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62° incontro DAS ANDERE

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Sabato 26-02-2022 alle ore 18:00, si è svolto presso il Palazzo dei Capitani del Popolo (Piazza del Popolo - 63100 Ascoli Piceno) il 62°evento dell’associazione onlus Das Andere con ospite l’avvocato Daniele Paolanti, il quale ha dissertato sulla sua ultima fatica letteraria “Le Ombre dei desideri" – Nostalgia letteraria e contemporaneità. Ha introdotto il Vice-presidente Francesca Angelini ed ha moderato il presidente Arch. Giuseppe Baiocchi.
[caption id="attachment_12680" align="aligncenter" width="1000"] Il Consigliere Comunale Avv. Emidio Premici prende la parola per i saluti istituzionali.[/caption]
La tematica di cui si è proposto lo sviluppo ha gravitato attorno ai componimenti elaborati dal poeta Paolanti, verso un sentimento antico e atavico di nostalgia: ovvero verso quel mondo amaramente dimenticato proprio dell’umile gente della campagna, abituata alla fatica ed al sacrificio e benedetta da tradizioni plurisecolari. La realtà sognata e per la quale si prova un delicato “desiderio di ritorno” è quella della cultura sottoproletaria propria delle aree agresti non ancora del tutto urbanizzate, poste al limes tra le Marche e gli Abruzzi. In quel segmento rustico e dimenticato dei cives piceni si è spesa l’infanzia di Paolanti e della sua famiglia, accanto al profumo dei sambuchi e delle ortiche, del legno verde, della brace sui focolari e della Fede.
Nel mondo liquido e orizzontale del progresso contemporaneo, tutto ciò che è autentico e vero, viene rimosso con sdegno, proprio perché la società di oggi vive di gnosi, distaccandosi completamente, con falsità appunto, dall’elemento organico. Ebbene questi componimenti poetici rappresentano un tentativo coraggioso di raggiungere di nuovo questa essenza immateriale del mondo: una percezione di serenità e verità, che può farci fermare un poco a ricordare e riflettere su cosa siamo e soprattutto su chi siamo, come società e come popolo.
 
 
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Il Novecento ha rivelato una verità incontestabile, ovvero il desiderio dell’uomo moderno di valicare i confini del sacro, scostandosi dai paradigmi del fas e del nefas, al solo scopo di assecondare un insaziabile desiderio di conoscenza. Un desio fomentato dal dubbio – tante volte esteriorizzato finanche nello Zibaldone leopardiano – che, alimentato dalla crescente hỳbris, ha condotto alla teoria del relativismo, nella quale la Verità universale non esiste o, in talune declinazioni, non esiste soltanto una verità.

