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di Davide Bartoccini 15/09/2017

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Quando capirà il mondo che nulla è sostenibile nel futuro se non si vuole cambiare davvero rotta alla base?
Viviamo costretti in un limbo di rimorso latente e perenne sotto l’indice mai pago dell’utopia del sostenibile. Dubbiosi se sia giusto acquistare quel succulento filetto di manzo argentino mentre riflettiamo sulle flatulenze che secondo alcuni sono la prima causa d’ingrandimento del Buco dell’Ozono; in delirio da stress davanti ai quattro secchielli colorati imposti dal comune per la ‘differenziata’ - con la paura di commettere lo sbaglio irrimediabile e il terrore che il portiere faccia la spia; praticamente fermi a trenta chilometri orari, in ritardo cronico su macchinine elettriche uscite direttamente da Paperopoli per andare in centro quando c’è il blocco del traffico per la ‘Domenica Ecologica’.
Siamo noi a volerlo davvero? No. È il rimorso che ci fa sentire in dovere di farlo. E la ragione è sempre la stessa: il sogno di un mondo migliore.
Riempirsi la bocca di buoni auspici e rosee prospettive è da decenni hobby preferito di tutto quell’entourage rampante, elitario, e rivoluzionario di post-capitalisti redenti con il pallino per la green economy e commercio equo e solidale che picchettano al grido di : “Salviamo il mondo riciclando le bottiglie di plastica finiscono nell’Oceano in scarpe da ginnastica per le nostre maratone ecologiche, che butteremo nella differenziata”. 
Tutto molto freak. Tutto molto bello. Tutto molto dolce.. e onanistico, e sterile, e fine a se stesso. La popolazione mondiale - che secondo il World Population Clock dello United States Census ammonta a 7,477220 miliardi - da sempre bilanciata nei grandi numeri da guerre, epidemie e stermini, vive nei falsi miti di progresso che auspicano e promettono il giorno in cui pace e prosperità regneranno indisturbate sul tutt'uno sociale, che soave e solidale, si moltiplicherà a dismisura senza tenere conto, nel futuro come nel presente, del collasso del sistema.
Una contraddizione in termini ahimè, che non tiene conto delle capacità già allo stremo di un pianeta, il quale non può più sopportare - in alcuno modo - la presenza ulteriore della piaga biblica dell'essere umano consumista: colui che più del petrolio (in esaurimento) è carburante per il capitale (sempre attivo nel soggiogare nuove tipologie di schiavi).
La mancanza di equilibrio logico nella stragrande maggioranza nell’ideale del sostenibile - estirpata pure la pigrizia figlia dell’egoismo o della disillusione dell’essere - è proprio quella del ‘numero’: come non arrivare al risultato della più prosperità tradotta in più consumismo? Quest'ultimo si materializzerebbe in più emissioni nocive, come fabbriche, allevamenti, automezzi e nella produzione di più rifiuti, i quali sono già ovunque ed infestano il mondo senza posa e senza soluzione.
Se si tiene conto di una vecchia stima fatta da Ericsson, nel mondo ci dovrebbero essere all’incirca 5 miliardi di telefoni cellulari, che negli Stati Uniti vengono sostituiti dal 44% di chi ne possiede ogni 2 anni. Quanti ne verranno gettati ogni anno nel 2050, quando secondo le stime saremo 9,7 miliardi? E quante auto verranno accese con connesse emissioni? Quante accartocciate e stipate in discariche a cielo aperto? Quanti chilogrammi di carne proveniente da allevamenti intensivi per garantire ad un nucleo familiare occidentale il fabbisogno minimo? Quante flatulenze in aumento dunque? Con che conseguenze?
Nel mondo del restyling cronico che induce il consumatore ad avere sempre l’ultima novità, ogni anno, ovunque, si getta il vecchio per il nuovo senza aver ancora trovato una soluzione adeguata allo smaltimento dei rifiuti (oltre 4 miliardi di tonnellate di rifiuti ogni anni). Nel mondo della bugia del progresso, ogni anno il 71% della popolazione mondiale continua a vivere sotto la soglia di povertà senza alcuna speranza di miglioramento a breve termine. Nel mondo reale per ogni piccola sensazionalistica crociata sulla sostenibilità del riciclo dei boiler dell’acqua o delle scarpe passate di moda sponsorizzata da una comunità di vegani molisani, il presidente di una super potenza mondiale non ratifica l’accordo sulle emissioni globali per favorire la propria industria pesante e sopperire alle richieste del consumo e ai prezzi del mercato (se non si vuole tenere conto dei paesi che producono al di fuori dei controlli e da sempre ne sono estranei).
Insomma.. Io potrei continuare per molti più caratteri di quanti ne abbia a disposizione in questa pagina: nel Mondo reale, la verità, è che la vera sostenibilità si può ottenere solo con la riduzione della popolazione. Piaccia o no ai fanatici terrorizzati per il calo demografico.
 
