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di Carlotta Travaglini 23-04-2020

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La Francia subì la scia della profusione di novità che, tra il 1750 e il 1850, invade l’Europa in campo musicale. La sinfonia, genere strumentale per eccellenza, stava consentendo l’esplorazione di nuove possibilità espressive ed armoniche, mentre in campo operistico i cambiamenti e il plauso del pubblico europeo crescevano a vista d’occhio, grazie all’utilizzo, sempre più diffuso, delle possibilità espressive fornite dal sistema armonico e tonale messo a punto nei secoli passati.
L’impiego di un momento sinfonico, in particolare, all’interno dell’opera, nasce da esigenze pratiche. Il teatro era prima di tutto un luogo di vita sociale, perciò occorreva che, ad un certo punto, l’orchestra si mettesse a suonare, dando avviso dell’inizio dello spettacolo e consentendo a tutti di sistemarsi ai propri posti. La sinfonia d’opera del XVIII secolo poteva essere, essenzialmente, di due tipi: tripartita (Allegro-Adagio-Allegro), secondo il modello di Alessandro Scarlatti (perciò detta “all’italiana”) e bipartita, secondo quello dell’italo-francese Gian Battista Lulli (poi francesizzato in Jean-Baptiste Lully). In Francia, dal XIII secolo, un genere chiamato “concerto” comincia ad acquisire sempre maggiore popolarità, e non ha niente a che vedere con l’omonimo italiano: la sua esecuzione è demandata all’orchestra intera, senza alcun ruolo solistico. La sinfonia di Lully prevede l’esecuzione, a sipario chiuso, prima dell’inizio dell’opera lirica e da parte della sola orchestra, e prende il nome di ouverture, ovvero di “apertura” (italianizzato, poi, in “overtura”); dopo un'introduzione lenta, che viene sempre ripetuta, segue un vivace movimento in stile fugato, e, a volte, anche il ritorno della parte iniziale. Spesso, fino all’apertura del sipario, si avevano poi una serie di danze. Da fine Settecento la sinfonia è legata musicalmente all’opera: viene fissata come brano iniziale per fungere da introduzione di tutti i suoi motivi principali e, perciò, viene composta appositamente, ed è solitamente bipartita, ovvero suddivisa in un tempo lento ed uno allegro. Nel frattempo, nel corso del XVIII secolo la sinfonia diventa genere autonomo a tutti gli effetti: viene aggiunto un tempo, fra il secondo e il terzo, a quella di tipo tripartito, per opera di Haydn, Mozart e Beethoven, determinando i segni distintivi del sinfonismo europeo. Wolfgang Amadeus Mozart scrive sinfonie tripartite all’italiana per il suo celebre trittico operistico (Nozze di Figaro, Don Giovanni, Così fan tutte), elaborando gli elementi tematici di ciascuna opera. Il prototipo della sinfonia scarlattiana si diffonde nei primi decenni del XVIII secolo in tutta Europa, mentre il modello di Lully costituì la classica ouverture francese fino a Johann Sebastian Bach e Georg Friedrich Händel. Rispetto all’opera italiana, l’opera tragica francese sviluppa delle proprie peculiarità stilistiche. Nel 1672 Jean-Baptiste Lully assunse la direzione dell’Académie royale de Musique et de Danse di Parigi, primo teatro pubblico della capitale, e, nei quindici anni della sua reggenza, ordì la messa in scena dei suoi soli lavori operistici. In questo modo, concreta il canone del nuovo genere, autoconsacrandosi, di fatto, padre della tragédie lyrique. Fondata da Luigi XIV nel giugno del 1669 come Académie Royale de Musique (il nome “Opéra” è posteriore alla Rivoluzione francese), l’istituzione teatrale venne fusa, tre anni dopo, con l’Académie Royale de Danse . Lo spettacolo che si offriva al pubblico era più unico che raro: ci si trovava davanti ad un palco affollato, con ampi corpi di ballo, cori, interpreti specializzati, una scenografia curata; il tutto completamente in lingua francese. Ben diversa era la coeva opera seria italiana, basata sulla maestria dell’esecuzione lirica, subordinata al testo e meno curata dal punto di vista drammaturgico. L’apporto dell’esperienza italiana risultò, tuttavia, fondamentale; numerosi compositori, come Niccolò Piccinni, o Antonio Salieri, emigrano in Francia nella seconda metà del ‘700, e, pur dovendo adeguarsi all’esigente aristocrazia dell’Ancien régime, travasarono, nei loro lavori, anche il proprio portato culturale. In epoca napoleonica, i testi dei classicisti italiani, con particolare riferimento alla romanità, godettero di molto successo (ne è un esempio Gaspare Spontini, con la sua celebre “Vestale”), ma la moda scemò dopo la Restaurazione, quando la neonascente borghesia rifiutò i patetismi dell’Ancien Régime in favore di intrecci a sfondo storico, spianando, inconsciamente, la strada al Grand opéra.
[caption id="attachment_11918" align="aligncenter" width="1000"] Saint-Aubin - Boston, Scena di Armide di Lully, 1761 (31,1 x 50,2 cm) Penna e inchiostro bruno, acquerello e tempera su matita di grafite su carta. [/caption]
[caption id="attachment_11921" align="aligncenter" width="1000"] Gaspare Luigi Pacifico Spontini (14 Novembre 1774 - 24 Gennaio 1851) è stato un suddito dello Stato Pontificio, compositore e direttore d'orchestra . [/caption]
La capitale era da tempo terreno fertile per gli emergenti artisti italiani. Fin dal XVII secolo, gli attori della penisola si esibivano sotto la protezione del re, lavorando per i più importanti commediografi francesi (fra i quali Moliére). Presso l’Hôtel de Bourgogne era possibile assistere ai più incredibili allestimenti di Commedie dell’arte, recitati in italiano, con tutte le sue coloriture dialettali, per un pubblico francofono. La gloria dei suoi più celebri personaggi è dovuta ad attori d'eccezione: Evaristo Gherardi, nei panni di Arlecchino; Angelo Costantini, nel ruolo di Mezzettino; Catherine Biancolelli, Colombina; Giuseppe Geratoni, Pierrot. Quando fu annunciata la rappresentazione di La Fausse prude (“la falsa pudibonda”), allusione celata alla moglie segreta del re Luigi XIV, Madame de Maintenon, questi si adirò, e il 13 maggio 1697 cacciò gli attori italiani da Parigi, dichiarando chiuso l’Hotel de Bourgogne. Ben altro poteva allietare le orecchie dei parigini: storielle leggere, a carattere di commedia, dove alla prosa si alternava il canto di strofe di arie ben note, i vaudevilles, rappresentati dal 1792 al Theatre du Vaudeville, in rue de Chartres-Saint-Honoré. Il nome si riferiva, inizialmente, alla semplice canzonetta licenziosa, e potrebbe essere legato all’espressione voix de ville (appunto, “voce della città”), o alla Vau de Vire normanna, celebre vallata in cui si coltivava un repertorio popolare su temi contemporanei. Ogni anno la capitale ospitava, inoltre, delle fiere di vastissima portata, che offrivano ogni tipo di diletto. Le più celebri, quelle di Saint-Germain, svolte nei pressi dell’Abbazia di Saint-Germain-des-Prés, esistono sin dal XII secolo, e diventano pratica annuale a partire dal 1482 su decreto di re Luigi XI. Si svolgevano intorno a Pasqua, in un periodo da tre a cinque settimane. In estate si svolgeva, all’aperto, la fiera di Saint-Laurent, e vi convogliavano numerosi artisti ospitati dalla precedente. Tutta la varietà di spettacoli indetti per queste occasioni rientra nella categoria di théâtre de la foire (“teatro della fiera”): esibizioni di attori, burattinai, satire ed ogni sorta di intrattenimento, arrivando perfino ad ospitare delle vere e proprie commedie, spesso di pregio. Dopo la fantomatica cacciata degli Italiens del 1697, gli artisti francesi ne presero pieno possesso, garantendo una qualità più “professionale” degli spettacoli, tant’è che la Comédie-Française, unica compagine teatrale a godere del monopolio per nomina regale, iniziò a vedervi una pericolosa concorrenza. Le dispute davanti al Grand Châtelet e al Parlamento non valsero la candela: agli attori dei theatre de la foire fu vietato di rappresentare pièce dialogate durante le fiere. Per aggirare il veto reale, iniziarono a svolgere spettacoli sottoforma di monologo, dove venivano coinvolte la musica e la danza. La componente dialogica mancante era trasposta su dei cartelloni sospesi sopra il palcoscenico, sorretti da dei bambini travestiti da Cupido, mentre alcuni artisti, mescolati tra il pubblico, li intonavano su motivetti popolari. Fu stavolta l’Académie Royale de la Musique a adirarsi, godendo del privilegio esclusivo del ballo, del canto e dell’accompagnamento musicale. Il dibattito, tuttavia, terminò presto: presi da crisi finanziaria, vendettero agli operatori de la foire il diritto di indire spettacoli cantati, e sorse così l’Opéra-Comique (1714). Nel frattempo, gli Italiens vennero richiamati in patria nel 1716, e si unirono all’Opéra-comique nel 1762, stesso anno in cui quest’ultima si fuse con la Comédie-Française. I loro spettacoli si svolgevano in concomitanza di ogni sorta di da fiera.
L’opera-comique, genere operistico francese associato al nome dell’omonimo teatro parigino, conteneva, a differenza della controparte seria, anche dialoghi parlati. L’argomento non doveva essere necessariamente comico-satirico: basti pensare alla “tragica” Carmen di Georges Bizet del 1873, che di comico non ha ben nulla. Il genere era ben distinto dall’opera buffon, nome con cui era definita, nella capitale, l’opera buffa italiana. Gli spettacoli, ormai così celebri, finirono per invadere i boulevard, in particolare l’affollato Boulevard du Temple, poi noto come boulevard du Crime. Nel frequentato viale iniziano a sorgere numerosi locali che, oltre ai servizi di consumazione, offrivano spettacoli. Si trattava dei café-chantant, o café-concert, che i parigini chiamavano familiarmente caf’conc, il cui interno somigliava molto a quello dei teatri. Durante gli anni della Rivoluzione, questi locali si erano spostati sotto le arcate del Palais-Royal e, dopo i tempi difficili dell'impero, conobbero una nuova stagione con Luigi Filippo I. Dopo l'abolizione del monopolio dei teatri del 1791, la capitale pullula di cafés. I più in voga, come il celebre café d’Apollon di Parigi, potevano garantirsi artisti di calibro internazionale, mentre taverne più piccole ospitavano artisti girovaghi. In ogni caso, nonostante il preconcetto che aleggiava sulle loro esibizioni, sia gli interpreti che i fruitori ne rivendicarono sempre la dignità artistica. I tabarins, locali che offrivano servizi simili ai café-chantant, ma con l’aggiunta di piste da ballo aperte a tutti gli spettatori, prendono nome dal nome d’arte di un noto comico-girovago, Antoine Girard, detto appunto tabarin. Nel 1807 il monopolio venne ristabilito, interrompendo bruscamente il germogliare spontaneo di nuovi locali. Nei cafés, che contenevano una sala da concerto ed una sala da tè, il pubblico poteva guadagnarsi il piacere di uno spettacolo al prezzo di una consumazione (che poteva, però, essere sostituita dal pagamento di un biglietto d'ingresso). Lo scenario offerto era quanto più vario: brani d’opera, canzonette popolari, pieces recitate, come anche spettacoli di ballerini, burattinai, acrobati, e l’estro variegato dei tableaux vivants, dove venivano utilizzate le più avanguardistiche tecniche da palcoscenico. Nel frattempo, a Parigi si è ormai registrata la nascita di un teatro musicale nazionale, comprendente grand opéra e opéra-comique. Il sontuoso grand opéra tiene le fila della scena drammaturgica francese sin dai primi decenni dell'Ottocento, scalzando del tutto la precedentemente in voga tragédie lyrique. Gli artisti producono drammi dall'apparato scenico fastoso, variegato e curato sin nel minimo dettaglio. In Italia come in Francia, i soggetti dell’opera non sono più le storie ed i miti, ma i più intensi momenti della vicenda storica europea, in particolare di quella medievale o moderna. Solitamente, si svolgono in cinque atti, scanditi da intermezzi danzati. Il tutto con l’impiego di enormi masse orchestrali e corali, che svolgono un ruolo di prim’ordine nell'intero spettacolo. Gli italiani continuano a calcare la mano sul lirismo. I tre nomi d’eccellenza, spesso citati insieme, di Vincenzo Bellini, Gioacchino Rossini e Gaetano Donizetti, migrano sul suolo francese e permettono la diffusione di differenti modi di trattare il lirismo, con l’infinito plauso del pubblico. Donizetti regala alla capitale ben tre grand œuvres, La Favorite (“La favorita”) e Les martyrs (“I martiri”), del 1840, e Dom Sébastien (“Don Sebastiano”), del 1843; Bellini trasforma la propria carriera col trasferimento a Parigi, dove viene a contatto con nuovi linguaggi e scrive in italiano per il Théatre Italienne: Rossini, che ben prima aveva sovvertito le scene parigine, lo considera il suo pupillo.
[caption id="attachment_11924" align="aligncenter" width="1000"] Il Palais Garnier o l'Opéra Garnier è un teatro dell'opera di 1.979 posti a sedere a Place de l'Opéra nel 9° arrondissement di Parigi, Francia. Fu costruito per l'Opera di Parigi dal 1861 al 1875 per volere dell'imperatore Napoleone III. Inizialmente denominato "le nouvel Opéra de Paris" (la nuova Opera di Parigi), divenne presto noto come il Palais Garnier, "in riconoscimento della sua straordinaria opulenza" e i piani e i disegni dell'architetto Charles Garnier, che sono rappresentativi dello stile di Napoleone III . [/caption]

«È difficile scrivere la storia di un uomo ancora vivo» scrive Stendhal, nella sua Vita di Rossini, «lo invidio più di chiunque abbia vinto il primo premio in denaro alla lotteria della natura... A differenza di quello, egli ha vinto un nome imperituro, il genio e, soprattutto, la felicità». Gioacchino Rossini si trasferisce a Parigi nel 1823, dopo la prima rappresentazione della sua Semiramide al Teatro La Fenice di Venezia. Il suo successo fu immediato. Nel 1824 diventò directeur de la musique et de la scène al Théâtre de la comédie italienne, col vincolo di scrivere anche per l’Opéra. Il 19 giugno 1825 manda in scena Il Viaggio a Reims al Théatre Italienne, opera buffa in un solo atto, scritta in onore di Carlo X, re di Francia e Navarra. Trattandosi di un lavoro celebrativo, Rossini ne ordinò il ritiro dopo tre sole rappresentazioni. Ne riutilizzò, com’era ben avvezzo a fare, molto del materiale musicale per la sua penultima opera, Le Comte Ory, tratta dall'omonimo vaudeville del 1816 e rappresentata all’Opéra nell’agosto del 1828. Pochi mesi dopo, il turbolento compositore si sarebbe cimentato in uno dei suoi lavori più ardui, nonché più celebrati. Ce ne parla con parole sofferte: «Cinque mesi impiegai a comporre il Guglielmo Tell, e mi parve assai. Lo scrissi in campagna al Petit-Bourg nella villa dell’amico Aguado. Vi si faceva vita assai gaia: io avevo preso una gran passione per la pesca alla lenza e perciò mandavo avanti il mio lavoro con poca regolarità. Ricordo di aver abbozzato la scena della congiura una mattina, stando seduto sulla riva dello stagno, in attesa che il pesce abboccasse all’amo. Ad un tratto mi accorsi che la canna da pesca era sparita, trascinata da un grosso carpione, mentre ero tutto infervorato ad occuparmi di Arnoldo e Gessler».