[caption id="attachment_12329" align="aligncenter" width="1000"] Particolare del bassorilievo del peccato originale presso il Duomo di Orvieto, Cattedrale dell'Assunta, Umbria.[/caption]
Ebbene, le prime tracce di avversione al volere divino mosse a causa della c.d. empia tracotanza forse sono presenti finanche nelle Sacre Scritture: nel libro della Genesi Adamo ed Eva potevano mangiare di qualunque frutto fuorché dell’albero dal quale Dio li aveva diffidati dall’attingere. Il Serpente, che lo stesso Eterno porrà come inimico alla Donna, convinse Eva a commettere l’empio atto di insolenza, portando seco nel peccato Adamo. Dal libro della Genesi leggiamo infatti che il colloquio con l’Ingannatore fu del seguente tenore: «Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell'albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete». Ma il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male».
Ecco il primo desiderio di conoscenza, la prima sfrenata pulsione di avversare la Verità ed il Sacro Ordine che Dio ha imposto all’Uomo: «Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture». La pulsione scaturente dal desiderio di cercare una sapienza loro preclusa, dubitando e ipotizzando callidamente che la medesima fosse stata loro sottratta per gelosia o invidia, è la prima forma di dubbio. Ma il risultato conseguito è l’inverso: i progenitori della specie umana si rendono conto di essere nudi (la pochezza della loro esistenza e l’ontologica fragilità delle loro vite) e, di converso, intrecciano foglie di fico per coprirsi, forse perché consci di non essere in grado di interagire e trattenere quel sapere così ardimentosamente anelato.
Qual è la natura del Diavolo, infatti, nella tradizione cristiana? La teologia insegna che questi altri non sia se non un puro spirito, presente sin dai primi momenti della creazione, quando l’Eterno Padre creò le creature celesti e le divise in nove cori. Egli, brillante e di magnificenza tale da non poter essere equiparato ad altre creature angeliche, si ribellò a Dio rifiutandosi di essere equiparato al resto del creato, desiderando egli stesso di ergersi al livello di Dio, per poi venir ricacciato, dopo la sua caduta, negli abissi della terra dal Principe delle Milizie Celesti, San Michele Arcangelo, al grido di Mîkhā'ēl, ovvero “Chi è come Dio?”.
Ne L’Esorcista, film del 1973 diretto da William Friedkin e tratto dall'omonimo romanzo di William Peter Blatty, Padre Merrin, il sacerdote che tenta di liberare la giovane protagonista posseduta da uno spirito demoniaco, si riferisce al Diavolo dicendo «Credo che voglia portarci alla disperazione... perché vedendoci ridotti a bestie mostruose... noi escludiamo la possibilità dell'amore di Dio».
[caption id="attachment_12330" align="aligncenter" width="1000"] L'esorcista (The Exorcist) è un film del 1973 diretto da William Friedkin e tratto dall'omonimo romanzo di William Peter Blatty, che scrisse anche la sceneggiatura del film. La pellicola ebbe molto successo malgrado i problemi di censura e, negli anni seguenti, generò due sequel: L'esorcista II - L'eretico (1977), L'esorcista III (1990), e una riedizione in versione integrale del 2000, con circa undici minuti di scene inedite. Nel 1974 ne fu anche realizzata una versione cinematografica turca intitolata Şeytan, mentre nel 2016 è servita da ispirazione per l'omonima serie televisiva The Exorcist, che si pone come sequel. Ben accolto dalla critica, il film divenne presto un punto di riferimento del cinema moderno, acquisendo una notevole popolarità e esercitando un forte impatto culturale[2][3][4]. Nel 2010 entrò a far parte del National Film Registry della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti.[/caption]
La malizia, l’inganno surrettizio della conoscenza suprema, la brama di valicare i confini del sacro per spingersi oltre sino a dubitare di tutto, arrivando ad ipotizzare il precetto, ontologicamente privo di logicità, in virtù del quale “l’unica verità è che non esistono verità”, è stato sovente attenzionato dalla letteratura. Il caso più emblematico è quello di Ulisse Re di Itaca, che Dante incontra nell’Inferno tra i consiglieri fraudolenti mentre sconta la sua dannazione per aver peccato di empia tracotanza. Leggiamo nel XXVI Canto dell’Inferno (vv. 45-48) «E ’l duca che mi vide tanto atteso, disse: «Dentro dai fuochi son li spirti; catun si fascia di quel ch’elli è inceso». Ma ogni ulteriore parola sottrarrebbe spazio alla delizia del verseggiar del Sommo, donde di lui si riportano le parole: «Lo maggior corno de la fiamma antica cominciò a crollarsi mormorando pur come quella cui vento affatica».
Ulisse racconta in questa sede a Dante e Virgilio come avvenne la sua dipartita. Vecchio e stanco, non più l’eroe che tanto atterriva i troiani sotto le mura di Ilo, non più il duri miles Ulixi dell’inganno del cavallo, ma un uomo le cui glorie non sono più cantate, dimenticato persino nella sua patria, ma con un forte desiderio di vedere il mare, di esplorare nuovi porti prima ancora che la sua vita giungesse all’ultimo lido.
Io e ’ compagni eravam vecchi e tardi/quando venimmo a quella foce stretta/dov’Ercule segnò li suoi riguardi,/acciò che l’uom più oltre non si metta:/da la man destra mi lasciai Sibilia,/da l’altra già m’avea lasciata Setta./“O frati”, dissi “che per cento milia/perigli siete giunti a l’occidente, /a questa tanto picciola vigilia /d’i nostri sensi ch’è del rimanente, /non vogliate negar l’esperienza,/di retro al sol, del mondo sanza gente. /Considerate la vostra semenza:/fatti non foste a viver come bruti, /ma per seguir virtute e canoscenza”.
