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di Danilo Sirianni del 01/05/2018

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Vi sono personaggi eterni le cui gesta sono capaci di far intimidire i miti più arditi, individui profondamente inattuali, figli di epoche remote e araldi dellʼavvenire, la cui storia non sarà mai riducibile alla mera biografia. A risiedere nellʼOlimpo di queste grandi personalità, nellʼepoca antica, vi è indubbiamente la grande filosofa, matematica e astronoma Ipazia di Alessandria (370 d.C. ‒ 415 d.C.).
La storia di Ipazia comincia molti secoli prima della sua nascita. La sua formazione culturale, di fatto, è da cercarsi nel passato, tra il VII e il VI secolo a.C., in quel Talete di Mileto che diede inizio al pensiero filosofico, per poi passare alle influenze delle teorie di Anassimene, Anassimandro, Ecateo, Anassagora, Pitagora, Eraclito, Democrito, Platone, Aristotele, Aristarco, Eratostene, fino a culminare nella corrente di pensiero del neoplatonismo.
[caption id="attachment_10216" align="aligncenter" width="1000"] Charles William Mitchell - La morte di Ipazia - 1885[/caption]
Prosecutrice di questi grandi pensatori, vive un presente molto complicato. Nasce poco prima che Alessandria dʼEgitto divenisse parte del nuovo Impero romano dʼOriente (395 d.C.), in un contesto socioculturale pieno di tumulti politici e religiosi perché erede dellʼeditto di Mediolanum del 313 d.C. dellʼimperatore Costantino Magno, il quale conferì pieni poteri al cristianesimo restituendo ai suoi membri tutti i beni confiscati in precedenza dai persecutori romani.
È possibile considerare la figura di Ipazia, a livello cronotopico, come il cosiddetto pesce fuor d’acqua, in primo luogo perché è una donna e la considerazione delle donne, in quel periodo, e in una certa misura anche nei tempi moderni, risente ancora dei costumi macisti che la cultura greca ha praticato fin dallʼetà arcaica. Già il poeta Esiodo, nelle Opere e i giorni, rivolgendosi al fratello Perse, non mancava di etichettare la donna come un essere malvagio dal quale bisognava prendere le dovute cautele: «Né una donna che si agghinda il deretano tʼinganni il cuore sussurrandoti carezzevoli parole e osservando la dispensa. Chi si fida di una donna si fida di un ladro» . Nella cultura greca le donne avevano pochi diritti ed erano confinate nelle mura dellʼοἶκος. La loro vita, tranne che per le sacerdotesse, era quasi completamente incentrata sul matrimonio e sullo sviluppo della prole.
Il matrimonio è il fulcro della condizione femminile. Esso conferisce alle donne delle comunità civiche un titolo basilare di riconoscimento sociale. Si tratta di un passaggio fondamentale dellʼesistenza, un imperativo al quale ogni giovane donna deve sottostare, e al quale potrà essere sottratta solo da una morte prematura. La sua educazione, sotto la guida di una madre e sotto lo sguardo, per non dire la tutela, di una città, è finalizzata a prepararla a questo passo. La parthenos, femmina senza ancora essere donna, si perfezionerà nella maternità, lo scopo dellʼunione coniugale.
Ma a Ipazia non interessavano i figli e il matrimonio, i suoi unici interessi riguardavano la scienza, la filosofia, il sapere. Ella, di fatto, faceva parte di quella inconsueta, inconsistente e scandalosa categoria di donne filosofe. Ci sono poche testimonianze di filosofe dellʼantichità, una fonte importante è Giamblico che «elenca 17 donne tra i 235 discepoli del maestro» Pitagora, la cui scuola è considerata la prima «a incoraggiare le donne a studiare filosofia».
Le donne pitagoriche più famose furono le seguenti: Timycha, moglie del crotoniate Myllias, Philtys, figlia del Crotoniate Theophiris, sorella di Byndakò, Okkelò ed Ekkelò, sorelle dei Lucani Okkelos e Okkilos, Cheilonis, figlia del Lacedemone Cheilon, la Lacedemone Kratesikleia, moglie del Lacedemone Kleanor, Theanò, moglie del Metapontino Brotinos, Myia, moglie del Crotoniate Milon, lʼArcade Lastheneia di Fliunte, Tyrsenìs di Sibari, Peisirrode di Taranto, la Lacedemone Theadusa, Boiò e Babelyka di Argo, Kleaichma, sorella del Lacone Autocharida. Esse furono in tutto diciassette. Oltre alle donne della scuola pitagorica ci sono pochissime altre donne che si possono annoverare nella storia della filosofia antica.
In epoca classica non sono molte le donne sapienti che compaiono nellʼentourage dei filosofi. Non è conosciuta nessuna discepola di Socrate, e sua moglie Santippe sicuramente non fa parte della categoria. Tra gli allievi di Platone e Speusippo, suo successore nellʼAccademia, sono stati tramandati due nomi di donne, Lasteneia di Mantinea e Assiotea di Fliunte. Questʼultima, stando a Diogene Laerzio (lʼautore delle Vite dei filosofi), si sarebbe travestita da uomo per seguire lʼinsegnamento dei suoi maestri. Non cʼè da stupirsi che non compaia nessuna donna tra i fedeli di Aristotele. In definitiva, lʼunica filosofa dellʼepoca classica alla quale viene prestata qualche attenzione [...] è Ipparchia di Maronea, compagna di Cratete il cinico. [...] Non è chiaro, infine, se si debba collocare nella categoria delle filosofe anche Leonzio, attiva nella cerchia dei discepoli di Epicuro. [...] È difficile farsi unʼidea delle competenze di queste figure, dal momento che le fonti insistono ad nauseam sulle loro storie personali e aneddotiche, trascurando invece di informarci sul loro sapere. Prima di essere filosofe, sono soprattutto donne, e la loro sophia non viene riconosciuta volentieri.
È abbastanza chiaro come Ipazia fosse alquanto svantaggiata in un mondo in cui la donna era considerata in maniera così marginale. Ma il suo genere sessuale non è lʼunico motivo per cui essa è da considerare un pesce fuor dʼacqua del suo tempo.
In secondo luogo, di fatti, coltivare la filosofia, la scienza e il pensiero libero in un periodo e in un luogo in cui le persone non dovevano più aspirare a crescere nella conoscenza, quanto, piuttosto, ad accettare la rivelazione e a coltivare la fede in un dio imposta dai patriarchi, era molto pericoloso sia per le donne che per gli uomini. Il rapporto tra sapere e fede era molto complicato, pieno di idiosincrasie, diverbi, intolleranze. Da una parte vi erano i pagani cosmopoliti che dopo secoli di attività persecutoria desideravano una pacifica convivenza tra diversi culti; dall’altra vi erano i cristiani che dopo un’era di persecuzioni e umiliazioni rispondevano negativamente, predicando la superiorità del loro culto e ordinando la sottomissione e la conversione al cristianesimo a tutti coloro che non ne facevano parte.
Già a partire dal primo secolo era possibile notare questo fortissimo contrasto. Paolo di Tarso (poi divenuto San Paolo, lʼapostolo delle genti) nella prima lettera ai corinzi scriveva: Distruggerò la sapienza dei sapienti e annullerò l’intelligenza degli intelligenti. Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto? Dov’è il sottile ragionatore di questo mondo? Dio non ha forse dimostrato stolta la sapienza del mondo? Poiché infatti, nel disegno sapiente di Dio, il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio salvare i credenti con la stoltezza della predicazione. Mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio. Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini.
Secondo le parole di San Paolo la religione e la ragione non solo sono inconciliabili, ma sono addirittura in opposizione. Il sapiente è uno stolto perché con la sua ricerca contrasta la fede incondizionata nel dio creatore. Ma San Paolo sembra non tener conto della profonda contraddizione presente in questa visione, cioè nella concezione del disegno di un dio che consegna agli uomini il libero arbitrio e, al contempo, soffoca a loro la libertà di scelta e di culto. La lettera di San Paolo, dunque, a partire dal I secolo d.C., mette in evidenza il problematico rapporto fra fede e ragione. Un secolo più avanti, in netta opposizione a San Paolo, gli “gnostici” e Tertulliano, con il suo “montanismo”, provano a dare una risposta allʼinterrogativo riguardante il rapporto fede-ragione sostenendo l’ascesi mistica e rigorosa verso la “conoscenza intellettiva” che solo alcuni eletti possono raggiungere attraverso l’otium, indispensabile a coltivare le risorse dello spirito. Ma le loro posizioni erano nettamente antievangeliche e perciò eretiche. In seguito, prima della conversione di Costantino imperatore, nel IV secolo, vennero promulgati gli Editti di Diocleziano che misero in atto la più cruenta persecuzione contro i cristiani. Poi la conversione. L’Editto di Milano di Costantino nel 313, seguitato nel 380 d.C. dall’Editto di Tessalonica con cui Teodosio il Grande elevava il cattolicesimo a religione ufficiale dellʼImpero.
Ipazia si accingeva a crescere in un mondo affetto da continui sconvolgimenti che da lì a poco avrebbero stravolto la sua intera esistenza. Ella però, durante la sua giovinezza, grazie allʼinsegnamento e alla tutela del padre Teone, detto “il divino” (in quanto discendente della Divina Gens Potitia, custode dei misteri della Sacra scienza di Eracles Invictus), riesce a condurre senza problemi unʼeducazione “da maschio”, studiando astronomia, medicina, matematica, fisica e filosofia. Il padre Teone fu uno dei pochissimi uomini dellʼantichità ad avere il potere e la lungimiranza di lasciare libera sua figlia di scegliere il proprio destino, e fu capace di accettare e incoraggiare quella scelta a prescindere dai costumi del suo tempo. Ma, molto probabilmente, non avrebbe mai immaginato che sua figlia si sarebbe appassionata agli studi così tanto da superare il suo stesso maestro. Ella fu, infatti, unʼantesignana della scienza sperimentale. Studiò e realizzò lʼastrolabio, lʼidroscopio e lʼaerometro; comprese la relatività del moto degli oggetti; teorizzò il moto ellittico dei pianeti; fu una delle promulgatrici della teoria eliocentrica introdotta da Aristarco di Samo nel III secolo a.C. e poi definitivamente confermata da Copernico nel 1543 con la pubblicazione del De revolutionibus orbium coelestium. Da un punto di vista prettamente filosofico, purtroppo, non ci sono pervenute opere autografe, sappiamo però, attraverso gli scritti del suo allievo Sinesio, che fu una grande sostenitrice del neoplatonismo, nella fattispecie si concentrava molto sulle teorie di Porfirio e Giamblico. Una mente geniale e, come tutti i geni, profondamente inattuale.
Ma Ipazia non fu soltanto una grande intellettuale, durante la maturità divenne anche un solido esempio di moralità e di sensibilità etica. Vivendo appieno il periodo di decadenza dell’Impero romano, si vedrà coinvolta attivamente in vicende che stravolgeranno la sua vita e quella dell’umanità intera. Lo storico Adriano Petta, nel suo saggio Ipazia: vita e sogni di una scienziata del IV secolo, ricostruisce gli eventi topici che segnano la breve vita della filosofa cercando di colmare alcuni vuoti biografici con elementi narrativi originali. Petta sceglie stilisticamente di far preannunciare la distruzione del Serapeo, il tempio in cui si ergeva la maestosa biblioteca di Alessandria, depositaria di tutto lo scibile umano, da un sogno premonitore. Olimpio, un filosofo e sacerdote pagano, in una fase onirica vede «il tempio distrutto e la biblioteca bruciare» . Cosa che avverrà per mano del vescovo Teofilo, che si recherà di fronte al tempio di Serapide accompagnato da una fiumana inferocita, riscattando il diritto di imporre le decisioni dell’imperatore Teodosio: L’imperatore dà il suo pieno appoggio alla nostra comunità cristiana! Egli non riconosce quella degli elleni e quella ebraica: egli si è schierato solo dalla nostra parte! […] Oggi l’imperatore rende giustizia all’unico vero Dio nostro Signore! Oggi l’imperatore ci comanda di cacciare dal tempio i pagani che si sono ribellati al suo volere!.
[caption id="attachment_10219" align="aligncenter" width="1000"] Agora (Agorà) è un film del 2009 diretto da Alejandro Amenábar, interpretato da Rachel Weisz. Il film narra in forma romanzata la vita della matematica, astronoma e filosofa greca-alessandrina Ipazia, durante l'epoca delle persecuzioni anti-pagane stabilite per legge dai Decreti teodosiani, fino alla sua morte che nel film avviene per mano di un gruppo di parabolani, nel marzo del 415.[/caption]
Il tempio viene distrutto, il centro di studi devastato, la biblioteca bruciata. Dobbiamo a Ipazia e ai suoi allievi la maggior parte dei resti dei codici e delle pergamene degli scienziati e dei pensatori antichi che ci sono oggi pervenute. Lei e suoi studenti hanno cercato di salvare il possibile rischiando la vita per lasciare ai posteri almeno le piccole briciole rimaste di quella che altrimenti sarebbe stata un’eredità culturale immensa. Nel corso della ricostruzione di Petta, Ipazia affronta i personaggi più importanti di tutto quello scorcio di storia. Si reca a Milano dal vescovo Ambrogio per cercare di convincerlo a trovare una soluzione pacifica per placare i disastri che si stanno verificando ad Alessandria ed in tutto l’Impero romano. Ipazia sosteneva che «ragione e religione possono coesistere, camminare assieme, sostenersi e rispettarsi . Ma il vescovo Ambrogio risponde negativamente, confessando di avere addirittura intenzione di distruggere e «cancellare tutto il mondo dell’idolatria pagana» . In seguito incontra Agostino d’Ippona a Cartagine, sua vecchia conoscenza, che trova totalmente cambiato. Ipazia si ricorda di Agostino come una persona legata alla cultura, difensore del sapere e della ragione, ma egli non era più quello di un tempo. Agostino si convertì al Cristianesimo sotto l’influenza di Ambrogio che lo persuase che «la verità non potrà mai essere raggiunta con la ragione … e quindi è perfettamente inutile dannarsi l’anima e cercarla» . Agostino, di fatto, arriverà ad affermare che «la lettera uccide, lo spirito invece vivifica!» . Si aprirà tra loro un acceso dibattito sul rapporto fra religione e fede che, però, servirà solo a lasciar trapelare i deliranti panegirici di una mente ormai soggiogata, non più disposta a mettere nulla di ciò che afferma minimamente in discussione. L’autore dei Soliloquia, dunque, non è disposto al dialogo se non a livello interiore, l’unico, secondo lui, che permette di mettere in contatto Dio e Anima. Infine, lʼincontro decisivo è quello con il vescovo Cirillo, nuovo vescovo di Alessandria e successore di Teofilo che, per evitare la condanna a morte per eresia della figlia del divino Teone, la intima a convertirsi immediatamente al cristianesimo. Ma Ipazia sceglie di non farlo, sceglie di lottare per i valori della libertà di pensiero, e per lʼidea che la ragione possa coesistere in pace con la fede. Ma non cʼera spazio per un compromesso del genere. Nessuno era più disposto a difendere i valori di cui Ipazia si faceva portavoce, era una presa di posizione troppo forte. Lʼunico che provò a fare qualcosa per lei fu Oreste, il prefetto di Costantinopoli, ma non poté comunque nulla contro la potenza di Cirillo che scontento delle risposte ricevute dalla filosofa incaricherà i monaci parabolani di catturarla, torturarla e ucciderla. Così, come intonerebbe il poeta rapsodo Pallada, si spegne la vita «dell’astro incontaminato della sapiente cultura». Insieme a lei muore il paganesimo, l’ellenismo, il neoplatonismo. Sarà necessario più di un millennio per mettere in discussione il “principio di autorità” e per riavere una rifioritura della ricerca intellettuale con il rinascimento e le successive rivoluzioni.
Ipazia fu un personaggio virtuoso. Il significato di virtù, nel suo caso, non è da ricercarsi nel concetto cristiano di penitenza , ma nel significato greco di ἀρετή, cioè nellʼeccellenza, nellʼessere attivamente volti al bene compiendo azioni pregevoli e di alto livello con vigore morale e intellettuale. Ella, di fatto, fu capace di fondere le proprie opere e la propria esistenza in un rigoroso unicum, diventando un integerrimo e confuciano esempio di vita sia per i suoi contemporanei che per i suoi posteri. La sua storia si estende oltre la sua ontogenesi, questʼultima, «ricapitola la filogenesi» , ma non della nostra bioevoluzione bensì di tutta la nostra cultura occidentale. Prendendo in prestito i primi due postulati di Euclide (suo grande punto di riferimento intellettuale) è possibile, per traslazione semantica, considerare la nascita e la morte di Ipazia come due punti su un piano temporale: la retta che passa da questi due punti (primo postulato) sarà la sua biografia, la sua ontogenesi; il prolungamento indefinito della retta (secondo postulato) nelle due direzioni (passato e futuro) sarà la nostra filogenesi culturale. Parlare della vita di Ipazia, delle sue scoperte nel campo della fisica e dellʼastronomia, del rapporto tra fede e ragione del suo tempo, delle condizioni sociali, politiche e religiose entro cui era immersa è, dunque, come parlare dellʼintera storia occidentale. La sua vita virtuosa, e il suo sacrificio in difesa della libertà di pensiero, non va considerata come una delle tante storie attinenti un passato remoto che non ci riguarda più, Ipazia è il nostro presente, è il nostro avvenire. La sua storia è un microcosmo che racchiude e riassume il macrocosmo della nostra intera storia e cultura occidentale, in tutte le meraviglie e in tutte le contraddizioni che da sempre ha generato e che sempre continuerà a produrre.
 