Il suo lavoro sconvolse le sorti dell’opera. In apertura, un’intensa melodia di violoncello apre una sinfonia immensa, suddivisa in quattro parti, poi, una vivace alternanza di arie grandiose, audaci concertati, balletti, e un finale incredibile. Il plauso arriva da tutti, nazionali ed internazionali. «Io reputo il Guglielmo Tell la nostra Divina Commedia» dice Bellini; «il primo atto e il terzo li ha scritti Rossini, il secondo Dio» riporta Donizetti. La data della prima francese è il 17 aprile 1831, all’Opéra, mentre quella “italiana”, con testi in traduzione, avviene a Lucca, al Teatro del Giglio, il 17 settembre 1831. Nel corso di essa, Gilbert-Louis Duprez, nei panni di Arnoldo, decide di eseguire per la prima volta in un teatro pubblico il do4 senza falsetti, com’era d’uso, ma a voce piena e con forza, nella maniera cosiddetta “di petto”, e questa mossa gli valse la nomea di inventore del “do di petto”. Mossosi da precedenti esperienze tenorili, dopo essere rimasto affascinato dalla dolcezza e dal colore dei bari-tenori italiani, in particolare dalla vocalità di Domenico Donzelli, l’interprete cerca di unire le due correnti in uno stile unico per l’epoca. Rossini, forse, non ne fu troppo entusiasta: parlò del “do” come dell’«urlo di un cappone sgozzato». Nonostante tutto, l’audace tenore continuò la sua ascesa con un’altra strepitosa esecuzione all’Opéra nel 1837, imperversando nei nuovi stilemi da lui inventati. L’arditezza del tentativo non tarda a manifestarsi: Hector Berlioz nota l’indurimento della voce di Duprez già nel 1838, e, dopo numerosi alti e bassi, questa si va completamente deteriorando, costringendolo al ritiro. Dopo il Guillaume Tell, anche Rossini abbandona le scene, aprendo le porte ad una profonda crisi interiore. Di certo non fu la prima, vista la sua fama controversa di uomo inquieto, lunatico, irascibile, letargico, e gioviale, affabile e dalla buona forchetta, amante del buon cibo e delle belle donne. Fatto sta che non toccò più una partitura d’opera, ma nemmeno rimase inoperoso; la sua penna lascia ai posteri pagine di velata ironia, per un pubblico ristretto, come quelli che lui stesso definì, ironicamente, Péchés de vieillesse (“Peccati di vecchiaia”), pagine cameristiche per voci e pianoforte dove, come per passatempo, il compositore indaga l’infinita vanità e la presunzione contenutistica della musica coeva attraverso pagine estrose dai titoli burleschi, che vanno da memorie belcantistiche a sottili esercizi di stile. A soli trentasette anni, il compositore lascia le scene teatrali dopo aver dato alla luce quello che, assieme a La muette de Portici (“La muta dei portici”) di Giacomo Auber (1828), è considerato il primo esempio compiuto di grand opéra.

 
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di Carlotta Travaglini 17-08-2019

[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1701621086369{padding-top: 22px !important;}" el_class="titolos6"] Uno dei procedimenti compositivi più frequenti della tradizione musicale medievale è il contrafactum: l’uso, tipico di trovatori e trovieri, di adattare ad un nuovo testo una melodia preesistente1, recuperata, in particolare, dal repertorio sacro. Il termine indica generalmente «l’imitazione strutturale complessiva» ed «ha, come è noto, immediate implicazioni musicali»2.
[caption id="attachment_11481" align="alignnone" width="1000"] Gruppo musicale su un balcone (particolare).[/caption]   Gerard van Honthorst, Negli studi in materia abbiamo due diverse tendenze: una, più estensiva, che include nel perimetro del contrafactum la ripresa di elementi metrico-ritmici, pur in assenza di prove che obbligano ad imputare una ripresa melodica; l’altra, più limitativa, che considera contrafactum un componimento solo se la sua tradizione manoscritta dimostri, accanto al riutilizzo di schemi metrico-ritmici, la ripresa della melodia come modello. In base ad esse, possiamo considerare o meno la presenza di legami tra testo che imita e modello, o i casi in cui il primo continua a conservare parti della struttura o singoli elementi del secondo, pur acquisendo proprietà e significati artistici diversi. Oppure, siamo in grado di trovare un certo tipo di connessione tra i due, come per il caso di una parodia che il primo fa del secondo (imitando o riprendendo elementi del modello testuale, stravolgendoli o riscrivendoli in un altro contesto). In ogni caso, anche se il collegamento tra modello e imitazione non venisse trovato, questo non minerebbe il valore artistico che il contrafactum ha di per sé. Nonostante l’uso vulgato del termine, la parola contrafactum non compare in alcun passo della trattatistica musicale dal IX al XVII secolo . La prima attestazione, nella variante contrafact, si trova nelle rubriche di un canzoniere della seconda metà del XV secolo, il Pfullingen Liederehandschrift, ed indica la parodia di un componimento sacro, senza alcun accenno alla musica. In quest’ambito, infatti, il termine “parodia” alluderebbe ad una tecnica compositiva, che consiste nel rielaborare materiali presi da un’altra opera per la creazione di una composizione autonoma, avente col modello un rapporto ben manifesto; nell’accezione comune, lo si fa risalire, invece, alla semplice imitazione, in chiave caricaturale, di un’opera o di un linguaggio letterario, musicale o artistico, oppure di un personaggio reale o fittizio. Si può attribuire il trasferimento del termine in ambito musicologico a Friedrich Gennrich (1883 - 1967)3, che lo assume nei suoi primi lavori, ovvero «lo declina alla latina e gli conferisce un significato anche musicale, estraneo al suo impiego originario», senza far cenno alla comparsa del termine nel canzoniere tedesco . Un’altra comparsa del termine è quella del tedesco Kontrafaktur, usato da Kurt Henning e dallo stesso Gennrich per indicare «diversi tipi di ripresa musicale, dall’intera intonazione a frasi e incisi melodici». Hans Spanke (1884 - 1944), nei suoi studi sul rapporto tra testo e musica nella lirica oitanica, lo utilizza limitatamente ai casi di imitazione metrica per cui la tradizione manoscritta attesti che la melodia sia stata utilizzata come modello, «anche in considerazione del fatto che lo stesso autore della Kontrafaktur abbia potuto scegliere una melodia diversa o che la sostituzione sia potuta avvenire nel corso della tradizione manoscritta». Maria Sofia Lannutti, in un suo articolo, passando in rassegna i suoi diversi impieghi, conclude sottolineando che la mancanza di una definizione esaustiva del termine contrafactum, specie in ambito musicale, sia dovuta in primis alla sua «inconsistenza storica». Non è chiaro infatti se con esso si voglia definire una tecnica compositiva o il suo risultato, «un genere con possibili sottogeneri», o se sia legittimo adottare la nozione restrittiva di Spanke; non comprendiamo se sia il caso di servirsene in riferimento a componimenti con affinità metrica ma privi di melodia piuttosto che per altri con stessa melodia ma diversa struttura metrica; oppure, infine, una volta attestata l’intenzionalità imitativa dell’autore, quale sia il grado di affinità in base al quale sia giusto parlare di contrafactum. John H. Marshall (1954), con il suo articolo Pour l’étude des “contrafacta” dans la poésie des troubadours , pone le basi metodologiche per i successivi studi sulle imitazioni metriche nei trovatori. Dalle sue conclusioni, si evince che per la maggior parte dei casi di ipotesi di un contrafactum le nostre deduzioni dipendono da argomenti testuali che permettono di attestarne una certezza soltanto relativa4, e per questo motivo siamo obbligati a cercare di stabilire criteri che escludano, per quanto possibile, una semplice coincidenza5. Consideriamo anche che spesso la melodia di un testo trobadorico non è tramandata da alcun manoscritto. L’uso dello schema metrico ed allo stesso tempo di quello rimico, o anche l’uso del solo schema metrico, indica che il prestito musicale è possibile. Affinché questa possibilità diventi una probabilità o una quasi certezza, altri fatti devono confermare il prestito. Quando un testo riprende lo schema rimico e quello metrico di un modello plausibile, allora il prestito musicale è possibile; quando ad uno schema metrico particolare si assommano, ad esempio, uno schema rimico inedito, o un’identità parziale o totale di timbri delle rime, o la riproduzione di specifiche caratteristiche metriche, il prestito musicale diventa certo. Un altro indizio per avvalorare un caso di contrafactum è, secondo Marshall, il fatto che il modello ipotetico ed il contrafactum ipotetico appartengano a generi poetici imparentati: è normale che da una canso o da un vers derivino un sirventes, una tenso o una cobla esparsa. Il contrario sarebbe un caso anomalo che dovrebbe essere provato con assoluta certezza. Abbastanza raro, nella poesia provenzale, è che una canzone cortese sia contrafactum di un’altra canso. In sostanza Marshall pone il componimento poetico e la sua intonazione sullo stesso piano, e ritiene ammissibile che l’affinità metrica, nel caso in cui la si possa considerare imitazione, sia «determinata dall’assunzione dell’intonazione del modello ed implichi pertanto in primo luogo una corrispondenza melodica». Il contrafactum può presentarsi in varie gradazioni. La melodia del modello può essere utilizzata senza alcuna modifica, insieme, dunque, alla sua struttura metrica; oppure, essere ripresa in forma alterata, cosa che comporta variazioni nella struttura metrica, che viene abbreviata o estesa, e la ricreazione alterata di tutti gli altri elementi formali (es.: schema rimico, timbri delle rime); in questo caso si parla più di “adattamento” del modello che di “riproduzione”. Un primo esempio potrebbe essere quello del trovatore Bertran de Born, che afferma, al v. 25 del suo sirventese D’un sirventes no·m cal far lonhor ganda (BdT, 80,13), di aver composto il testo sulla base del «so de n’Alamanda», ovvero della melodia (sonnet) della tenso fittizia tra Guiraut de Bornelh e Alamanda Si·us quer conselh, bel’ami Alamanda (BdT, 242,69). Il tema cortese di quest’ultima, dove il poeta chiede consigli all’amico su come comportarsi di fronte all’improvviso rifiuto della propria donna, è mutato in fervore politico: Bertran incita il re Enrico II a far valere i propri diritti contro il fratello Riccardo. Inoltre, nel suo repertorio poetico troviamo frequenti casi di composizioni su strutture metrico-ritmiche di altri autori. Tuttavia, soltanto del secondo testo possediamo la notazione musicale, tradita dal manoscritto R (Paris, Bibliothèque nationale de France, fr. 22543), e non abbiamo dunque possibilità di avvalorare la contraffattura.
[caption id="attachment_11484" align="aligncenter" width="1000"] Bertran de Born (1140 - 1215) era un barone del Limosino in Francia e uno dei maggiori trovatori occitani del XII secolo. Nell'Icona: Bertran come un cavaliere, da un chansonnier del 13 ° secolo. [/caption]  
Come si nota, la ricerca nel campo dell’imitazione musicale ha sempre un impianto nettamente probabilistico e delle basi sostanzialmente ipotetiche, come già sottolineava Marshall. La tradizione trobadorica, infatti, a differenza di quella oitanica, o galego-portoghese o mediolatina, dove ciò accade con una certa frequenza, spesso manca dei riscontri più evidenti per avvalorare la tesi di una contraffattura, vale a dire la presenza di manoscritti che tramandino melodia e modello del derivato6.
Può accadere che melodie differenti siano associate a componimenti che presentano la stessa struttura metrica, oppure ad uno stesso componimento, lasciandoci supporre che le musiche trascritte fossero delle modalità d’esecuzione di un testo6.
Se quest’ultimo è sicuramente stato scritto e pensato da un autore, lo stesso non può dirsi della melodia. Sono pochi i casi in cui un poeta si dichiara autore del sonnet: ad esempio, Marcabruno, in Pax in nomine Domini! scrive che «Fetz Marcabru los motz e·l so» (fece Marcabruno parole e melodia). Inoltre, consideriamo che i manoscritti che recano la notazione musicale nella tradizione provenzale sono G (Milano, Biblioteca Ambrosiana, R 71 sup.), R (vd. supra), X (Paris, Bibliothèque nationale de France, fr. 20050) e W (Paris, Bibliothèque nationale de France, fr. 844), e che questi sono tutti imparentati fra di loro. Nel caso concreto in cui per uno stesso componimento sopravvivano più melodie, non notiamo divergenze tali da far pensare ad una pluralità di intonazioni: dunque se supponiamo legami fra i testi di tipo verbale, possiamo fare lo stesso per le melodie. Infatti, sono comunque attinte, in fase di trasmissione, dallo stesso bacino da cui sono ripresi i testi, che probabilmente coincide con i loro centri scrittori.
L’omogeneità del tessuto musicale è relativa, nel senso che esistono variazioni sostanziali, che riguardano cioè l’andamento della melodia, oltre a quelle meno rilevanti (disegni neumatici più complessi, liquescenze7); tuttavia, ogni “versione” può essere considerata una diversa esecuzione dello stesso testo, e proprio questa natura di modalità esecutiva la rende più predisposta a processi di riscrittura.
Dunque, riportando la conclusione di Lannutti, «l’imitazione è in primo luogo imitazione metrica, riguarda cioè il testo verbale e la sua struttura, mentre l’imitazione melodica è componente accessoria, e si può pensare che in molti casi essa sia frutto dell’iniziativa dei copisti, che probabilmente tendevano a sottolineare le affinità metriche con modalità esecutive comuni».
Prendiamo un esempio più complesso: la dipendenza di De l’estoile, mere au soleil, di un anonimo troviero, dalla canso Ara no vei luzir solelh di Bernart de Ventadorn, ravvisata da Marshall . La particolare scelta dell’autore oitanico testimonia la notorietà del modello adottato: la canso di Bernart de Ventadorn è tradita, infatti, da ben 18 manoscritti, uno dei quali è W, di tradizione francese, e ben 3 ne tramandano la melodia (G, R e W). Inoltre, come vedremo, il suo testo è un perfetto esempio di alterazione di una complicata forma metrica .
[caption id="attachment_11487" align="aligncenter" width="1000"] Bernart de Ventadorn, fu un importante trovatore dell'età classica della poesia trovata. Nacque nel 1135 e morì nel 1194. Ora pensato come "il maestro cantante", sviluppò i cançon in uno stile più formalizzato che consentiva curve improvvise. È ricordato per la sua padronanza e per la divulgazione dello stile trobar leu e per i suoi prolifici cançon, che hanno contribuito a definire il genere e stabilire la forma "classica" della poesia amorevole cortese , da imitare e riprodurre in tutto il resto secolo e mezzo di attività trovatore. [/caption]
Riporto di seguito la prima strofa di ciascun componimento: «De l’estoile, mere au soleil/Dont parmenable sont li rai,/Toute ma vie chanterai,/Et li raisons me conseille/Que de sa valour veraie/Aucune chose retraie,/Que nus ne la sert bonnement/Que gent guerredon n’en traie./Ara no vei luzir solelh/Tan me son escurzit li rai;/e ges per aisso no·m esmai/c’una clardatz me solelha/d’amor, qu’ins el cor me raya;/e, can autra gens s’esmaya,/eu melhur enans que sordei,/per que mos chans no sordeya».
Il primo consta di tre coblas unissonans, il secondo di dieci coblas unissonans più due tornadas finali, con una complessa disposizione di rims derivatius che intercollegano i vv. 1 e 4, 2 e 5, 3 e 6 e 7 ed 8.
Marshall afferma che l’anonimo autore abbia ripreso, in forma semplificata, la sapiente struttura metrica del modello: nella sua lingua troviamo riprodotto il timbro delle rime e le stesse parole di Bernart nei vv. 1-2, e una debole eco del sistema di rims derivatius nelle parole «pareil» e «s’apareille» ai v. 9 e 12, e «brai» e «braie» ai v. 19 e 22.
Per stabilire dei rimandi fra testi dobbiamo, dunque, soffermarci sull’imitazione metrica, l’unica a poter essere stata intenzionale: la rispondenza melodica ha seguito senz’altro percorsi più complessi.
 