Fermo immagine: cerchiamo di comprendere cosa sta accadendo ad Ulisse. Con un manipolo di compagni vecchi e stanchi si rimette in mare, sino a raggiungere il confine invalicabile per gli uomini, lo stretto delle Colonne d’Ercole (lo stretto di Gibilterra, nella letteratura occidentale e in primis nel mito greco, era un tempo chiamato col nome di Colonne d'Ercole). Un’esitazione coglie la compagnia, ma non pervade il Re itacese: varcare la soglia delle colonne d’Ercole sarebbe stato un atto empio, ben più ardimentoso di quello di Prometeo, la punizione divina li avrebbe afflitti senza pietà alcuna. Il cuore di Ulisse però non si dà pace, deve vedere, deve scoprire, deve andare oltre, dubita della reale volontà divina. Si erge così ad “uomo nuovo” e sprona i suoi compagni al folle volo, ricordando quale fosse l’indole dell’umana stirpe, ovvero “per seguir virtute e canoscenza”.
Così la nave prosegue, oltrepassa il limes invalicabile, s’addentra là dove non avrebbe dovuto, pronta per incontrare la sua rovinosa fine: quando n’apparve una montagna, bruna /per la distanza, e parvemi alta tanto /quanto veduta non avea alcuna. /Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto,/ché de la nova terra un turbo nacque,/e percosse del legno il primo canto. /Tre volte il fé girar con tutte l’acque;/a la quarta levar la poppa in suso/e la prora ire in giù, com’altrui piacque,/infin che ’l mar fu sovra noi richiuso».
Cosa è accaduto all’astuto Ulisse? La nave giunge alle pendici di una montagna altissima, di un’altitudine tale che nessun uomo ne aveva mai vista una altrettanto imponente (la montagna del Purgatorio della visione dantesca?) e la compagnia prontamente si rallegra. Senonché il loro giubilar diventa presto pianto, nel momento in cui apprendono che la nave si trovava al centro di un turbine che la costrinse ad un triplice giro vorticoso: la prua s’inabissa e la poppa si solleva ed il mare si chiuse sopra di loro, inghiottendoli per l’insolenza contro il volere divino.
Singolare è l’impiego dell’espressione “com’altrui piacque”. Queste parole precedono infatti l’annunciazione della morte di Ulisse e dei suoi compagni, che infatti chiudono il XXVI canto. Quasi che Dante volesse lasciarci intendere che, poco prima di morire, Ulisse si fosse reso conto del peccato di cui fu portatore, della hỳbris con cui sfidò gli dei: del dubbio, del fatto che una verità, o una sola verità…Non esistesse…”. Ed il mare si chiuse sopra di loro.
La narrazione di Dante lascia incredulo l’uomo moderno, non perfettamente consapevole di quale possa essere il peccato imputato ad Ulisse. La società contemporanea, afflitta da un materialismo convulso e da un consumismo irrefrenabile, che sembra sia ontologicamente sprovvisto di confini, non vuole per sua natura incontrare “riguardi”, trovando maggior conforto nella negazione di una Verità e nell’esaltazione del dubbio e del relativo, ovvero dell’assenza del vero assoluto e dell’unico vero. Da qui trovano scaturigine i limiti etici e deontici, che avviluppano il sapere e le scoperte.
E proprio di desiderio di sapere e di assenza di etica parleremo cennando al personaggio del Dottor Faust. Francesco De Sanctis, nella sua Storia della letteratura italiana, scrive «[La] lotta tra Dio e il demonio è la battaglia dei vizi e delle virtudi [...].
[caption id="attachment_12331" align="aligncenter" width="1000"] Faust, Il laboratorio, stampa del 1872.[/caption]
Questa [...] è la base della leggenda del Dottore Fausto che vendé l'anima al diavolo, leggenda così popolare al medio evo, e resa immortale da Goethe». Il dottor Faust era un eminente sapiente, il quale spese la sua vita studiando Filosofia, Giurisprudenza, Teologia e Medicina, ma non era mai soddisfatto di quel sapere che, a suo dire, non gli era sufficiente per ritenersi sapiente, potendo al limite soltanto fingersi tale, dacchè «nulla ci è dato sapere». Inizia così a studiare la magia sino al momento in cui, insoddisfatto, tenta il suicidio, ricredendosi solo all’ultimo minuto e quindi desistendo dal proposito. L’incontro con Mefistofele avviene in questo contesto: il diavolo promette a Faust di offrirgli ogni supremo godimento e piacere della vita in cambio della sua anima. Il contratto tra Faust e Mefistofele viene così firmato con il sangue del Dottore, non troppo angustiato da quanto possa accadergli nell’al di là.
La storia narrata da Goethe è costellata di amori (per Margherita), rimpianti, dolori e depressione, tant’è che lo stesso Mefistofele si fa persuaso di non essere in grado di vincere la scommessa: il contratto avrebbe avuto effetto solo se Faust godrà al punto tale da dire all'attimo: «sei così bello! fermati!».
La storia, dopo le innumeri peripezie, si conclude con la quasi sconfitta di Faust, divenuto ormai cieco, ma ancora non abbattuto, semmai convinto di voler vedere una civiltà felice, prospera e laboriosa e solo in quell’istante, pieno di godimento, avrebbe detto all’attimo «sei così bello! fermati!».

«All'attimo direi:/sei così bello, fermati!/Gli evi non potranno cancellare/l'orma dei miei giorni terreni./Presentendo una gioia tanto grande,/io godo ora l'attimo supremo».

Mefistofele crede di aver vinto la scommessa, poiché Faust ha pronunziato le parole oggetto di contratto e così lo fa morire. Il diavolo tenta di reclamarne l’anima ma, in quel momento, la stessa gli viene sottratta da Dio, che giustifica la redenzione del Dottore per il suo impegno per una civiltà felice e laboriosa e per la sua costante ricerca dell’Eterno e dell’Infinito. Numquam, cosa ha voluto raccontarci Goethe? Faust stringe un patto con Mefistofele perché mai sazio e vittima della sua stessa hỳbris, desideroso di sapere e di godimento. La redenzione giungerà solo quando egli incontrerà il desiderio dell’Infinito e dell’Eterno, la Verità, la sola. L’unica.
Vale la pena chiudere questo scritto con un’ulteriore citazione, che rimane però una domanda aperta per l’uomo moderno: «Quid est veritas?» (che cos’è la verità?). Questa frase la troviamo nel Vangelo secondo Giovanni, ed è attribuita a Ponzio Pilato mentre questi interroga Gesù. Pilato chiede dunque a Gesù spiegazioni circa la sua affermazione consistente nel «rendere testimonianza alla verità». Dopo di ciò, Pilato proclama alle masse di non riscontrare in Gesù nessuna colpa.
 