Per approfondimenti:
_BERNARD, N., Donne e società nella Grecia antica, Roma, Carocci, 2011;
_ESIODO: S. RIZZO (a cura di), Esiodo. Le opere e giorni, Milano, BUR, 2016;
_GIAMBLICO: M. GIANGIULIO (a cura di), La vita pitagorica, Milano, BUR, 2001;
_MUSTI D., Storia Greca. Linee di sviluppo dallʼetà micenea allʼetà romana, Roma-Bari, Laterza, 2006;
_PETTA A. e COLAVITO A., Ipazia: vita e sogni di una scienziata del IV secolo, Roma, La lepre, 2010.
 
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"Ciascuna delle varie nazioni in cui abbiamo parcellizzato il pianeta ha, per simbolo e compendio, un libro. (...) LʼItalia (e il mondo) ha scelto lʼopera di Dante, uomo energico e dogmatico, colmo di tristi e severe passioni, notoriamente meno simile allʼItalia di quanto non lo sia il dilettevole Ariosto. (...) La Spagna, persuasa dallʼEuropa, si riconosce nellʼopera di Cervantes, che certamente non ricorda né lʼInquisizione né lo stile interiettivo e retorico che siamo soliti associare a tutto ciò che è ispanico". Jorge Luis Borges
[caption id="attachment_9307" align="aligncenter" width="1000"] Don Chisciotte della Mancia (1605)  (titolo originale in lingua spagnola: El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha) è la più rilevante opera letteraria dello scrittore spagnolo Miguel de Cervantes Saavedra e una delle più importanti nella storia della letteratura mondiale. Vi si incontrano, bizzarramente mescolati, sia elementi del genere picaresco, sia del romanzo epico-cavalleresco, nello stile del Tirant lo Blanch e del Amadís de Gaula. I due protagonisti, Alonso Chisciano (o Don Chisciotte) e Sancho Panza, sono tra i più celebrati personaggi della letteratura di tutti i tempi.[/caption]
«Con la Iglesia hemos topado Sancho» è un detto popolare spagnolo attribuito erroneamente al Don Chisciotte di Cervantes. La locuzione si usa per riferirsi a quelle situazioni in cui ci si trova dinanzi a un ostacolo difficile da superare.
Il verbo topar, di fatto, significa “incorrere in” (un ostacolo, una difficoltà che impedisce di avanzare normalmente per il proprio cammino). La chiesa rappresenterebbe dunque, in senso metaforico, lʼostacolo insormontabile dinanzi al quale bisogna arrestare il proprio cammino e con cui fare i conti. Da un punto di vista storico, secondo questa interpretazione, la rappresentazione che Cervantes dà della chiesa e del mondo ecclesiastico non è affatto positiva.
Basti pensare alle varie scomuniche entro cui incappa nel 1585 per aver sequestrato derrate di proprietà ecclesiastica per rafforzare questo argomento. Ma, come ho già anticipato, questa frase è attribuita erroneamente al Don Chisciotte.
Il passo in questione si trova nel capitolo IX della Parte seconda dove, Don Chisciotte, dopo aver «camminato un duegento passi» , credendo di aver raggiunto la reggia della sua amata Dulcinea, una volta dinanzi alla mole, «comprese che quellʼedifizio non era palazzo regale ma la chiesa madre del villaggio» . In questa situazione esclamerebbe la fatidica frase. Ma nella versione originale di Cervantes troviamo «con la iglesia hemos dado, Sancho», che letteralmente significa, seguendo la traduzione consegnataci da Alfredo Giannini: «ci siamo ritrovati alla chiesa, Sancio» . Dado, dunque, non topado. Don Chisciotte si sarebbe semplicemente trovato dinanzi la chiesa di Toboso. Non la Chiesa con la “C” maiuscola, ma il particolare edificio di un particolare luogo. Questa precisazione filologica ci costringe a riformulare quellʼinterpretazione iniziale, forse un poʼ ingenua, che prevedeva un Cervantes in contrasto con il mondo ecclesiastico. Diviene doveroso, dunque, cercare in altri passi dellʼopera degli indizi storiografici che ci possano permettere di dare una esegesi più particolareggiata della questione. Innanzitutto, c'è da dire che quello degli hidalgos era un popolo che aspirava a «vivere “nobilmente”, ossia senza lavoro disonorante, al servizio del Re o della Chiesa; e che sacrifica tutto, spesso persino la vita, a questo ideale. Per un hidalgo come Don Chisciotte, la Chiesa non poteva essere vista in maniera negativa perché dava ragione della sua onorabilità. Nel capitolo XXXIX della Parte Prima, Don Chisciotte descrive la Chiesa ai suoi discepoli come il mezzo attraverso il quale si può raggiungere la ricchezza: "C'è un proverbio nella nostra Spagna, secondo me verissimo, come verissimi son tutti, essendo brevi sentenze ricavate da lunga e saggia esperienza. E quello a cui accenno dice: “O chiesa, o mare o casa reale”, come se dicesse più chiaramente: “Chi voglia contar qualcosa ed essere ricco, segua lo stato ecclesiastico; o navighi esercitando lʼarte della mercatura, ovvero entri nella corte al servigio del re”; perché si suol dire: “Meglio minuzzolo di re che favore di signore".
Senza dubbio, la Chiesa rappresentava lʼinsieme di possibilità che potevano realizzare i sogni di qualsiasi hidalgo.
[caption id="attachment_9304" align="aligncenter" width="1000"] El Toboso: Piazza di Juan Carlos I - Spagna[/caption]
Non solo, la Chiesa era detentrice di tutti i valori morali necessari per poter vivere dignitosamente la propria nobiltà, ma essa era minacciata dai mori che, in Spagna - nel periodo storico in cui scrive Cervantes - erano ormai diventati una fetta considerevole di popolazione. Nel capitolo XXXVII della Parte Prima del Don Chisciotte troviamo un passo riguardante la conversione di una mora rappresentativo del contrasto tra cristiani e Moriscos: "(...) Ditemi, signore - disse Dorotea: (...) questa signora è cristiana o Mora? Perché lʼabito e il suo silenzio ci fa pensare che sia quel che non vorremmo che fosse. (...) Mora è nel vestire e nel corpo; ma nell'anima è quanto mai cristiana, avendo vivissimo desiderio di essere tale.Quindi non è battezzata? - replicò Lucinda. Non c'è stato agio a ciò - rispose lo schiavo - da quando è partita da Algeri, sua terra e paese natale. Finora, del resto, non s'è vista in pericolo di così vicina morte da far obbligo di battezzarla senza che prima avesse conoscenza di tutte le cerimonie che ordina la nostra santa madre chiesa; ma a Dio piacerà che presto sia battezzata, col decoro che si conviene alla sua qualità, che è maggiore di quel che appare dal suo e dal mio abito".
Il fatto che Cervantes espliciti la provenienza della mora non è un caso: «tutte le diatribe antimoresche si riassumono nella dichiarazione del cardinale di Toledo: sono “veri maomettani, come quelli di Algeri”» . Gli algerini erano considerati i più resistenti alla conversione e Cervantes lo sapeva benissimo. In questo passo sembra molto polemico verso il mondo ecclesiastico, dando lʼimpressione che anche la mora più ortodossa dovesse arrendersi alla conversione, cedendo dinanzi alla morale forzata del popolo cristiano di Spagna. Per gli spagnoli dei secoli XVI‒XVII «il problema moresco è un conflitto di religioni, ossia, in senso lato, un conflitto tra civiltà; un problema, quindi,
difficile e destinato a durare» . La conversione dei mori al Cristianesimo non dipendeva dallo Stato, ma dalla Chiesa che costringeva battesimi forzati in massa . Lo Stato, i sovrani, i nobili, non potevano nulla contro le decisioni delle cariche ecclesiastiche, le quali agivano, a volte, anche contro gli ordini dei sovrani (si pensi, ad esempio, al cardinale Francisco Jiménez de Cisneros che, nel 1499, prese la decisione di convertire i mori di Granata contro il parere delle autorità locali, violando la promessa dei Re cattolici che nel 1492 avevano assicurato la libertà religiosa) . Pertanto, sembrerebbe che i nobili hidalgos non potevano far altro che accettare le decisioni della loro onorabile Chiesa, seppur, spesso, contro i loro interessi e quelli dei sovrani. Ma lo storico Fernand Braudel ci ricorda che, verso la fine del XVI secolo, i mori rifugiati in Castiglia prolificarono e si arricchirono enormemente «in un paese inondato di metalli preziosi, troppo popolato di hidalgos per i quali lavorare era un disonore» . Nella Spagna degli anni ottanta, non più la Chiesa, ma i mori divennero i ricchi capaci di garantire agli hidalgos la loro tanto agognata nobiltà. Nel 1596 «in Andalusia e nel regno di Toledo sono più di 20000 coloro che possiedono redditi superiori ai 20000 ducati» . Questa situazione divenne intollerabile per i vecchi cristiani e creò parecchi disordini. Già nel 1588 lʼinterprete della chiesa di Spagna, «il cardinale di Toledo, faceva parte del Consiglio di Stato e si faceva forte dei rapporti del commissario dellʼinquisizione di Toledo, Juan de Carillo», propose al Consiglio di Stato di deliberare contro la moltiplicazione e lʼarricchimento dei Moriscos; e così fu. Il 29 novembre il consiglio allʼunanimità diede «ordine agli Inquisitori di fare unʼinchiesta nella loro giurisdizione e di fare un censimento dei Moriscos» . La conversione col battesimo forzato non era riuscita ad ottenere lʼassimilazione dei mori e la Spagna decise, così, di espellere tutti i Moriscos dai territori cristiani . Ma Cervantes ci ricorda che i rinnegati potevano comunque tornare a patto che venissero rispettati degli obblighi prima di convertirsi alla fede cattolica: "Sei giorni stemmo in Vélez, al termine dei quali il rinnegato, informatosi di quanto gli correva obbligo di fare, andò alla città di Granada a fine di ritornare, per mezzo della Santa Inquisizione, nel santissimo grembo della Chiesa, e gli altri cristiani liberati se n'andarono ciascuno dove gli parve meglio".
Nella nota 262 del testo sopracitato possiamo approfondire il ruolo dellʼInquisizione di Toledo nei confronti dei rinnegati:
"il Rodríguez-Marín, riportandosi a documenti dell'Inquisizione di Toledo custoditi nell'Archivio Storico Nazionale, ci fa sapere che ogni rinnegato, nel rimettere piede in Ispagna, doveva, per non incorrere in gravi responsabilità come sospetto d'eresia, presentarsi subito al più vicino Tribunale del Sant'Uffizio, dimostrando innanzi tutto, con validi documenti, che da tempo aveva il fermo proposito di rientrare nella Chiesa cattolica, quindi far la sua abiura ed eseguire la penitenza che gli fosse imposta".
[caption id="attachment_9305" align="aligncenter" width="1000"] Tramonto a Mota del Cuervo in Castiglia-La Mancia - Spagna[/caption]
Per concludere, possiamo dire che in Cervantes la rappresentazione della Chiesa del mondo ecclesiastico e dellʼInquisizione è di tipo critico. A dispetto di quanto poteva sembrare allʼinizio, non è una visione del tutto negativa, ma, dalla lettura del testo, è possibile scorgere un atteggiamento spesso molto polemico e satirico da parte dellʼautore, un atteggiamento che vuole evidenziare le contraddizioni nelle quali, nel suo periodo storico, è incorsa la fonte generatrice di tutti i valori di cui si fa strenuo difensore il suo amato personaggio.
La sua esegesi, dunque, diviene un esempio potentissimo su come rapportarci anche alla nostra contemporaneità, colma di problemi di carattere religioso che invadono tragicamente tutto il Mediterraneo. Forse bisognerebbe riscrivere un nuovo capitolo del Chisciotte, con una «pagina che non sʼimpaccia di gitanerie, né di conquistadores, né di mistici, né di Filippo II, né di autodafé» .
Una Parte Terza che tenga conto, con lo stesso apporto critico, dei problemi della nostra contemporaneità. Ma, come Borges sostiene nel suo racconto Pierre Menard, autore del Chisciotte: «Comporre il Chisciotte, al principio del secolo XVII fu impresa ragionevole, forse fatale; al principio del XX, è quasi impossibile. Non invano sono passati trecento anni, carichi di fatti quanto mai complessi: tra i quali, per citarne uno solo, lo stesso Chisciotte» .
 
Per approfondimenti:
_Miguel de Cervantes Saavedra, "Don Chisciotte" - Edizioni Bur 2016;
_Jorge Luis Borges, "Finzioni" - Edizioni Einaudi, Torino 2010;
_Braudel Fernand, "Civiltà e imperi del Mediterraneo nellʼetà di Filippo II" - Edizioni Einaudi, Torino 2010.
 
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di Danilo Sirianni del 16/01/2017

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«Volete imparare le scienze con facilità? Cominciate con l’imparare la vostra lingua.» (Condillac, 1977, pp. 225). Con questa sentenza breve e fulminante si conclude il Traité des systemes di Étienne Bonnot de Condillac. Una condanna aspra rivolta a tutti quei filosofi che, secondo lui, hanno fatto un uso acrobatico della lingua, a quei pensatori che hanno preferito elaborare metafore inconsistenti come postulati per i loro sistemi teorici inadempiendo alla deontologia del linguaggio scientifico che deve basarsi solo su prove empiriche. Una dichiarazione severa. Una presa di posizione chiara. Volete costituire un sistema che renda ragione di concetti, cose, fatti, teorie? Bene, potete farlo, ma solo a una condizione: dovete parlare fuor di metafora.*