Per approfondimenti:
1 Si veda in proposito Surian 2012, p. 87: «costume poetico che consiste nell'adattare ad un nuovo testo una melodia preesistente - orientamento laico della cultura medievale che si manifesta in un versante della poesia medievale», e p. 89: «il lato spirituale dell'amor cortese ebbe forse origine cristiana [...] in linea con lo scambio tra le sfere del sacro e del profano che caratterizza una buona parte della cultura medievale e che si realizza anche nella produzione trobadorica mediante il procedimento dei contrafacta» e ancora a p. 92, sui contrafacta dei trovieri: «si utilizza una melodia per testi diversi e viceversa». Lannutti 2008, p. 175.
2 Ibid., p. 176. «Invano lo si cercherà, infatti, nella banca dati della trattatistica musicale in latino dal IX al XVII secolo reperibile in internet (Thesaurus musicarum latinarum, www.chmtl.indiana.edu/tml/start.html)». 4 Ibid., p. 176.
3 Gennrich(a) 1918, p. 333 e Gennrich(b) 1918, p.4: «Es ist allgemein bekannt, daß es in der Liedliteratur sog. Contrafacta, d. h. Lieder gibt, die in bewußter Anlehnung an irgend ein berühmtes oder bekanntes Vorblides als Hauptfaktor fur das Enstehen eines Contrafaktums ansieht», in nota a testo a Lannutti 2008, p. 176.
4 Canettieri - Pulsoni 2003, pp. 115: «In assenza della notazione gli elementi accessori sono [...] di aiuto nell'accertamento della ripresa melodica, anche se ovviamente nessuno può escludere a priori che anche in presenza di quegli elementi la melodia sia del tutto differente da testo a testo».
5 Marshall 1980, p. 290: «La plupart du temps, nos conslusione dépendent d'arguments textuels qui ne permettent d'atteindre qu'à une certitude relative. On est obligé de chercher à établir des critéres qui excluent, dans la mesure du possible, la coïncidence».
6 Lannutti 2008, P. 179: «nella tradizione manoscritta melodie differenti sono associate non solo a componimenti che presentino la stessa struttura metrica […] ma anche ad uno stesso componimento, dimostrando che le intonazioni possono non risalire allo stesso autore del testo ma essere una pura e semplice modalità esecutiva, uno dei modi di eseguire il componimento poetico, e al limite un portato della tradizione manoscritta».

7 Le liquescenze sono quei neumi scritti nell’ultima nota di un gruppo posto sopra una sillaba la cui articolazione con la successiva si attua per mezzo di una consonante liquida, nasale o di una semiconsonante, e sono caratterizzati da una grafia più minuta o corsiva. Dato che la pronuncia prevede che il passaggio sonoro si attui con fluidità, questa figurazione prende, appunto, il nome di ‘liquescenza’.

 
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di Carlotta Travaglini 30/11/2018

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La scrittura si presta di per sé ad essere inserita fra gli elementi del divino, in quella dimensione dove le facoltà intellettive non hanno patrocinio. Il collegamento istantaneo con qualcosa di immateriale è palesato ancora di più dalla musica: «La musica non rappresenta “cose” ma “ciò che noi conosciamo” delle cose in quanto “oggetti elaborati” e in quanto “contenuti mentali”». Così lo studioso Franco Vaccaroni riassume il ponte immediato che la musica crea con le cose, pur essendo essa, un’entità sonora, afemica, incapace di trovare espressione nella parola.
Anche dopo un ascolto passivo, tuttavia, un qualsiasi fruitore può essersi trovato a conferire alla melodia un contenuto emotivo.
Siamo soliti avvertire reminiscenze suggeriteci in qualche modo dalla musica per mezzo di quella che è, in realtà, una metafora. Se si pone come esempio il temporale estivo dall’ultimo movimento dell’Estate di Vivaldi, all’ascolto avviene la percezione stessa della pioggia scrosciante nei percussivi staccati degli archi. Non a caso Vivaldi intitolò il concerto L’estate: poiché la mente umana crea sempre un’associazione tra quanto è evocato dall’ascolto, così il titolo e la metafora suggeriscono indirettamente la data immagine.
È inscindibile il legame tra l’apprendimento e l’esperienza emotiva di una melodia, poiché i due enti si simbolizzano in un unicum. Innescando, per sua natura, meccanismi allusivi ‘involontari’, la musica ha una potenzialità comunicativa infinita e si presta a correlazioni ed interrelazioni. Una melodia può, di volta in volta, variare nell’ascoltatore il contenuto emotivo da suggerire, cosicché, pur rimanendo immantinente nella forma, continui senza sosta ad evolversi nel tempo.
Lo spartito resta lo stesso, ma ogni nota sonda una voragine complessa, evocando, suggerendo, resuscitando. La relazione con un qualcosa di esterno pone dei vantaggi non indifferenti: nell’apprendimento di una melodia, ad esempio, è utile associare quanto si deve apprendere ad un qualcosa di esterno, come in una qualsiasi mnemotecnica. Di qui, l’associazione con il testo.
Immergendoci all’interno della storiografia, la comparsa della canzone profana in lingua d’oc ci incuriosisce, nella mancanza di suoi precedenti storici. Quale ruolo avesse una musica extra- e para-liturgica nella vita di un uomo del Medioevo non ci è dato saperlo da testimonianze dirette, ma solo da lasciti di teologi, cronisti, scrittori e poeti. Basiamo la presenza di un repertorio profano nell’Alto Medioevo sull’accanita persecuzione mossagli contro dalla Chiesa. Gli histriones del mondo latino continuarono, tuttavia, la loro attività, mescendo il lato più ludico della teatralità con il canto.
Sondarne il repertorio significa toccare con mano una nenia familiare, non solo perché nota al pubblico ma perché portata a suggerirgli affettatamente qualcosa.
Inizialmente cantato in latino, questo repertorio proviene da varie aree europee legate al Sacro Romano Impero o in qualche modo all’area carolingia, oppure appartiene a tradizioni di clerici itineranti, noti come clerici vagantes. Questi, perlopiù studenti, dedicano la propria vita ai viaggi ed ai piaceri, e la portata della loro cultura si evince dal frequente ricorso al contrafactum, costume di adattare un nuovo testo ad una melodia preesistente. Sono noti per aver diffuso i Carmina Burana, raccolta di canti goliardici di argomento satirico e lascivo. Tuttavia questi canti risalgono già al 1230: dei 228 componimenti 47 di essi sono già in alto tedesco, e nel complesso risentono probabilmente dell’influenza della monodia trobadorica, che già vantava di almeno tre generazioni di cantori.
La monodia profana resta la prassi più frequentata: diversa dalle complesse forme d’arte di ambito strettamente ecclesiastico e funzionale alle esigenze della società feudale dell’epoca, è in latino come nelle lingue volgari, e per la sua portata raggiunge i più disparati strati sociali. Gli scambi commerciali, l’economia monetaria e l’ordinamento feudale hanno aperto le strade ad una nuova visione laica dell’espressività artistica. Non sono più soltanto i monasteri a godere del ruolo di “guida universale” di cui li aveva insigniti il Medioevo: nelle scuole delle grandi città insegnano laici e trovano spazio le lingue volgari, annullando l’ultracentenario monopolio religioso e determinando un inizio di secolarizzazione della cultura.
I generi apicali della monodia profana latina si fanno risalire al conductus, diverso dall’omonima forma polifonica, e al rondellus, genere basato sulla sovrapposizione di diversi schemi melodici, sulla scia della rota medievale, costruita su un canone circolare perpetuo.
La reiterazione e la circolarità sono elementi basilari per l’apprendimento di un canto che non conosce una trascrizione grafica. I testi vengono intonati, cantati agli altri e nuovamente intonati-cantati sul momento dai fruitori: l’apprendimento avviene in praesentia, tutto è correlato alla contingenza.
Il bisogno di annotare, appuntare, sorge dall’evoluzione di queste forme, che raggiungono virtuosismi difficilmente ripetibili senza. Il carattere dei primi testi profani è inizialmente parodistico, gaio - come è usuale, nel mondo popolare, che qualcosa che abbia un seguito sfoci nell’ambito del grottesco, della satira mordace e grossolana. Quando assumerà un certo riconoscimento, inserendosi, cioè, in un preciso contesto socio-culturale, il canto profano troverà una diversa risoluzione, e salirà di grado rispetto alla sua originale destinazione.
Nel Medioevo la prassi musicale fu soprattutto destinata alla liturgia, e si sviluppò per esigenze di organizzazione ecclesiale. Ai primordi del canto liturgico si distinguono due diverse prassi, l’accentus ed il concentus, simili alle moderne accezioni di recitativo ed aria. L’accentus, che probabilmente trovò spazio per primo, consiste nella recitazione intonata delle preghiere: ad ogni sillaba corrisponde una nota, salvo per le lunghe cadenze finali, che marcano la chiusura del verso.
Esisteva, tuttavia, una maniera più ammaliante di cantare in un repertorio di testi estranei alle Sacre Scritture, gli inni. Questi, contrariamente ai normali testi liturgici, sono scritti in versi, e si basano non più sulla severa metrica quantitativa della poesia classica ma sulla moderna distribuzione degli accenti e sulle rime. Le melodie si improntano su di essi e raggiungono una maggiore indipendenza sonora: “nasce”, così – come afferma Massimo Mila: «la misura del suono, che apre le porte dell’irrazionale, comunica con esso e apre nuovi canali comunicativi».
La prima forma adottata dalla Chiesa d’Occidente prende il nome di Canto Gregoriano, dal nome di Papa Gregorio Magno che, secondo la tradizione, raccolse tutti i canti liturgici esistenti nella raccolta Antiphonarium Cento o, come riferisce il suo biografo Giovanni Diacono, si occupò della prima collezione di canti liturgici. Sono scritti in latino, lingua ufficiale della chiesa e della liturgia.
Fondamentale fu l’apporto di Severino Boezio, che nel suo De Istitutione Musicae riprese le principali nozioni di teoria musicale greca, desunte dagli scritti di Tolomeo, e le ampliò, creando de facto una teoria musicale latina.
La pratica dell’accentus, la lettura intonata di passi della liturgia, derivava dall’antica salmodia ebraica, ancora largamente eseguita nella liturgia delle ore e, “frammentata”, anche nella liturgia della messa: fu San Gerolamo ad occuparsi della traduzione in latino di 150 salmi ebraici.
Della liturgia delle ore facevano parte anche gli inni, che avevano un eco più popolare per le melodie di facile apprendimento, la ritmica del testo in versi e la melodia stessa, che procedeva sillabicamente.
Il repertorio gregoriano si basa sui cosiddetti modi, scale eptafoniche di genere diatonico e di senso ascendente. I modi si suddividono in autentici e plagali, i quali sono sempre una quarta sotto il relativo modo autentico. Ogni modo autentico ha in comune col corrispettivo plagale la finalis, chiamata così perché è la nota su cui termina di solito il brano. Le finalis sono quattro: re, mi, fa, sol. Un’altra nota caratteristica all’interno del modo è la repercussio, chiamata così perché è intorno ad essa che si muove la melodia. Si trova una quinta sopra la finalis nei modi autentici ed una terza sopra ad essa nei modi plagali (eccetto per: III modo - una sesta sopra; IV - una quarta sopra; VIII - una quarta sopra). I modi sono in tutto otto, e ad essi vengono applicati gli stessi nomi dei modi greci.
Lo stile è omofonico: un canto può essere eseguito da un solista o da tutti i cantori insieme. Non c’è alcun accompagnamento musicale, il ritmo è libero, scandito dalla sola cadenza delle parole. Tuttavia l’esecuzione poteva avvenire in maniera diretta (omofonia, omoritmia, o esecuzione solistica), responsoriale (canto del solista praeceptor a cui rispondeva poi il coro), antifonica (esecuzione alternata da parte di due gruppi). Gli esecutori sono i monaci della schola cantorum, i fedeli, gli officianti. Quando nel corso del tempo la liturgia delle ore comincia a perdere d’importanza cresce di prestigio la messa, nella quale l’espressione vocale prevalente è quella del concentus, cioé del canto melodico libero, affidato quasi sempre a cantori professionisti, lasciando così ai fedeli l’intonazione di salmi. L’esecuzione del concentus poteva avvenire in forma sillabica (una nota, raramente 2/3/4, per ogni sillaba), semisillabica (per ogni sillaba ci sono due, tre o quattro note), melismatica (le melodie sono riccamente fiorite, ad ogni sillaba corrispondono una molteplicità di note eseguite in maniera libera). Quest’ultima deriva dalla prassi ebraica di eseguire vocalizzi più o meno estesi su parole significative o rituali, e nella prassi liturgica cristiana si stabilizza in alcuni canti.
Passando gradualmente da un’organizzazione democratica, qual era quella dei monasteri, all’accentramento autoritario della curia papale, sorge, infatti, nei piccoli gruppi di cantori-ecclesiastici, un’ambizione virtuosistica spontaneamente sentita nei testi di giubilo. Notoriamente, l’Alleluia, espressione massima di gioia, comprendeva degli ampi e difficili passaggi melismatici nelle sillabe finali, e le loro arditezze col passare del tempo affaticavano la prassi mnemonica fino all’impossibile. Si iniziò a riempire le lunghe jubilationes con versi appositamente composti, che facevano corrispondere ad ogni sillaba una nota: l’apprendimento era facilitato dal riuso di una prassi già nota, come se al termine di un canto se ne dovesse imparare un’altro complementare ad esso.
Così gli interminabili vocalizzi alleluiatici danno alla luce la sequentia, forma di farcitura scritta appositamente. Il monaco Tutilone, del monastero di San Gallo, crea invece il tropo, corrispettivo prosastico della sequenza, che consiste in un’aggiunta o inserzione ai canti liturgici. Questi scorci di inventiva sorgono in un panorama di canti codificati, frustrati dalla rigorosa prassi della liturgia.
Nel XII secolo ha inizio la cosiddetta Ars Antiqua, con cui si afferma compiutamente la prassi polifonica, dapprima soltanto sperimentata, e si ratificano le conquiste fondamentali della notazione su rigo, che consente di stabilire l’altezza dei suoni da eseguire, e l’assunzione di figure di valori convenzionali per stabilire il ritmo delle note. Inizialmente il problema dell’amensuralità si era risolto estendendo i modi, che circoscrivevano i ‘range’ delle varie melodie, agli infiniti valori ritmici: la scuola di Notre-Dame inventa i modi ritmici.
In seguito nasce la notazione mensurale. La scrittura dell’altezza delle note è, a quest’epoca, un campo in continua evoluzione, non solo per occorrenze teoriche ma soprattutto per un uso pratico e funzionale a diretta disposizione delle persone del mestiere.
Esisteva da sempre una notazione alfabetica, che indicava le sette note con le prime sette lettere dell’alfabeto, dall’A (la) al G (sol), e che utilizzava le lettere maiuscole e minuscole per differenziare le ottave. In seguito fa la sua comparsa la notazione neumatica, usata in particolare nelle scholae cantorum, che indicava con dei segni grafici l’altezza dei suoni e la natura degli intervalli: segni che, appunto, prendono il nome di neumi.
Con Guido D’arezzo (XI sec.) si stabilizza definitivamente la notazione su rigo: si utilizza un tetragramma, composto da quattro linee e tre spazi su cui venivano collocati i neumi, di segno quadrato (notazione quadrata). Con l’epistola "ad Michaelem de ignoto cantu" e il "Prologus in Antiphonarium" stabilizza il nuovo sistema di scrittura inventando le rispettive posizioni delle note sulle righe e negli spazi, fissando così l'intervallo esatto tra le varie note e codificandone i valori nella forma di un quadrato o un rombo.
Il tutto doveva essere di grande aiuto ai cantori, che dovevano eseguire ed imparare a memoria un enorme numero di canti. I neumi nascono da esperimenti sui segni convenzionali della metrica classica. Gli accenti acuto, grave e circonflesso collocati sopra i testi, che prima indicavano soltanto una direzione da far seguire alla voce, vengono prima ripresi dalla gestualità delle mani del praecentor in una sorta di prima chironomia, poi vengono elaborati e rielaborati nella pratica scritta assumendo specifiche forme tese ad indicare note o gruppi di note.
Dunque, una melodia conchiusa in un ambito modale viene regolarizzata nella norma mensurale della musica scritta.
[caption id="attachment_10858" align="aligncenter" width="1000"] Il Graduale Tu es Deus del Cantatorium Codex Sangallensis 359. [/caption]
È dopo l’anno mille che i canti a destinazione profana conquistano la propria autonomia. I modi gregoriani sono come tante ottave inizianti ognuna su un grado successivo della scala, ma senza intervento di diesis o bemolli. Dunque in ogni modo gli intervalli tra le note cambiano, non ci sono le polarizzazioni dell’armonia classica, “le frasi non concludono ponendo un limite, ma lasciando una larga prospettiva aperta al pensiero” (Combarieu) . La frase musicale si sviluppa indipendentemente da ogni coerenza raziocinante .
Il gregoriano afferma una sua incrollabile unità, che non è l’unità di conquista della musica romantica: è un’unità eternamente posseduta, senza alcuno sforzo. Non il divenire ma l’essere, sempre totale e sempre uno. Come afferma Bellaigue: «È l’unità dell’uomo con se stesso, unità spirituale e interiore; l’unità che l’uomo godeva prima della colpa originale».
L’ultimo periodo del gregoriano subisce lo smottamento delle rovine dell’impero romano, con conseguente sgretolamento del latino e germogliare delle lingue romanze - la poesia ritmica si forma parallelamente al materiale stesso del canto, la lingua. Gli inni e le sequenze suggeriscono già una cultura moderna, non improntata all’alterità della cultura di chiesa ma partecipe dell’afflato umano, il canto dell’individualità che parla a molti.
«È l’affermazione della nazione nuova nella concreta individualità regionale contro l’astrazione retorica delle antiche memorie romane».
La nascita della monodia profana appare tanto più strabiliante perché non possiede precedenti locali. Da una tradizione latina austera e rigorosa vediamo per la prima volta adottata una lingua nazionale per cantare ed eseguire testo e musica contemporaneamente. È qui che si manifesta l'orientamento più laico della cultura: la società cortese e cavalleresca apre le porte alla storia della poesia moderna più spiccatamente individuale e soggettiva.
L’adozione insperata della mutevole lingua neonata è straordinaria: nascono caratteri nuovi, ritmati, che la accompagnano pedissequamente. Legata alla danza, la monodia profana assume quel taglio netto, incisivo che ha un passo, un movimento, uno scatto, e la melodia sembra gradevole alle orecchie di un moderno e non più del tutto estranea alla propria abitudine sonora.
 