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

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di Davide Bartoccini 14/05/2017

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«Caro Ferrari, lo metta sulle sue macchine da corsa. Le porterà fortuna». E’ il 17 giugno del 1923 , Enzo Ferrari ha 25 anni, è un giovane squattrinato con un passato infelice, ma ha appena vinto la prima competizione della sua vita: il Gran Premio del Circuito del Savio volando su di un’Alfa Romeno Rltf che porta il numero 28.
La contessa Paolina de Biancoli, assiste alla gara e ne rimane entusiasta, nota un’affinità, prova un nostalgico senso materno e gli porge un “cavallino rampante” nero dipinto su un pezzo di tela.
[caption id="attachment_8696" align="aligncenter" width="1000"] Enzo Anselmo Ferrari (Modena, 20 febbraio 1898 – Modena, 14 agosto 1988) è stato un imprenditore, dirigente sportivo e pilota automobilistico italiano, fondatore della omonima casa automobilistica, la cui sezione sportiva, la Scuderia Ferrari, conquistò in Formula 1, con lui ancora in vita, 9 campionati del mondo piloti e 8 campionati del mondo costruttori.[/caption]
La tela proviene da uno SPAD S.XIII, un biplano da caccia, quello ch’era di suo figlio, Francesco Baracca, l’asso degli assi. Lo aveva fatto dipingere sulla fusoliera alla sua quinta vittoria, quando divenne asso nel 1916 durante la Grande Guerra, volando per la 91^ Squadriglia, detta “Squadriglia degli Assi”, dove erano stati riuniti tutti i migliori piloti del Regio Esercito.
Francesco Baracca è stato il più importante pilota italiano del primo Novecento. Aviatore abile e coraggioso, idolo delle folle e sogno di moltissime donne, Baracca divenne presto un mito: "Quando volo, soprattutto quando sto duellando con il nemico, la mia mente è vuota, libera, non pensa. Agisco d'istinto, rovescio l'aereo, lo faccio scivolare d'ala, lo metto in vite, lo richiamo".
A Pinerolo, dal 1909 al 1910, Francesco Baracca frequenta la scuola di cavalleria presso il 2° Reggimento “Piemonte Reale” fondato nel 1692 dal duca di Savoia col motto “Venustus et Audax”. Si tratta di uno dei più prestigiosi reparti dell’esercito italiano e come stemma araldico porta il cavallino rampante argenteo su campo rosso, guardante a sinistra e con la coda abbassata. Francesco Baracca sceglie di adottare, apportando delle varianti, lo stesso stemma del “Piemonte Cavalleria” quale emblema personale per rivendicare le personali origini militari e l'amore per i cavalli. Il cavallino non appare sui primi aerei pilotati dall’Asso degli assi, ma solo a partire dal 1917 quando viene costituita la 91^ Squadriglia Aeroplani, reparto che avrà in dotazione i più recenti caccia forniti dall’alleato francese: il Nieuport 17 ed alcuni SPAD VII e XIII.
Sul lato destro della fusoliera di questi velivoli i piloti usano applicare le loro insegne personali e Baracca adotta come proprio questo cavallino rampante mutandolo da argenteo in nero per farlo spiccare maggiormente rispetto al colore della fusoliera. E’ ormai provato che il cavallino è sempre stato nero, però guardante verso destra, come è testimoniato da un pannello multistrato dipinto, esistente nelle collezioni, sicuramente antecedente la morte di Baracca.
