. La difficile situazione economica in cui crebbe non gli impedì di compiere gli studi e di laurearsi in giurisprudenza nel 1914. Specializzatosi in economia politica quattro anni dopo, diventerà un rinomato professore presso l’Università di Coimbra.
Attuando una breve analisi della nazione iberica, in Portogallo nel 1910 la forma istituzionale - presente nel paese - era la Repubblica, ma di fatto il vero potere si trovava nelle mani dell’esercito. Di lì ad un quindicennio si succedettero ben 45 governi, quasi tutti guidati da militari, e addirittura due capi di governo furono uccisi.
I medesimi problemi si potevano riscontrare anche in campo religioso e sociale. Da tempo era in atto uno scontro tra clericali e anticlericali, e continui erano i conflitti tra le diverse anime del mondo sindacale.
Salazar, da sempre interessato alla politica, si candiderà alle elezioni del 1921: inaspettatamente il verdetto del popolo lo vedrà vincitore con la “Gioventù Cattolica Portoghese”, ma rinuncia al mandato poco tempo dopo. La sua scelta, molto probabilmente, fu dettata dalla difficile situazione istituzionale del paese.
Nel paese portoghese nel 1919, sussisteva la teoria della “vittoria mutilata” - proprio come in Italia - rafforzata da una esaltazione del sacrificio per la patria, che sopravvisse nei monumenti e nella Lega dei combattenti della Grande guerra. La popolazione, appoggiata dalla politica, si costruì l’idea del miracolo religioso, come le apparizioni di Fatima, le quali rappresentavano il bene assoluto. Dunque l’aumento della forza religiosa e la crescita di influenza della chiesa, andarono a rafforzare i movimenti di destra. Possiamo ben comprendere come fosse difficile gestire uno Stato in simili condizioni.
Dal 1926 le cose cambiano: il potere passa nelle mani del generale Carmona che con la sua dittatura pose fine allo Stato repubblicano. A Salazar venne offerto il ministero delle Finanze; si dovranno aspettare ancora quattro anni per vederlo leader del paese.
[caption id="attachment_6959" align="aligncenter" width="1000"]salazar-allesposizione-internazionale-in-portogallo-nel-1940 Salazar (il secondo partendo dalla destra) in uno scatto fotografico del 1940 all'esposizione internazionale in Portogallo in compagnia del generale António Óscar Carmona.[/caption]
Una piccola precisazione: Salazar non fu mai capo dello Stato, difatti il presidente del Portogallo rimase Carmona fino alla sua morte, avvenuta nel 1951. A succedergli saranno poi Francisco Craveiro Lopes e Américo Thomaz. Di fatto però le chiavi del paese vennero affidate a Salazar in qualità di Presidente del Consiglio, ma riuscì a cumulare temporaneamente le due cariche solo per tre mesi e tre giorni, in attesa del successore di Carmona.
La grande conoscenza della materia e la scelta di manovre decisamente austere (impose infatti un rigido controllo della spesa pubblica) porteranno il bilancio del Portogallo in attivo, un risultato epocale ed impensabile al tempo. Inoltre, introdusse organismi di finanziamento come la “Caixa Nacional de Crédito” e la “Caixa Nacional de Depositos” per un sostegno finanziario al mondo agricolo, investì inoltre il denaro pubblico per la costruzione di nuove infrastrutture come ponti, strade e reti per le telecomunicazioni.
Prima di parlare di quella che fu a tutti gli effetti la più lunga dittatura del novecento (rimase per ben 35 anni al potere, dal 1932 al 1968) occorre delineare i tratti caratteristici di questo dittatore -  molto spesso dimenticato - il quale seppe ritagliare per se e per il suo paese, un ruolo di primo piano nello scacchiere globale a cavallo degli anni della Seconda Guerra Mondiale. L'aspetto più interessante, che colpisce, è il suo carattere, legato all'enorme carisma.
Tutti coloro che lo conobbero ne parlarono come di un uomo tenace e di grande tempra, un esempio di integrità morale. Molto probabilmente fu grazie a queste caratteristiche, unite alle sue grandi conoscenze in settori chiave come l’economia e la politica a farlo divenire Presidente del Consiglio.
Solitario, distaccato ed eclettico sono alcuni degli termini più utilizzati per tratteggiare quello che divenne un eroe del popolo portoghese (verrà amato fino gli anni ’50-’60, quando in Portogallo si inizieranno a risentire i primi effetti negativi della sua politica), in grado di ingraziarsi militari, agrari, esponenti del mondo cattolico fino a divenire con il suo stato, membro della NATO nel 1949 (unica dittatura presente al suo interno).