Per approfondimenti:
_Baroni, Fubini, Petazzi, Santi, Vinay, Storia della musica, Torino, Einaudi;
_Elvidio Surian, Manuale di storia della musica, vol.1, Rugginenti (6°);
_Massimo Mila - Breve Storia della musica - Torino, Einaudi, 2005.
 
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di Carlotta Travaglini 05/10/2018

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«E io sono cresciuto nel tango/perché il tango è maschio/perché il tango è forte./Ha odore della vita/ha il sapore della morte. Perché ho amato molto/e perché mi hanno/ingannato/e ho passato la vita morsicando sogni/perché sono un albero che non ha mai dato frutti/perché sono un cane che non ha padrone/perché nutro odi che non ho mai detto/perché quando amo/perché quando amo mi dissanguo in baci/perché ho amato tanto e non mi hanno amato/per questo canto con tanta tristezza/per questo…».
Così si esprimeva Celedonio Flores: Siamo nella cosiddetta “Vecchia guardia”, e nei sobborghi più chiassosi di Buenos Aires, tra echi di popolari candombes, habaneras, tangos andaluces… inizia a farsi strada un nuovo estro musicale, nuove melodie vengono improvvisate da musicisti dilettanti e danzate. Siamo all’origine stessa del tango, dove questo propriamente non esiste.
Ancora Tulio Carella asseriva: «le orchestre con cui il tango si è creato erano composte in modo sobrio: chitarra, violino, arpa, flauto, flautino; a volte un basso di metallo, una fisarmonica, un armonium portatile - il classico a tre ottave - e in occasioni un mandolino o una baldosa. Non c'è il pianoforte, perché il pianoforte è un oggetto di lusso».
Il tango serpeggia tra le sezioni più marginali della città. Viene praticato nei conventillos, le case degli immigrati, o nelle academias, dove gli uomini si possono divertire danzando liberamente con donne esperte di ballo, o nei peringundìn, locale dove fruire di cibi e bevande. Spesso è eseguito da trii di strumenti, con violini, chitarre o fisarmoniche e flauti.
Le classi più agiate non lo vedono di buon occhio. Per quelle dirigenziali è vicino all’immigrazione, un veicolo cosmopolita deteriorante per la cultura tradizionale argentina, sconveniente nei toni ed immorale. Solo dai primi decenni del ‘900 diventerà la mania nei grandi saloni delle capitali europee.
La sua popolarità iniziò nell'area di Messico, Antille ed Argentina; non è sicuro che l'ultima di esse fosse la regione che diede i natali al genere. Certo è che da essa gli Europei si videro consegnata la sua tradizione musicale.
Inizialmente il tango, genere popolare per eccellenza, si inserisce nel contesto di Buenos Aires e della sua propulsione demografica ed urbana; passa poi a Montevideo, che segue la medesima sorte. L’enorme crescita è dovuta soprattutto alla massiccia immigrazione di europei, di cui la maggior parte sono italiani.
I primi grandi nomi del tango argentino sono tutti figli di Italiani - Juan D'Arienzo, Osvaldo Puglise, Enrique Delfino, Juan Maglio, o lo stesso Astor Piazzolla, di nonni pugliesi da parte di padre e toscani da parte di madre.
L’avversione all’immigrazione degli argentini è forte, in particolare verso gli Italiani. Il loro insediamento di massa, i loro usi e costumi ben radicati, vengono visti come un sabotaggio della propria cultura nazionale. In effetti, non avevano tutti i torti. Il Tango stesso esprime questa fusione tra la popolazione del Rio del Plata pre-immigrazione e quella degli immigrati europei, la cui mistione porta a consistenti novità a livello sociale. Lo stesso lunfardo, argot (lingua di un ristretto gruppo sociale, ben codificata tra i suoi membri, per escludere dalla comunicazione tutti gli altri) spagnolo in uso a Montevideo e Buenos Aires, è ricco di termini italiani ed africani, ed è quello che dà voce alle atmosfere del tango. Ma non è tutto.
Jorges Louis Borges amava affermare: «Le gambe s’allacciano, gli sguardi si fondono, i corpi si amalgamano in un firulete (nel tango, passo di danza molto difficoltoso che il ballerino esegue a mo’ di ornamento) e si lasciano incantare. Dando l’impressione che il tango sia un grande abbraccio magico dal quale è difficile liberarsi. Perché in esso c’è qualcosa di provocante, qualcosa di sensuale e, allo stesso tempo, di tremendamente emotivo».
[caption id="attachment_10663" align="aligncenter" width="1000"] Questa storia collettiva complessa e in parte caotica, vissuta da tante famiglie e individui, caduti nell'oblio, viene inquadrata grazie all'analisi perspicace e rapida di una spazialità architettonica ancora presente e visitabile nel contesto della metropoli di Buenos Aires. Si tratta dei conventillos, edifici una volta signorili, situati nella zona vicino al porto (si pensi alla Boca) trasformati poi in abitazioni per immigrati. Lo schema classico del conventillo prevedeva una forma a parallelepipedo, pianoterra e primo piano, con un cortile interno in cui, in comune, trovavano posto i servizi essenziali. Proprio questi umili cortili, animati dai migranti provenienti dall'Italia e dal resto d'Europa, divengono i protagonisti del seminario, che spiega con dovizia di particolari come da quella cultura popolare (frutto di una forte mescolanza anche linguistica) siano nati il tango e altri fenomeni assimilati dalla cultura colta: si pensi alla drammaturgia, ma anche a una certa letteratura "neorealista" in voga negli anni Venti e Trenta del Novecento.[/caption]
Non si tratta della danza di una nazione, della celebrazione della gloria di un popolo, e nemmeno dell’espressione di un esiguo gruppo sociale – si tratta di corpo, del corpo più vivo del danzatore, l'individuale assoluto dell’interprete, fatto di carne viva, desiderio, azione. Tutti i movimenti e le figurazioni che si sviluppano, dalle iniziali lascivie, sviluppano in direzione infinita il tema dell’abbraccio. Durante il ballo nessuno parla. Si balla per ballare, ogni gesto è estremamente comunicativo ed allacciato a ciò che viene suonato dagli strumentisti: vi è un unico grande anello di trasmissione imparziale tra musica, danza e sensazioni, trasfuso attraverso l’intero momento del tango.
Quando un cantore aprirà le danze col proprio canto, potremo parlare di “Nuova Guardia”, dove gli strumentisti prendono degli accordi tra di loro prima di iniziare a suonare e va seguito un testo – ovvero, quando si smette, a poco a poco, di improvvisare completamente.
A questa decrescita e al successivo impreziosimento dell’esecuzione musicale, ed alla crescente risonanza estera del genere, consegue inevitabilmente un impoverimento delle figure della danza rispetto a quelle originarie.
Il bandoneon, strumento inventato in Germania verso la metà dell'ottocento, originariamente per accompagnare i canti durante le processioni, fu portato da emigranti tedeschi in Argentina all'inizio del XX secolo; il suo futuro destino lo avrebbe consacrato come protagonista delle orchestre di tango.
Le suggestioni del genere si avvicinano all'habanera, danza di origine cubana dal ritmo lento e sinuoso, largamente usata dai compositori a partire dall'Ottocento. Celebre è l'Habanera di George Bizet, sulla quale costruisce un'aria nell'atto I della sua celebre opera "Carmen", "l'amor est un oiseau rebelle", in cui notiamo un ritmo inconfondibile nel canto sopra l’ostinato dei bassi; oppure, l’Habanera di Maurice Ravel, terzo movimento della sua Rapsodie Espagnole (1907), dove notiamo i medesimi echi, nei vari strumenti.
È dall’habanera che si sviluppa, parallela al tango, la milonga, danza popolare, di origine uruguayana, di tempo binario e perfetta per una sala da ballo - viene detta anche l’habanera dei poveri. Tuttavia è sempre il primo a detenere la maggiore popolarità, così che i generi finiscono per confondersi.
La componente ritmica è fondamentale e trascinante. Un esempio perfetto si trova in Milongueando en el quarenta, di Annibal Troilo, dove sentiamo chiaramente la sincope 1…23 1…23. Fondamentale ed intrecciato col ritmo nel tango è il compas (el compas del corazòn), ovvero la metrica caratteristica del genere, è quel suo movimento che “pulsa” all’interno del tempo, l’articolazione della melodia, e che le orchestre rendono il tratto inconfondibile della propria identità. Ecco che i forti vengono eseguiti con strappate, o picchiate, e i toni più dolci e soavi vengono rallentati, o viceversa, in una mutevolezza di toni dalle grandi tinte chiaroscurali.
In Europa l'accoglienza è cauta, pacata; lo si “assolve” solo quando vengono attenuate le sue presunte trivialità intrinseche. Solo così può, dunque, fare il suo ingresso in società. L'anno 1911 è quello di presentazione nei saloni europei.
Vi è, in effetti, una sottile patina “tribale”, un gusto per un qualcosa di antico. Pare che la parola 'tango' nasca in Sudamerica come onomatopea, in richiamo al suono del tamburo, e che si sia estesa poi ad evocare quel preciso passo di danza al suono del tamburo.
In latino, 'tangere' indica propriamente il 'toccare', in senso figurato e fisico.
Anche in Europa, però, troviamo un “tango”: è quello diffuso in Aragona, chiamato anche ‘jotà’, ma non ha nessun legame con quello argentino: il ritmo è ternario e il movimento più vivo, in una sorta di walzer. È invece simile il tango flamenco, della medesima origine spagnola, anche nelle figurazioni.
Negli anni sessanta del novecento la musica si evolve nel cosiddetto Tango Nuevo, di cui Astor Piazzolla è iniziatore - lo stile interpretativo del Tango ballato è del tutto nuovo, e viene consacrato dall'opera di determinati ballerini quali Gustavo Naveira, Fabian Salas e Mariano “Chico” Frumboli. Infine gli ultimi sviluppi sono quelli del cosiddetto Tango Elettronico dove al “compas” della tradizione si sostituisce il "beat" elettronico.
Riprendendo lo stesso Piazzolla: «La mia musica è triste perché il tango è triste. Il tango ha radici tristi e drammatiche, a volte sensuali, conserva un po’ tutto… anche radici religiose. Il tango è triste e drammatico ma mai pessimista».
Astor Piazzolla fa parte di quel variegato gruppo di compositori che, sotto la guida di Nadia Boulanger, viene invitato ad essere più coerentemente sé stesso; da lei proviene l’invito a ‘non essere l’ennesimo compositore europeo’.
Nel 1986 compone l’Histoire du Tango per flauto e chitarra, scegliendo proprio gli strumenti associati alla prima fioritura della forma, a Buenos Aires, nel 1882. Viene tracciata, in forma musicale, una storia avvallata, che solca mano a mano la prima malia delle esecuzioni nei bordelli fino ad arrivare alle grandi e concitate sale da concerto americane ed europee.
Questo racconto si compone di quattro momenti, Bordel 1900, café 1930, Night club 1960 e Concert d’aujourd’hui (Concerto dei giorni d’oggi), ed ognuno è accompagnato da delle note al testo, che l’autore scrive di suo pugno, profondamente suggestive.
_Bordel 1900: Il tango è nato a Buenos Aires nel 1882. È stato suonato per la prima volta su chitarra e flauto. Accordi poi vennero ad includere il pianoforte, e più tardi, la concertina. Questa musica è piena di grazia e vivacità. Dipinge un quadro delle chiacchiere bonarie delle donne francesi, italiane e spagnole che popolavano quei bordelli mentre prendevano in giro i poliziotti, i ladri, i marinai e la marmaglia che venivano a vederli. Questo è un tango vivace.
_Cafe, 1930: questa è un'altra epoca del tango. La gente ha smesso di danzare come nel 1900, preferendo invece semplicemente ascoltarla. È diventato più musicale e più romantico. Questo tango ha subito una trasformazione totale: i movimenti sono più lenti, con armonie nuove e spesso malinconiche. Le orchestre di tango consistono in due violini, due concertine, un pianoforte e un basso. A volte il tango viene anche cantato.
_Night Club, 1960: questo è un periodo di scambi internazionali in rapida espansione, e il tango si evolve di nuovo mentre il Brasile e l'Argentina si uniscono a Buenos Aires. La bossa nova e il nuovo tango si stanno muovendo allo stesso ritmo. Il pubblico si precipita nei night club per ascoltare seriamente il nuovo tango. Questo segna una rivoluzione e una profonda alterazione in alcune delle forme originali del tango.
_Concert d’aujourd’hui (Concerto dei giorni moderni): alcuni concetti nella musica del tango si intrecciano con la musica moderna. Bartok, Stravinsky e altri compositori ricordano le note della musica del tango. Questo è il tango di oggi e anche il tango del futuro.
 