Rientrato in Italia nel luglio del 1915, esegue voli di pattugliamento ed ottiene la prima vittoria il 7 aprile 1916 ai comandi di un Nieuport con il quale abbatte un Aviatik austriaco. Per le sue azioni di guerra, riceve una medaglia di bronzo, tre d’argento, la croce di cavaliere dell’ordine militare di Savoia, la croce di cavaliere ufficiale della Corona Belga, ed infine la medaglia d’oro, con la quale viene premiato per l’abbattimento del trentesimo aereo nemico sul monte Kaberlaba, sull’altopiano di Asiago.
[caption id="attachment_8702" align="aligncenter" width="1000"] Francesco Baracca (Lugo, 9 maggio 1888 – Nervesa della Battaglia, 19 giugno 1918) è stato il principale asso dell'aviazione italiana e medaglia d'oro al valor militare nella prima guerra mondiale, durante la quale gli vengono attribuite trentaquattro vittorie aeree.[/caption]
Purtroppo, il 19 giugno del 1918, rimase ucciso durante una missione di mitragliamento a bassa quota delle trincee austro-ungariche nei pressi di Montello, lungo la linea del Piave, forse da un cecchino, forse da se stesso, con un colpo di rivoltella alla tempia, come era abitudine dei piloti da caccia per non morire bruciati nei loro aerei una volta abbattuti. Aveva 30 anni.
Tornando al giovane Ferrari, questi accettò, anche non sapendo ancora bene come impiegare il cimelio. A quel tempo correva come gentleman-driver, e guidava le Alfa Romeo, che uno stemma già lo avevano.
Questo non lo dissuase però. L’anno seguente fondò una società con lo scopo di comperare automobili da competizioni Alfa, modificarle e competervi nel calendario nazionale delle gare sportive. Il 9 luglio del 1932 il cavallino rampante trovò nuovamente il suo posto, sfrecciando alla 24 ore di Spa-Francorchamps su un fondo giallo – colore modificato dall’originale bianco in onore della sua città natale: Modena. Ferrari fonderà su di esso il suo emblema.
La conoscenza dei telai automobilistici e il suo sconfinato amore per le auto da corsa porteranno alla nascita la ”Scuderia Ferrari” solo nel 1947 – ormai spostasi a Maranello per paura dei bombardamenti – dando inizio ad una leggenda dell’automobilismo.
La scuderia competé al Gran Premio di Monaco nel 1950 e al primo Gran Premio di F1 l’anno seguente. Il resto è storia che conoscerete meglio di me.
Riguardo all’origine dello stemma, che Baracca scelse, e che oggi grazie a Ferrari tutto il mondo conosce e ci invidia, ci sono due ipotesi. La prima che sia una stilizzazione dello stemma del 2′ Reggimento Cavalleria “Piemonte Reale”, al quale Baracca apparteneva. A quel tempo infatti i primi aviatori, come i primi carristi, erano inquadrati nella cavalleria. La seconda invece sarebbe riconducibile alla cavalleria nella pura accezione del virtuosismo del termine. I primi aviatori divenivano assi al quinto avversario abbattuto, e come segno di rispetto per onorare l’avversario dipingevano l’insegna dell’ultimo sul proprio aereo. L’ultimo avversario di Baracca fu un Albratros B.II e le origini di Stoccarda del suo pilota avrebbero motivato l’utilizzo del simbolo della città: la giumenta. Questo ricondurrebbe anche alle iniziali presenti sotto il cavallino S. F. Stuttgart Ferrari.
Come molti grandi legati a doppio filo dalla storia, Francesco Baracca ed Enzo Ferrari non si sono mai conosciuti. Chissà se avrebbero legato. Eppure qualcosa in comune lo avevano: con le macchine inventate dall’uomo “volavano” forte, abbastanza forte da rendere tutta la nazione, che in tempi non sospetti si chiamava patria, fiera di loro, per sempre.
 