Amante dell’ordine e contrario al “potere della folla”, riprese il concetto mussoliniano del "Tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato" trasformandolo in "tutto per la nazione, nulla contro la nazione". 
Voleva rendere reale la visione corporativa della società che aveva in mente. Prese molti spunti dallo Stato Fascista italiano (pur discostandosene pubblicamente) e molte idee dalla Chiesa Cattolica di cui ammirava l’aspetto moralizzante. “Dio, Patria e Famiglia” saranno i capisaldi del pensiero salazarista. 
António Oliveira Salazar formatosi in un partito cattolico - al contrario di Mussolini - non aveva una formazione “rivoluzionaria”. Tuttavia, la sua ammirazione per il Duce fu grande almeno fino al 1938, motivata dalla comune avversione per democrazia liberale e comunismo, nonché da comuni obiettivi politico-sociali. Come tutti i nazionalisti, voleva creare un regime “originale”: si collocò al fianco di Mussolini, cercando di attenuare quei tratti della dittatura fascista che giudicava strettamente legati alla realtà italiana. Si potrebbe dire che Salazar volle dar vita a un “Mussolini portoghese” in vesti sacerdotali e dall’aspetto severo di un docente universitario.
Sul piano ideologico, attiva una ricerca per una “terza via” - tra la democrazia liberale e il socialismo - comune a vari movimenti politici europei. Cattolici, integralisti monarchici, nazional-sindacalisti, repubblicani nazionalisti e presidenzialisti con tendenze all’autoritarismo, intellettuali modernisti (figure simili a D’Annunzio o Marinetti), formavano un’élite che si rappresentava come una “generazione nuova”, proponeva una cultura differente dalla “cultura borghese”, e aspirava alla creazione di uno “Stato nuovo”. Da qui deriva l'istituzione "dell’Estado Novo".  La Repubblica - per i suoi errori politici - preparò il terreno fertile per la nascita dello "Stato Nuovo", difatti molti repubblicani, sia liberal-democratici, sia conservatori come Cunha Leal, finirono per opporsi al regime di Salazar. Ma nel frattempo altri autentici repubblicani - sul piano culturale attratti da Bergson, Nietzsche, Wagner, D’Annunzio e da un nazionalismo che trovava espressione in movimenti come la Cruzada Nacional Nun´Álvares manifestarono la loro sintonia con il progetto dell’Estado Novo. Analogamente, anche tra gli anarchici vi fu chi si trasformò in nazional-sindacalista o in repubblicano di destra. Si noti, inoltre, che da un punto di vista costituzionale l’Estado Novo rimase uno stato repubblicano: era infatti una “Repubblica corporativa”, non del tutto difforme da quella liberal-democratica. Tanto che si continuò a celebrare come festa nazionale il 5 ottobre - in ricordo del 5 ottobre 1910, quando venne proclamata la Repubblica portoghese - e non il 28 maggio, sebbene il golpe del 1926 fosse considerato una sorta di “marcia su Roma” del “fascismo alla portoghese”, ossia l’avvio del processo che portò allo "Stato Nuovo".
[caption id="attachment_6951" align="aligncenter" width="1200"] António de Oliveira Salazar (Santa Comba Dão, 28 aprile 1889 – Lisbona, 27 luglio 1970) è stato un politico ed economista portoghese, dittatore del Portogallo dal 1932 al 1968. La sua venerazione per il mito del Duce d'Italia, Benito Mussolini, era talmente forte da arredare parte del suo studio con una cornice del leader della rivoluzione fascista italiana.[/caption]
L'antropologo rumeno Mircea Eliade  definì il salazarismo "una forma cristiana di totalitarismo" - intendendo con ciò,  sottolineare che attraverso il cristianesimo veniva proposta una particolare pratica totalitaria. In quell’epoca, il cristianesimo manifestava una tendenza totalitaria, benchè avversa al modello “cesarista”, perché riteneva che l’unica via alla salvezza passasse dalla piena adesione alla propria dottrina. Analogamente, per Salazar la democrazia liberale e il comunismo dovevano essere sconfitti attraverso la “conversione” - concetto centrale nell’ideologia dell’Estado Novo. Beninteso, non si trattava di un “totalitarismo totale” - poiché il totalitarismo perfettamente compiuto rimane sempre una meta irraggiungibile - né di un espediente puramente retorico, ma di una pratica di governo tendenzialmente totalitaria. Per esempio, Salazar permise lo svolgimento delle elezioni con regolare scadenza come stabilito dalla Costituzione, ma tutte furono falsate per impedire il ritorno a un sistema liberal-democratico. Quando per le elezioni presidenziali del 1958 si candidò Humberto Delgado, Salazar modificò immediatamente la legge, facendo passare l’elezione del Presidente della Repubblica attraverso un collegio formato da figure necessariamente aderenti al regime (membri dell’Assemblea nazionale e della Camera corporativa, presidenti delle Camere ecc.). Da tale punto di vista, Marcelo Caetano (suo futuro successore) era più coerente: già nel 1938 affermò che uno Stato corporativo non doveva prevedere elezioni, ma l’adesione incondizionata all’União nacional (Unità nazionale).