 

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Divin Marchese, così la storia lo avrebbe ribattezzato. Eppure, il personaggio più sfrontato, eccessivo e smodatamente perverso del XVIII secolo, di divino aveva davvero molto poco. Taluni autori si riferiscono ai suoi personaggi letterari (sovente la critica usa il più spregiativo appellativo creature) come autentici mostri; non da ultimo Pierre Klossowski, il quale in una sua opera – Sade prossimo mio, edito nel 1947 – riuscì ad offrire una lettura del suo pensiero tutt’altro che didascalica, proponendosi - tra i primi se non per primo - di denotare alcuni elementi di carattere antropologico, psichiatrico e, perché no, anche letterario, del noto nobile, scrittore, filosofo, poeta, rivoluzionario.. e  criminale francese: fu ristretto a lungo alla Bastiglia, come si riferirà in appresso.
Neppure Pier Paolo Pasolini rimase immune dalla fascinazione sadiana: Salò o le 120 giornate di Sodoma è la trasposizione cinematografica dell’omonima opera di De Sade –sebbene il corsaro friuliano scelga come ambientazione Salò durante l’occupazione. De Sade ha rappresentato oggetto di studio anche per psicoterapeuti, psicanalisti e psichiatri, tant’è che il termine “sadico” trova derivazione proprio dal nome di Sade ed è impiegato per ricalcare tutte quelle condotte violente, smodate, di una incresciosità tanto perniciosa quanto basta ad appagare il desiderio (anche sessuale) dell’aguzzino. Il vocabolo è entrato appieno nel nostro gergo, donde di sicura utilità potrebbe rivelarsi una disamina, senza pretesa di esaustività, della persona del letterato francese, che tanto portò scandalo ai suoi tempi.
Donatien-Alphonse-François de Sade, signore di Saumane, di La Coste e di Mazan, marchese e conte de Sade, nacque a Parigi il 2 giugno 1740, in una famiglia di antica nobiltà (alla quale rinunciò agli inizi del XIX secolo, tant’è che finì col firmarsi come D.A.F. De Sade), una delle più antiche della Provenza; l’infante vide la luce nel Palazzo dei Condè a Parigi, residenza dei principi Borbone-Condè. Figlio di Jean-Baptiste François Joseph de Sade e di Marie Elénore de Maillé de Carman, questa nipote del cardinale Richelieu, trascorse l’infanzia nel Palazzo Condè sino all’età di quattro anni, momento in cui deve spostarsi nel palazzo avignonese di famiglia, poiché sua madre fu costretta ad accompagnare il marito (noto diplomatico) impegnato al servizio del principe elettore di Colonia. Di lì si trasferì poi presso l’abitazione dello zio, Jacques-François-Paul-Alphonse de Sade, dove ricevette i primi rudimenti anche di letteratura. Si formò presso i gesuiti e, in ragione dei titoli di nobiltà posseduti a quattordici anni, frequentò una scuola preparatoria di cavalleria annessa al reggimento di Versailles - concorrente e speculare a quella dei moschettieri -, affrontando quindi un primo periodo di rigore e rigida disciplina militare, ma entrando anche in contatto con la classe nobiliare parigina. Nonostante fosse un militare non mancò di condurre una vita dissoluta, sino al momento del congedo avvenuto il 16 marzo 1763, al termine della guerra.
Il padre del giovane marchese riuscì a combinare il matrimonio del rampollo con la figlia di un ricco magistrato, dacché era sensibilmente preoccupato per le risorse economiche della famiglia. La moglie di de Sade fu quindi Renée-Pelagie Cordier de Launay de Montreuil. Tuttavia de Sade inizia a costruirsi una pessima fama per via della sua dissolutezza, essendo propenso al gioco d’azzardo ed a sperperare denaro frequentando camerini delle attrici e delle prostitute. Non manca comunque di vezzeggiare e rendere prosaico corteggiamento a mademoiselle Laure-Victoire-Adeline de Lauris, discendente da un casato provenzale, alla quale invia poesie in stile trobadorico da egli composte. Tuttavia il rapporto si interruppe, presumibilmente, per episodi di violenta gelosia esternati da D.A.F., quindi la storia si concluse. Non passa molto tempo da quando si sposò che il Marchese venne recluso nelle carceri di Vincennes in ragione di un comportamento ritenuto “oltraggioso” che questi avrebbe tenuto in un bordello. Ed è solo l’inizio della serie di guai con la giustizia nei quali incorse.
La seconda incarcerazione la subisce nel 1768, quando viene arrestato e fatto recludere per sei mesi poiché accusato di aver rapito e torturato una donna. Il Marchese venne liberato per ordine del re e riprese immediatamente la sua vita dissoluta. Organizza feste e balli nella sua tenuta di La Coste e, nel frattempo, dà inizio anche ad una serie di viaggi ed intrattenimenti con la sorella della moglie, Anne, con la quale (così risulta agli storici) ha anche un’intesa sessuale.
Altri problemi giudiziari sopravvengono per il nostro nel 1772, nel corso della rappresentazione di una sua opera teatrale. In quell’occasione sarebbe stato accusato di avvelenamento. Risulta difatti che nel corso di un’orgia cui partecipò in compagnia del suo domestico e quattro prostitute, distribuì a costoro dolci adulterati con delle droghe, con la speranza producessero un effetto afrodisiaco. I dolci avvelenati, invece, provocarono alle donne forti malori.
Il Marchese scappò in Italia, venne arrestato a Milano dalle milizie del Re di Sardegna e rinchiuso nel locale carcere con condanna a morte. Dopo soli cinque mesi evade di prigione e trascorre i successivi cinque anni trastullandosi in orge e viaggi, dando vita a numerosi scandali. Fu arrestato nuovamente nel 1777 a Parigi e condotto nella prigione di Vincennes, dove cominciò a comporre opere teatrali e romanzi. Di lì venne trasferito alla Bastiglia, ove compose Le 120 giornate di Sodoma oltre ad un’altra opera altrettanto celeberrima, ovvero Justine, le disgrazie della virtù. Dalla Bastiglia è poi trasferito in un manicomio, a luglio del 1789, pochi giorni prima della presa del forte carcerario. Con il trasferimento abbandonò la sua voluminosa biblioteca e tantissimi manoscritti andati perduti. Ottenne nuovamente la libertà nel 1790, tentò di riconciliarsi con la moglie che, però, lo abbandonò a causa delle sue violenze (i figli invece emigrarono).
Rotto il rapporto con sua moglie intrattenne quindi una relazione amorosa con un’attrice, con la quale visse sino al resto dei suoi giorni, Marie Constance Quesnet.
La sua vita si trovò posta di nuovo a rischio poiché visse in un quartiere rivoluzionario e cercò quindi di dissimulare le sue nobili origini. Venne però riconosciuto, arrestato e condannato a morte. Ma la fortuna non abbandonò mai il divin marchese che, per puro caso fortuito, venne dimenticato nella sua cella. Fu liberato nel 1793.
Seguirono le sue pubblicazioni (alcune già concepite ai tempi della detenzione nella Bastiglia). Infatti nel 1795 vide la luce La filosofia nel boudoir, La nuova Justine e Juliette. Il romanzo Justine fu però considerato una pubblicazione oscena ed infame, donde l’autore, senza alcun processo, venne internato presso il manicomio di Charenton. Malgrado le sue rimostranze e doglianze venne ritenuto pazzo e trascorse nel manicomio gli ultimi anni della sua vita. Donatien-Alphonse-François de Sade morì il 2 dicembre 1814, all’età di 74 anni. Un dato desta particolare impressione: dei suoi settantaquattro anni di vita de Sade ne trascorse ben trenta in carcere. Per lungo tempo il suo nome fu oggetto di biasimo e con esso tutte le sue opere, bandite e ritenute oggetto di scandalo. La produzione di De Sade ottenne la riabilitazione solo nel Novecento, nel secolo dove tutto è relativo, anche il male.
[caption id="attachment_11883" align="aligncenter" width="1000"] Quills è un film del 2000 diretto da Philip Kaufman e adattato dalla commedia vincitrice del premio Obie di Doug Wright, che ha anche scritto la sceneggiatura originale. Ispirato alla vita e all'opera del Marchese de Sade, Quills reinventa gli ultimi anni di incarcerazione del Marchese nel folle manicomio di Charenton.[/caption]
Sade fu sicuramente – rectius: dichiaratamente – ateo. La religione rappresenta un vincolo che imbriglia la pulsione libertina, la costringe in un paradigma di contegno e decenza che mal si conciliavano con la sua indole perversa e proclive allo scandalo. Dio è amore: questo credono i fedeli delle religioni monoteiste. Per de Sade Dio, ammesso che egli potesse anche solo concepirne l’esistenza, è un carceriere, colui che traccia i termini, il marcatore del limes tra lecito ed illecito, tra morale e immorale. In sintesi la demarcazione tra fas e nefas. Non a caso le punizioni inflitte alle vittime del libro Le 120 giornate di Sodoma, sono particolarmente crudeli laddove uno dei fanciulli o delle fanciulle rapite dovesse nominare il nome di Dio o alludere a temi di natura religiosa, ascetica, teologica. Per Sade non esiste limite al piacere ed al godimento, un godimento che supera anche i margini della Legge, sia divina che umana. Lacan, tra i progenitori della psicanalisi, riteneva che la vita umana oscillasse tra legge e desiderio. L’adeguato equilibrio dovrebbe risiedere nella ricerca del senso dell’esistenza, nel riconoscere la propria identità calibrandola ad un sistema composto dai simili, dall’altro. Per de Sade il desiderio è piacere, godimento, una continua copula dimentica dei vincoli normativi del sistema sociale. Lo stesso marchese si pone sovente al di là della legge stessa, violandola reiteratamente, manifestando sprezzante insubordinazione, capovolgendo la moralità invertendone le fondamenta. Nelle sue opere sono presenti numerose postille (glosse?), con le quali addirittura si rivolge a sé stesso - con reverenza ed in seconda persona, (es. Abbiate cura di evidenziare…et similia) - e in cui si propone di rimarcare concetti scabrosi, osceni, difficilmente tollerabili. Non di rado è capitato che i lettori dovessero distogliere gli occhi dalle pagine o che riferissero di provare sensazioni strane nel sorreggere quei volumi tra le mani, come se stessero toccando qualcosa di…empio.
Nella produzione letteraria sadiana un tema ricorrente è quello della scatologia. “La scatologia è politica?” chiese un giornalista a Pasolini, nel corso della sua ultima intervista. E lui “assolutamente!”. Eppure in quasi tutti gli scritti di de Sade la componente escrementizia è citata con una ricorrenza quasi ossessiva, maniacale, forse anche per l’inclinazione indiscutibilmente perversa dell’autoproclamato filosofo. La ragione per cui in de Sade la scatologia è indispensabile è strettamente interconnessa con la pratica della sessualità, vissuta ovviamente nelle declinazioni più estreme: per il marchese la base diventa il vertice e viceversa. Il libertino è prodigo nei banchetti, non limita l’assunzione di cibarie e bevande raffinate ed in proporzioni sconsiderate (Dante, solo per questo, lo taccerebbe per mancanza di continenza). Di conseguenza l’espulsione – esteriorizzazione di quanto ab origine assunto –, ha condotto alla traslazione dell’apologia genitale, che il marchese ritiene forse troppo conformista o di scarsa attitudine ad accelerare la voluttà, verso quella del culto di altri organi del corpo umano, proprio perché in ciò che viene espulso si sostanzia l’ebbrezza che conduce quindi a riassumere (interiorizzazione di quanto esteriorizzato) lo scarto. Questa è, in effetti, la logica del consumismo: la società dei consumi impone quotidie di pretendere quanto non è necessario. Quindi, così come i mostri di Sade consumano i propri escrementi, al pari nella lettura pasoliniana su Sade, il consumatore cerca il superfluo, l’eccedenza necessaria, quasi come se la lotta per la sopravvivenza si fosse posta in antitesi ex se: per sopravvivere l’uomo ha bisogno del superfluo.
[caption id="attachment_11884" align="aligncenter" width="1000"] Marquis de Sade – 100 Erotic Illustrations è uscito per Goliath Books.[/caption]