[caption id="attachment_7462" align="aligncenter" width="1000"] Étienne Bonnot de Condillac (1715 – 1780) è stato un filosofo, enciclopedista ed economista francese. Contemporaneo di Adam Smith e d'ispirazione liberale, è stato un esponente di spicco del sensismo, ma viene ricordato anche per il suo contributo alla psicologia, alla gnoseologia e alla filosofia della mente.[/caption]
Il Trattato inizia dando una definizione esauriente di sistema: «un sistema non è altro che la disposizione delle diverse parti di un’arte o di una scienza in un ordine in cui tutte si sorreggano a vicenda, e in cui le ultime si spieghino mediante le prime. Quelle che rendono ragione delle altre si chiamano princìpi e il sistema è tanto più perfetto quanto minore è il numero di pincìpi: sarebbe perfino auspicabile ridurli a uno solo» (ivi p. 3). Dopodiché, il filosofo francese distingue i sistemi in tre classi che contrappone in due schieramenti. Il primo schieramento, quello a cui lui si oppone, è formato dalla classe dei sistemi astratti e da quella delle ipotesi: «chiamerò sistemi astratti quelli che poggiano esclusivamente su princìpi astratti; ipotesi quelli che si fondano solo su supposizioni» (ivi p. 6).
Il secondo, quello che lui promuove, è formato dalla classe dei sistemi delle scienze, gli unici ritenuti validi: «è sui princìpi di quest’ultima specie che si fondano i veri sistemi»(ibidem). Egli prende posizione da subito sostenendo il secondo schieramento, quello della classe dei sistemi delle scienze, basati sulla massima newtoniana dell’hypotheses non fingo (non invento ipotesi), fondati solo su fatti accertati sperimentalmente attraverso un’analisi di tipo empirico. Condillac, dunque, come ho già premesso, si scaglia contro quei filosofi che per costruire i loro sistemi ricorrono ad un linguaggio retorico, basandosi su princìpi astratti e metafore inconsistenti.
«I filosofi** volevano spiegare una cosa? Cercavano che rapporti poteva avere con le nozioni comuni; stabilivano dei paragoni, si impadronivano di un’espressione metaforica, e costruivano dei sistemi» (ivi p. 49). Per Condillac è inammissibile che un sistema si basi su metafore o su princìpi astratti: «chiedete a un filosofo che cosa intenda con questo o quel principio; se lo incalzate, non tarderete a scoprire il lato debole; vedrete che il suo sistema verte soltanto su metafore, su paragoni stabiliti alla lontana; e allora potrete demolirlo con la stessa facilità con cui lo attacchereste» (ivi p. 53). Ancora: «il loro linguaggio si riduce a un tessuto di metafore mal scelte e di espressioni forzate che spesso neppur loro capiscono» (ivi p. 199). Non manca poi una forte avversione verso le analogie e i paragoni: «i paragoni non danno le idee delle cose: valgono solo a familiarizzarci con le idee che abbiamo già» (ivi p. 61). Il suo giudizio su queste figure diventa esaustivo in un passo della critica al sistema di Malebranche: «il fenomeno su cui poggia si riduce a questo principio: “Le idee e le inclinazioni stanno all’anima come le figure e il movimento stanno alla materia”, principio a cui giunge paragonando due sostanze del tutto diverse. Non c’è dunque da stupirsi se il suo tentativo di formarsi delle idee esatte ha sortito così poco successo»(ivi p. 69). Nella critica al sistema filosofico leibniziano egli si esprime così: «ha creduto di render ragione dei fenomeni quando si limita a usare il linguaggio poco filosofico delle metafore; e non si è accorto che quando si è costretti a impiegare questo genere di espressioni si dà prova di non aver idea della cosa di cui si parla. Si tratta di errori abituali a coloro che costruiscono sistemi astratti»(ivi p. 99). Ancora contro Leibniz e le metafore: «Questo filosofo non dà alcuna nozione della forza delle sue monadi; non ne dà di più delle loro percezioni; in proposito impiega soltanto metafore; alla fine si perde nell’infinito. Non fa dunque conoscere gli elementi delle cose; non rende propriamente ragione di nulla»(ivi p. 103).
Criticando i sostenitori delle idee innate, invece, condanna totalmente il linguaggio figurato: «quando parliamo dell’anima, delle sue idee, dei suoi pensieri, di tutto ciò che essa prova, adottiamo un linguaggio figurato, e non potremmo fare altrimenti. […] Ora, i filosofi sono stati ingannati da questo linguaggio come il popolo; perciò hanno creduto di spiegar tutto con le parole» (ivi p. 51-52).
C’è da dire che il filosofo francese non fu il primo a combattere l’uso del linguaggio figurato e della retorica in filosofia. Già Platone si schierò contro la retorica affermando il bisogno di depurare il linguaggio dall’alone di oscurità in esso presente. Per Platone la retorica «non possiede alcuna conoscenza della natura del soggetto cui si rivolge» (Platone, 2010, p. 127, 465a). Condillac su questo sarebbe d’accordo, e anche sull’adozione della dialettica come linguaggio filosofico piuttosto che la retorica, ma aggiungerebbe che questa dialettica deve essere sostenuta da un’analisi rigorosamente empirica, incentrata sui sensi. Per Condillac, dunque, il linguaggio deve essere il veicolo che ci permette di comprendere l’esperienza che è data dai sensi. Per far sì che ciò avvenga, è necessario depurarlo da massime astratte e ipotesi ingiustificate, che spesso sono basate su analogie o paragoni con fatti empirici. Risulta chiaro quanto l’aspetto linguistico sia fondamentale per il filosofo di Grenoble, soprattutto se si ha l’ambizione di erigere una gnoseologia affidabile ed esplicativa. Addirittura, egli sostiene che l’intera ragione di fonda sulle regole dettate dalla lingua: «l’arte di ragionare si riduce ad una lingua ben costruita» (Condillac, 1977, p. 220). È la lingua che garantisce la comprensione di una scienza: «una scienza rettamente trattata si riduce a una lingua ben costruita, non c’è scienza che non debba essere alla portata di un uomo intelligente, poiché ogni lingua ben costruita è una lingua comprensibile»(ivi p. 223). Ma come deve essere questa lingua? Cosa intende per ben costruita? Egli afferma che: «L’arte di ragionare si riduce a un linguaggio rigoroso»(ivi p. 26). Per arte di ragionare intende un linguaggio scientifico basato sull’esperienza e sull’analisi di fatti e cose tangibili, afferrabili attraverso i sensi.
Con linguaggio rigoroso, invece, intende l’uso di una dialettica formata da proposizioni dimostrate, scevra da qualsivoglia forma di linguaggio figurato o metaforico basato solo sull’immaginazione. Il linguaggio deve essere dunque rigoroso, dialettico. Com’è possibile notare, la posizione di Condillac sul tema della metafora all’interno di un sistema risulta chiaro: essa è poco filosofica, non dà idea di ciò di cui si parla, non rende ragione di nulla. Per la costituzione di un sistema valido, affidabile, il linguaggio filosofico deve essere ben costruito, rigoroso, in tre parole: fuor di metafora.
[caption id="attachment_7465" align="aligncenter" width="1000"] Jean Huber, pranzo filosofico - Olio su Tela 1772/1773[/caption]
Ma una condanna così aspra verso l’uso del linguaggio metaforico può far correre dei grossi rischi. Se si sostiene che la metafora vada letteralmente bandita dalla filosofia, bisogna stare attenti a non utilizzarla inconsapevolmente. Bisogna verificare che ogni singola parola che si enuncia non sia metaforica. Una cosa del genere sarebbe molto poco umana, soprattutto in filosofia. A livello linguistico, la metafora non è qualcosa di cui ci si può sbarazzare, non è qualcosa di superfluo, non è una pesante zavorra priva di contenuto. La metafora è uno strumento necessario per favorire la comprensione e, in alcuni casi, l’unico mezzo che abbiamo per poterci esprimere. Spesso si utilizzano tantissime espressioni metaforiche senza che ci si renda conto della loro presenza, oppure le si utilizza proprio quando si ha intenzione di criticarle. Questo e il caso di Condillac, che non è esente da questi meccanismi. In questo spazio non riporterò tutte le metafore presenti nel Trattato dei sistemi, nemmeno le metafore composte da singole parole, sarebbe quasi impossibile e neanche tanto corretto perché paradossalmente, significherebbe prendere troppo alla lettera l’opinione di Condillac. Riporterò, dunque, solo alcune grandi metafore, quelle che ritengo più palesi, e che portano in contraddizione il pensiero dell’autore dell’Art de raisonner (arte del ragionamento).