Si trattò, dunque, di un corporativismo non integrale. In altri termini, il sistema era presentato come un corporativismo nazionale  - espressione della comune volontà di lavoratori e datori di lavoro - ma in realtà tutte le istituzioni corporative erano di formazione statale. D’altra parte, Salazar difficilmente avrebbe accettato l’idea di uno Stato nel quale gli organi di potere fossero costituiti davvero in modo corporativo, anche se in prospettiva le assemblee legislative avrebbero dovuto essere sostituite da nuovi organi composti per metà da tecnici. Questa forma ambigua e incompleta di Stato corporativo non soddisfaceva Marcelo Caetano, che aspirava a un corporativismo più compiuto e rapidamente costruito.
La sua fu una dittatura a tutti gli effetti; e come ogni totalitarismo che si rispetti aveva la propria polizia segreta, la PIDE (Polícia Internacional e de Defesa do Estado), formata nel 1933, e delle strutture di inquadramento di massa, tra le quali troviamo "l’Estatudo do Trabalho Nacional” e il “Segretariado pela Propaganda Nacional”. Pochissime furono le associazioni riconosciute nel paese e molto dure furono le repressioni perpetrate nei confronti di coloro che si fossero avvicinati ad ideali “distanti” dal regime salazarista (come il comunismo). Venne limitata la libertà di stampa e l’unico partito riconosciuto fu "l’União Nacional”, fondato nel 1931.
Una grande afflusso culturale, venne anche dal continente europeo, in particolare la Francia: senza dubbio la tradizione letteraria, filosofica e sociologica francese ebbe grande influenza, poiché se da un lato svolse un ruolo di opposizione alle dottrine razionaliste, dall’altro suscitò un particolare interesse per la produzione filosofica, musicale, giuridica e letteraria tedesca, nonché per quella italiana. Inoltre, l’ordinamento corporativo dell’Estado Novo traeva ispirazione sia dal corporativismo cattolico di Leone XIII, sia dal corporativismo fascista e sia dal “socialismo della cattedra” tedesco. La forma culturale portoghese si plasmò nel contesto europeo, in una logica di scambi e circolazione di idee. Non fu assolutamente una cultura autoctona, esclusivamente riversa su se stessa e sui suoi valori, anche se questi - come da visione nazionalista - fossero affermati con grande impeto.
Intanto nella vicina Spagna, scoppia la guerra civile e per il regime portoghese una vittoria dei “rossi” era percepita come una forte minaccia.
Così nella guerra civile spagnola (1936-1939), Salazar annunciò la neutralità del suo paese, inviando reparti di volontari - chiamati “viriatos” - i quali si recarono in Spagna a sostegno delle truppe del generale Francisco Franco. Provenienti in parte dalla Legião Portuguesa (LP), Salazar permise il passaggio di materiale bellico a favore dei franchisti (anche se storicamente i documenti che lo comprovano sono andati distrutti o persi). Di sicuro resta anche il fatto che alcuni portoghesi, si arruolarono volontariamente anche a fianco delle truppe repubblicane, nella lotta contro le forze nazionaliste. 
[caption id="attachment_6952" align="aligncenter" width="1000"] A destra una foto di gruppo in terra spagnola dei volontari portoghesi "Viriatos". A destra, tre figurini rappresentanti le divise di questi.[/caption]
La parola d’ordine per il Portogallo nel secondo conflitto mondiale fu: neutralità.
A costo di perseguitare fascisti e nazisti sul proprio territorio Salazar non vorrà mai entrare in guerra, professandosi sempre estraneo al conflitto in corso, anzi, sforzandosi di essere un vero e proprio equilibratore tra le potenze in gioco.
Si avvicinerà molto alla Gran Bretagna e agli Stati Uniti ancora una volta per sottolineare la sua distanza dalle forze dell’Asse; intraprese relazioni economiche con la Germania alla quale fornì tungsteno, metallo ideale per armamenti e proiettili perforanti; con la Spagna intavolò trattative diplomatiche che sfociarono in un accordo nel quale quest’ultima si impegnava a non entrare in guerra, un grande successo per Salazar poiché evitava di far allargare il conflitto anche alla penisola iberica; ed infine permise agli USA di istallare delle basi nelle Azzorre per controllare l’Atlantico e l’accesso occidentale al Mediterraneo.