 Note: si ringrazia il giornale online "Storie di Guerra"
 
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di Davide Bartoccini 20/02/2017

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Nel limpido cielo di Tobruk, fondamentale e indaffarata città portuale della Cirenaica libica, un solitario aeroplano rompe l’aria con le sue pale veloci nel tardo pomeriggio del 28 giungo 1940. La sua fusoliera, che nel culmine si accentua in una ‘gobba’ - particolarità che gli varrà il soprannome da parte inglese di ‘Gobbo maledetto’ (Damned Hunchback) per tutta la durata della conflitto - è quella di un S.M. 79 ‘Sparviero’: un capiente trimotore prodotto dalla Savoia-Marchetti impiegato dalla Regia Aeronautica con diversi compiti, da aerosilurante ad aereo da trasporto. Ai suoi comandi c’è un uomo importante, un italiano eccellente, un aviatore di chiara fama noto in tutto il mondo per le sue trasvolate; si chiama Italo Balbo, ha 44 anni, è stato investito dal Capo del Governo Benito Mussolini del titolo di ‘quadrumviro del Fascismo’, è governatore della Libia, ed è un personaggio molto amato in Italia -  forse troppo - sicuramente abbastanza da essere bollato come personaggio scomodo al Duce. Per questo è stato spedito a Tripoli già dal 1934 per trascorrere un altisonante esilio: esotico, rispettabile, ma pur sempre esilio.
Mentre toglie manetta e perdere quota per ingaggiare la verticale di Tobruk, quando la pista d’atterraggio è ormai prossima, Balbo e il suo secondo, Nello Quilici, notano del fumo nero che si alza dalle installazioni di cui il porto così ben protetto in quella insenatura naturale è costellato. È merito di un incursione di Bristol Blenhien inglesi: bombardieri bimotori di stazza inferiore allo Sparviero, ma dalle linee simili. Confondibili dagli occhi inesperti degli ufficiali del ponte dell’incrociatore San Giorgio che vedono l'aviatore emiliano avvicinarsi e danno ordine maledetto: “Fuoco!”.
Le Batterie contraeree riempiono il cielo appena tornato calmo sopra Tobruk. I pezzi da 100/47 del San Giorgio proiettano shrapnel a secchiate, le mitragliatrici Breda delle postazioni anti-aeree tutto intorno al porto sparano traccianti all’impazzata. Sono tutti diretti sull’indifeso e solitario trimotore che si avvicina in pace e che non ha alcuna radio a bordo. Non lo prendono. Nessuno a bordo si accorge inizialmente, ma poi abbassandosi sulla pista i colpi si avvicinano, il bersaglio si rende nitido. I colpi lo raggiungono. I motori vengono avvolti dalle fiamme, le ali si lacerano e la palla di fuoco si schianta a terra senza lasciare superstiti. Italo Balbo è morto. Vittima di un errore o di un complotto? Non lo sapremo mai.
[caption id="attachment_7895" align="aligncenter" width="1000"] Gli anni venti sono gli anni dei primi saloni aeronautici internazionali, delle trasvolate aeree e degli innumerevoli record di volo e di distanza compiuti dall'aeronautica italiana. Nella foto Secondo Mona con Italo Balbo.[/caption]
Nato nell’ultima decade del XIX secolo - 1896 - Balbo è stato allevato come un monarchico da suo padre, maestro di scuola elementare, ma per simpatia o per animo sostiene fin da giovanissimo le idee repubblicane.
Parte volontario giovanissimo per la Prima Guerra Mondiale che imperversa contro la confinante Austria-Ungheria e viene rispedito a casa. È un personaggio istrionico. Dopo essere alpino, insignito di diverse onorificenze al valor militare diviene un ‘Ardito’. Nel 1920 diventa leader dello squadrismo fascista nel ferrarese. Giovane irrequieto, si guadagna con una "violenza dosata" un posto di primo piano nel movimento fascista, che per un nazionalista - a riposto come lui -  si rivela provvidenziale. Partecipa alla Marcia su Roma del 1922, e il Partito Nazionale Fascista si rende volano perfetto per lasciarlo divenire chi desiderava essere: un uomo pubblico, un uomo da rispettare.
Balbo rispetta il leader del partito Benito Mussolini, ma non si risparmia nel criticarlo e alle volte nell’osteggiarlo, addirittura nello schernirlo amichevolmente. La sua ambizione lo porta a desiderare un ruolo da delfino del futuro Duce.
Ma il maestro di Predappio lo teme, e preferisce porlo immediatamente a capo della neonata Aeronautica nel 1929 - per non rischiare che la personalità del Balbo lo metta in ombra. Esso si rivela un errore inaspettato; perché saranno proprio le ali a renderlo l’italiano più famoso nel mondo in quegli anni.