Nel Traité des systemes Condillac utilizza otto grandi esempi per dimostrare l’inesattezza dei sistemi astratti. Alcuni di questi sono capitoli dedicati interamente a una critica analitica dei sistemi di filosofi come Malebranche, Leibniz, Spinoza. Altri invece sono degli esempi inventati appositamente per rafforzare il proprio argomento. Ricordiamo che in retorica gli esempi sono «una particolare forma di argomentazione […] sono storici e inventati: tra questi ultimi si classificano le favole di tipo esopiano»(Mortara Garavelli, 2008, p. 132-133). Condillac, nel capitolo quarto del Traité, per evidenziare gli errori derivanti dai sistemi astratti, chiama esempi ciò che in realtà sono due grandi metafore. La prima è quella del cieco nato: «Un cieco nato, dopo molte domande e molte riflessioni sui colori, credette infine di scorgere l’idea di scarlatto nel suono della trombetta. Indubbiamente bastava dargli degli occhi per fargli capire quanto la sua fiducia era mal riposta. Se vogliamo andare a vedere come aveva ragionato riconosceremo la maniera dei filosofi»(Condillac, 1977, p. 28). Condillac criticando l’analogia dello scarlatto con il suono della trombetta, compie egli stesso un’analogia tra questo modo di ragionare del cieco e quello dei filosofi che lui critica. La seconda metafora che utilizza è quella dei sette pianeti e delle sette note musicali: «È manifesto, comincerò col rilevare, che, come ci sono sette note musicali, così ci sono sette pianeti. In secondo luogo posso supporre che chi si rendesse conto della grandezza di questi pianeti, delle loro distanze o di altre qualità, troverebbe fra di esse una proporzione simile a quella che deve sussistere fra sette corpi sonori posti in ordine diatonico. Ammesso questo (si può supporre tutto ciò che non è impossibile: e chi, d’altra parte, potrebbe provare il contrario?), niente impedirebbe di riconoscere che i corpi celesti formano un perfetto concerto»(ivi p. 29-30). In questo caso, utilizza lo stesso sistema della prima metafora solo con tono più sarcastico. Critica l’assurdità dell’analogia tra le note musicali e i pianeti, usando questo argomento come analogia con il modo di ragionare dei filosofi che utilizzano sistemi astratti. E il bello è che conclude questo capitolo con la seguente affermazione: «gli uomini dovrebbero servirsi di espressioni metaforiche soltanto con grandi precauzioni. Si fa presto a dimenticare che sono solamente metafore: si prendono alla lettera e si cade in errori ridicoli»(ivi p. 32). Un’altra metafora evidente si trova nell’articolo quinto del capitolo ottavo del Traité, quando critica il principio di Leibniz che vede ogni singola monade capace di avere un’infinità di percezioni e di rappresentare tutto l’universo. «Se dicessi: un lato di un triangolo ha dei rapporti con gli altri due lati e coi tre angoli; dunque questo lato rappresenta la grandezza degli altri due e il valore di ciascun singolo angolo, la falsità della conclusione sarebbe manifesta. Ciascuno sa che per una simile rappresentazione non basta la conoscenza di un lato. Allo stesso modo io dico che la rappresentazione dell’universo non può essere racchiusa nella conoscenza di una sola monade» (ivi p. 101).
Per criticare un principio astratto, basato su concetti inventati, inventa un’analogia con il mondo della geometria, che all’apparenza può sembrare più accreditabile, ma sempre di analogia si parla, quindi, di traslazione semantica, di metafora. Un’altra macro-metafora si trova nel capitolo quattordicesimo, in cui, attraverso una supposizione, vuole render ragione della natura del filosofo naturalista. «Supponiamo che un uomo privo di qualunque nozione nel campo dell’orologeria e anche della meccanica tenti di dar ragione dei movimenti di un orologio a pendolo: ha un bell’osservare come suona a certe ore e come si muovono le frecce, dato che non conosce la statica, gli è impossibile spiegare tali fenomeni in modo ragionevole. […] apritegli l’orologio a pendolo, spiegategliene il meccanismo; subito egli coglie la disposizione di tutte le parti, vede come agiscono le une sulle altre e risale al primo congegno da cui dipendono. Solo da questo momento in poi conosce con sicurezza il vero sistema che rende ragione delle osservazioni che aveva fatto. Quest’uomo è il filosofo che studia la natura»(ivi p. 204). Il filosofo della natura è l’uomo che impara il meccanismo dell’orologio; più metafora di questa. Non utilizza neanche l’avverbio come, dice propriamente che quell’uomo è il filosofo. Non è quindi soltanto un esempio o un paragone, ma una metafora vera e propria. Il filosofo francese sembra andare spesso in contraddizione utilizzando di continuo ciò che critica così aspramente. C’è un passo del capitolo terzo in cui, criticando i filosofi che fanno divenire le definizioni di parole delle definizioni di cose, promuove una metafora del suo filosofo preferito: «Ma somiglia, come osserva Locke in un caso analogo, a uomini che, senza denaro e senza cognizione della moneta in corso, contassero delle somme rilevanti con gettoni a cui dessero il nome di luigi, lire, scudi. Qualunque calcolo facessero, il risultato si ridurrebbe sempre a gettoni; qualunque ragionamento faccia un filosofo come quello di cui parlo, le sue conclusioni saranno sempre soltanto parole»(ivi p. 23). In questo caso, la metafora dell’empirista inglese è accettabile, anzi, necessaria per chiarire il concetto.
A questo punto mi si potrebbe muovere l’obiezione che alcune delle metafore da me individuate in realtà sono esempi tratti dall’esperienza. Condillac sembra esprimersi su questo, quando ammette di usare le supposizioni e le analogie: «Nella mia logica ho spiegato la sensibilità, la memoria e quindi tutte le abitudini dello spirito. È un sistema in cui ragiono sulla base di supposizioni; ma sono tutte supposizioni suggerite dall’analogia. I fenomeni ci si sviluppano naturalmente, si spiegano con molta semplicità; tuttavia riconosco che supposizioni come le mie, quando si fondano soltanto sulle analogie, non hanno la medesima evidenza di quelle suggerite e confermate dall’esperienza stessa; infatti, se l’analogia può non permettere che si dubiti di una supposizione, solo l’esperienza può conferirle evidenza; e, se non si deve respingere come falso tutto ciò che non è evidente, non bisogna neanche guardare come verità evidenti tutte le verità di cui non si dubita»(ivi p. 193).
Piuttosto che dire che è l’esperienza a conferire evidenza alle sue analogie, io direi che sono metafore dell’esperienza. Il fatto che Condillac tragga dall’esperienza le sue analogie, parlando di un cieco nato, di un orologiaio, dei lati di un triangolo, non lo pone in una posizione differente dai filosofi che lui stesso critica. Questo perché ogni volta che utilizza queste metafore lo fa sempre per spiegare qualcos’altro. Muove una sostituzione, una traslazione semantica. Quando parla dell’uomo che impara le regole dell’orologeria, non lo fa per parlare di meccanica o di orologeria, lo fa per dire che bisogna conoscere ciò di cui si parla per poter costruire un sistema. Usa la metafora di un fatto particolare per mettere in evidenza un qualcosa di più grande, che è il suo discorso sui sistemi di pensiero.
La figura della metafora è debitrice di Aristotele e della parte del suo pensiero riguardante la retorica e la poetica. «Alla metafora Aristotele assegna un posto centrale: addirittura la facoltà di conferire chiarezza all’elocuzione, oltre che piacevolezza ed eleganza, poiché la sua funzione principale sta nel cogliere i nessi di somiglianza (le analogie) tra cose distanti. L’abilità metaforizzante è comune al retore e al poeta: è qui che poetica e retorica si incontrano, come anche nella considerazione del metro, nella poesia, e del ritmo, nella prosa»(Mortara Garavelli, 2008, p. 28-29).
[caption id="attachment_7471" align="aligncenter" width="1280"]aristotele Aristotele 384 a.C. o 383 a.C. - 322 a.C.) è stato un filosofo, scienziato e logico greco antico. Con Platone, suo maestro, e Socrate è considerato uno dei padri del pensiero filosofico occidentale, che soprattutto da lui ha ereditato problemi, termini, concetti e metodi. È ritenuto una delle menti filosofiche più innovative, prolifiche e influenti del mondo antico, sia per la vastità che per la profondità dei suoi campi di conoscenza, compresa quella scientifica.[/caption]
Per Aristotele la metafora può essere di quattro tipi diversi. Egli sostiene che il più rilevante tra questi sia il quarto, ovvero l’analogia, infatti, dichiara: «dei quattro tipi di metafora, le più popolari sono quelle per analogia»(Aristotele, 2011, p. 333, 1411a). Nella Poetica, Aristotele introduce i quattro tipi di metafora e spiega esaurientemente come funziona l’analogia: «Metafora è l’imposizione di una parola estranea, o da genere a specie, o da specie a genere, o da specie a specie, o per analogia. Da genere a specie: “la mia nave è ferma là”. Infatti essere ancorata è una specificazione di “star fermo”. Da specie a genere: “Mille cose buone ha fatto Odisseo”: mille è molto, e qui sta al posto di “molto”. Da specie a specie: “attinse la vita col bronzo” e “tagliò l’acqua col lungo bronzo”: in un caso ha detto “attingere” per “tagliare”, nell’altro “tagliare” per “attingere”, perché entrambi sono specificazioni di “togliere”. Per analogia: quando il secondo elemento sta al primo come il quarto sta al terzo: si dirà allora il quarto al posto del secondo oppure il secondo al posto del quarto. Talvolta si mette anche ciò a cui si riferisce la parola sostituita. Per esempio, la coppa sta con Dioniso nello stesso rapporto dello scudo nei confronti di Ares: si potrà dunque chiamare la coppa “scudo di Dioniso” e lo scudo “la coppa di Ares”. Oppure la vecchiaia ha nei confronti della vita lo stesso rapporto della sera nei confronti del giorno; si potrà dunque chiamare la sera “vecchiaia del giorno”, o, come Empedocle, la vecchiaia “sera della vita” o “tramonto della vita”»(Aristotele, 2006, p. 47, 1457b). Dagli esempi tratti da Aristotele si evince, dunque, che l’analogia è un particolare tipo di metafora, la sua variante più significativa. Da Aristotele ad oggi, nel corso dei secoli, nulla è cambiato riguardo la struttura dell’analogia. Essa funziona ancora come una proporzione matematica, ma non è una proporzione matematica. È una metafora.
In conclusione, nonostante Condillac giustifichi le sue supposizioni perché basate sull’analogia, non significa che queste vengano spiegate matematicamente. L’analogia che il francese usa è propriamente l’analogia aristotelica, cioè una metafora. Che la sua referenza si collochi nel mondo empirico, non cambia nulla sulla sua natura. Le metafore, da sempre, servono a rendere più chiaro il discorso, a dire quello che altrimenti non si saprebbe come dire, a rendere l’idea, a spiegarsi, a dire in altre parole, o semplicemente a dire. E soprattutto in filosofia, empirista o razionalista che sia, nella costituzione di un sistema di pensiero, non si può fare a meno di questa facoltà.
 