Per l’ascolto, si consigliano particolarmente:
_ “Histoire du Tango, Six études tanguistiques”, Phoenix classics, 1998, con Stefano Cardi alla chitarra e Roberto Fabbricciani al flauto
_“Histoire du tango”, Avie, 2013, con Augustin Hadelich al violino e Pablo Sainz Villegas alla chitarra.
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di Carlotta Travaglini 26/08/2018

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La famiglia che dà i natali ai più celebri balletti della corte di Vienna proviene da Leopoldstadt, oggi secondo distretto della città di Vienna, ad est di Inner stadt, primo distretto, sopra il canale del Danubio. Questo quartiere era separato dalla Pazmanitengasse, enorme arteria che ospitava la più grande sinagoga di Vienna, che venne distrutta nella notte dei cristalli del 1938. Suo nonno, Johann Michael Strauss (1720 - 1800), originario di Budapest, era ebreo, ma si era convertito al cattolicesimo per poter sposare Rosalia Buschin (1729 - 1785), figlia di un guardiacaccia originario dell'Austria Inferiore. Il 14 marzo 1804, Johann Strauss viene battezzato con rito cattolico.
Suo padre, Franz Borgias Strauss (1764 - 1816), sposò Barbara Dollmann (1770 - 1811) e la giovane coppia gestiva una locanda nella Flossgasse, frequentata prevalentemente da marinai del Donaukanal, provenienti da Linz. Le esibizioni dei viandanti erano di casa: il piccolo Johann Baptist Strauss, Sr. vi assistette spesso e con grande curiosità; egli fu il solo dei sei figli della coppia a superare il secondo anno di vita, assieme alla sorella, Ernestine Strauss (1798 - 1862), che in futuro avrebbe sposato Kark Fux (1805 - 1859), musicista e futuro segretario del compositore. Tale famiglia è un esempio perfetto dell'assorbimento della cultura ebraica all'interno dell'Austria-Ungheria e ci mostra come la forza della cultura tedesca, di stampo cattolico, sia riuscita ad amalgamare gli ebrei con la società: elemento sempre molto difficile con il popolo eletto.
[caption id="attachment_10536" align="aligncenter" width="1000"] Johann Strauss in una litografia di Joseph Kriehuber, 1835. [/caption]
A dodici anni fu mandato come apprendista presso un rilegatore, per poter imparare un mestiere. Non riuscì a lungo a sopportare il nuovo lavoro e tentò addirittura una fuga che, per certi versi, si rivelò fortunata: per strada incontrò un suonatore ambulante, chiamato Polischansky, il quale dopo averlo riportato a casa e aver ottenuto l’approvazione dei suoi genitori, sarebbe diventato il suo primo insegnante di musica.
Molto di moda erano, all'epoca, le orchestre da ballo, tra le quali spicca quella diretta da Michael Palmer, il quale si esibiva presso il raffinato Cafe Sperl. Fu così che alla giovane età di quindici anni Johann Strauss ebbe la fortuna di esibirsi insieme a loro: qui entrò in contatto con il giovane Joseph Lanner (1801 -1843), di tre anni più anziano, con il quale intraprese una forte amicizia. Già da tempo l’amico stava facendosi strada nell’ambiente che li vedeva uniti, ma le loro strade si biforcheranno. L'amico Lanner nato al numero 5 di Mechitaristengasse, ora settimo distretto di Vienna, di famiglia umile, studierà il violino da autodidatta mostrando doti molto precoci: entrerà infatti nell’orchestra di Palmer all’età di dodici anni. Legati da forte affiatamento abbandonano insieme l'orchestra nel 1818 per fondare un trio con i fratelli Karl e Johann Drahanek, rispettivamente al violino e alla chitarra, che diventerà poi un quintetto aggiungendovi un violoncello ed una viola, suonata dallo stesso Strauss. Il progetto cresce e Lanner riesce a costruire una vera e propria orchestra.
In quel periodo Strauss e Lanner condividono un appartamento nel Windmuhlgasse, al numero 18 e nel 1824 Lanner diventa definitivamente il direttore dell’orchestra, mentre a Strauss spetta il ruolo di vice direttore. Mentre le esibizioni si susseguono senza tregua in un successo sfrenato, Strauss si convinse che le proprie opere non venissero celebrate abbastanza.
[caption id="attachment_10537" align="aligncenter" width="1000"] Charles Wilda: Joseph Lanner e Johann Strauss (particolare), olio su tela, 1906. [/caption]
Una sera di settembre 1825 allo Zum Bock, Joseph Lanner e Johann Strauss litigano atrocemente. L'orchestra si scinde e 14 elementi decidono di seguire Strauss, che crea così una propria orchestra apertamente ostile a Lanner; quest’ultimo, da parte sua compone il Trennungs-Waltzer op. 19 (Waltzer della separazione). Tuttavia, nonostante tutto, i due musicisti avrebbero avuto ancora occasione di lavorare insieme. Nello stesso anno, dall'unione di Strauss con Maria Anna Streim (1801 - 1870), nasce il suo primogenito, Johann Baptist Strauss, II (Jr., 1825 - 1899), futuro compositore. Il 22 agosto 1827 nasce il secondogenito Joseph, anch’egli destinato alla medesima professione.
In breve tempo il complesso di Strauss ottiene un discreto successo. Così gli balenò l’idea di creare e gestire più gruppi musicali, così che si potessero esibire contemporaneamente in più contesti. Anche la famiglia Strauss continuava ad ampliarsi, con la nascita di Anna (1829), Teresa (1831) ed Eduard (1835), futuro musicista, compositore e direttore d’orchestra. Dal 1834 la famiglia Strauss dimora stabilmente nella Hirschenhaus, sulla Tabostrasse.
Il complesso di Strauss esordisce allo Sperl il 4 ottobre 1829. Ad assisterlo troviamo il giovane Richard Wagner (1813 - 1883), che ricorda con sincera emozione «l'entusiasmo quasi frenetico in cui entrava immancabilmente il sorprendente Johann Strauss, ad ogni pezzo che dirigeva suonando, ad un tempo, il violino. All'inizio d'ogni nuovo valzer tremava, quell'autentico genio della musicalità popolare viennese, come una pitonessa sul tripode e il vero gemito voluttuoso dell'uditorio inebriato assai più dalla sua musica che dalle bevande consumate, spingeva l'entusiasmo del magico violinista ad un grado per me quasi angoscioso».
Fino ai primi anni '40 il successo di Johann Strauss fu sempre inferiore a quello di Joseph Lanner. Nel 1829 quest’ultimo ricevette l'ambita nomina a direttore musicale dei balli alla Redoutensäle nel palazzo imperiale di Hofburg; poco tempo dopo gli venne affidata anche la direzione della banda del II reggimento cittadino della città di Vienna. Con Joseph Lanner il valzer smise di essere un genere contadino.
Il valzer viennese nasce nel contesto più popolare. Il nome deriva dal tedesco Waltzen, che significa “girare in tondo”. Molte danze popolari ne possedevano caratteri affini; alcune, austriache e bavaresi, come il Dreher (da ‘sich drehen’, girare su se stessi), sono alla base della sua costituzione. Molti studiosi ritengono che il Ländler, danza tipica degli ambienti contadini austriaci originaria del Landl, una regione dell’alta Austria, ne sarebbe il diretto antenato; tant’è che, nelle prime apparizioni del valzer, il loro nome veniva confuso assieme a quello di altri generi (alcuni valzer beethoveniani recano anche il nome di “Contraddanza”). Il Landler è in ¾, si balla a coppie ed ha un andamento molto marcato, lontano dai toni eleganti e leziosi dei generi aristocratici. A partire da esso il valzer, con l’affermarsi della borghesia nel corso del XVIII secolo, venne importato a pieno titolo nelle città.
[caption id="attachment_10540" align="aligncenter" width="1000"] Philipp Steidler: Joseph Lanner (particolare), olio su tela, 1840.[/caption]
Il nome si diffonde nell’Ottocento e figura tra gli scritti di Haydn, Mozart, Beethoven; tuttavia per lungo tempo fu ostacolato dai “conservatori”, che vedevano in esso un genere musicale senza troppe pretese, semplice e lascivo. Addirittura cominciarono a circolare dei manualetti che indicavano come comporre valzer sfruttando il gioco dei dadi: il più famoso, “Introduzione per comporre quanti Valzer si vuole per mezzo di due dadi, senza sapere nulla di musica o di composizione”, è attribuito a Wolfgang Amadeus Mozart.
Diffusosi inizialmente in Austria e nel sud della Germania, il valzer raggiunge presto le capitali Europee e diventa un genere internazionale. Nonostante tutto piace, entusiasma i ballerini, che possono finalmente danzare abbracciati, e le melodie catturano tutti. I valzer vengono suonati in Italia, in Inghilterra, vengono scritti anche dai compositori più insigni; in Francia, dopo l’introduzione tra i balli di corte voluta da Maria Antonietta, diventa un momento tipico del genere operettistico, assumendo caratteristiche del tutto proprie ed un carattere più melanconico, languido, lento. A Vienna, invece, invece, i valzer di Lanner e Strauss sono un’imponente tradizione.
Il loro campo vincente era quello della musica da ballo. Infatti era nel Carnevale, il "Fasching", che le grandi orchestre riuscivano ad avere più attività. Joseph Lanner si cimenta in diverse centinaia di musiche da ballo dei generi più in voga; naturalmente, molte di esse erano valzer. Il suo valzer più celebre è Die Schönbrunner, op.200, "L'abitante di Schombrunn". Il nome di quest'opera proviene dal titolo, che si riferisce al proprietario del Caffé Dommayer, locale nel distretto di Hietzing, dove si trova anche il castello.
Fino all'ascesa di Johann Strauss Jr. con "An der schönen blauen Donau " nel 1867 (Sul bel Danubio blu), fu questo, forse, il valzer che più riecheggiava, tra le vie di Vienna.
Dai titoli di molte opere (valzer, Ferdinand II, gewidmet ; valzer, Maria Ludovica, gewidmet; “gewidmet” in tedesco significa “dedicato a”) si evince che la loro destinazione fossero gli ambienti aristocratici viennesi. Lo stesso castello di Schonbrunn (Schloss Schönbrunn, in tedesco) fu la sede della casa imperiale d'Asburgo dal 1730. Voluta dall’imperatore Carlo VI come residenza estiva, raggiunge la sua maestosità con gli imponenti lavori voluti da Maria Teresa D'Austria. Per tre anni vi prese residenza lo stesso Napoleone Bonaparte, e fu il luogo di nascita dell'imperatore Francesco Giuseppe, che vi morì nel 1916.
Perderà la destinazione di residenza imperiale con il crollo della monarchia asburgica nel 1918. Oggi molte delle sue sale sono destinate ad usi governativi.
Altre composizioni celebri furono Hofballtänze (Danze per il ballo di corte, ancora oggi estremamente popolari) op. 161, Steyrische-Tänze (Danze stiriane, composto in stile Landler, in omaggio all'antenato del valzer) op. 165, e Die Romantiker (Il Romantico) op. 167.
Mentre Lanner coltiva il proprio successo locale, Strauss ha progetti più vasti. La sua orchestra conta ormai più di 200 elementi, il suo nome domina le scene. Nonostante la precarietà della sua situazione familiare, riesce a districarsene; convalescente da un duro malore, si separa dalla moglie per averla tradita, nel 1833, con una cappellana viennese, Emilie Trampusch e, avendo costruito con lei una seconda famiglia segreta,sceglie di seguire quest'ultima.
La relazione con la moglie era complicata da tempo; detestava il fatto che lei avesse concesso ai figli Johann e Joseph di prendere lezioni di musica.
Allo stesso anno risale la sua prima tournée, che lo portò ad esibirsi al cospetto del re di Prussia. Le recensioni dei critici sono entusiastiche. Nel '37 prende parte ai festeggiamenti per l'incoronazione della regina Elisabetta ed il grand tour dei musicisti procede per altre settantadue mete.
[caption id="attachment_10541" align="aligncenter" width="1000"] Monumento ai due compositori padri fondatori del valzer viennese, Johann Strauss padre e Joseph Lanner. Parco del municipio di Vienna (Rathaus). [/caption]
Forse ottusamente Lanner, che preferì non travalicare il suolo nazionale, era convinto che il valzer non avrebbe potuto “attecchire” all’estero, o detenere un successo pari a quello già costituito localmente. In Francia l’orchestra di Strauss dette la bellezza di ottantasette concerti. Al concerto del 1º novembre 1837 a Parigi assistettero, tra le file degli spettatori, Berlioz, Cherubini, Meyerbeer e Paganini. Il 5 novembre, alle Tuileries, si esibì davanti a al re Luigi Filippo e al re Leopoldo del Belgio. Il culmine fu raggiunto con la stipula di un contratto con Philippe Musard, artista addetto alla musica da ballo, col quale tenne una trentina di concerti nella capitale francese. In Inghilterra, Strauss prese parte ai festeggiamenti per l’incoronazione della Regina Vittoria, il 28 giugno 1837. Johann Strauss rientra a Vienna il 13 gennaio 1839.
L'anno successivo gli viene concesso di partecipare ai grandiosi Balli di corte, dove si sarebbe potuto esibire di lì in poi alternandosi con Lanner; dal 7 gennaio 1846 ne divenne il direttore, su concessione dell’imperatore.
Tuttavia il successo dell’amico-nemico si sarebbe spento presto. Un’epidemia di tifo invase Vienna nel 1843 e Lanner, rimastovi contagiato, morì. Ciò significò, per Strauss, trovarsi ad essere l’incontrastato dominatore delle scene musicali Viennesi. Ai funerali di Lanner, fu lui ad occuparsi delle musiche.
Tra il 1835 ed il 1844 Johann Strauss ed Emilie Trampusch ebbero sei figli; in quest’ultimo anno ottenne il divorzio definitivo dalla moglie Anna. Fu solo grazie al distacco del padre che suo figlio Johann Strauss Jr., poté finalmente debuttare nel mondo musicale: il suo primo incarico fu quello di direttore dei balli al Casinò Dommayer di Hietzing, vicino al Castello di Schönbrunn.
L’ondata di rivoluzioni che travolse il ‘48 invase la capitale austriaca il 13 marzo, quando studenti e lavoratori insorsero contro lo stato di polizia messo in piedi da Metternich, Strauss si pose sempre come accanito difensore della Monarchia Asburgica. È questo clima che vede la nascita della più celebre opera del compositore, la Radetzky-Marsch op. 228 (La Marcia di Radetzky), eseguita per la prima volta il 31 agosto 1848 al Water-Glass di Vienna per festeggiare il Feldmaresciallo Radetzky, il quale aveva guidato la riconquista austriaca di Milano dopo i moti rivoluzionari in Italia del ‘48. L’operazione si era conclusa con la firma di un armistizio che obbligava i piemontesi a lasciare Lombardia e Veneto precedentemente occupati e che concludeva la prima guerra d’indipendenza italiana. Le sue note erano destinate a diventare l’inno dei soldati austriaci. Con essa si guadagnò il disprezzo dell’intera area rivoluzionaria.
Durante un soggiorno a Londra incontrò l’approvazione dello stesso cavaliere Metternich, che era lì in esilio. A Vienna, anni dopo, eseguì la Jellacic-Marsch, dedicata proprio al personaggio croato Josip Jelačić, noto per la durezza dei suoi metodi repressivi, che aveva riacquisito il controllo di Vienna per gli Asburgo, guadagnando ulteriore malcontento. Ammalatosi gravemente, Johann Strauss muore di scarlattina il 25 settembre 1849. Ai suoi funerali venne eseguito il valzer Das Wanderers Lebewohl op. 237 (L'addio del viandante), scritto prima della sua ultima tournéeLa sua tomba, inizialmente posta nel cimitero di Oberdöbling, venne spostata in una tomba d'onore nel Zentralfriedhof (Cimitero Centrale), a fianco dell'antico amico e rivale, Joseph Lanner.
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di Carlotta Travaglini 13/06/2018

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«[…] l'accompagnamento ritmico o armonico è importante almeno quanto la canzone stessa, e quindi bisogna ispirarsi in questo direttamente al popolo; chi la pensa diversamente con il suo lavoro non farà altro che un centone più o meno arguto di quello che vorrebbe realizzare nella realtà». In questo articolo, apparso sulla rivista «Mùsica», Manuel De Falla parla del lavoro di scrittura delle proprie Canciones Populares Espanolas. L’anima intrinseca, la genuinità, la secolare capacità comunicativa, la familiarità autoctona, l’immediatezza: è questo ciò su cui si è lavorato e che si è voluto far uscir fuori.