Salazar fu un politico ed un diplomatico accorto, in grado di ragionare lucidamente in un’Europa impazzita, sapendo sempre scegliere la via meno dolorosa per il suo paese. La vicinanza alla Gran Bretagna e agli Stati Uniti permetteranno al Portogallo nel 1949 di aderire alla Nato e di essere ammesso poi nell’Onu.
Il portoghese è stato  un innovatore anche nella comunicazione, come lo fu parallelamente Mussolini in Italia. Per tutti i totalitarismi la propaganda rappresenta uno strumento fondamentale. Nel caso del Portogallo salazarista questa funzione-chiave venne affidata ad António Ferro, che diresse il Secretariado de propaganda nacional dal 1933 al 1949 - elemento che sta a significare la “moderna” concezione del potere. Saggia la scelta anche di Ferro, il quale proveniva dalla corrente del modernismo lusitano e poteva vantare conoscenze dirette con Fernando Pessoa e Almada Negreiros, dandogli un forte spessore e rendendolo una figura centrale all'interno del salazarismo. Come per Ferro, un ruolo fondamentale lo giocarono anche i nuovi cineasti, come António Lopes Ribeiro (che andò in Russia, incontrò Eisenstein e realizzò documentari di regime e film di finzione e propaganda) o Leitão de Barros (regista di opere di genere storico e organizzatore di grandi spettacoli popolari).
António Ferro, però, fu la vera mente della propaganda, il grande amplificatore dell’ideologia salazarista. Se il ruolo della propaganda in uno Stato totalitario è quello di riprodurre fedelmente l’ideologia ufficiale, attraverso grandi marce e pubbliche acclamazioni, nel caso del Portogallo vennero adottate modalità più discrete che portavano alla collaborazione di “tutti”. Per questo la rivista "Panorama" (organo del Secretariado nacional de informação che alla fine della guerra sostituì il Secretariado de propaganda nacional) arrivò a pubblicare testi di oppositori che raccontavano il paese senza manifestare dissenso verso l’Estado Novo.
[caption id="attachment_6953" align="aligncenter" width="1042"] 1932. Simpatica fotografia che vede immortalati Mendes dos Remedios, Antonio de Oliveira Salazar e Antonio Ferro. Da notare come Salazar abbia una scarpa "bucata".[/caption]
Lo stesso accadde con le raccolte di poesia o di racconti curate da scrittori che non s’identificavano con il salazarismo, o con le opere architettoniche e artistiche commissionate dal regime. Ritengo insomma che, soprattutto nel periodo in cui fu guidato da Ferro, il Secretariado ebbe poteri molto significativi.
Un altro aspetto fondamentale del regime portoghese fu il suo rapporto con le colonie. Storicamente queste ultime ricoprirono sempre un ruolo decisivo per quel piccolo paese ai margini della penisola iberica. Nel XV secolo, a fronte di una oggettiva impossibilità ad espandersi verso il continente il popolo portoghese diventò molto esperto di cose di mare. Alla corte di Enrico “il Navigatore” e dei suoi successori si svilupparono strumenti sofisticati per migliorare la navigazione e alle soglie dell’età moderna venne progettata la caravella, passata alla storia per il viaggio di Cristoforo Colombo. Il legame con il grande impero coloniale portoghese dei secoli XV e XVI era troppo forte per non essere difeso dalla dittatura salazarista.
Era necessario mantenere quelle terre per ovvi motivi: per l’acquisto di materie prima sconosciute e molto ricercate in Europa e per garantire allo stesso tempo al Portogallo una valida valvola di sfogo in caso di eccesso di manodopera metropolitana.
In Africa ne facevano parte la Guinea-Bissau, il Mozambico, le Isole di capo verde, Sao Tome e Principe e l’Angola; Timor e Goa erano invece in Asia. Salazar decise di tenere sotto controllo quelle terre mediante l’afflusso di popolazione bianca mandata in loco con lo scopo di arginare le sommosse e le rivendicazioni degli anni cinquanta. Per Salazar, queste, saranno sempre dei territori, da sfruttare e sottomettere anche con la forza. Sicuramente qui, il portoghese riprende a piene mani la tradizione dello sfruttamento coloniale europeo. 