Note
* «La metafora è una figura retorica che consiste nel trasferire ad un oggetto il termine proprio di un altro secondo un rapporto di analogia» . Le definizioni tradizionali e vulgate della m. (in gr., metaphorá, da metaphérō «io trasporto», da cui il calco latino translatio, da transferre, donde deriva traslato) si possono compendiare nella seguente: sostituzione di una parola con un’altra il cui senso letterale ha una qualche somiglianza con il senso letterale della parola sostituita (Mortara Garavelli, 2008, p. 237).
** Con il termine “filosofi”, Condillac si riferisce in maniera fortemente critica ai pensatori come Decartes, Malebranche, Leibniz, Spinoza. Egli afferma che tali pensatori, basando i loro sistemi filosofici su supposizioni e princìpi astratti, credono di spiegare delle cose, ma in realtà non riescono a render ragione di ciò di cui si occupano.
 
Per approfondimenti:
_Aristotele. (2006). Poetica. Roma-Bari: Laterza.
_Aristotele. (2011). Retorica. Milano: Mondadori.
_Condillac, E. B. (1977). Trattato dei sistemi. Roma-Bari: Laterza.
_Hume, D. (2008). Trattato sulla natura umana. Roma-Bari: Laterza.
_Lo Cascio, V. (1995). Grammatica dell'argomentare. Firenze: La nuova Italia
_Lumbelli, L. (1989). Fenomenologia dello scriver chiaro. Roma: Editori Riuniti
_Meyer, M. (1997). La retorica. Bologna: Il Mulino.
_Mortara Garavelli, B. (2010). Il parlar figurato. Roma-Bari: Laterza.
_Mortara Garavelli, B. (2008). Manuale di retorica. Milano:Bompiani.
_Perelman, C. (1981). Il dominio retorico. Retorica e argomentazione. Torino:Einaudi
_Perelman, C. & Olbrechts-Tyteca, L. (2001). Trattato dell'argomentazione. Torino: Einaudi.
_Platone. (2010). Gorgia. Milano: Bompiani
_Platone. (2013). Protagora. Milano: Bur
_Platone. (1966). Opere. Roma-Bari: Laterza.
_Squarotti, a. c. (2008). Dizionario di retorica e stilistica. Torino: Utet.
 
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

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di Danilo Sirianni del 06/01/2017