Maresciallo della Regia Aeronautica, riorganizza l’aviazione italiana all’insegna dell’aeroplano, accantonando la tecnologia del dirigibile presa in grande considerazione. Nel 1930, dopo aver raggiunto le coste di Grecia, Turchia, e perfino Russia nelle sue prime trasvolate, organizza la prima Crociera Aerea Transatlantica: 12 idrovolanti Savoia-Marchetti S.55 in direzione Rio de Janerio, Brasile. La missione sarà un successo planetario, ma è la ‘Trasvolata del Decennale’ del 1933 a consacrarlo come aviatore leggendario. Dalle acque della laguna di Orbetello, il Maresciallo Balbo spicca il volo alla volta di Chicago. Seduto al comando del suo S.M 55X da contatto, solca le onde tenui e sale in aria. Mancano 19.000 chilometri alle Americhe. Il 15 luglio giunge con i suoi 25 idrovolanti a Chicago.
[caption id="attachment_7890" align="aligncenter" width="1000"] Il Savoia-Marchetti S.55 fu un idrobombardiere/aerosilurante bimotore prodotto dall'azienda italiana Savoia-Marchetti dagli anni venti e protagonista per un decennio in svariati ruoli nella Regia Aeronautica. Autore di celebri trasvolate oceaniche, divenne uno dei simboli dell'aeronautica militare e del progresso tecnologico italiano nei primi anni del regime fascista.[/caption]
La folla lo accoglie in tripudio. Balbo, con i suoi discorsi carismatici, con il suo pizzo da moschettiere, con il suo fare spavaldo è uno degli italiani più famosi al mondo.
Fascinoso aviatore, uomo mite ma deciso, diviene scomodo a Benito Mussolini: geloso della fama del trasvolatore e spaventato dalla sua naturale propensione ad essere acclamato per ogni progetto decida di intraprendere. Balbo è tra l’altro l’unico gerarca che tratta il Duce come un suo pari: a differenza degli altri, non lo teme.
Il 16 ottobre del 1933 il maestro di Predappio trova un modo per defenestrarlo: lo dimette dal ruolo di ministro dell’Aviazione e lo spedisce nell’inospitale Libia, una provincia dell’Impero dove è stato scelto come governatore.
È un esilio mascherato. Ma presto Balbo trasformerà anche questa nuova sistemazione in un nuovo successo mediatico. Nel 1934 smantella i campi di concentramento italiani, libera i prigionieri dalle carceri, costruisce strade, impianti d’irrigazione, villaggi. Porta in Libia 20.000 italiani per colonizzarla e Mussolini, ancora una volta, nasconde una malcelata invidia. Aprendo una piccola parentesi sulla mentalità dietro il colonialismo italiano di stampo nazionalistico, dobbiamo considerare come il Regno d'Italia sia stato uno dei paesi coloniali europei che più di tutti ha edificato in terrà coloniale (essendo presente a livello temporale molto poco). La ragione era semplicemente una: si aveva l'obiettivo di preparare la colonia ai proletari italiani che - secondo il disegno di Mussolini  - dovevano vivere nelle nuove terre africane, secondo uno stato agrario. Dunque nessun atto di bontà verso la popolazione indigena, ma un disegno lucido, il quale in seconda battuta portò innovazione ai libici, come a tutti i paesi dell'Impero italiano. Il colonialismo italiano, era distante da quello "commerciale" britannico poichè si ispirava al modello francese, il quale prevedeva che il governo dello stato in questione fosse presieduto da un europeo e fossero presenti forti contingenti di truppe nazionali. Il colonialismo commerciale di stampo britannico aveva - di contro - grossi sconti sulle materie prime, ma lasciava l'attività politica ai nativi, seppur strettamente gestiti e controllati. Il nostro governatore avvertì come, invece, la concessione di pari diritti agli indigeni avrebbe favorito l'integrazione, posta al sogno dell'Impero italiano. 
Questi nel 1937 riesce nell'impresa di concludere i lavori della strada nota come "Litoranea libica", rinominata in suo onore dopo la sua morte in "Via Balbia". Il maresciallo incaricò l'architetto Florestano Di Fausto, il quale progettò ed edificò nella Sirtica - al confine fra la Tripolitania e la Cirenaica - una grande opera architettonica celebrativa: l'ormai dimenticato arco dei Fileni. Il manufatto presentava nell'unico fornice, due colossi in bronzo raffiguranti i fratelli Fileni, leggendari eroi cartaginesi con la struttura in stile razionalista littorio. Sopra l'arco vennero collocati in una nicchia orizzontale due colossi bronzei - ritratti come sepolti vivi - sovrastati da un frontone a tre strati sovrapposti -  distinti da altrettante cornici - a simboleggiare gli strati di terreno, sotto i quali vennero seppelliti i Fileni, sui quali campeggiava la seguente iscrizione tratta dal "Carmen saeculare" di Orazio: «Alme Sol, possis nihil urbe Roma visere maius»; «O almo Sole, tu non vedrai nessuna cosa al mondo maggiore di Roma». La scritta fu fatta tradurre in arabo da re Idris I di Libia.  Sulla sommità dell'arco era posizionata un'ara che rappresentante la leggenda cartaginese. L'arco serviva come punto di riferimento per la lunghissima litoranea della costa.