Per de Sade, come riferito supra, non esiste limite alcuno al piacere. Piacere corporeo, fisico, materiale, epicureo (forse anche oltre la prospettiva di Epicuro). Il poeta massimizza il suo godimento nella condotta sfrenata e libertina che assunse nel corso della sua intera esistenza. Perché quindi, il piacere sadiano è così osceno? Alcuni autori ne hanno rinvenuto la motivazione nella dialettica condotta dal poeta/filosofo sull’orgasmo. I protagonisti delle sue opere difficilmente culminano, questo perché l’autore vuole enfatizzare taluni aspetti del suo desiderio: il perdurare del coito sadiano, se da un lato ha una lunga durata che acuisce il vizio ed il godimento, dall’altro specularmente provoca nella vittima (la sessualità sadiana non è quella ordinaria, ma è spietata, violenta, perversa ai limiti del patologico, valicando quasi sempre la linea di demarcazione con la legalità) dolore inimmaginabile, sofferenza fisica e psicologica, potendo facilmente essere qualificata come una forma di tortura. Ecco perché, nel vocabolario moderno, si impiega il termine sadico: in riferimento proprio a Sade, alla sua vita ed ai suoi comportamenti, oltre al modo pernicioso di leggere la vita. Parlare di filosofia, in de Sade, a giudizio dello scrivente, è impresa ardua se non inverosimile. Il marchese non trasmette alcuna logica teoretica nella sua vita, se non il macabro desiderio di godimento assoluto che lo condusse alla reclusione nei vari penitenziari che lo ospitarono per gran parte della sua vita. Tantissimi studiosi hanno riservato attenzione a de Sade: perché nell’oscuro, nei mostri sadiani, noi comprendiamo a cosa debba ispirare, al contrario di quanto sostenuto dal nobile parigino, l’essere umano. L’individuo nasce in un sistema al quale deferisce parte della propria libertà riconoscendo l’altro come suo prossimo, l’altro come oggetto del desiderio, ma desiderio inteso come ricerca della propria individualità e identità. L’utilità di Sade è quella che Pierre Klossowski individua in Sade prossimo mio: i mostri delle sue opere rappresentano la negazione della moralità, della pietà, del razionalismo etico e della cura del prossimo. Invero il prossimo, per parafrasare la letteratura evangelica cristiana, e tale a se stessi.

 
Per approfondimenti:
_Donatien-Alphonse-François de Sade, Les 120 journées de Sodome, ou l'École du libertinage, manoscritto datato 1785;
_Donatien-Alphonse-François de Sade, Justine o le disavventure della virtù (Justine ou les Malheurs de la vertu), manoscritto datato 1788;
_1795: La filosofia nel boudoir (La Philosophie dans le boudoir);
_1799: La nuova Justine, ovvero Le sciagure della virtù (La Nouvelle Justine, ou les Malheurs de la vertu), continuazione di Justine ou les Malheurs de la vertu;
_Pierre Klossowski, Sade prossimo mio preceduto da Il filosofo scellerato, trad. di Aurelio Valesi, SugarCo, Milano, 1970, Garzanti, Milano, 1975.
 