[caption id="attachment_10443" align="aligncenter" width="1000"] Maclise Daniel, Ritratti di Niccolò Paganini (particolare) - Dover Museum. [/caption]

Non si è trattato di una selezione, di una collazione o di una malriuscita imitazione. Un Centone è stato scritto nel 1828 da Niccolò Paganini – ovvero, il Centone di sonate, le Diciotto Sonate per violino e chitarra MS 112. La fama del musicista lo precede già al suo tempo: “acrobata” nelle sue esecuzioni, elude tutte le possibilità tecniche allora conosciute, turbando gli spettatori - un prodigio estroso, che ama cimentare sé stesso in ardue sfide di improvvisazione sui suoi stessi scritti e su quelli altrui. Perché mai, dunque, “scadere” in un Centone? Il Centone è in genere un componimento letterario formato dalla sovrapposizione di parole, frasi, versi di un altro autore celebre. Il termine riprende una parola latina, centō, derivante dal greco κέντρων, che indica una veste di cenci di vari colori e anche un tipo di composizione. I primi centoni provengono dall'antico mondo greco, gli ὁμηρικοί κέντρωνες, e riprendono i celebri versi di Omero; famosi sono quelli di un vescovo di nome Patricius, ascrivibili al V sec. a.C. Altri provenienti dalla tradizione latina, sono spesso ad imitazione dei precedenti modelli greci, ma prediligono Ovidio. Col passare del tempo acquisirono sempre maggior popolarità e varietà di argomenti: dal 500 compaiono pregiate edizioni a stampa (quali la celebre di Aldo Manuzio, uno dei maggiori stampatori italiani). I testi letterari prediletti sono le Sacre Scritture e le opere virgiliane. Nella letteratura medievale, dove il senso religioso è accresciuto in tutti i generi di testi, queste due matrici vengono reciprocamente commiste. L'enigmista tardo ottocentesco Anacleto Bendazzi si cimenta in un centone basato su 666 versi virgiliani, a loro volta infarciti di altri autori e resi più aderenti alle storie evangeliche. Su questo indirizzo Etienne de Pleurre (1585-1635), canonico di Saint-Victor di Parigi, scrive una Sacra Aeneis, una vera e propria 'Eneide sacra', e la nobile romana Proba scrive, nel 362 circa, una Vita di Cristo. Robert Burton, saggista inglese e pastore protestante, scrive ad Oxford, università nella quale insegnava, nel 1632, The Anatomy of Melancholy, dove descrive la malinconia come una vera e propria malattia, facendone diagnosi e prognosi in una rete di citazioni che vanno da Aristotele a Ippocrate e Galeno, da Marsilio Ficino alla letteratura Cristiana. Il Centone nella musica è, dunque, un brano fatto di più brani, ‘cuciti insieme’ e pescati qua e là. Nel repertorio gregoriano, è un canto formato da incisi di testi di provenienza varia, per buona parte ripresi dal repertorio sacro. Questo tipo di scrittura segue la prassi della centonizzazione. Il termine si estende poi anche a ‘raccolta di canti liturgici’. Nel XVIII secolo si scrivono sovente composizioni con spunti provenienti da altre opere. Questo ‘infarcimento’ è molto in voga e particolarmente gradito al pubblico, che desidera uno svago in cui riecheggi di qualcosa di già noto. Di grande successo è il pasticcio, un'opera composta da più compositori insieme, formata da spunti di più opere oppure scritta rielaborando creativamente un'opera preesistente in maniera libera, non autorizzata o inautentica. Il termine è ripreso dall'ambito culinario, ma in Italia designa per la prima volta una composizione musicale nel 1795. Compositori come Georg Frederik Haendel (nell'opera Muzio Scevola, 1721) o Cristoph Willibald Gluck e Johann Christian Bach si cimentano in lavori di altri compositori, aggiungendoci del proprio, come anche molti inglesi (ad esempio, William Shield, compositore, violinista e violista britannico), che riprendono dal repertorio delle canzoni popolari irlandesi o britanniche. Un esempio illustre ci è dato dallo stesso Wolfgang Amadeus Mozart, i cui primi quattro Concerti per pianoforte (K 37, K 39 - 41) sono quasi completamente trascrizioni da movimenti di sonate per strumento a tastiera contemporanee, a cui non fece che aggiungere parti orchestrali e separare una linea melodica più marcata da affidare al solista.

[caption id="attachment_10446" align="aligncenter" width="1000"] Barbara Krafft, Wolfgang Amadeus Mozart (particolare),1819. [/caption]

Il concerto per pianoforte n.1 K 39 in fa maggiore riprende: nel primo movimento, l'Allegro della Sonata n. 5 op.1 di Hermann Friedrich Raupach; nel secondo, un Andante di Johann Schobert; il finale è tratto da spunti dal primo tempo della Sonata op. 2 n. 3 di Leontzi Honauer. Lo stesso Leopold Mozart, padre integerrimo del compositore, non dovette ritenere conveniente una cosa del genere, visto che scelse di non inserire composizioni simili negli autografi del figlio. Al contrario, Ludwig von Kochel, autore del catalogo integrale dell'opera di Mozart, li inserì a pieno titolo tra i 27 concerti per pianoforte del compositore. La prassi della trascrizione, comunque, non era aliena. Nel repertorio rinascimentale, inizialmente, la musica per strumenti era una 'riscrittura' di quella vocale, fatta in forma più o meno radicale. Nell'epoca moderna troviamo delle vere e proprie 'riduzioni' per pianoforte solo, o per due pianoforti, anche di imponenti sinfonie di Brahms.

Nella tradizione clavicembalistica vi sono imponenti lavori di trascrizione. Questo strumento apriva un ulteriore squarcio di possibilità alle combinazioni del contrappunto: celebre è la trascrizione del Concerto a quattro violini in si minore RV 580 di Antonio Vivaldi scritta da J.S.Bach nel suo Concerto a quattro clavicembali in la minore BWV 1065. Nell'Ottocento il culto dell'estro creativo fa fondere la trascrizione col virtuosismo: celebri le trascrizioni o 'parafrasi' di compositori come Liszt su motivi di opere teatrali o sinfoniche (per l’ascolto: ad esempio, Paraphrase de concert sur Rigoletto, per pianoforte e orchestra, basata sul quartetto dell’atto III dell’opera di Giuseppe Verdi). Ad opere di tale grandiosità concorrono, invece, ‘sollazzi’ per un ambito più elitario, ristretto, 'sofisticato', i cosiddetti pot-pourri; era usanza che insigni virtuosi dello strumento riproducessero in forma ridotta melodie molto in voga all'epoca nei grandi salotti della borghesia – un intrattenimento ciarliero ma di buon gusto, che riecheggia di sollazzi, risate e grida, fremiti, alternati ad abissi ricchi di mistero e, infine, a frasi di straripante ampiezza lirica. Sono musiche di carattere, suonate ed interpretate anche ai giorni nostri con quel tipo di respiro e di spensieratezza che caratterizzava il contesto. Di questo tipo sono le sei Rossiniane di Mauro Giuliani o, dello stesso autore, i numerosi Pot-Pourri e la Semiramide (opera di Rossini) ridotta in dodici walzer con introduzione e gran finale, entrambi per chitarra. Il musicista “dei salotti” può esprimersi, sofisticato ed estremamente lusinghiero. Mauro Giuliani era uno di questi: vastamente noto nei salotti mondani per le sue mirabolanti esecuzioni alla chitarra, portò ad una totale riscoperta di questo strumento, prima di allora relegato ad intrattenimento casalingo per il suo contenuto volume. Versatile, agile, riesce al contempo ad essere solista, corale, sinfonica ed assolutamente concertante nel connubio con altri strumenti (per l’ascolto: Serenata op. 127 per flauto e chitarra, dello stesso autore). La crescente stima negli ambienti musicali europei gli valse il soprannome di 'Paganini della chitarra', e la sincera amicizia del compositore. Spesso gli stessi compositori, nella scrittura di qualcosa di nuovo, riprendevano in parte proprie vecchie opere. Gioacchino Rossini riprende la celebre Sinfonia del suo Barbiere di Siviglia dall’Aureliano in Siria, e la riutilizza anche nell’Elisabetta regina d’Inghilterra. In questo senso possiamo intendere il Centone di sonate di Paganini, dove il solismo cede il passo a toni più intimi, nel duo violino - chitarra. Allo strumento a pizzico aveva destinato una vasta produzione: 22 pezzi solistici, delle serenate con il mandolino, quindici quartetti con gli archi (violino, viola, violoncello) ... Non è inconsueto il dialogo col violino: ci sono temi e variazioni (Variazioni sul Barucabà, melodia popolare genovese; Carmagnola con variazioni), sonate di vario respiro (Gran Sonata, Sonate varie, Centone). La voce del violino è ancora largamente solistica, ma il lavoro di limatura sulla commistione dei timbri dei due strumenti è notevole. In un’abbinata di certo non comune, Paganini ritrova un piacevole dialogo, dove l’eccentrico decade in favore della cantabilità.

[caption id="attachment_10445" align="aligncenter" width="1000"] Daniel Maclise, Niccolo Paganini. [/caption]

Nelle mani di compositori coevi come Beethoven, Schubert, troviamo il violino ed il pianoforte tra i protagonisti assoluti del genere della Sonata da camera, di cui hanno seguito tutte le vicissitudini, la storia e la crescita come genere. Tuttavia Paganini riprende, del genere della Sonata, soltanto il nome. Tradizionalmente, infatti, ad esso corrispondeva già all’epoca una forma di scrittura d’obbligo, la “forma-sonata”, ed il reiterato connubio dei due elementi divenne distintivo del genere: scrivere una Sonata voleva dire scrivere in forma-sonata. Qui esso è inteso semplicemente come "composizione esclusivamente strumentale", nel significato originario del termine nelle sue prime comparse del XVI secolo. La forma è dunque libera e duttile, e non obbedisce ad uno schema se non alla creatività di Paganini. I toni lirici ed estrosi sono chiari autografi del suo stile, ma la forma sciolta fa succedere i movimenti con leggerezza, intrattenendo il pubblico con i più svariati toni. La Sonata n. 1 in la minore si apre con una suggestiva introduzione, dove il violino si fa strada con brevi e percussivi incisi di semicrome, conclusi a mo’ di cadenza su un vigoroso accordo in chiusa della chitarra. Subito dopo, una melodia breve e sospesa, improvvisa e impellente come un grido languido, che si conclude con l’insistenza dei ritmi iniziali, sospesi sulla dominante. Subito dopo, dal levare del violino la melodia risolve poderosamente su un accordo di tonica, un la minore allegro in una mossa marcetta dai ritmi puntati, corrucciati e lievi insieme. Subito dopo, un breve spunto lirico dai toni caldi ed ispirati, quasi pensosi. Il movimento si chiude con la ripresa del tema iniziale. L’ultimo movimento è festoso, vivace, fanciullesco nella voce del violino, che si destreggia tutt’altro che corrucciato sotto l’incedere incalzante e disteso della chitarra. Il dialogo, stavolta in la maggiore, si fa sempre più interessante quando, all’incalzare del ritmo dello strumento a pizzico il suono del violino si gonfia, e, poi, d’improvviso, scompare nel sussurro del pizzicato. Dove esso, nel suo scarno risultato acustico, è sostenuto dagli accordi ‘strappati’ della chitarra, su una melodia dubbiosa e puntigliosa e allo stesso tempo molto spiritosa, ecco il ‘gridolino’ di rivalsa dell’altro, che rapidamente riprende l’arco e suona una goffa strappata, a marcare la fine dell’inciso melodico, e subito riprende a pizzicare. Il finale riprende il tema iniziale e in una coda sempre più incalzante, dopo un timido refolo di pizzicati, si chiude ironicamente su tre granitici accordi di la maggiore.

 
Per l'ascolto si consiglia:
_Niccolò Paganini, Centone di sonate, vol. 1-2-3, Naxos, 1994 (violino Moshe Hammer, chitarra Norbert Kraft).
 