[caption id="attachment_6956" align="aligncenter" width="1000"] Tutte le colonie dell'impero portoghese con le date della perdita dei territori.[/caption]
Il Portogallo salazarista dava l’immagine dell’Impero, un'espressione usata fino agli anni Cinquanta, quando le “colonie” divennero “province d’oltremare”, avviando un processo che portò nel 1962 alla revoca della “legge sull’indigenato” e al riconoscimento di tutti gli abitanti d’oltremare, bianchi o neri che fossero, come “cittadini portoghesi”. E la difesa di questo impero era il principale compito delle forze armate, in un secolo in cui il Portogallo non avrebbe comunque potuto giocare alcuna politica di potenza “offensiva”. Tale situazione accentuava, più che uno stato di soddisfazione, un diffuso orgoglio imperiale, un sentimento che accompagnerà il “fascismo portoghese” fino al suo capolinea nel 1974. Nonostante un'educazione scolastica fortemente ideologicizzata, pochi conoscevano la Guinea, Capo Verde, S. Tomé e Príncipe, l’Angola, il Mozambico, Timor o Macao (che non era propriamente una colonia), ma la maggioranza aveva una relazione sentimentale con l’Impero o con queste colonie. Perciò, solo tardivamente l’opposizione cominciò a parlare con chiarezza di autodeterminazione, il che avvenne nel 1958 con la candidatura alla Presidenza della Repubblica di Arlindo Vicente, appoggiata dai comunisti (designato come candidato del Fronte democratico nazionale, Vicende poi rinunciò a favore di Delgado, candidato unico dell’opposizione). Questa relazione sentimentale con "l’Oltremare” cominciò a svanire con la guerra coloniale. Fu il contatto con la realtà bellica a depotenziare il mito delle colonie, soprattutto per chi si ritrovò nel 1968-69 in Guinea, il “piccolo Vietnam” portoghese.
La guerra contribuì allo sfaldamento del regime e alla formazione del Movimento das Forças Armadas, artefice del golpe del 25 aprile 1974. Proprio il problema coloniale, iniziò a far delineare nel paese gruppi antisalazaristi - alcuni provenienti dalle file repubblicane più conservatrici, altri da quelle anarchiche o comuniste, mentre i cattolici mantennero quasi sempre una posizione filo-governativa - e il lento processo di formazione dell’opposizione, approdò a risultati significativi solo negli anni Sessanta-Settanta, con la disillusione nei confronti di Caetano,  con la guerra coloniale e la nascita del movimento militare.
Quando l’Onu riconobbe, nel 1961 l’autodeterminazione dei popoli d’Oltremare, immediatamente si accentuarono ancor di più i focolai delle rivolte (anche in patria). Il secolare impero portoghese, iniziò così a sgretolarsi di fronte ad un fenomeno oramai mondiale ed impossibile da arginare.
Negli anni ’60 si iniziò a comprendere quale direzione avrebbe preso il paese. Una dialettica più aperta e democratica all’interno della politica fece perdere molti consensi al partito salazarista e studenti, insegnati, operai e liberi professionisti si sentirono sempre più lontani da quegli ideali così opprimenti e asfissianti che avevano soggiogato il paese per così tanto tempo.
Nel 1968 Salazar venne colpito da un infarto invalidante a seguito di un incidente domestico e per questo fu costretto a lasciare il potere all’ex allievo Caetano, pronto a ricercare una politica di compromesso tra le varie anime del paese con l’intento, forse, di mantenere la situazione vigente ed evitare grossi sconvolgimenti.
Caetano si annunciava portatore di un “rinnovamento nella continuità”, ma alla fine la successione prevalse nettamente sul rinnovamento. Se si prende ad esempio la rinuncia ad una politica aperta verso le colonie, creata per non turbare i “falchi” del regime, si può capire la sua debolezza politica. Paradossalmente, furono simili decisioni a provocare la rivolta militare contro la dittatura; rivolta animata non solo da ufficiali di basso grado, ma anche da alcuni esponenti di alto rango delle forze armate come i generali Costa Gomes e Spínola.
Di fronte alle oggettive difficoltà economiche (vi erano enormi squilibri fra le diverse aree del paese) e ai moti insurrezionali delle colonie pronte a raggiungere la loro libertà anche attraverso la guerra, il governo Caetano resse fino - come detto - al 25 aprile 1974.
“Rivoluzione dei garofani” è la denominazione assegnata all’incruento colpo di Stato che riportò la democrazia in Portogallo. Venne chiamata così per un gesto di una fioraia che in una piazza di Lisbona offrì dei fiori ai soldati che li inseriranno nelle canne dei fucili. L’intento era quello di calmare le truppe governative ed evitare spargimenti di sangue. Il regime dittatoriale che aveva guidato il paese per quasi mezzo secolo era concluso. António de Oliveira Salazar se ne era già andato da quattro anni. Spirò a Lisbona il 27 luglio 1970.