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Si Deus est unde malum? Se Dio esiste, da dove viene il male? Come giustifichiamo la bontà e la giustizia di Dio di fronte ai mali del creato? Nel corso dei secoli, le risposte a queste leibniziane domande di teodicea (termine filosofico, introdotto da Leibniz, per riassumere il problema, presente in molte religioni, della sussistenza del male nel mondo in rapporto alla giustificazione della divinità e del suo operato) sono sempre state legate più al concetto di δίκη (giustizia) che al concetto di ϑεός (Dio).
[caption id="attachment_14639" align="aligncenter" width="1000"] Gottfried Wilhelm von Leibniz (1646–1716), è stato un matematico, filosofo, scienziato, diplomatico, giurista, storico, magistrato tedesco di origine soraba.[/caption]
Già gli antichi babilonesi consideravano l'origine del male legata al dio Marduk, salito al trono grazie al dio della giustizia An. Sia nella Bibbia ebraica che in quella cristiana, più precisamente nel libro di Giobbe, viene enucleato il concetto di giustizia retributiva, cioè che il male, il dolore, la sofferenza, fossero la punizione da scontare per aver commesso azioni ingiuste. Per Agostino d'Ippona nella teoria della non-sostanzialità del male, il male nasce da una privazione di bene e, come tale, è un non-essere. Chi commette azioni ingiuste compie una privazione di bene. L'ingiusto deve redimersi e può farlo solo attraverso la punizione e il castigo, cioè adoperando su se stesso quella privazione di bene provocata agli altri. Ma, nonostante il concetto etico di giustizia fosse il protagonista indispensabile per dare ragione dei mali del creato, in queste prospettive, il ϑεός (Dio) è sempre stato il sistema di controllo finale al quale l'etica doveva sottomettersi. Nel problema del male, l'etica non godeva di nessuna autonomia, era soltanto un braccio armato della teologia.
E se Dio non esiste, da dove viene il male? O più semplicemente: da dove viene il male? Unde malum? Non è facile emanciparsi da una petitio principii, soprattutto quando nelle premesse si presuppone l'esistenza di Dio, ma è doveroso provarci. Il dibattito è immenso, lo spazio ridotto. Cercherò di selezionare e di riassumere per sommi capi (seguendo un ordine più tematico che cronologico) le posizioni più importanti che hanno messo in discussione il concetto di ϑεός (Dio), in modo tale da giungere gradatamente al fulcro della dissertazione.
[caption id="attachment_7345" align="aligncenter" width="1000"] Mephisto di Mark Antokolski del 1883[/caption]
Già nell'enigma di Epicuro il concetto di Dio viene portato al paradosso proprio attraverso il problema dell'esistenza del male: «se Dio vuole impedire il male ma non può, non risulterebbe onnipotente; se può impedirlo ma non vuole, risulterebbe maligno; se non può e non vuole risulterebbe maligno e impotente. Ne consegue che Dio, per essere tale, può e vuole, ma dato che il male esiste, allora Dio non si interessa dell'uomo». La stessa struttura argomentativa verrà ripresa in età moderna da David Hume che, nei Dialoghi sulla religione naturale, arricchisce il tema con il suo approccio scettico. Sempre scettico l'approccio di Pierre Bayle, in seguito criticato da Leibniz per aver negato l'onnipotenza di Dio sulla base dell'esistenza del male. Per Kant invece il discorso si complica. Il suo approccio, che può essere definito come un teismo scettico, cerca di dare ragione di un male radicale negli uomini attraverso la concezione di una sorta fede filosofica. In queste posizioni, l'apparato teologico comincia a vacillare seriamente, ma continua comunque a resistere come metro di misura finale che impedisce a quello etico di emergere in maniera indipendente.
Nella teoria politica di Thomas Hobbes è possibile riconoscere "un male" non più considerato esclusivamente nel rapporto teologico uomo-dio, ma anche nel rapporto etico uomo-uomo. Hobbes, nel Leviatano (1615), sosteneva che Dio dà la legge di natura; questa legge, che determina lo stato di natura dell’uomo, prevede l’uguaglianza dei diritti per ogni ente; nello stato di natura ognuno ha diritto a ogni cosa e gli uomini ingaggiano così una guerra di tutti contro tutti: bellum omnium contra omnes, homo homini lupus. Il male trae origine dai rapporti tra gli uomini, non è più una creazione degli dei, una sottrazione del bene divino, una sentenza o un disinteresse celeste. Nonostante all'inizio della catena ci sia ancora Dio, il male per Hobbes proviene dalla nostra innata natura bellica di sopraffazione del prossimo. Il ϑεός (Dio) ha ancora l'ultima parola, ma l'etica comincia a farsi sentire.
[caption id="attachment_7352" align="aligncenter" width="1024"] L'espressione latina homo homini lupus (letteralmente "l'uomo è lupo per l'altro uomo"), il cui precedente più antico si legge nel commediografo latino Plauto (lupus est homo homini, Asinaria, a. II, sc. IV, v. 495), riassume efficacemente un'antica e pur attuale concezione della condizione umana che si è tramandata e diffusa nei secoli, lasciando tracce di sé sia nel pensiero colto sia in alcuni detti popolari e motti di spirito. Si riferisce all'istinto innato dell'uomo di sopraffare il proprio simile, come il lupo che, per sopravvivere, sbrana il più debole. Nella foto: gargolla sulla facciata della cattedrale di Nidaros Trondheim in Norvegia.[/caption]
Duecento anni dopo, Arthur Schopenhauer riprenderà questa visione sostenendo che la sostanza unica che accomuna tutti gli esseri viventi, la celebre volontà schopenhaueriana, sia una forza irrazionale, un desiderio incontrollabile che lotta contro il nostro intelletto per affermarsi. Il male è un problema umano, ognuno lotta per affermare la propria volontà di vivere sull'altro. Il mondo è così, anche per Schopenhauer, una lotta di tutti contro tutti, ma la differenza sostanziale con la teoria hobbesiana è che qui il ϑεός scompare definitivamente, non c'è nessuna derivazione divina, il male proviene dalla cosa in sé. Ma, anche se in questa visione l'aspetto teologico viene eliminato, l'etica di Schopenhauer arriva solo a un passo dalla totale emancipazione. Il male viene ancora giustificato attraverso una deterministica, totalizzante, metafisica cosa in sé. Per arrivare alla definitiva "dichiarazione d'indipendenza" dell'etica riguardo il problema dell'origine del male c'è bisogno di spingersi ancora più avanti di un secolo.
Nel 1962 Konrad Lorenz, il padre dell’etologia contemporanea, scrive Das sogenannte Böse: Zur Naturgeschichte der Aggression (L'aggressività: il cosiddetto male). In quest'opera Lorenz sostiene che ciò che noi identifichiamo eticamente come "male" sia lo sviluppo degenerato di un impulso aggressivo, presente in tutti gli esseri viventi. L’aggressività è un istinto, un impulso biologicamente adattivo, spontaneo e innato in tutte le specie. Niente Dio, niente cosa in sé. L'aggressività è un impulso biologico, punto. A primo acchito, la visione lorenziana sembrerebbe la naturale evoluzione secolarizzata delle teorie precedenti. Una teoria scientifica in stile novecentesco, legata sì all'etologia e alla biologia degli esseri viventi, ma che prende comunque le mosse dalla concezione di una innata condizione di peccato e corruzione. Ma la visione di Lorenz segna una frattura decisiva con i suoi predecessori e mette luce su cosa sia il male negli esseri viventi e da dove esso tragga origine. In primo luogo è necessario porre una differenza tra i termini: violenza e aggressività. Lo stato di guerra di cui parlano Hobbes e Schopenhauer è uno stato di violenza, egoista, insocievole, caotico, di sopraffazione, fine a se stesso. Gli esseri viventi del Leviatano, per sopravvivere senza uccidersi tra loro, devono rinunciare a tutti i loro diritti di natura in favore di un potere assoluto esercitato da un unico legislatore e sovrano. Il concetto di aggressività innata in Lorenz, invece, è uno strumento di organizzazione degli esseri viventi che permette la conservazione della vita. L’istinto aggressivo o combattivo ha la specifica funzione di garantire la sopravvivenza dell’individuo e della specie. L’aggressività permette la convivenza, addirittura, senza di essa non sarebbero possibili neanche vincoli personali come l’amicizia, l’amore e la tolleranza. In Lorenz, dunque, il concetto di aggressività ha un tono totalmente diverso da ciò che si intende comunemente con questa parola, soprattutto da ciò che intendeva Hobbes. Inoltre, Lorenz non sarebbe stato affatto d’accordo con la metafora del lupus, dato che egli notò che il lupo, ai fini di frenare il conflitto, offre all’avversario - che riconosce come superiore - il lato marcato estremamente vulnerabile del suo collo, instaurando così un rapporto di pace. L’aggressività non è violenza. In Lorenz questo termine assume un valore positivo. L’aggressività è lotta, è combattività. Io stesso, mentre scrivo queste righe mi rendo conto di essere molto combattivo. Scrivere una dissertazione è una piccola lotta, ed ogni lotta, in qualunque misura venga intrapresa, è vita. Quante volte sentiamo pronunciare frasi come: "le sfide della vita", o "la vita è un eterna lotta"? Queste riflessioni dossologiche in Lorenz si confermano da un punto di vista etologico, dimostrando, attraverso lo studio del comportamento animale, l’importanza dell’istinto aggressivo. Tema fondamentale de L’aggressività di Lorenz è la lotta intra-specifica; così scrive lo stesso autore nella premessa: «il libro tratta dell’aggressività, ossia della pulsione combattiva, nell’animale e nell’uomo, diretta contro appartenenti alla stessa specie». Lorenz e gli etologi in genere, sono soliti distinguere l’aggressività rivolta a individui di specie diversa (lotta inter-specifica) da quella che si estrinseca nei confronti degli individui della stessa specie (lotta intra-specifica). Di fatto, la prima è essenzialmente diversa dalla seconda. Ciò che spinge un animale a cacciare è differente da ciò che lo spinge al combattimento con un suo simile. La domanda è: perché mai attaccare un individuo della stessa specie? Negli animali, nota Lorenz, ci sono diverse spiegazioni: il territorio, l’accoppiamento, l’istituzione di una gerarchia* per la conservazione della specie, l’evoluzione, la selezione naturale. Nell’uomo diventa più problematico. Per l'etologo austriaco, nel mondo animale non esiste un reale pericolo che una specie si estingua a causa dell’aggressività, anzi, è proprio l’opposto; nell’uomo, invece, questo pericolo è assai presente. Egli sostiene che nel caso del genere umano il ritmo dello sviluppo naturale ha creato condizioni alle quali l’uomo non è filogeneticamente preparato. Siamo nel pieno dell’involuzione. L’uomo non si adatta più all’ambiente: adatta l’ambiente a sé. Attraverso un uso improprio e degenerato della τέχνη (Techne, tecnica) crea armi di distruzione di massa, pigiando un semplice tasto è capace di decidere la sorte di interi popoli.
[caption id="attachment_7349" align="aligncenter" width="1532"] Konrad Zacharias Lorenz (1903-1989) è stato uno zoologo ed etologo austriaco. È considerato il fondatore della moderna etologia scientifica, da lui stesso definita come «ricerca comparata sul comportamento» (vergleichende Verhaltensforschung).[/caption]
I deterrenti atomici con i quali minaccia di fare la guerra da un momento all’altro, i missili intelligenti lanciati a distanza e capaci di raggiungere il bersaglio riducendo le possibilità di fallimento al minimo. Certo, è paradossale concepire il "non aver distrutto migliaia di vite" come un fallimento, evidentemente queste persone sono troppo poco aggressive. È proprio questo il punto. Lorenz sosteneva che l’uso di queste moderne armi comandate a distanza esclude il contatto diretto con l’aggredito. Ciò ne aumenta la pericolosità, perché per queste ragioni, nella specie umana mancano molti dei meccanismi auto-inibitori** dell’aggressività presenti nelle specie non umane. Il comportamento aggressivo diventa fine a se stesso, perde il suo carattere di conservazione della specie e si trasforma in folle distruttività intraspecifica. Del resto, chi avrà più traumi, chi vedrà più fantasmi, l'uomo che a distanza di migliaia di chilometri fa esplodere un ordigno atomico pigiando un tasto seduto comodamente sulla poltrona del suo laboratorio, o un uomo che accoltella un altro in uno scontro ravvicinato? Il metodo lorenziano di osservazione del comportamento animale ci consegna delle importanti informazioni sul funzionamento dell'istinto aggressivo. Se osserviamo il comportamento delle oche, delle quali Lorenz diventa genitore adottivo, notiamo che i maschi per allontanare i nemici dal loro territorio ed evitare gli scontri cantano. Inoltre attirano anche gli esemplari femmina per garantire la riproduzione. Questo processo è chiamato da Lorenz ri-direction activity, ovvero, ri-direzione dell’aggressività. Si pensi a quella specie particolare di scimmie del Congo chiamate bonobo. La loro società è improntata sulla pacifica convivenza. È una specie di Homo dotata di una sviluppata sensibilità. I suoi membri riescono ad essere gentili pazienti, altruisti, solidali. L’aggressività intra-specifica è quasi del tutto assente perché riescono ad attuare una ri-direction activity di particolare successo: incanalano l'istinto aggressivo nella pratica sessuale. Di fatto è l’unica specie vivente oltre l’uomo a praticare rapporti che vanno al di là della semplice riproduzione. Vivono in una comunità matriarcale dove persino i maschi adulti dipendono dalle madri e restano tutta la vita nel gruppo dove sono nati; dove le femmine sono il sesso forte della specie e non mostrano nessuna soggezione nei confronti del maschio al quale non viene concesso nessun diritto di precedenza; dove viene praticato, insomma, una sorta di selvaggio eterno femminino in cui la donna è simbolo in terra dell’amore, si identifica con esso e con esso si eterna. I bonobo sono dunque molto legati fra loro, pacifici, filantropi. Gli animali, dunque, attraverso il loro comportamento, ci dimostrano che in natura la pace è possibile e si ottiene incanalando l’aggressività istintuale.
Alcuni studiosi hanno considerato il problema dell’aggressività nell’uomo come conseguenza di una frustrazione. Lo psicologo John Dollard (1967), ad esempio, si basava sull’assunto di Freud che «per frustrazione intendeva lo stato psicologico di insoddisfazione, irritazione o delusione provocato dall’impedimento o interruzione di un atto tendente a soddisfare un bisogno dell’individuo. La reazione primordiale al blocco di un impulso istintivo sarebbe uno scoppio di aggressività diretta contro la persona o l’oggetto vissuto come fonte d’interferenza». Si apre così un quadro teorico che permette di ipotizzare che nell’uomo, il non ri-dirigere l’impulso aggressivo come ci suggerisce Lorenz, o il mancato compimento di una risposta-meta,*** come articola Dollard, crea degli stati di frustrazione che possono scatenare delle violente risposte aggressive intra-specifiche.
Ricapitolando queste argomentazioni possiamo finalmente azzardare una risposta sull'origine del male. Sappiamo ormai che ogni specie vivente è dotata di un istintuale, innato, impulso aggressivo. Se questo impulso, invece di essere ri-diretto in una attività pacifica che ne permetta lo sfogo, viene bloccato, genera frustrazione e una conseguente reazione violenta. Ecco da dove ha origine il male. Dalla castrazione della nostra aggressività istintuale.
Per concludere, Lorenz rivoluzionò il modo classico**** di studiare gli animali: non li esaminava in laboratorio, ma viveva con loro, ne condivideva la quotidianità e partecipava da scienziato attento e rigoroso dei loro rituali. Quest'incessante attività gli permise di capire dei lati essenziali del loro comportamento e, inevitabilmente, anche di quello umano. Grazie al suo amore per gli animali e per la scienza riuscì a emanciparsi dalle precedenti e artificiose posizioni sull'origine del male proponendo una teoria semplice, realistica, scientifica. Localizzò il problema in una dimensione biologica, lo distinse dalla mera violenza, frutto di castrazione, e propose un rimedio: la ri-direzione. Non c'è bisogno di scomodare nessuna teologia, nessun teismo, nessuna metafisica. Dunque, abbiamo così raggiunto l'indipendenza dell'etica sul problema dell'origine del male. Un'etica che, finalmente, senza ostacoli trascendentali, si può occupare del riconoscimento, della gestione e del controllo di questa pulsione attraverso l'organizzazione di attività che ne permettano una deontologica ri-direzione. Un'etica che si trova nell'educazione, nella scuola, nella famiglia, in un tessuto sociale che non si basi sulla fredda castrazione di sogni, bisogni e aspirazioni, ma che garantisca possibilità di azione e realizzazione concreta dell'individuo. Lo stesso Lorenz suggerisce che l'istinto aggressivo va incanalato verso forme di scarica periodica come le competizioni sportive, l'entusiasmo per la scienza e per le arti, gli hobby e qualsiasi altra attività che possa fungere da convoglio. Si tratta di una vera e propria catarsi, che ha come scopo quello di impedire il male, ovvero l’aggressione socialmente dannosa, la violenza, per permettere la conservazione della specie umana. Una catarsi dunque, una purga dai mali, proprio come la catarsi conclusiva del Faust di Goethe, opera tanto cara al nostro Lorenz, nella quale Faust si libera dai pesi e dai mali del mondo proprio per effetto di amore.
«Tutto ciò che passa non è che un simbolo, l’imperfetto qui si completa, l’ineffabile è qui realtà, l’eterno femminino ci attira in alto accanto a sé».
Johann Wolfgang von Goethe
 