Il successo mediatico è troppo, Balbo, seppure distante, resta un problema da prima pagina. La tensioni proseguono durante l’intervento italiano nella guerra civile spagnola cui Balbo era avverso, e nell’alleanza intrapresa con il cancelliere Adolf Hitler.
[caption id="attachment_7891" align="aligncenter" width="1000"] Nelle foto di sinistra: L'arco dei Fileni, conosciuto anche con il nome di El Gaus, fu un arco costruito sulla via Balbia al confine tra Tripolitania e Cirenaica nella Libia italiana (oggi Libia). E' stato smantellato e distrutto sotto il regime di Gheddafi. Nella foto centrale, raro scatto dell'Arco dei Fileni con la via Balbia: il setto stradale che costeggiava tutta la costa libica, dal confine con la Tunisia a quello con l'Egitto. Nella foto di destra: 1938 Italo Balbo - governatore della Libia - mostra a Sua Altezza Imperiale Vittorio Emanuele III la capitale Tripoli.[/caption]
Culmine dello scontro saranno le leggi razziali che Balbo trascurerà sempre con lucida consapevolezza. Rimarrà noto l’episodio con cui sfiderà il Fascismo in onore del suo amico d’infanzia Renzo Ravenna, podestà di Ferrara di origine ebraica. Dopo la sua destituzione, lo invitò a pranzo per festeggiarlo, e giunto dinanzi il miglior ristorante di Ferrara - dove un ebreo non sarebbe potuto entrare - sferrò un calcio alla porta spalancandola e disse prendendo sotto braccio il vecchio amico: “Adesso vediamo se non ci fanno entrare”. Difatti poco prima dell'entrata in vigore nel 1938, il governatore della Libia scrisse una nuova proposta per integrare le popolazioni indigene "italiane" in un grande disegno che riprendeva chiaramente quello dell'integrazione dell'antica Roma: pari diritti sociali e soprattutto culturali, così come fu anche la tesi di laurea di Amedeo di Savoia Duca d'Aosta. 
All’entrata nel secondo conflitto mondiale dell’Italia, il 10 giungo 1940, Balbo risponde prontamente anche se non concorde. È pronto a combattere gli inglesi in Egitto e in tutto il Nord Africa. Torna nella Regia Aeronautica e anche se è sconsigliato per un alto rappresentate del Pnf (partito nazionale fascista), decide di esporsi al rischio della prima linea. Appena 18 giorni dopo lo scoppiò delle ostilità con gli inglesi, Balbo decide di muovere una sortita oltre le linee per sorprendere e catturare delle autoblindo britanniche. Decolla da Derna in compagnia di un altro velivolo omologo al suo: un trimotore Savoia Marchetti siglato I-MANU - in onore di sua moglie, la contessa Emanuela Florio. Arrivato sulla verticale di Tobruck senza poter avvertire la base dove intende fare tappa per rifornirsi, si abbassa a livello del mare, spensierato, sorridente, irrequieto per l’azione che si avvicina. Ma la scelta gli sarà fatale.
La morte di Balbo il 28 giugno 1940 rimase a lungo avvolta dal mistero. Corrotta dall’ipotesi che il tragico errore fosse stato in vero una cospirazione macchinata dal Duce per eliminare un possibile futuro antagonista e un personaggio orami non più allineato alle logiche del regime. Quell’uomo, Italo Balbo, che anche il nemico si sentì di dover onorare, sorvolando il deserto africano e paracadutando un involucro con che tra i fiori custodiva il messaggio: «Le forze aeree britanniche esprimono il loro sincero compianto per la morte del Maresciallo Balbo, un grande condottiero e un valoroso aviatore che la sorte pose in campo avverso».
Se vi capita di passare per Orbetello, dove l’esile lingua di terra oggi collega lo splendido promontorio dell’Argentario all’italico continente, affacciatevi oltre le ringhiere orlate di ruggine e fregiate d’ali del ‘Parco delle Crociere’, dove oggi riposa ancora il ricordo di Italo Balbo: aviatore italiano che tutto il mondo ricorda, e che Benito Mussolini seppur tronfio d’ego ricordò essere: “L’unico uomo che forse, avrebbe potuto ucciderlo”.
 