 
Per approfondimenti:
_Adinolfi G., Ai confini del fascismo. Propaganda e consenso nel Portogallo salazarista (1932-1944), Edizioni Franco Angeli.
_Costa Pinto A., Fascismo e nazionalsindacalismo in Portogallo: 1914-1945, Roma: Antonio Pellicani (ed. or. 1994);
_Documenti diplomatici italiani 1994,Ottava serie 1935-1939, vol.V, Roma: Istituto poligrafico e Zecca dello Stato;
_Gentile E., La via italiana al totalitarismo. Il partito e lo Stato nel regime fascista - Edizioni Carocci, Roma 2006
_Martins H. 1968, Portogallo, in: S.J. Woolf (ed.) 1968;
_Payne S.G., Il fascismo. Origini, storia e declino delle dittature che si sono imposte tra le due guerre - Edizioni Newton Compton, Roma
_Torgal L.R. 2009, Estados Novos Estado Novo Edizioni Imprensa da Universidade, Coimbra
_Woolf S.J., Il fascismo in Europa- Edizioni Laterza, Bari
 
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di Davide Quaresima  del 27/09/2016

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Uno dei periodi più tormentati e tesi della recente storia repubblicana del nostro paese: i famosissimi Anni di Piombo.  Videro l’emergere di un movimento terroristico di estrema sinistra dal nome Brigate Rosse. Loro compito era quello di scatenare e guidare la rivoluzione proletaria per scardinare completamente il “dominio” delle multinazionali, in particolare di quelle statunitensi, piantatesi in Italia nel dopoguerra e portare infine a compimento il processo di liberazione nazionale avviato, dal loro punto di vista,  durante la Seconda Guerra Mondiale dai partigiani e mai conclusosi definitivamente per molti esponenti della sinistra del periodo.
I primi fermenti rivoluzionari sorsero nei numerosi circoli intorno alle università e alle fabbriche italiane alla fine degli anni ’60. In quei luoghi si discuteva degli avvenimenti più importanti del periodo come la Rivoluzione Culturale di Mao in Cina o delle imprese di Guevara e Castro in Sud America (e anche dei loro esiti fallimentari). Il tutto alimentato da un pieno di illusioni, speranze e voglia di fare da parte di molti giovani che coincise poi con il ’68.
E’ veramente difficile muoversi nella miriade di movimenti, organizzazioni e associazioni che sorsero in quegli anni, ma, quasi con certezza, si possono ricondurre le radici delle BR ad uno di essi, il CPM (Collettivo Politico Metropolitano). Quest’ultimo, nel 1970, decise di dare una svolta a quelle che erano solo parole. Nei primi mesi dello stesso anno iniziarono a circolare a Milano, nel quartiere Lorenteggio, dei volantini con su scritto “Brigata Rossa”.
Ufficialmente la nascita delle Brigate Rosse (a seguito delle conferme di alcuni ex-militanti) risalirebbe all’agosto del ’70 quando alcuni esponenti dell’estremismo di sinistra provenienti dell’Università di Trento (tra i quali i più famosi Renato Curcio e Margherita Cagol) e alcuni operai e impiegati delle fabbriche milanesi Sit-Siemens e Pirelli, si riunirono a Pecorile, in provincia di Reggio Emilia, per decidere di passare oltre la semplice propaganda e gettarsi sulla lotta armata con la quale, poi, accelerare definitivamente la caduta dell’imperialismo straniero.
Sostanzialmente, tre sono le fasi che caratterizzarono l’attività delle brigate rosse:
• La prima va dal 1970 al 1974 e viene definita di “propaganda armata”, contraddistintasi per attentati dimostrativi e per qualche sequestro;
• La seconda, invece, può esser considerata la più “famosa” e terribile, in quanto gli attacchi vennero diretti proprio contro il “cuore dello Stato”, e va dal 1974 al 1980.
• Infine, abbiamo la fase di divisione e dissoluzione, tra il 1981 e il 1988.
Il vero e proprio momento di svolta può esser ricercato in un biennio, quello tra il 1974-76, in cui molti esponenti delle prime Brigate Rosse vennero arrestati o uccisi.
Fu un momento di importante transizione che vide passare la gestione dell’organizzazione a nuove figure, tra le quali spiccava Mario Moretti, molto più intransigenti e spietati. Da questo momento si inizieranno a notare cambiamenti importanti, in particolar modo riguardo le azioni svolte (il raggio d’azione si amplierà sensibilmente) e la loro strutturazione/esecuzione diventò molto cruenta e puntuale.