Note
* Un principio ordinatore, senza il quale non può evidentemente svilupparsi una qualunque convivenza comunitaria fra animali superiori è il cosiddetto “principio gerarchico”. Esso consiste semplicemente nel fatto che ognuno degli individui viventi nella comunità sa chi sia più forte o più debole di lui, in modo che ognuno si possa tirar indietro senza lottare davanti al più forte e possa, a sua volta, pretendere che il più debole di lui si ritiri senza lottare ogni volta che si incontrino». (ivi pp.81)
** Ad esplicare al meglio i meccanismi auto-inibitori dell’aggressività è il concetto del «moto ri-diretto» o «re-direction activity» (ivi pp.96). In pratica l’essere accorto, si trattiene e va a sfogarsi con qualcosa di distruttibile, Lorenz afferma: «la ri-direzione dell’attacco è l’espediente più geniale che l’evoluzione abbia inventato per costringere l’aggressività su binari innocui». (ivi pp.99).
*** «Atto che pone termine ad una sequenza comportamentale. Reazione che riduce l’intensità dell’istigazione in modo che venga diminuita anche la tendenza a produrre una determinata sequenza comportamentale». (Dollard, 1967. pp. 17-18).
**** Con metodo classico di studiare gli animali, ci si riferisce al metodo comportamentista (ad esempio quello di Skinner o di Pavlov), che consisteva nel fare esperimenti sugli animali al chiuso, trattandoli come semplici cavie da laboratorio.
 
Per approfondimenti:
_Agostino (2001) Natura del bene. Milano: Bompiani.
_De Caro, Mario (2005) La mente e la natura. Roma: Fazi
_Dollard, John (2007). Frustrazione e aggressività. Milano: RCS.
_Goethe, Johann, Wolfgang (2005). Faust e Urfaust (XII edizione ed.). (tr. it. Giovanni Vittorio Amoretti). Torino: Feltrinelli
_Hobbes, Thomas (2008). Leviatano. Roma-Bari: Laterza
_Hume, David (2014). Dialoghi sulla religione naturale. Milano: Bur
_Kant, Immanuel (2010) La religione entro i limiti della sola ragione. Roma-Bari: Laterza.
_Leibniz (1993). Saggi di teodicea sulla bontà di Dio, la libertà dell'uomo e l'origine del male. Milano: Bur.
_Lorenz, Konrad (2008). L’aggressività. Milano: il Saggiatore
_Paternoster, Alfredo (2002). Introduzione alla filosofia della mente. Roma-Bari: Laterza
_Schopenhauer, Arthur (2011). Il fondamento della morale. Roma-Bari: Laterza
_Tommaso (2007). Il male. Milano: Bompiani.
 
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di Danilo Sirianni del 04/12/2016

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Il senso comune ci suggerisce almeno due diverse interpretazioni della parola soggetto. Per economia argomentativa le chiamerò: accezione grammaticale e accezione esistenziale del soggetto. L'accezione grammaticale del soggetto è quella che ci viene insegnata a scuola fin da quando siamo bambini e prevede il soggetto come l'attore principale della situazione descritta dal predicato. In analisi logica, infatti, il soggetto rappresenta colui che compie l'azione, il protagonista dell'evento descritto nella proposizione, ciò di cui la frase dice qualcosa. Esso è legato al predicato, cioè a quel qualcosa che la frase asserisce riguardo al soggetto, che predica il soggetto, si riferisce ad esso, lo esprime. Nell'accezione grammaticale, dunque, il soggetto è un ente che subisce passivamente la descrizione del predicato. Ma si potrebbe obbiettare: - il soggetto non è passivo, è attivo, compie l'azione. - Certamente. Ma l'azione compiuta dal soggetto è descritta dal predicato, senza il quale sarebbe totalmente immobile e inattivo. Nessuno si sognerebbe di sostenere che c'è azione in un soggetto senza predicato. Se dico "Maria", senza aggiungere altro, non si sta compiendo nessun tipo di azione. In questo senso il soggetto, nell'accezione grammaticale, è qualcosa di fermo, statico, immobile, in totale quiete. Il movimento, l'azione, sono prerogativa del predicato. Ma il soggetto hegeliano non ha nulla a che vedere con quello appena descritto nell'accezione grammaticale. «Nel suo conoscere positivo il Sé è un soggetto rappresentato, al quale il contenuto si riferisce come accidente e predicato. [...] Diversamente si comporta invece il soggetto nella sfera del pensiero concettuale [...] non abbiamo più un soggetto in quiete che sostiene passivamente gli accidenti: il soggetto, piuttosto, è il concetto che muove se stesso e che riprende entro sé le proprie determinazioni» (Hegel, 2015, p.125). Ciò che interessa a Hegel è il soggetto nella sfera concettuale, il quale non è più in quiete, immobile, passivo, ma è attivo, è in divenire, è in movimento e lo è dentro di sé, senza bisogno di altro, senza nessun predicato.
L'accezione esistenziale del soggetto, invece, è quell'uso del concetto di soggettività in riferimento alla vita intima di un individuo. È il soggetto in quanto individualità, personalità, interiorità, soggettività. Paolo Rossi in quanto Paolo Rossi, che è quel soggetto lì, che fa quel mestiere, che vive in quel luogo, che è nato in quella data, che ha quei determinati tratti somatici, quel timbro di voce, quell'accento, quel carattere, ed è lui, unico e irripetibile. Ma nemmeno in questo caso il senso comune si avvicina a quello che Hegel intende con il termine soggetto. Il filosofo francese Jean-Luc Nancy lo spiega esaurientemente: «Il soggetto hegeliano non si confonde con la soggettività come istanza separata e unilaterale che sintetizza delle rappresentazioni, né con la soggettività come interiorità esclusiva di una personalità. Sia l'una che l'altra possono essere dei momenti, fra altri, del soggetto, ma esso non è niente di tutto questo. Il soggetto hegeliano, insomma, non è in nessun modo il sé che sta a sé. È invece, ed essenzialmente, ciò o colui che dissolve ogni sostanza - ogni istanza già data, prima o ultima, fondatrice o finale, capace di riposare in sé e di godere senza riserve della sua padronanza e della sua proprietà» (Nancy, 2010, p. 13). Per Nancy, dunque, il soggetto hegeliano non va confuso con ciò che noi intendiamo con soggettività, né come istanza rappresentativa, né come interiorità di una personalità perché anche in questo caso ci troveremmo in una immobilità, avremmo un soggetto che sta a sé passivamente, invece il soggetto dissolve attivamente ogni istanza, è capace di compiere la sua azione in sé, e goderne in sé perché esso stesso è azione. «Il soggetto è ciò che fa, è il suo atto; e ciò che fa l'esperienza della coscienza della negatività della sostanza» (ibidem).
[caption id="attachment_7012" align="aligncenter" width="1000"] Jean-Luc Nancy (Bordeaux, 26 luglio 1940) è un filosofo francese, professore emerito di filosofia presso l’università di Strasburgo. Assieme a Jacques Derrida può essere considerato il maggior esponente del decostruzionismo.[/caption]
Il soggetto hegeliano è negatività. Ma in che senso? Che cosa si intende con negatività? Per Hegel il negativo è negativo di se stesso. Il soggetto è dunque soggetto di se stesso. Il soggetto afferma se stesso negandosi. Solo con la negazione di sé, con l'autodifferenziazione raggiunge l'uguaglianza che è al contempo uguaglianza e differenza. Il soggetto hegeliano, dunque, differentemente dal soggetto inteso sia nella sua accezione grammaticale che esistenziale, è attivo in sé senza bisogno di altro e questa attività è la negazione. Solo attraverso l'azione negativa il soggetto si afferma, si manifesta come sé. Come spiega lo stesso Hegel (2015, p.73) il Sé è la realtà pura, è inquietudine. Il soggetto è manifesto come sé e il sé è negativo. «La negatività pura e semplice è la so-stanza in quanto soggetto» (ivi. p. 69). La negazione è il superamento antitetico di una posizione data, è il per sé che agisce sull'in sé, che ha lo scopo di riaffermarsi attraverso la sintesi prodotta da una nuova negazione superiore. Il soggetto, dunque, per potersi af-fermare deve negarsi doppiamente. Ma che cosa significa che il soggetto si nega? «Il soggetto non si nega come si nega un suicida. Il soggetto si nega nel suo essere, è questa negazione» (Nancy, 2010, p.79). Considerare l'auto-negazione del soggetto alla stregua di un suicidio sarebbe interpretare il soggetto secondo quella che ho chiamato: la sua accezione esistenziale. Sarebbe un errore madornale perché la negazione del soggetto non è negazione della soggettività. Il soggetto hegeliano non si nega soltanto, esso è questa negazione e questa negazione è il motore dialettico che gli permette di autoaf-fermarsi. «L'individualità non si suicida, essa cioè, non tratta se stessa come dall'esterno, a partire da un soggetto estraneo e astratto» (ivi. p.99). La negazione non è negazione della vita (dello Spirito) come un negativo che nega un positivo, ma la vita, essendo essa stessa negazione, riesce ad affermarsi negandosi. «La vita dello Spirito non è quella che si riempie d'orrore dinanzi alla morte e si preserva integra dal disfacimento e dalla devastazione, ma è quella vita che sopporta la morte e si mantiene in essa. Lo Spirito conquista la propria verità solo a condizione di ritrovare se stesso nella disgregazione assoluta. Lo spirito è questa potenza, ma non nel senso del positivo che distoglie lo sguardo dal negativo, come quando ci sbarazziamo in fretta di qualcosa dicendo che non è o che è falso, per passare subito a qualcos'altro. Lo spirito è invece questa potenza solo quando guarda in faccia il negativo e soggiorna presso di esso. Tale soggiorno è il potere magico che converte il negativo nell'essere» (Hegel, 2015, p.87).
Ricapitolando, il soggetto per Hegel non è quello che noi intendiamo nel senso comune. In esso ho individuato due accezioni che ho chiamato rispettivamente grammaticale ed esistenziale. Ho mostrato come nessuna delle due possa render ragione del soggetto Hegeliano per il semplice fatto che sono interpretazioni che prevedono un soggetto immobile e inattivo, mentre il soggetto per Hegel è attivo, in continuo divenire, gode di sé e di tutte le sue proprietà in sé e senza bisogno di altro, senza bisogno di nessun predicato. Ho mostrato che questa attività è la negazione. La negazione è una doppia negazione. Il soggetto è già esso stesso negazione e nega la sua stessa negazione per affermarsi. Ma cosa sono queste due negazioni? «La prima negazione è la libertà [...] La seconda negazione nega che la prima sia semplicemente valida: nega la pura nullità, l'a-bisso o la mancanza. È la liberazione positiva del divenire, della manifestazione e del desiderio. Essa è dunque l'affermazione del sé» (Nancy, 2010, p. 97). Un soggetto negato che auto-nega la sua negazione per affermarsi. Un soggetto in continuo movimento. Un soggetto differente da quello che si intende nel senso comune, un soggetto filosofico.
[caption id="attachment_7013" align="aligncenter" width="990"] François-Auguste-René Rodin, il Pensatore 1880-1904.[/caption]
Consideriamo queste possibilità:
1) Se il soggetto negato non si auto-negasse non riuscirebbe ad affermarsi, rimarrebbe immobile un po' come nella sua accezione grammaticale;
2) Se il soggetto non fosse negazione e si auto-negasse, cioè negasse il suo es-sere positivo, otterremmo un suicidio e ci troveremmo nell'accezione esistenziale.
Questo è il motivo per cui è necessaria una doppia negazione, perché se la negazione fosse singola: o il soggetto non basterebbe a se stesso, o si autodistruggerebbe. La libertà pura e iniziale non otterrebbe l'autoaffermazione del sé. Ma che cos'è precisamente, per Hegel, questo soggetto negativo che si auto-nega, quest'accezione filosofica? Siamo sicuri che questo soggetto sia totalmente diverso e non rispecchi nulla di quello che noi ci rappresentiamo nel senso comune attraverso l'accezione grammaticale o esistenziale? Per arrivare al punto c'è bisogno di un sorite esplicativo. Il soggetto per Hegel è il Sé; «il Sé è il negativo» (Hegel, 2015, p.1023); il negativo è il movimento, il divenire; questo divenire è lo Spirito assoluto, è il sapere assoluto, cioè non quello che la coscienza ha degli oggetti, ma quello che la coscienza ha di sé, il sapere della verità; «ma la verità di un sapere-di-sé [...] non può essere una verità che ritorna semplicemente a sé. [...] è da noi che la verità ritorna. È come noi che essa si ritrova ed è su di noi che incombe» (Nancy, 2010, p.105); dunque, il soggetto per Hegel è noi. Ma che significa noi? Si riferisce, forse, solo a coloro che riescono a cogliere la sua accezione filosofica escludendo chi lo intende secondo il senso comune? «Ma chi è noi? [...] "Noi" sembrerebbe allora indicare il filosofo o coloro che hanno compreso la lezione della filosofia [...] È sapere del passaggio, ma non di un oggetto, bensì del soggetto stesso, e il sapere "per noi" è essenzialmente lo stesso di quello della coscienza comune. [...] "Noi" non designa, pertanto, la corporazione dei filosofi, né il punto di vista di un sapere più alto - proprio perché "noi", siamo noi, noi tutti» (ivi. p. 106).
Il sapere di questo soggetto filosofico è lo stesso di quello della coscienza comune. Inizialmente sembrava così lontano, ma, in realtà, racchiude dentro di sé sia la sua accezione grammaticale che esistenziale. Abbiamo detto in precedenza che la sua accezione grammaticale prevede un negativo che non si nega, è ciò che si pensa del soggetto (considerato come oggetto estraneo), si trova nella dimensione dell'in sé. Nella sua accezione esistenziale, invece, abbiamo un positivo che si nega producendo una sorta di suicidio, un soggetto che compie lo sforzo di estraniarsi da se stesso cimentandosi nel mare dell'esistenza. Questa estraneità del suicidio si trova nella dimensione del per sé. Ed è qui che subentra il soggetto hegeliano, il soggetto filosofico comprende che il pensiero avuto della cosa è diverso da quello che questa (la cosa) diviene attraverso la negazione. Qui si chiude la spirale dialettica del soggetto hegeliano. Un in-sé-e-per-sé filosofico sintesi dell'in-sé grammaticale e del per-sé esistenziale. Un noi-soggetto che indaga su di sé, si estranea da sé per poi ritornare in sé affermandosi nell'infinita inquietudine di tante singolarità finite. «Questa inquietudine [...] è "noi" stessi: essa è cioè la singolarità delle singolarità in quanto tali. "Noi" non è una cosa - né oggetto né sé - presso la quale l'assoluto avrebbe dimora, anch'esso come un'altra cosa o un altro sé. Al contrario: che l'assoluto sia e voglia stare presso di noi, vuol dire che esso è il nostro "presso di noi", il nostro tra-noi, [...] L'assoluto è tra noi. Vi è in e per sé, e si può dire che anche il sé è tra noi. Ma "proprio questa inquietudine è il Sé"» (Nancy, 2010, p. 108).
Concepire il negativo come lo concepisce Hegel non è cosa da poco. La difficoltà risiede proprio nel riuscire ad emanciparsi dal senso comune senza mai perderlo di vista. Il senso comune spesso ci ancora a delle interpretazioni già impacchettate di un concetto, alla visione di alcuni particolari aspetti facendoci distogliere da una visione complessiva. La negazione, ad esempio, ci rimanda sempre a qualcosa legato al male, all'errore, al rifiuto, alla morte. Ma queste interpretazioni, come abbiamo visto, possono essere legate solo ad uno specifico aspetto e non alla complessità del suo senso. Concepire la negazione in senso hegeliano significa concepire l'assoluto solo come processo in movimento, abbandonando una concezione ezio-teleologica di un assoluto statico e passivo; significa "divenire" come il movimento rotatorio di un mulino messo in moto dal fiume eracliteo e dal suo infinito scorrere del finito; significa affermazione del sé all'interno di un infinito e inestricabile processo di inquietudine; significa estraneità del suicidio ed emancipazione da qualsiasi altra visione che veda nella negazione solo qualcosa di malevolo, errante, mortifero, verso un atteggiamento che si riassume in quella ricerca di "un'alba dentro l'imbrunire" che conclude il testo di Prospettiva Nevskij di Franco Battiato e, al contempo, questa breve dissertazione.
 