Per approfondimenti:
_Giordano Bruno Guerri, Italo Balbo - Edizioni Bompiani
_Daniele Lembo, La Libia Italiana. Italo Balbo, l'esercito dei ventimila e la colonizzazione demografica della Libia - Edizioni IBN
 
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di Davide Bartoccini del 22/11/2016

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Eccentrico, brillante, folle; possedeva un cucciolo di leone prelevato dallo zoo di Berlino che portava sempre con se come mascot: Simba. Finì su decine di copertine di giornali dell’epoca, cosa che lo rese eccessivamente vanitoso, e il suo tentativo di fuga divenne leggenda. I suoi anni di guerra sono la sceneggiatura perfetta per un film di Hollywood. E infatti un film fu girato: Sfida agli inglesi del 1957.
[caption id="attachment_6894" align="aligncenter" width="1000"] Franz von Werra (Leuk, 13 luglio 1914 – Vlissingen, 25 ottobre 1941) è stato un aviatore tedesco che prestò servizio nella Luftwaffe durante la seconda guerra mondiale.[/caption]

Il Barone Franz von Werra, che si era arruolato nel 1939 con la Luftwaffe e aveva fin da subito partecipato alla campagna polacca: dove condusse la sua prima missione di mitragliamento a terra, appartenendo alla squadriglia tedesca della Jagdgeschwader 3 (JG/3). Il 19 maggio del 1940 il suo stormo, che era stato trasferito sul fronte occidentale. Qui si scontrò per la prima volta con un gruppo di Hurricane della Belgian Air Component incontrati nei cieli di Arras, nei pressi del Pas de Calais.

In quell’occasione von Werra mietè la sua prima vittima. Sempre nei pressi di Arras, una settimana dopo abbattè il suo prima aereo confermato: un Hurricane della RAF. Venne abbattuto il 5 settembre del 1940 dallo Spitfire del P/O Stapleton appartenente al 603° Sqd. (o secondo un’altra versione dall’australiano Paterson Hughes del 234° Sqd.) mentre volava sul suo BF-109, durante una missione nei cieli di Marden nell’Inghilterra meridionale. In seguito all’atterraggio di fortuna che ne preservò la vita, venne catturato dall’esercito inglese, condotto e interrogato al Kensington Palace a Londra e tradotto al campo per prigionieri di guerra di Grizedale Hall, nel Distretto dei Laghi.
Il 7 ottobre tentò la prima evasione, con scarso successo, motivo per il quale in novembre venne trasferito nel più sicuro campo di Swanwick, nei pressi di Derbv.
Inteso a evadere a tutti i costi, intraprese diversi tentativi di fuga, che si risolsero sempre in fallimenti, più o meno brillati. Il più celebre e rocambolesco lo vide spacciarsi, una volta evaso, per un pilota olandese (dunque alleato) che era stato vittima di un incidente in volo durante una missione di massima segretezza su di un bombardiere Wellington. Sotto il nome di Capitano Albert van Lott - necessaria copertura per giustificare il suo accento da “crucco” - indossò una tuta che si era fatto modificare da un altro detenuto, sarto da civile, facendosi accompagnare dalla polizia inglese al più vicino campo d’aviazione (Hucknall, Nottinghamshire), dove tentò di rubare un aereo in rullaggio sulla pista, un Hawaker Hurricane Mk.II, per poter tornare in Germania. Nello stesso frangente, obiettivo del barone, era quello di portare a termine - con inaspettato successo - una rocambolesca operazione di spionaggio sugli apparecchi avversari. Fermato mentre era in procinto di decollare dal maggiore Boniface, che saltò sull’ala impugnando la sua revolver d’ordinanza, venne trasferito via mare in Canada dove tentò nuovamente la fuga. Durante un trasferimento in una struttura di prigionia ad Halifax, saltò giù dal treno dei detenuti, riuscendo a nascondersi per giorni. Percorse a piedi 48 km, fino al fiume San Lorenzo, il quale fu attraversato approfittando del ghiaccio per raggiungere gli Stati Uniti, all’epoca ancora neutrali. Gli USA lo espulsero clandestinamente in Messico, di lì viaggio in treno: in Perù e successivamente in Brasile.
L’ambasciata tedesca lo fece rimpatriare. Tornò in Germania da eroe: il 18 aprile venne promosso al grado di Hauptmann dal Fürher in persona. Riprese a combattere durante l’invasione dell’Unione Sovietica al comando del I°/JG 53° equipaggiando con i Bf-109F finché il 25 ottobre del 1941 , a causa di un guasto al motore, precipitò nel Mare del Nord neo pressi di Vlissingen, per non essere più ritrovato. Franz von Werra, 22 vittorie accreditate, insignito della Crocie di Cavaliere di 1° classe, passò alla storia come l’unico pilota tedesco ad essere evaso da un campo di prigionia britannico.
Quando il maggiore Boniface lo fece scendere dall’Hurricane, puntandogli contro la canna della sua rivoltella "Webley", Von Werra gli disse che avrebbe scommesso una stecca di sigarette e che prima o poi sarebbe riuscito a tornare in Germania. L'inglese rilanciò scommettendo contro una bottiglia di champagne. Mentre von Werra era in Brasile, in procinto di tornare e imbarcarsi per l’Europa, si ricordò della scommessa vinta e inviò una cartolina alla base RAF di Hucknall: il destinatario era lo Squadron Leader Boniface, il quale gli doveva una bottiglia di champagne.
 