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53° incontro DAS ANDERE

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Sabato 30 novembre, presso la Bottega del Terzo Settore è andato in scena il 53°incontro dell'associazione culturale onlus Das Andere alle ore 18:00. L'evento ha visto la presenza dell'Assessore alla Pubblica Istruzione e al turismo Monica Acciarri ed ha avuto come ospite l'avvocato Daniele Paolanti, il quale ha presentato la sua seconda raccolta di canti poetici del Trittico "Le ombre", intitolata "Le ombre del dolore" (dopo le ombre del silenzio).
L'appuntamento è stato moderato dall'architetto e presidente Giuseppe Baiocchi e ha visto la ospite il presidente dell'associazione Cultural-mente insieme il notaio Francesca Filauri. Daniele è un'umile e sapiente raccoglitore del kairos della vita e si sforza di annotare tutto sul suo taccuino, dal quale generare poi l'attività di spietata sintesi e di faticosa levigatura delle parole in versi. Oggi certamente fare poesia è difficile: è mestiere di coraggio in questa epoca secolarizzata, dove spesso la remunerazione poetica è ben lontana dalla realtà della vita concreta.
Lo stesso scrivere per cristallizzare delle situazioni, catturare frammenti - parafrasando Peter Altenberg - è sempre più dileggiato in un' epoca che non comprende più lo spirito che ha sempre mosso l'uomo europeo e che lo ha sempre portato verso la sua grandezza nel mondo concreto. Nel nostro caso ci troviamo di fronte ad un delicato pensare, connotato da corposi approdi conditi da ricercata parola, quasi desueto favellare, nell'orbita di un piacevole esercizio musicale; infatti la poesia, quella per così dire più alta - viepiù complessa, nella misura in cui anche la metrica - non può trascendere da una sua intrinseca melodia, che va armonicamente a compendiarsi ed a risuonare nel momento decisivo in cui è recitata.
Nelle poesie di Daniele vi è incentrata una forte matrice culturale: ogni verso richiama spesso all'insegnamento che i grandi classici della cultura europea ci hanno insegnato e continuano ad insegnare tutt'oggi. Un Rinnovamento attuale del saper comporre poesia in maniera tradizionale e quanto più ci occorre in quest'epoca dove il Dio è morto, perché ucciso da noi stessi.
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La letteratura italiana del XX secolo è satura di scrittori e poeti che hanno riversato nei loro componimenti delle valutazioni di carattere antropologico, sociologico e talvolta anche politico. È sorprendente quindi come romanzi e opere in versi siano tendenzialmente orientate verso detto scopo, mentre la creazione di un personaggio letterario rimanga, se non sconosciuta, comunque piuttosto lontana dalle nostre tradizioni. Sulla base di questi presupposti sarebbe alquanto agevole tentare una comparazione con realtà letterarie di altri paesi, dove la produzione (soprattutto di volumi polizieschi) è sicuramente più diffusa. Si racconta che Conan Doyle, in un momento della sua carriera fosse arrivato finanche a stancarsi del personaggio di Sherlock Holmes, l’investigatore inglese di Baker Street, e ritenne fosse giunto il momento addirittura di farlo morire. L’ultimo saluto di Sherlock Holmes (1917) avrebbe dovuto rappresentare, quindi, il capitolo finale della saga ma, rilevata la forte pressione esercitata dai lettori, non fu possibile abbandonare Holmes ed il Dott. Watson, quindi Conan Doyle si ripropose.
Andrea Camilleri, classe 1925, sicuramente sarà ricordato come il papà di un altro personaggio letterario, questo squisitamente italiano e anch’egli prode investigatore, ovvero il Commissario Montalbano. Eppure, per quanto possa essere stata prolifica la produzione di Camilleri che vede protagonista il siculo commissario, sarebbe sicuramente riduttivo arrivare a ritenere che la creazione di questo personaggio (poi arrivato finanche in televisione) sia l’unico merito del Maestro siciliano.
[caption id="attachment_11094" align="aligncenter" width="1000"] Andrea Calogero Camilleri, nato il 6 settembre 1925, è uno scrittore italiano.[/caption]
“Montalbano si commosse. Quella era l'amicizia siciliana, la vera, che si basa sul non detto, sull'intuìto: uno a un amico non ha bisogno di domadare, è l'altro che autonomamente capisce e agisce di consequenzia” tratto da Il ladro di merendine. Però, anche laddove si volesse spingere oltre lo sguardo e non focalizzarsi unicamente su Montalbano, sarebbe comunque lecito chiedersi, almeno, se il suo creatore abbia progetti per il suo futuro. Al riguardo, nel corso di un’intervista rilasciata per un noto sito giornalistico-emozionale, pare addirittura che Camilleri abbia citato Philp Roth (1933 - 2018) ed il consiglio di questi sulle creazioni letterarie: “distruggete tutto”. E lo stesso Camilleri, a chiosa di questa citazione, rivelerà di aver scritto la fine di Montalbano circa 13 anni fa (sebbene recentemente, a causa di un’evoluzione della sua scrittura si sia rivelato necessario rimaneggiare la stesura) ma nulla è lasciato intendere al riguardo. “Montalbano è un personaggio letterario e finirà come finiscono tutti i personaggi letterari”. Questo sappiamo del capitolo conclusivo, null’altro.
“Penso al paradiso: il paesaggio rasenterebbe la sicilianità visiva, che pace! Montalbano me lo immagino disoccupato, circondato da un placido volteggiare di anatre. E una tazzina di caffè fumante”.
Ancora durante l'intervista il maestro siciliano racconta un episodio della sua giovinezza al quale, almeno ironicamente, tende a ricondurre la sua fortuna. Aveva quindici anni circa il papà di Montalbano e stava giocando sul retro della sua casa con un amico, quando mise in fallo un piede su un asse rovinata posta a copertura del pozzo nero. D’un tratto le assi cedettero e questi precipitò all’interno del baratro ritrovandosi con il liquame sino all’altezza del mento. Il povero Camilleri tentò di mugolare qualcosa nel tentativo di cercare aiuto e, in quello stesso istante, una contadina si accorse della deprecabile condizione nella quale si era ritrovato il ragazzo e corse a chiamare suo zio. Questi pose un’asse sana e lo estrasse fuori. Pare allora che la contadina de qua si fosse rivolta a costoro dicendo: “Don Nenè, tutta ricchezza è…Tutta fortuna è…La merda porta fortuna!”. Difatti la vita dello scrittore, per pacifica ammissione dello stesso, può ritenersi una vita fortunata.
Tuttavia il tema che ineludibilmente ci si trova ad affrontare con Camilleri è, purtroppo si intende, quello della cecità. Osservandolo nelle interviste che questi rilascia è sorprendente come il Maestro si diletti a toccare gli oggetti con estremo coinvolgimento, cercando le circonvoluzioni di una sedia dove è seduto o stringendo tra le dita una sigaretta. Lo sviluppo del senso del tatto ovviamente si è rivelato conseguenziale alla perdita di un altro senso e, per un uomo abituato e proclive alla ricerca della bellezza, la perdita della vista è sicuramente quasi una maledizione.
[caption id="attachment_11095" align="aligncenter" width="1000"] Ebbene, il primo romanzo che vede il caro Salvo protagonista è "La forma dell’acqua" del 1994, Sellerio editore; il film con Luca Zingaretti nelle vesti di Salvo viene proposto nel 2000 dalla Rai. La casa editrice Sellerio fondata nel 1969 mantiene un modo di lavorare artigianale - ormai il nono editore italiano, il quinto per la narrativa -, con un fatturato che nel 2019 sarà un terzo di Rizzoli e quasi il doppio di quanto abbia fatturato E/O in Italia nel 2015, nonostante le vendite incredibili dei libri di Elena Ferrante. La stranezza è che a Sellerio lavorano soltanto 15 persone, compresi Antonio e Olivia, figli di Enzo ed Elvira Sellerio i fondatori. In più Sellerio non si appoggia a grandi gruppi per stampa, distribuzione e comunicazione, come fanno per esempio Einaudi/Garzanti/Bompiani/Sperling/Piemme/Longanesi/Guanda e altri, e ha sede a Palermo, che non è precisamente il centro dell'editoria italiana.[/caption]
Camilleri racconta che adora andare a dormire molto presto, perché nei sogni riesce ancora a vedere. L’esercizio più frequente che lo scrittore svolge è chiudere gli occhi ed immaginare i dipinti e le tele amate, tant’è che rivela sovente di come si concentri a ricordare i colori degli abiti degli uomini collocati sulla destra nel dipinto di Piero della Francesca, La flagellazione di Cristo: “Nel sonno vedo tutto, mi piace andare a dormire molto presto”.
Dinnanzi un uomo con una profondità intellettuale di questa fatta ci si aspetterebbe un’elevata percezione dell’essere umano nella sua proiezione verso l’infinito, ma Camilleri pare sia rimasto vinto anch’egli da alcuni vizi di taratura prettamente materiale. Infatti, proprio con riferimento al fumo, questi definisce la sua abitudine di fumare “sessanta sigarette al giorno” un “vizio osceno”, che pare abbia tentato di vincere rimanendone però sempre vinto. “Credo di aver sviluppato degli enzimi”, così scherza il Nostro, ridendo (forse compiaciuto) di non aver mai avuto patologie che fossero connesse a questo vizio. Ed è il tema del vizio che gli consente di ripercorrere la tematica del dualismo, proprio raccontando di una sua malsana (davvero malsana) abitudine: “Io ero un tipo che per anni beveva una bottiglia di whisky a digiuno al mattino e la sera non beveva per nessun motivo…Quindi capitava che chi mi incontrasse al mattino diceva che fossi un alcolizzato. Chi invece mi incontrava alla sera diceva “Ma no! È astemio”…Dualismo…”. Solo una profonda intelligenza umanistica sarebbe riuscita, come difatti sempre accade, ad illustrare una tematica estremamente complessa con una boutade che Pasolini avrebbe sicuramente definito rustica, o comunque sicuramente di marchio proletario.
Insomma ci sono uomini di qualità che, messi in certi posti, risultano inadatti proprio per le loro qualità all'occhio di gente che qualità non ne ha, ma in compenso fa politica. (da La prima indagine di Montalbano, ne La prima indagine di Montalbano).
E la questione fideistica in un uomo così che posto merita (sempre che sia presente)? Camilleri ha circa 94 anni, ha scritto oltre cento libri ed elaborato un’infinità di situazioni nelle quali i suoi personaggi sono rimasti coinvolti. Sembra quindi che, almeno per lui, fosse impossibile trovare del tempo per riflettere sull’infinito o sull’eternità. Eppure, al raggiungimento della sua veneranda età, il maestro rivela di provare il desiderio non di comprendere, ma almeno di intuire cosa possa essere l’eternità…Sarà per questo che per Montalbano non esista una versione (almeno secondo le uniche rivelazioni) che contempli la morte, o il pensionamento, del Commissario? Come fa uno a farisi capace che il tempo passa, e lo cangia, se tutti i jorni e tutte le notti non fa altro che ripetiri squasi meccanicamenti gli stissi gesti e diri le stisse paroli? (Da Un giro in giostra, in Gran Circo Taddei e altre storie di Vigàta).
Rassegnare le conclusioni su Andrea Camilleri non è possibile e, ogni lettore / letterato che ambisca a ritenersi tale, non può che sperare che la sua storia continui ancora molto a lungo. Un uomo che ha vissuto e mosso il passo a grandi scrittori e letterati del XX secolo (Ho camminato tra i giganti – direbbe Ulisse) non potrebbe nemmeno essere raccontato nelle poche righe di uno scritto o di un libro, rilevato che l’anima di chi compone è e rimane comunque immensa.
Quale insegnamento allora trasmettere ai giovani che, sempre più vorticosamente, perdono il contatto con la carta stampata, con la lingua italiana della tradizione letteraria che cede il passo ad un linguaggio tecnico infettato dalla società dei consumi? Forse le parole più delicate, e sicuramente più pertinenti, sono quelle di Camilleri: “Posso dirvi solo una cosa: non demordete mai dalla vostre idee. Se ne siete convinti mantenetele fino all’ultimo. Devo citare Julien Benda: “Che le vostre risposte siano, sì – no. E soprattutto non cercate di spiegare il sì e il no, perché ogni spiegazione è già un compromesso”.
 