[caption id="attachment_6200" align="aligncenter" width="1000"] Maggio 1974, capi delle Brigate Rosse - da sinistra a destra: Piero Morlacchi, Mario Moretti. Renato Curcio e Alfredo Bonavita.[/caption]
Come ho sostenuto in precedenza, gli anni ’60 e ’70 furono due decenni molto intensi e ricchi di avvenimenti nella storia del ‘900, e le Brigate Rosse non furono le sole ad agire nel mondo. Difatti, esse amavano ispirarsi ad altri movimenti ed organizzazioni del periodo come i Black Panthers, Che Guevara a Cuba ed in Bolivia e, in modo particolare, ai guerriglieri uruguayani Tupamaros, da cui “presero in prestito” anche il loro simbolo, la stella asimmetrica a cinque punte. Da loro le BR ebbero molto da apprendere.
Si parlava di lotta armata, o di esercito proletario, ma i primi morti (accidentali per giunta) arrivarono solo nel ’74. A morire furono due esponenti di destra, Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola, freddati dai brigatisti della colonna veneta.
[caption id="attachment_6201" align="aligncenter" width="1000"] 06/11/2015. Scritte a vernice spray, con falce e martello, nella notte in via Zabarella, sul luogo che ricorda i due militanti del Msi Giuseppe Mazzola e Graziano Giralucci uccisi dalle Br. Questo atto dimostra, ancora una volta, la forte diatriba ancor oggi fortemente radicata tra "destra" e "sinistra".[/caption]
Questo evento è, a mio parere, fondamentale per comprendere meglio le dinamiche contrastanti all’interno del movimento brigatista poiché il comitato nazionale delle BR ammonì i propri militanti del Veneto ribadendo che colpire gli esponenti filo-fascisti non era la priorità. L’obiettivo più importante da perseguire era l’attacco al cuore dello Stato. Comprendere la differenza è fondamentale. Oramai siamo di fronte ad un movimento rivoluzionario e clandestino, molto ben organizzato a livello nazionale (con varie colonne sparse per il paese), in grado di assumersi la responsabilità anche di molti morti (ne rivendicheranno in tutto 86) pur di colpire alle fondamenta l’obiettivo principale, lo Stato. Stiamo entrando in pieno negli anni di piombo.
Il periodo successivo sarà ricco di eventi. L’8 settembre 1974 vennero arrestati Renato Curcio ed Alberto Franceschini, due tra i massimi esponenti del movimento. L’azione condotta dai carabinieri del generale Carlo Alberto dalla Chiesa inferse un colpo durissimo alle BR, ma allo stesso tempo consegnò, come ho già accennato in precedenza, la direzione dei brigatisti a Mario Moretti.
Moretti era fra gli esponenti più intransigenti; per lui la propaganda armata era solo una perdita di tempo. L’attacco al cuore dello Stato doveva essere effettuato immediatamente, ed in modo violento.
Nel ’75 Curcio fu liberato. Tra il ’75 ed il ’76 il numero delle vittime dei brigatisti crebbe sensibilmente. A cadere sotto i loro colpi furono tra gli altri il consigliere comunale della DC milanese Massimo De Carolis, il carabiniere Giovanni d'Alfonso, maresciallo Felice Maritano, l'appuntato di Polizia Antonio Niedda, il sostituto procuratore di Genova Francesco Coco (con lui furono uccisi anche i due agenti della scorta), il vice questore Francesco Cusano.
Abbiamo parlato del ruolo di Moretti. Nulla sarebbe stato possibile senza la morte di Margherita Cagol, compagna di Curcio, e il definitivo arresto di quest’ultimo nel 1976. Il “vertice storico” delle BR era oramai acqua passata, molti di coloro che avevano animato giovani studenti ed operai all’inizio degli anni ’70 erano morti o erano stati arrestati. La leadership di Mario Moretti era sempre più preponderante.
Dalle parole si doveva passare ai fatti. Le BR dovevano prendere una decisione nel breve termine. O si attaccava o si era attaccati. Lo Stato e tutti i suoi “servi” dovevano essere colpiti. Tra il ’78 e l’80 il numero di azioni, uccisioni, gambizzazioni e sequestri aumentò in modo esponenziale. I “vertici storici”, i veri teorici delle BR erano in carcere, e le nuove leve erano rappresentate da giovani che poco avevano a che fare con il primo movimento brigatista. Questo aspetto, sommato alla gestione Moretti e all’attività degli organi statali e di polizia sempre più tempestiva ci fa comprendere meglio il generale clima di instabilità e tensione.