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di Carlotta Travaglini 25/06/2018

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«Riscatto dal folclore, passaggio dal pittoresco all'autentico, dal colore locale al genio di un popolo e di una civiltà, dal caratterisco al carattere». Così Massimo Mila, insigne musicologo italiano, ci lascia scorgere la loro piccola profondità.
Le Siete canciones populares españolas vengono scritte nel 1914 da Manuel De Falla per soprano e pianoforte. Dedicate a Madame Ida Godebska, vengono eseguite per la prima volta nel febbraio 1915 a Madrid, durante il primo concerto della Sociedad Nacional de Musica, primo passo per una coraggiosa valorizzazione dell'arte iberica.
[caption id="attachment_10405" align="aligncenter" width="1000"] Manuel de Falla y Matheu (Cadice, 23 novembre 1876 – Alta Gracia, 14 novembre 1946) è stato un compositore spagnolo, esponente dell'impressionismo musicale. [/caption]
Nello stesso anno va in scena per la prima volta, al Teatro Lara di Madrid, il suo più celebre componimento, El amor brujo ("l'amore stregone"), un balletto in un atto e due scene su libretto di Gregorio Martinez Sierra.
Nata su richiesta della ballerina gitana Pastora Imperio, grande artista di flamenco, l’opera si affossa su questo filone popolare in tutto il suo oscuro mistero: è la storia di una zingara, Candelas, che, nel tentativo di liberarsi dell’amante defunto, geloso e infedele, si innamora di un altro uomo, Carmelo; tuttavia non riesce nell’intento, poiché ad ogni loro convegno d’amore ecco che a tormentarli ricompare il suo spettro – nella ‘danza del terrore’ tutti gli amori defunti volteggiano attorno a lei. Non basta la ‘danza del fuoco’, ballata dopo la mezzanotte, ad epurare il sortilegio; bisogna assecondarlo, per sventarlo. Lo spettro dell’amore defunto fa la corte ad un’altra donna, ed il bacio dei due amanti vivi resuscita tutte le forze vitali, mettendo definitivamente in fuga ogni ombra del passato. L’atmosfera atra ed incantevole è quella di un quadro di Goya – le mani dello stesso avevano tratteggiato quest’immagine di uomo che, spossato, si prostra su di un tavolo e cade nel più profondo sueño (sonno), e così facendo da origine a creature grottesche, monstruos che scaturiscono dalla sua stessa mente e che lo tormentano in vita in un inferno terreno. E proprio sul banco, sulla sinistra, possiamo leggere, ivi inciso, il titolo di questa celebre acquatinta: El sueño de la razon produce monstruos (“Il sonno della ragione genera mostri”), estratto dalla serie de Los caprichos, dove l’autore esplora grottescamente o realisticamente tutti i vizi e le miserie umane.
[caption id="attachment_10406" align="aligncenter" width="1000"] Ritratto di Manuel de Falla del 1932 del pittore Ignacio Zuloaga y Zabaleta [/caption]
Sotto questo ascendente De Falla scandisce il respiro della propria terra. Inoltrandosi nei tratti infiniti del folclore musicale spagnolo li riutilizza, creando un suggestivo susseguirsi di spunti provenienti dalle diverse parti della Spagna; nelle Siete Canciones troviamo una Segudilla Murciana, proveniente dalla Murcia, regione nordorientale, o un'Asturiana, delle Asturie, o la 'Jota', tipica Aragonese.
De Falla stesso ce ne parla in un articolo apparso nella rivista «Mùsica»: «La mia modesta opinione è che in una canzone popolare lo spirito è più importante della lettera. Il ritmo, il modo e gli intervalli melodici sono la cosa principale, com'è dimostrato dal popolo con la trasformazione continua della linea melodica. Ma c'è di più: l'accompagnamento ritmico o armonico è importante almeno quanto la canzone stessa, e quindi bisogna ispirarsi in questo direttamente al popolo». È una musica che fa struggere lo spettatore dietro una miriade di storie, reinventando un canto popolare in un contesto più vasto e assoluto.
Il pioniere della ricerca musicologica iberica è Felipe Pedrell. Compositore spagnolo, nato a Tolosa nel 1844, svolge la propria attività prevalentemente in Spagna. Cimentandosi in tutti i generi di composizione, fu colui che per primo analizzò il denso patrimonio popolare della nazione; fu grazie al suo lavoro che questa matrice cominciò a convergere nelle opere degli altri compositori iberici. Nasce il nazionalismo musicale spagnolo, che slega definitivamente un entourage di artisti dalla dipendenza dai modelli stranieri. Nel 1880 Enrique Granados compone le 12 Dances españolas, o, nel 1901 circa, i Seis piezas sobre cantos populares españoles, entrambi per pianoforte solo.
Isaac Albeniz, pianista, fu un ribelle bambino prodigio le cui disavventure lo portano a tentare una fuga per un mese da casa a soli tredici anni, vivendo dei propri concerti, e allo stesso tempo a godere degli insegnamenti dei più grandi maestri – tra di essi, Franz Liszt, alla sua scuola di Weimar, da cui eredita la tradizione virtuosistica. Nel 1912 compone, per pianoforte solo, la celebre Suite española op. 47, la cui successione di brani si ripromettere di descrivere nelle diverse regioni spagnole i diversi stili musicali; celeberrima è Asturias, un flamenco andaluso (si discosta molto dallo stile musicale delle Asturie) pensato a più riprese come parte o incipit di altre raccolte, i cui tratti veloci e appassionati lo pongono al vertice del virtuosismo pianistico. Celebre è la trascrizione per chitarra di Andres Segovia, uno dei più grandi esecutori ed innovatori della tecnica e della cultura della chitarra di tutti i tempi.
Fra il 1905 ed il 1909 Albeniz porta a compimento l’imponente Iberia per pianoforte solo, dove, tra evocazioni impressioniste e malinconie autobiografiche, l'esecutore è provato sotto il lato tecnico esecutivo ed emotivo per ben quattro libri di tre pezzi ciascuno, per un tempo totale di un’ora e venti minuti circa. L’esecuzione è emozionante, sottile, profonda; l’ascoltatore viene continuamente sedotto, ora turbato, ora allietato, e, per tutto il tempo, gli è dato di immergersi in un qualcosa e, in qualche modo, di farlo proprio, assieme al musicista.
Iberia è uno dei principali modelli a cui si attiene De Falla stesso - la sua musica viene definita ‘francese’ in obbedienza non ad un credo nazionale, quanto ad un genere dalle ascendenze precise, derivanti da Claude Debùssy o Maurice Ravel.
Nel 1920 De Falla scrive per la rivista Revue musicale una composizione che ricordasse Debussy stesso; nasce 'Piece de guitarre ecrit pour le tombeau de Debussy' - grazie ad esso nasce la letteratura chitarristica moderna. La chitarra, dopo un periodo di silenzio cominciato nel tardo ottocento, grazie alla sua caratteristica di strumento a pizzico e alla sua duttilità nelle scale e negli arpeggi, spicca come strumento impressionista per eccellenza; anche suonando le sole corde a vuoto si può dare origine ad un arpeggio o ad un accordo, la musica può fluire con libertà e dare vita a i più vividi e sottesi sprazzi coloristici.
La varietà e la vitalità delle Canciones sono sorprendenti: troviamo spunti dalla Murcia (Seguidilla), dalle Asturie (Asturiana) e dall'Aragona (Jota) che si uniscono e succedono a moduli tematici tipicamente andalusi, toccando come parti di una grande anima le diverse regioni di questa grande terra e dell’animo umano. Ciò che viene scavato è il tema dell’amore, sotto tutte le tinte. El paño moruño allude al tema della verginità, considerata, in quel contesto, indispensabile per convolare ad un buon matrimonio, degradante se persa; l’Asturiana alle sofferenze d’amore; Nana alla dolcezza della maternità; Canciòn e Polo sono canti di tradimento, il primo deluso ed amareggiato, il secondo guerresco e vendicativo.
Di seguito, i testi di ciascun momento musicale, con traduzione.
EL PAÑO MORUNO: Al paño fino, en la tienda,/Una mancha le cayó;/Por menos precio se vende,/Porque perdió su valor.
IL PANNO MORESCO: Sul panno fino, nella bottega,/una macchia è caduta./Lo si vende a minor prezzo/perché ha perduto il suo pregio.
SEGUIDILLA MURCIANA: Cualquiera que el tejado/tenga de vidrio,/No debe tirar piedras/al del vecino./Arrieros somos; -/puede que en camino/Nos encontremos!/Por tu mucha inconstancia/yo te comparo/Con peseta que corre/de mano en mano:/Que al fin se borra,/y creyéndola falsa/Nadie la toma. SEGUIDILLA MURCIANA: Chiunque il tetto/Ha di vetro,/non deve tirare pietre/a quello del vicino./Siamo mulattieri; -/possiamo noi nel cammino incontrarci!/Per la tua molta incostanza/io ti paragono/a moneta che passa/di mano in mano:
che infine si riga,/e credendola falsa/nessuno la prende.
ASTURIANA: Por ver si me consolaba,/Arrimóme a un pino verde/Por ver si me consolaba,/Y el pino, como era verde,/Por verme llorar, lloraba.
ASTURIANA: Per vedere se mi consolava/m'accostai a un pino verde:/e il pino, com'era verde,/piangeva,/vedendomi piangere.
JOTA: Dicen que no nos queremos/Porque no nos ven hablar./A tu corazón y al mío/se lo pueden preguntar./Ya me despido de ti,/De tu casa y tu ventana;/Y aunque no quiera tu madre,/¡adiós, niña, hasta mañana!
JOTA: Dicono che noi non ci amiamo/perché non ci vedono parlare./Al tuo cuore e al mio/lo possono domandare./Già m'allontano da te,/dalla tua casa e dalla tua finestra;/e se anche tua madre non vuole,/addio, bambina, a domani!
NANA: Duérmete, niño, duerme;/duerme, mi alma,/duérmete, lucerito/de la mañana.
NINNA-NANNA: Dormi, bimbo, dormi,/dormi anima mia,/dormi, stellina/del mio mattino!
CANCIÓN: Por traidores, tus ojos/voy a enterrarlos;/no sabes lo que cuesta,/niña, el mirarlos./Dicen que no me quieres;/ya me has querido.../Vayase lo ganado/por lo perdido.
CANZONE: Sono traditori i tuoi occhi:/vado a seppellirli;/Non sai quel che costa,/bimba, guardarli./Dicono che non mi ami;/mi hai già amato./Vada il guadagno/per ciò che ho perduto.
POLO: Ay, guardo una pena en mi pecho/que a nadie se la dire/¡Malhaya el amor, malhaya,/y quien me lo dio a entender!/Por traidores, tus ojos/voy a enterrarlos;/no sabes lo que cuesta,/niña, el mirarlos./Dicen que no me quieres;/ya me has querido.../Vayase lo ganado/por lo perdido.
POLO: Ah! Guardo una pena, nel mio cuore,/che a nessuno dirò.
Mal s'abbia l'amore/e chi me lo insegnò!/Per i tuoi occhi, traditori -/vado a seppellirli;/Non sai che cosa mi costa,/bimba, guardarli.
Dicono che non m'ami;/mi hai già amato.../Vada via, quel che ho guadagnato,/per quel che ho perduto.
 

Famose sono anche le trascrizioni per altri strumenti, in particolare quella di Miguel Llobet, per canto e chitarra, revisionata da Emilio Pujol.

Molto suggestiva è anche l’esecuzione di Ilya Kaler, al violino, e Leonid Blok, al pianoforte, in una resa originale ed esclusivamente strumentale che, con l’effettistica e la timbrica graffiante dello strumento ad arco e la pastosa ed estrosa armonia dei tasti del secondo, riescono a suggerire tutte le emozioni del testo scritto e pronunciato.

 
Per l'ascolto si consiglia:
_Canciones populares espanolas, Manuel De Falla – Federico Garcìa Lorca, Deutsche Grammophon, 1977, CD 2, con Teresa Berganza al canto e Narciso Yepes alla chitarra;
_Histoire du tango - Canciones Populares Espanolas, Avie, 2013, con Augustin Hadelich al violino e Pablo Sainz Villegas alla chitarra.
 
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di Carlotta Travaglini del 12/05/2017