Per approfondimenti:
_Palmiro Boschesi, Il chi è della Seconda Guerra Mondiale, vol. 2 - Edizioni Mondadori 1975
 
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Ci sono uomini che, per carisma e fortuna, per puntualità e coraggio, segnano con le proprie vite i loro tempi; e vi sopravvivo in eterno, nella memoria dei posteri e dei posteri che verranno.
È questo il caso di Indro Montanelli, il principe del giornalismo italiano, che per destino o per condanna - proprio lui amava dipingersi come "un condannato al giornalismo", poiché, "non avrebbe saputo fare niente altro" - ci ha raccontato attraverso la sua penna quel mondo così indaffarato nei suoi più imponenti cambiamenti.
Dalle cariche al comando degli àscari nei deserti dell'Abissinia, alla resistenza nel rigido inverno finlandese passato sotto le bombe dell'Armata rossa, dagli amori ampezzani con la principessa Maria Josè, alla condanna a morte per diretto volere delle SS; Montanelli, nato allo scadere della prima decade del XX secolo, si spense nell'estate del primo anno del nostro avveniristico XXI secolo.
Egli è stato testimone invidiabile e narratore puntuale di quel '900: così pieno di conflitti e di cambiamenti, così colmo di ideologie e divisioni, che tutti noi abbiamo studiato nei libri di storia, e che lui, sempre in prima linea, ha abitato con indomabile passione.

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di Davide Bartoccini del 27/06/2016

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Ditemi che ho sbagliato una battuta, ma non una cravatta.”
Affermava sicuro e vanitoso l’attore David Niven . Lui, emblema di quell’eleganza puramente britannica che non c’è più, possedeva ben tre stanze di cravatte, che venivano ordinatamente suddivise per toni di colore e fantasie. Ma facciamo un passo indietro, e vediamo dove trova le proprie origini questo vezzo tutto maschile. Uno degli ultimi e pochi simboli d’eleganza tenuti in voga dalla barbara contemporaneità.

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di Davide Bartoccini del 25/06/2016

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“Non tutti gli uomini sognano allo stesso modo, coloro che sognano di notte nei ripostigli polverosi della loro mente, scoprono al risveglio la vanità di quelle immagini, ma quelli che sognano di giorno sono uomini pericolosi perché può darsi che recitano i loro sogni ad occhi aperti per attuarli…fu ciò che io feci … Io intendevo creare una Nazione nuova, ristabilire un’influenza decaduta, dare a venti milioni di Semiti la base sulla quale costruire un ispirato palazzo di sogni per il loro pensiero nazionale”.
Thomas Edward Lawrence, I sette pilastri della saggezza.