Ma l’evento forse più conosciuto (e allo stesso tempo più ricco di aspetti oscuri e mai del tutto chiariti) che per sempre sarà legato nell’immaginario comune alle Brigate Rosse fu il sequestro e l’assassinio dell’On. Aldo Moro. Quest’ultimo fu rapito a Roma in Via Fani il 16 marzo 1978 mentre la sua scorta, composta da 5 uomini, fu eliminata completamente. Moro fu tenuto prigioniero per cinquantacinque giorni creando un vero e proprio caso mediatico. Non era il primo sequestro dei brigatisti, ma era un vero e proprio “colpo allo Stato”.
[caption id="attachment_6203" align="aligncenter" width="1000"] Il cadavere dell'onorevole Aldo Moro viene ritrovato nel bagagliaio di una Renault 4 di colore rossa, rubata il 2 marzo 1978 all'imprenditore Filippo Bartoli nel quartiere Prati.[/caption]
Moro, presidente della DC, stava da tempo progettando un governo più aperto, che tenesse conto anche del Partito Comunista, e molte sono le stranezze e gli aspetti bui che circondano tutt’ora questa vicenda. Il corpo dello stesso Moro venne ritrovato in un auto parcheggiata contromano all’incrocio tra Via Caetani e Via Funari, vicino a via delle Botteghe Oscure e piazza del Gesù, sedi storiche rispettivamente del PCI e della DC.
La pubblica opinione e la politica italiana si scissero tra i fronti della “fermezza” e della “trattativa”; addirittura intervenne lo stesso Papa Paolo VI.
Le scissioni e le crepe si presentarono anche all’interno delle BR tra coloro che volevano da una parte il rilascio dell’ostaggio e dall’altra la sua uccisione. Prevalse la seconda fila con a capo Moretti.
L’uccisione di Moro contrassegnò il punto più “alto” e terribile dell’attività brigatista, ma allo stesso tempo segnò l’inizio della fine. Le separazioni e le divergenze aumentarono e molte furono le critiche dirette contro la direzione Moretti, oramai incapace di gestire operazioni a livello nazionale e di coordinare le varie colonne delle BR. Difatti possiamo parlare di ultima fase delle BR proprio a partire dagli anni ’80, dall’assassinio di Guido Rossa, quando iniziarono addirittura a perdere consensi dal mondo sindacale e dalla sinistra extraparlamentare. Le divisioni iniziarono ad assumere connotazioni ideologiche e il fronte brigatista si spaccò in miriadi di colonne, movimenti e organizzazioni con obiettivi e risultati differenti andando a rappresentare nelle successive azioni, appunto, solo se stessi.
Potremmo sostenere con certezza che, anche se omicidi ed attentati continuarono ad avvenire (in maniera sempre più sporadica), gli anni ’80 segnarono la fine delle Brigate Rosse.
Si è continuato ancora per molto tempo a parlare di loro, addirittura c’è chi parla di Nuove Brigate Rosse nel ventunesimo secolo; ma credo che quest’organizzazione, così temuta e terribile, abbia tratto tutta la sua linfa vitale da un determinato periodo di tempo, con idee, speranze e necessità di cambiare l’Italia (e il mondo intero) su molti aspetti, per poi iniziare a morire corrotta dalla sua stessa voracità.
Un ultimo pensiero lo vorrei rivolgere a tutte quelle persone, tra i quali ci sono magistrati, poliziotti e uomini delle scorte, che hanno cercato di contrastare legalmente questo fenomeno trovando molto spesso la morte durante il loro lavoro, il tutto per consegnare a noi oggi un’Italia migliore.
 
Per approfondimenti:
_Andrea Saccoman, Le Brigate Rosse a Milano. Dalle origini della lotta armata alla fine - Edizioni Feltrinelli
_Paolo Parisi, Il sequestro Moro - Edizioni Feltrinelli
_Pino Casamassima, Gli irriducibili, storie di  brigatisti mai pentiti - Editore Laterza
 
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di Davide Quaresima del 19/06/2016

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Si può iniziare a parlare di Impero Austro-Ungarico dal 1867, ossia dal famoso “compromesso” che la dinasta asburgica fece con il gruppo etnico più solido e coeso fra tutti quelli sotto il suo dominio, ossia quello magiaro. Come mai è opportuno fare questo tipo di precisazione? Perché la storia dell’Impero, che da questo momento avrà come simbolo un’aquila a due teste per rappresentare il suo sistema bicefalo, sarà sempre accompagnata da problemi cronici, che lo costringeranno di volta in volta a siglare accordi e trattati per il mantenimento dello status quo sul territorio. Status quo da mantenere anche a costo di repressioni violente che lasceranno un profondo odio nei cuori della propria multietnica popolazione, fino alla sua caduta giunta dopo la Prima Guerra Mondiale nel 1918.