Per approfondimenti:
_Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, Fenomenologia dello spirito - Edizioni Bompiani 2015;
_Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, Lezioni sulla filosofia della storia - Edizioni Laterza 2012;
_Nancy, Jean-Luc, Hegel. L'inquietudine del negativo - Edizioni Cronopio 2010.
 
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di Maurilio Ginex  del 16/10/2016

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L’anarco-individualismo è una corrente filosofica che ripone al centro di tutto l’individuo singolo. Questo è assorto nel suo individualismo e mosso da un egoismo che lo porta all’interesse esasperato per se stesso a discapito dell’altro.
Max Stirner fu il più importante teorico di tale corrente. L’impostazione della sua filosofia, molto spesso vittima di un’errata interpretazione, gli costò molte accuse.
Venne definito un anarchico senza logica poiché l’errata interpretazione della sua opera non mise in risalto il fatto che all’interno fossero riposti dei precetti etici che potessero perfettamente rispecchiare il mondo terreno.
L’egoismo stirneriano , conosciuto anche come “egoismo etico”, rappresenta una sponda per lo sviluppo della critica mossa a tutto ciò che sta al di fuori dell’egoista ,ovvero l’individuo di Stirner, e a tutto ciò che può ledere alla sua persona.
La sua opera “l’unico e la sua proprietà”, rappresenta esattamente questo scenario in cui “l’unico” rappresenta l’individuo e “la sua proprietà” si identifica con la sua libertà. Quest’ultima non può e non deve essere lesa da niente e il suo nemico principale è rappresentato da quell’insieme di Stato, Chiesa, Liberali e quant’altro che Stirner non si priva di criticare e contro cui muove, con violenza e tenacia come fosse un arma, il diritto di esistere da parte dell’individualismo del singolo.
E’ all’interno della sua autentica filosofia con il martello che il singolo con le sue qualità, doti, caratteristiche ha il diritto di essere libero di agire nel modo migliore in cui crede. Stirner si scaglia anche contro società di stampo comunista che invece cercano di abolire il concetto di singolo, poiché in contrapposizione al loro sistema, autoritario e repressivo, dovrebbero far fronte allo sviluppo di una dissidenza. Però Stirner non fa distinzioni per ideologia o per fazioni politiche ed è proprio in questa sua caratteristica che si riscontra la funzione morale della sua speculazione.
Se dovessimo ritrovarci a fare una storia di quest’idea di egoismo, che muove l’individuo verso la sopravvivenza e la difesa della propria persona nella sua totalità, salterebbe subito alla mente il concetto di uomo analizzato da Thomas Hobbes all’interno dello Stato di natura.
[caption id="attachment_6451" align="aligncenter" width="1024"] Particolare di copertina del "Leviatano" dove Hobbes espone la propria teoria della natura umana, della società e dello stato. Leviatano È il grande mostro di cui più volte parla la Bibbia. T. Hobbes chiamò così lo Stato politico (Leviathan, 1651), a significare il carattere di un dio mortale che domina i comportamenti umani e tutto decide per loro.[/caption]
Hobbes giunge alla conclusione che la condizione che vive l’individuo, nello stato di natura, sia quella dell’ "homo homini lupus". Letteralmente: “l’uomo è un lupo per l’uomo”. In questa constatazione, da contestualizzare all’interno dell’ottica della sua politica, il filosofo spiega come la natura dell’individuo sia fondata sull’istinto di sopravvivenza e sopraffazione sull’altro. Però se da un lato vi è un istinto aggressivo che porta l’uomo a distruggere l’altro per arrivare ai propri fini, allo stesso tempo vi è di fondo il timore di essere vittima dello stesso trattamento. Dunque l’animo umano in Hobbes si trova ad oscillare, contraddittoriamente, tra il sentimento di aggressione e la paura di essere aggredito che fa forza che muove. E’ un continuo “bellum omnium contra omnes”, “guerra di tutti contro tutti”, in cui conta principalmente il concetto di “mors tua , vita mea” (morte tua, vita mia).
I due egoismi filosofici in questione sono da un punto di vista ontologico differenti . Il fine delle due concezioni è il medesimo, ciò che cambia è il mezzo attraverso il quale si giunge a tale fine. Mentre in Stirner vi è di fondo un’etica da seguire che potrebbe presupporre anche un atteggiamento stoico nei confronti dell’altro purchè sia protetta la libertà propria, in Hobbes vi è quel sentimento di aggressività che porta l’uomo, infatti, ad essere un lupo verso l’altro. Se in Hobbes lo stato di guerra che l’individuo vive nei confronti dell’altro può trovare la sua conclusione attraverso la costituzione dello Stato, in Stirner tale costituzione porrebbe fine alla conclusione della libertà individuale.
Queste due concezioni filosofiche e politiche la cui genesi abbraccia due periodi storici differenti, rispettivamente l’Ottocento con Stirner e il Seicento con Hobbes, potrebbero trovare attraverso una corretta analisi un terreno fertile in ciò che è stato il conseguente mondo formatosi con il Postmodernismo. Termine che nel ‘900 venne usato per vari ambiti culturali ma che sta ad indicare quelle società in cui il capitalismo e l’alta finanza si sono estese a livello globale e hanno pervaso ogni struttura e sovrastruttura ricercando soltanto il fine utilitaristico nell’attività del singolo.
Il fine utilitaristico è l’accumulo di denaro e per tale accumulo l’uomo non può che essere un lupo per l’altro uomo. L’ambizione, che porta alla corruzione, genera il sentimento di aggressività di cui Hobbes parla. Ma in questo scenario in cui la competitività genera il vuoto attorno ai singoli, Stirner potrebbe trovare il suo terreno fertile all’interno di quegli individui che vivono una condizione di sottomissione da parte di quelle società che negano il libero arbitrio e recintano il campo d’azione del singolo. Emblematica è la differenza stirneriana tra “rivoluzione” e “ribellione”, in cui la prima rappresenta un modo per capovolgere un sistema e impiantarne un altro e la seconda consiste in un azione mossa da un impeto egoistico determinato dall’insoddisfazione del singolo. Nel concetto di ribellione risiede la morale stirneriana che oggi dovrebbe essere l’identità di quella forza hegeliana che muove il tutto.
 
Per approfondimenti:
_Max Stirner, L'Unico e la sua proprietà - Edizioni Adelphi
_Thomas Hobbes, Leviatano - Edizioni BUR classici
 
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