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di Daniele Paolanti 20/10/2018

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Il XX secolo è stato rivoluzionario nell’universo, già ex se sconfinato, dell’arte (non solo visiva). L’avvento delle avanguardie, della sconvolgente visione di Duchamp tesa a percepire l’artista come un demiurgo il quale riversa nel suo lavoro un’idea e, di conseguenza, eleva lo stesso al grado di “opera d’arte”. Nasce così il ready made, volgarmente traducibile come “già pronto”, espressione a mezzo della quale la critica identifica quelle opere in cui il contributo dell’autore è meramente intellettivo, poiché vengono accostati oggetti (o collocati gli stessi in uno spazio definito) e, conseguentemente, questi assurgono al grado di opera d’arte. Negli anni 80 poi il critico d’arte Achille Bonito Oliva (1939) seleziona cinque artisti italiani (Sandro Chia, Enzo Cucchi, Francesco Clemente, Nicola De Maria e Mimmo Paladino) che comporranno la c.d. transavanguardia, neologismo elaborato dal critico stesso.
[caption id="attachment_10727" align="aligncenter" width="1000"] Il movimento della Transavanguardia creato da Bonito Liva (da sinistra a destra): Sandro Chia, Enzo Cucchi, Francesco Clemente, Nicola De Maria e Mimmo Paladino. [/caption]
Ma la seconda metà del XX secolo in Italia porta l’indelebile marchio dell’artista più eclettico e complesso del secolo breve: Gino De Dominicis (Ancona, 1º aprile 1947 – Roma, 29 novembre 1998). De Dominicis ha rappresentato, per il nostro paese, il più riuscito connubio tra filosofia ed arte, anche se, a quale corrente appartenesse “L’immortale”, nessuno è mai riuscito a capirlo (né lui avrebbe voluto essere ricondotto ad un movimento specifico). La sintesi del pensiero dell’artista marchigiano è sussumibile nella risposta, ironica ma al contempo enigmatica, che questi forniva a chiunque lo interrogasse sul tema per lui più odioso: “Maestro, qual è la sua posizione artistica?”. Domanda alla quale questi rispondeva: “La mia posizione è in piedi quando il quadro è di grandi dimensioni e seduto se di piccole dimensioni”. È quindi impossibile ascrivere De Dominicis ad un movimento artistico specifico: non si potrebbe né inquadrarlo nella c.d. arte concettuale (che anzi questi respingeva severamente), né nell’arte povera o nella transavanguardia. Taluni hanno addirittura provato a sostenere che talune sue opere fossero perfomances ma De Dominicis rimandava al mittente queste considerazioni con un secco “No, assolutamente”.
Tutto questo ha contribuito a circondare l’artista di un alone di mistero, che questi non rifuggiva affatto, anzi, incrementava con il suo temperamento. Le pochissime esposizioni contribuivano a corroborare l’esclusività di un’artista misterioso, ma lui non ha mai ammesso di aver partecipato a poche mostre: “Chi ha detto che faccio poche mostre? In relazione a chi o a cosa? Faccio le mostre che mi va di fare!”. A ciò si aggiunga il suo proverbiale desiderio di sottrarsi ad eventi pubblici, riuscendo ad implementare questa mira centellinando minuziosamente la partecipazione ad eventi, anche esclusivi. Altrettanto rari sono libri o cataloghi che riproducano le opere di De Dominicis con la tecnica fotografica, soprattutto perché questi non credeva alla capacità della fotografia di poter rendere pienamente il contenuto dei suoi lavori.
I temi affrontati nella sua carriera sono molteplici, a partire dalla considerazione privilegiata che questi riservava all’isolamento ed alla solitudine, per poi deviare con eguale (anzi massima) dedizione al suo argomento privilegiato: l’immortalità. De Dominicis sosteneva che le cose, per esistere davvero, devono essere immortali e, di tal guisa, riteneva come la scienza dovesse concentrare tutte le sue energie verso il raggiungimento di detto obiettivo, ovvero garantire la durata imperitura dell’esistenza. Questa sua convinzione fu stigmatizzata con enfasi nella “Lettera sull’immortalità del corpo”, scritto filosofico nel quale questi evidenziava quanto appena riferito, ovvero il desiderio estremo di raggiungere l’obiettivo centrale e cioè far sì che le cose possano realmente esistere. Ma per poter esistere le cose devono essere immortali, durare in eterno e rimanere immobili nella loro esistenza poiché ciò che è perituro non esiste realmente, è solo una parvenza, una testimonianza offerta dalla natura di dimostrare la capacità sua propria di elaborare alcune fonti di vita (o anche inanimate). Sono le sue profonde convinzioni sull’immortalità a condurlo verso la realizzazione di opere estremamente enigmatiche e complesse, il più delle volte installazioni che, a torto, venivano sovente confuse con delle performances. Ma l’arte perfomativa non è propria del genio marchigiano, anzi, questi la disconosce fermamente, quasi con seccatura.
[caption id="attachment_10728" align="aligncenter" width="1000"] Gino de Dominicis (Ancona, 1º aprile 1947 – Roma, 29 novembre 1998) è stato un artista italiano. [/caption]
Ed è ora quindi il momento, parlando di immortalità, di fare debito cenno ad una delle sue opere più contestate, passata alla storia tanto per la sua enigmaticità quanto per la forte componente (disconosciuta dall’artista) tendenzialmente provocatoria, dalla quale ha trovato la stura la fortissima indignazione del pubblico che ne è seguita e che ha contribuito ad implementare l’alone di fascino e mistero che già gravitavano attorno a questi. È il giorno 8 giugno 1972 quando, in occasione dell’inaugurazione della 36° Biennale di Venezia, nei pressi di una delle sale riservate a De Dominicis, viene esibita una sua opera. Un uomo, Paolo Rosa, affetto da sindrome di down, è seduto su una sedia e, dinanzi a lui, sono collocate tre opere di De Dominicis che questi aveva già in precedenza esposto in occasione della sua prima personale a L’Attico di Fabio Sargentini nel 1969, ovvero il Cubo invisibile (1967), Palla di gomma (caduta da 2 metri) nell’attimo immediatamente precedente il rimbalzo (1968-69), e Attesa di un casuale movimento molecolare generale in una sola direzione, tale da generare un movimento spontaneo della pietra (1969). La reazione fu immediata. A pochi giorni di distanza la sala venne chiusa e De Dominicis querelato per sottrazione di incapace insieme al suo assistente. Il processo si chiuderà poi nel 1973, con l’assoluzione dell’artista. L’opera in questione portava il titolo “Seconda soluzione di immortalità (l'Universo è immobile)”. Anche gli intellettuali dell’epoca se ne interessarono ed iniziarono a manifestare i loro giudizi sull’opera di De Dominicis: Pasolini espresse una dura critica nei confronti della stessa che, però fu difesa in parte da Eugenio Montale nel 1975, in occasione del pronunciamento del suo discorso all’assegnazione del Premio Nobel all’Accademia di Svezia.
Il significato dell’opera Di De Dominicis è ricercabile nelle considerazioni che sono state espresse nelle righe precedenti. L’immortalità è condizione dell’esistenza e, in ragione dell’inesorabile progresso del tempo, nulla esiste realmente. Nulla se non l’opera d’arte. L’arte è, e rimane, immortale e la ragione dell’imperitura stabilità, immanenza ed immortalità dell’arte è in re ipsa. L’arte è immortale. L’opera è immortale. E l’artista? Bhe, verrebbe da rispondere, con ovvietà, che questi non lo sia, poiché essere umano in cerca della soluzione dell’eternità, un’eternità che la scienza non riesce ancora a garantire e non garantirà almeno sino a quando le energie non verranno devolute integralmente verso questa direzione. Ma, spesso, l’immortalità di Gino De Dominicis è percepita con riferimento ad una sua opera, forse la più nota: Calamita cosmica.
Quest’opera, una gigantesca (24 metri) scultura di uno scheletro umano con il naso prolungato (naso di un uccello) riproduce perfettamente l’anatomia scheletrica del corpo umano (se non fosse per il naso) enfatizzata da un’asta di ferro dorata in equilibrio sull’ultima falange del dito medio della mano destra.
[caption id="attachment_10730" align="aligncenter" width="1000"] La Calamita cosmica è una scultura di Gino De Dominicis, realizzata in segreto nel 1988 e conservata nella ex chiesa della Santissima Trinità in Annunziata a Foligno (Umbria). [/caption]
Quest’asta rappresenta una calamita che collega lo scheletro con il cosmo, anch’esso tema ricorrente nel pensiero di De Dominicis il quale ammetteva candidamente di come il cosmo fosse composto, oltre che da oggetti e materia sensorialmente percettibile, anche da oggetti invisibili. Questa scultura è attualmente collocata nella navata centrale della ex chiesa della Santissima Trinità in Annunziata, da poco restaurata, sebbene sia stata esposta anche in numerose altre sedi. È opinione di chi scrive questo commento che Calamita cosmica rappresenti l’eredità di Gino De Dominicis, il suo lascito all’umanità. Un eredità teleologicamente orientata verso una prospettiva, ovvero la memoria imperitura, la soluzione definitiva per l’immortalità. Perché l’arte è immortale in quanto arte. Bene dicevano i sostenitori del movimento dadaista, infatti: Dada, tradotto dalle lingue slave, significa letteralmente “sì-sì”, un’affermazione tautologica tesa a riconoscere, come autorevolmente rilevò al riguardo Achille Bonito Oliva, che l’arte è per l’arte. Decenni dopo sopravvenne un’artista che spinse oltre lo sguardo e propose un nuovo assunto, supplementare alla tautologia dadaista (e comunque lontano anni luce dai suoi canoni): l’arte è fissa nel tempo e questo, sebbene unità monodirezionale, non è in grado di garantire il deterioramento dell’opera. Perché l’arte è immortale e trascinerà seco l’eco dell’artista, e solo dell’artista: “Non esistono esperti d’arte, l’unico esperto d’arte è l’artista. Il giudizio di un bambino per un artista conta quanto quello di un esperto d’arte, perché nessuno oltre l’artista può definirsi tale”.
 
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Dietro ad ogni sopraffine pensatore si cela sovente una profonda solitudine. É la storia di Pier Paolo Pasolini (1922 - 1975), quasi incidentalmente collegata a quella di Antonio Gramsci (1891 - 1937), ne rappresenta la puntuale conferma. Il carcere di Gramsci (1926) si riflette e rimanda alla profonda amarezza di uno dei più grandi intellettuali del XX secolo, il quale accostava la delicatezza, quasi pascoliana, delle sue poesie, con la durezza ed il nitido realismo dei suoi film.
[caption id="attachment_10677" align="aligncenter" width="1000"] Pier Paolo Pasolini davanti alla tomba di Antonio Gramsci nel 1970.[/caption]
Con Salò o le 120 giornate di Sodoma (1976) Pasolini, dando inizio a quella che avrebbe dovuto essere la “Trilogia della Morte” (mai completata essendo il film uscito nelle sale dopo la morte del regista avvenuta nel novembre del 1975), con un’incredibile lucidità, talvolta didascalica - per parafrasare l’opinione offertane da Carmelo Bene -, sulla scia dell’opera di De Sade, offre una visione del potere concepito nella sua più abietta accezione, quasi a voler lasciare nell’aria di un Paese ormai avviluppato da quell’omologazione sociale, che ha trovato la stura nel consumismo di massa e nella comunicazione mediatica, un ultimo disperato grido di sollecitazione a quella classe proletaria che in fretta stava scomparendo, per poi commistionarsi ineludibilmente alla borghesia.
Ed è con questi tormenti che il poeta si porta presso il cimitero acattolico di Roma, presso la tomba di Gramsci, così da conversare, quasi con pretesa confessionale, le sue irrequietezze all’unico spirito suo realmente affine. «Non è di maggio questa impura aria…», cos’altro aggiungere in guisa di parafrasi? Il malcontento pasoliniano si riflette così candidamente in questa esclamazione, unico rimando ad un passato glorioso prossimo ad un triste commiato, espressione dello sconforto nel percepire il tramonto della coscienza di classe e della lotta proletaria. L’intellettuale è messo al confino, tant’è che sia Gramsci, seppur defunto, come lo stesso Pasolini, sono relegati in un angusto alveo, nel quale soffrono la solitudine e l’estraneità di una realtà compromessa nel suo misero compendio valoriale: Gramsci, nel cimitero presso il quale è sepolto, avverte la sua alienità rispetto al mondo, cui si affianca la divenuta proverbiale solitudine di Pasolini: «Tu giovane, in quel maggio in cui l’errore/era ancora vita, in quel maggio italiano/che alla vita aggiungeva almeno ardore…».
Il dialogo tra due dei più grandi pensatori del XX secolo è condotto con la lirica tenue che denota le composizioni pasoliniane, cui si affianca, quasi a rimpinguarla senza renderla barocchescamente ampollosa, la capacità maturata presumibilmente nel periodo friuliano, di compendiare con esile vezzosità gli attributi che candidamente attribuisce ai luoghi. E così ammette il poeta che «Qui il silenzio della morte è fede di un civile silenzio di uomini rimasti uomini, di un tedio che nel tedio del Parco, discreto muta: e la città che, indifferente, lo confina in mezzo a tuguri e a chiese, empia nella pietà, vi perde il suo splendore».
Nel dolente dialogo Pasolini rammenta a sé stesso ed al silente interlocutore di quanto l’avvilisca l’inesorabile lontananza dei momenti del passato, in cui il giovane delineava l’ideale «che illumina», mentre con nostalgia foscoliana guarda attorno a sé una Roma avviluppata dall’oscurità e da un metaforico degrado urbano, vestigia e ricordo degli ideali ch’egli guarda come religione, che lo conduce a percepire se stesso come un intellettuale irregolare «attratto da una vita proletaria».
Ancora asserirà: «La mia indipendenza, che è la mia forza, implica la solitudine, che è la mia debolezza», ed è con questa malinconica consapevolezza che Pasolini si conduce verso un secolo che vitupera, con la sola certezza che «L’intelligenza non avrà mai peso, mai nel giudizio di questa pubblica opinione […] La mia vita futura non sarà certo quella di un professore universitario: ormai su di me c'è il segno di Rimbaud o di Campana o anche di Wilde, ch’io lo voglia o no, che altri lo accettino o no».
La solitudine di Pasolini si estrinseca, quindi, in un angosciosa alienità rispetto alla società nella quale il pensatore opera, tant’è che l’ormai proverbiale isolamento della vox clamantis dello scrittore corsaro è ancora oggi, quasi proverbialmente, riportata come termine di paragone rispetto ad intellettuali malauguratamente emarginati per il loro incontenibile desiderio di verità.
La solitudine di Gramsci si palesa, da diversa seppur correlata angolazione esegetica, nella plumbea descrizione con la quale Pasolini illustra il luogo ove il pensatore suo affine è tutt’ora sepolto. Parlando di Gramsci i filosofi e pensatori contemporanei sono pervenuti ad ammettere che la sua sofferenza e solitudine trovasse la stura, quand’egli era in vita, nella diffusa, ed inverosimilmente crescente, esterofilia che ha condotto verso l’apatriottismo più volgare. Pur conservando un marcato margine di distanza rispetto a posizioni provincialistiche, Gramsci avvertiva la solitudine del suo pensiero non accompagnato da un reale amore per il proprio Paese, amore che avrebbe dovuto estrinsecarsi nella contemplazione delle sue beltà nonché nella strenua difesa del compendio valoriale che ne ha segnato la tradizione. Gramsci, come detto, è attualmente sepolto presso il cimitero acattolico di Roma, un’area urbana tradizionalmente borghese, ove il richiamo all’indole proletaria dell’intellettuale non è che un vago e lontano pensiero. Difatti la zona residenziale ove il cimitero è ubicato è perlopiù area borghese, composta da villette eleganti ed abitazioni lussuose.
Come messo in evidenza da alcuni autori, pertanto, Gramsci è costretto a subire la c.d. noia patrizia, quasi commiserevole rilevata la sua indole evidentemente antinomica rispetto al luogo della sua sepoltura. La delicatezza con la quale Pasolini descrive l’area («…questo cielo di bave sopra gli attici giallini che in semicerchi immensi fanno velo alle curve del Tevere, ai turchini monti del Lazio…») è funzionale a marcare con sempre maggiore evidenza questa noia patrizia, ove lo spirito proletario non è che un lontano eco. Non manca Pasolini di emarginare ulteriormente questo assunto, con una lodevole lirica la quale denota, in modo quasi iconografico, questa sciagurata lontananza: «E, sbiadito, solo ti giunge qualche colpo d’incudine dalle officine di Testaccio, sopito nel vespro: tra misere tettoie, nudi mucchi di latta, ferrivecchi, dove cantando vizioso un garzone già chiude la sua giornata, mentre intorno spiove». Come potrebbe, pensa il poeta, riposare ivi uno spirito già costretto ad essere irrequieto in vita, mentre l’alienità lo costringe all’esilio anche post-mortem? Difatti, nulla più andrebbe aggiunto all’asserto, lirico ma scandito con durezza (tradizionalmente estranea alla poetica pasoliniana, ma non alla sua cinematografia) con la quale è descritto questo angusto esilio: «Non puoi, lo vedi? che riposare in questo sito estraneo, ancora confinato», o ancora al ben più duro convincimento che «…e la città che, indifferente, lo confina in mezzo a tuguri e a chiese, empia nella pietà, vi perde il suo splendore». Gramsci dunque riposerebbe come fosse estraneo tra gli estranei, esiliato in terra acattolica, ma ancora libero tra pensatori rimasti liberi. E alla stregua di detto convincimento Pasolini si accosta a questi, rilevando l’ineludibile affinità che lo correla allo stesso, come se questi si fosse trovato accidentalmente presso il luogo di sepoltura e condotto verso esso dal, puranche afflittivo, richiamo di libertà di pensiero.
[caption id="attachment_10679" align="aligncenter" width="1000"] Antonio Gramsci, nome completo, così come registrato nell'atto di battesimo, Antonio Sebastiano Francesco Gramsci (Ales, 22 gennaio 1891 – Roma, 27 aprile 1937), è stato un politico, filosofo, politologo, giornalista, linguista e critico letterario italiano.[/caption]
Il confronto, dunque, per come proposto, interlineerebbe un dialogo avente ad oggetto l’ormai accertato cambiamento della società e il sorpasso, evidentemente non gradito, della tradizione proletaria, degli ambienti rurali che comunque esistevano ancora al tempo di Gramsci. Pasolini riconosce di non appartenere a quel contesto, eppure se ne sente inconsolabilmente attratto. Non è infatti la millenaria lotta della classe proletaria ad affascinare il poeta, quanto piuttosto la bellezza e genuinità della sua natura. Pur confrontandosi e rapportando il suo pensiero a quello del più grande intellettuale comunista, accantona proficuamente gli ideali della coscienza di classe, della lotta proletaria, per ricercare la tradizione autentica e vitale di quella gente che così tanto lo affascina. Nel corso di un’intervista televisiva, Pier Paolo Pasolini dichiarò, senza mezzi termini, come la sua compagnia ideale sarebbe rappresentata da persone umili e con un bassissimo grado di scolarizzazione, per stigmatizzare ancora una volta il suo amore per la semplicità e la ruralità.
Ma tutto questo non esiste più. Non ne resta che solitudine. La solitudine di un grigio maggio autunnale.
 
Per approfondimenti:
_Luca Galofaro, Gabriele Mastrigli, Manuel Scortichini, La Forma della città;
_Pier Paolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci, Garzanti, 2015;
_Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, 2014.
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