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Massimo musicista del tardo romanticismo tedesco, Johannes Brahms è considerato ancora oggi uno dei maggiori esponenti della disciplina musicale. Solo analizzandolo da un preciso contesto possiamo osservarne da fuori le scelte compositive ed inserirle in una gradualità, dunque farle nostre. Questo compositore è stato oggetto di numerose discussioni, volte ad avvalorare in un senso o in un altro il suo lavoro musicale, tant'è che è quasi impossibile procurarsene un'idea precisa, che sia assoluta. Già Richard Wagner si adira, ai tempi, contro questo severo “principe della musica”, schierandosi ironicamente in difesa del celebre detto di Felix Mendelssohn «ognuno compone come può» (“Sulla composizione letteraria e musicale”, edito per la prima volta nel Bayreuther Blatter nel 1879).
Molti lo considerano un capostipite di un'idea musicale: "Un maestro dell'arte se n'è andato per sempre, un maestro più grande sboccia in Brahms"; così si pronuncia, nell'anno di morte del compositore, Felix Mendelssohn-Bartholdy, Edouard Marxsen, il più importante insegnante di musica di Amburgo, su un Brahms appena tredicenne.
[caption id="attachment_14340" align="aligncenter" width="1000"] Johannes Brahms: Amburgo, 7 maggio 1833 – Vienna, 3 aprile 1897, è stato un compositore, pianista e direttore d'orchestra tedesco.[/caption]
Un talento che sfiora già i sentieri del cambiamento. Suo padre, Johann Jakob Brahms sfida una ereditaria famiglia di commercianti ed artigiani intraprendendo gli studi musicali. Il matrimonio con la moglie Johanna Enricha Cristianna ed i tre figli Elise, Johannes e Friedrich provano quanto la sua situazione fosse stabile, nonostante gli esordi incerti. Ad Amburgo riesce a vivere come musicista ottenendo anche la qualifica di “Istrumental-Musicus”.
Johannes Brahms nasce il 7 maggio 1833, nel quartiere chiamato “Gangeviertel”; nello stesso anno, Felix Mendelssohn- Bartholdy pubblica la sua Quarta Sinfonia op. 90, “l'italiana”, Schubert è morto da circa cinque anni (e con lui, il “primo” romanticismo) ed i principali compositori sono più che ventenni. L'anno precedente muore una delle voci più soavi del secolo, Johann Wolfgang Von Goethe; a tre anni dalla sua morte, compaiono i Colloqui con Goethe, monumentale opera di Johann Peter Eckermann. Sono anni di fermento, ognuno sembra obbedire al proprio imperativo morale. I paesi gridano un coro unanime: nazione – che sconfina dai perimetri territoriali.
La Germania è divisa, sono frequenti le manifestazioni per la sua unificazione: nel 1834, con l'istituzione dell'Unione Doganale, si tenta di superare il problema delle divisioni interne: a questa comunità economica aderiscono la maggior parte degli stati tedeschi, tranne l'Austria asburgica; la Prussia rimane lo stato più influente, a cui si guarda con speranza per la guida di tutte le lingue tedesche. 
Nello stesso anno, Robert Schumann fonda la Neue Zeitschrift fur Musik (“Nuova rivista di musica”), che redige fino al 1844. Destinata ad essere una delle voci più influenti della critica musicale dell'epoca, la penna del compositore incide fortemente sull'opinione pubblica. Nel 1840 sposa Clara Wieck, pianista concertista dal talento straordinario, e la loro unione crea un estremamente pittoresco cenacolo musicale.
[caption id="attachment_14341" align="aligncenter" width="1000"] Clara Josephine Wieck Schumann (Lipsia, 13 settembre 1819 – Francoforte sul Meno, 20 maggio 1896) è stata una pianista e compositrice tedesca, moglie del compositore Robert Schumann. È stata una delle pianiste più importanti dell'era romantica.[/caption]
Nel frattempo Brahms vive la propria infanzia in un clima di precarietà. I genitori si impegnano comunque per la sua istruzione: segue delle lezioni in alcune scuole private dove, oltre agli insegnamenti tradizionali, rivolti principalmente su materie umanistiche, viene iniziato alla matematica ed alle scienze naturali.
All'età di nove anni vive l'evento più difficoltoso della sua infanzia, il gigantesco incendio che devastò gran parte della città di Amburgo; a dieci anni, la sua prima apparizione pubblica come pianista.
Studia lo strumento già da tre anni sotto l'occhio vigile del maestro Otto Von Cossel. La sua prima esibizione deve essere risultata particolarmente notevole: il maestro è più che compiaciuto, ai genitori sono tentati da una prospettiva di carriera del figlio all'estero, negli Stati Uniti, come bambino prodigio. La proposta deve essere davvero allettante, per una famiglia umile: Cossel è avveduto, discute personalmente questo intendimento, e pilota infine i loro sguardi verso Edouard Marxsen, il più rinomato insegnante della città. Dall'anno successivo Brahms è anche nella sua classe di Composizione.
È una giovinezza travagliata, trascorsa in duri anni di studio. Il perenne 'cruccio' che caratterizza la natura di Brahms lo porta naturalmente all'introversione ed al perfezionamento di sé stesso: sono gli anni della tensione giovanile quelli della maturazione artistica, tecnica. Sappiamo di un'apparizione pubblica certa il 21 settembre 1848. Nell'anno successivo Brahms esegue una Fantasia su un valzer in voga, composta da lui stesso. Dal titolo dell'opera si intuisce che la trascrizione di brani noti e la loro rielaborazione sia stato uno dei lavori più usuali del giovane studente di composizione (quello eseguito è sicuramente il lavoro meglio riuscito fra i tanti tentativi), e l'importanza che il suo insegnante abbia attribuito a questa fase. In questo genere Brahms si trova infatti ad eccellere: si ricordino, ad esempio, le celebri Variazioni e fuga su un tema di Haendel, op. 24.
A due anni dopo risale la sua prima pubblicazione: un Souvenir de la Russie, presso l'editore Cranz. La firma che reca è “G. W. Marks”, uno pseudonimo, come se questa scelta fosse più del maestro che un proposito personale.
Tuttavia in seguito non manca di mostrargli la propria gratitudine: a lui dedicherà il suo Concerto per pianoforte n.2 op.83, del 1881, e di lui farà pubblicare - a sue spese - i 100 esercizi per pianoforte.
Nell'anno 1850 viene fondata la Società Bachiana a Lipsia: tra i fondatori, troviamo Robert Schumann. La sua fondazione avviene nel pieno del successo che di questi tempi sta riscuotendo il defunto compositore, dopo decenni di oblio.
Il progetto è ambizioso: pubblicare integralmente le composizioni di Johann Sebastian Bach fino ad allora conosciute.
Nel XVIII secolo la sua musica è considerata troppo complessa, non viene tenuta in auge come un capolavoro. Solo nel 1829 Felix Mendelssohn riscopre la Passione secondo Matteo e la propone in una prima esecuzione: il successo è immediato e ne viene riconosciuta la grandezza.
Il monumentale prodotto, la Bach-Gesellschaft Ausgabe, fu terminata solo nel 1889 e pubblicata in un totale di 46 volumi. Ognuno di essi reca la firma del curatore; tra i nomi, Johannes Brahms, che guarda di buon occhio la nascente Musicologia, questa scienza in grado non solo di avvalorare la ricchezza del passato, ma di riportarla in vita. Collabora con essa, presta suoi stessi lavori per eventuali edizioni critiche ed è curatore di edizioni integrali di diversi autori, sia passati sia contemporanei.
Fin dagli studi giovanili Brahms è avvicinato alla musica antica. In questo ricevette un primo grande input dal maestro Marxsen: numerose sue Toccate e Fughe figurano tra le sue pubbliche esecuzioni, sulle sue composizioni è improntato lo studio rigoroso dell'arte del Contrappunto che lo interesserà anche in epoca matura. Si impegnerà personalmente nella divulgazione di opere del passato, nel timore che ricadano nel silenzio.
L'approccio con il brano in analisi è più 'storico' possibile, di modo da saperlo e poterlo eseguire nella maniera più vicina possibile all'intenzione originale. A tal proposito studia a fondo il Saggio di metodo autentico per tastiera di Carl Philip Emmanuel Bach (figlio di Johann Sebastian), e non manca mai di acquistare nuovi spartiti, manoscritti o in copie, per aggiornare la sua corposa biblioteca (tra di essi, ad esempio, figurano 60 schizzi di Beethoven).
Dal 1853 ha inizio un periodo fulgido: una fortunata tournée con il violinista ungherese Eduard Reményi in insigni città europee. Anche se il livello del violinista non sarebbe mai stato paragonabile alla sua impeccabilità di esecutore, questo lungo viaggio musicale gli consente un ingresso definitivo nella società dei musicisti. La serie di concerti si protrae da aprile a dicembre.
Ad Hannover ha il primo incontro con Joseph Joachim, uno dei violinisti più celebri della storia. I due condividono idee, e modi di pensare, ed il legame che si viene a creare sarà duraturo; perdura per la sua intera vita.
A Weimar conosce invece Franz Liszt con il quale i rapporti sono fin dall'esordio difficoltosi. I loro nomi convergono nell'aneddotica legata alle celebre Sonata in si minore, suo ideologico cavallo di battaglia, dedicata a Robert Schumann.
La sua stesura risale al 1853: il compositore, cinquantaduenne, risiede a Weimar, dove lavora come direttore della cappella di corte, dal 1847. Per un decennio, su consiglio della compagna Caroline se Saint-Wittgenstein, decide di dedicarsi interamente alla composizione, alla direzione d'orchestra e all'insegnamento. La Sonata, prediletta dal compositore in svariate esecuzioni, più volte deludette il pubblico, abituato a ben altri tipi di spettacolo: l'ambizioso progetto che questa composizione rivestiva era purtroppo preceduto dalla sua fama di pianista. Il suo suo estro catturava le folle: dotato di uno straordinario talento musicale, impregnava le proprie performances di una forte esuberanza, cimentandosi in una musica percussiva ed irruenta in cui sperimentare prima di tutto sé stesso. In questa plurinomia si cercava di trovare una maniera di vivere la musica più vitale possibile, di modo che essa aderisse alla persona come fosse una pelle: di questo parla l'anelito romantico all'introversione, o all'arte di sé stessi. E così troviamo anche, per contrasto, uno Chopin operante in una direzione più 'riparata', in un rapporto 'esclusivo' con il proprio strumento che rifugge qualsiasi magniloquenza dove riversare tutta la propria pienezza di sentimenti. Liszt è un autore disinvolto, che vuole far convergere l'immagine estetica di un esuberante esecutore come di un riflessivo compositore, ugualmente perso nella sua musica o intento in una rigorosa rilettura di un Bach.
La Sonata in si minore è l'unica composizione “classica” di Liszt: la 'sonata' è appunto uno dei generi tradizionali della musica classica, che molti compositori considerano soltanto lasciti obsoleti del passato. Si compone di un unico grande movimento - la sua esecuzione copre più di trenta minuti -, sostituendo la tradizionale struttura in più movimenti: tuttavia ha dentro di sé sia questa divisione sia l'unità di un singolo movimento. Si tratta quindi di una scrittura vivace e mutevole, che si piega a molteplici espressione. Lo stile avrebbe dovuto stupire il pubblico, sì, ma soprattutto l'esecutore: la multiformità suggerisce d'istinto una lettura diversa della musica, più descrittiva, più narrativa. È una scrittura che parla di una storia, della storia di un animo, che ne descrive i moti interiori in un lungo discorrere che l'esecutore deve essere bravo non soltanto a rendere ma ad impersonare.
Il pubblico di un Liszt tradizionale, come di una performance “spettacolare”, non è abituato a prestare un orecchio attento a dei lavori d'ingegno. Di qui la delusione: ma nel pubblico puro e semplice si nasconde qualcosa in più: si trattava comunque di un attacco alla forma. L'idea musicale che propugna non è da tutti presa per buona: vi sono dei pareri contrastanti e dei veri e propri dibattiti sulla tradizione. Una coralità di critiche, a questo punto, proviene da compositori definiti “formalisti”: Johannes Brahms, da molti considerato addirittura capostipite, è annoverato tra di essi. Questi compositori, in sintesi, si opponevano ad una considerazione negativa del lascito della tradizione, ovvero difendevano le forme del passato. In questa sonata notano dunque, nonostante il progetto innovativo, la ripetitività, specie in alcuni passaggi, e la evidenziano.
[caption id="attachment_14342" align="aligncenter" width="1000"] Jean Baptiste Oudry, Natura morta con violino - 1730, 87 x 102 [/caption]
A tal pro, si narra del celebre “sonno” di un Johannes Brahms incapace di sostenere l'esecuzione.
Finalmente, a Düsseldorf, nel 1853, l'ingresso in casa Schumann. Percorso da un viavai continuo di artisti, è culla di splendidi sodalizi. La musica è guardata, vissuta e concepita da più occhi, vi è comunione d'intenti, medesimo fervore. Brahms ha appena vent'anni. Schumann lo osserva come un astro nascente.
Il musicologo Giulio Confalonieri definì Brahms e Schumann due “romantici introversi”; questa dicitura si adatta perfettamente allo spirito che anima il tardo ottocento, dove lo slancio entusiastico che aveva animato gli albori romantici inizia a mutare di prospettiva, introiettandosi sempre di più in una mutuata riflessione, a tratti nostalgica.
“Musica da camera” è il termine che utilizziamo per definire l'intimità di una musica che nasce con Schubert: i frutti del genio musicale vengono offerti occasionalmente a convitati scelti come perle che il compositore, all'angolo della sua stanza, esegue al pianoforte o con un complesso riunito per l'occasione. Questo capita per le sinfonie, opere di risonanza monumentale eseguite in piccoli salotti, da musicisti spesso dilettanti, in piccoli circoli – è una musica enorme che non conosce l'ampio respiro dei teatri. Questa concezione, dalla sua morte, è andata via via scomparendo: basti pensare che, dalla Renana (Sinfonia n.3) di Schumann, per un ventennio non vengono più scritte sinfonie.
La musica da camera è vista come “accademica”, i generi ereditati come “antiquati”. Franz Liszt e Robert Schumann condividono quest'idea, che scrivere ancora sonate o sinfonie potesse essere percepito, all'epoca, come un gesto intellettuale. Per il maestro questi generi monumentali hanno perso la loro passata vitalità e sono scesi nell'accademismo. A questo punto si può collocare, ad esempio, la Sonata in Si minore di Franz Liszt, che ho citato prima. Opera monumentale per pianoforte solo, proponeva di racchiudere la perduta vitalità delle forme ampie tradizionali, la sinfonia e la sonata, in un unico, grande movimento, che avesse in sé sia la tripartizione interna del primo movimento (tradizionalmente suddiviso in esposizione – sviluppo – ripresa) sia la stessa spartizione in più movimenti. La sete di cambiamento si percepisce dappertutto, gli sguardi al passato – o intorno a sé - sono talora delusi o smarriti.
Bisogna pur considerare che il dilettantismo va ormai scemando, così come i salotti privati: le prime istituzioni musicali pubbliche nascono in questi anni, ed i concerti iniziano a far parte di rassegne in cui protagoniste sono le grandi orchestre sinfoniche di professionisti. I Wiener Philarmoniker - orchestra filarmonica di Vienna, tra le più prestigiose al mondo) nascono dopo il 1842, quando il compositore Carl Otto Nicolai fonda a Vienna l'Accademia Filarmonica, la prima orchestra completamente indipendente. Nei teatri, negli ambienti pubblici ha modo di affluire un maggior numero di persone (anche se il pubblico di un teatro rimaneva comunque “ristretto”). I fruitori sono i primi a sgranare gli occhi.
Il “cameratismo” di Schumann è Brahms è una fervida presa di posizione rispetto ad un pubblico abituato a fruire di opere di sempre maggior respiro. In tal senso la loro si potrebbe definire una scelta borghese, ma in nessun caso accademica. Casa Schumann è l'ambiente della borghesia intellettuale tedesca tardo ottocentesca, un cenacolo le cui ideologie vengono condivise e sentite da più animi, all'interno di un panorama di grandi mutamenti.
Colma di questo spirito è la celebre Sonata F.A.E., scritta in onore di Joseph Joachim e basata sul suo famoso motto, “frei aber einsam” [libero ma solo]. Ad essa lavorano più mani: del primo movimento si occupa Albert Dietrich, Robert Schumann cura il secondo ed il quarto e Brahms il terzo (il celebre Scherzo). Joseph Joachim, a cui viene fornita una copia dell'originale manoscritta, avrebbe poi dovuto indovinare quale compositore si celasse dietro ciascun tempo. La sonata fu eseguita in prima dal violinista e da Clara Schumann al pianoforte.
In casa Schumann le musiche eseguite son, tuttavia, spesso frutto di fini ragionamenti, per comprendere i quali il carattere privato della composizione è estremamente necessario. Questo aspetto, in particolare nelle musiche di Brahms, va particolarmente sottolineato, nelle quali il lavoro compositivo è talvolta minuzioso da essere apparentemente percepito da fuori come “gravoso”, e da necessitare di un ascolto più che attento per essere apprezzato fin nelle sue segrete viscere. Nasce una tradizione musicale della quale Brahms deve farsi nuovo portavoce: solo con la sua opera potrà essere “salvato” il salvabile, e resa al passato nuova vita ed una nuova posizione. Brahms è l'erede di una tradizione ormai muta. A Dusseldorf le composizioni scritte durante la serie di concerti godono di particolare successo. Brahms si reca personalmente a Lipsia presso l'editore di Robert Schumann, su indicazione dello stesso. Il maestro è entusiasta del giovane compositore, che invece, schivo e riflessivo, cede i propri scritti con titubanza. Il 28 ottobre 1953 viene pubblicato, sulla Nuova Rivista di musica, il celebre articolo Neue Bahnen [Nuove vie] di Robert Schumann, che riporto integralmente.
"È da così tanti anni – dieci, per l'esattezza: all'incirca quanti ne ho dedicati un tempo alla redazione di questa rivista – che avrei dovuto esprimermi su questo terreno così ricco di ricordi. Spesso, malgrado l'estenuante attività produttiva, mi sentivo stimolato; alcuni nuovi, notevoli talenti apparivano sulla scena, pareva annunciarsi un nuovo genio musicale, come testimoniano molti musicisti d'oggi che stanno puntando in alto, anche se la loro opera è conosciuta in una cerchia piuttosto ristretta: Joseph Joachim, Ernst Naumann, Ludwig Norman, Woldemar Bargiel, Theodor Kirchner, Julius Schaffer, Albert Dietrich, senza dimenticare il compositore profondo e spirituale C.F.Wilsing, dedito alla grande arte. Andrebbero qui citati come precursori vigorosi anche Niels W.Gade, C.F.Mangold, Robert Franz e St.Heller.
Seguendo con la massima partecipazione i percorsi di questi eletti, io pensavo che dopo tali predecessori sarebbe improvvisamente apparso, dovuto apparire qualcuno che fosse chiamato a dar voce in maniera ideale alla più alta espressione del tempo, qualcuno che ci avrebbe portato la maestria non per gradi ma già perfettamente compiuta, come Minerva uscì armata di corazza dalla testa di Crono. Ed è arrivato, sangue fresco la cui testa fu vegliata dalle Grazie ed Eroi, Si chiama Johannes Brahms, viene da Amburgo, dove creava in oscuro silenzio ma essendo formato ai canoni più ardui dell'arte e da un ottimo insegnante (Eduard Marxsen, Amburgo) che istruisce con entusiasmo, raccomandatomi poco tempo fa da un rinomato e venerato maestro. Egli possedeva, anche esteriormente, tutti i segni che lo annunciano come eletto. Seduto al pianoforte, cominciò a svelare regioni meravigliose. Venimmo attratti in cerchi sempre più magici. Sorse un suono così geniale da trasformare il pianoforte in un'orchestra di voci ora gementi, ora esultanti. Erano sonate, o piuttosto velate sinfonie – liriche, la cui poesia si capirebbe anche senza conoscere le parole, sebbene una grave melodia cantabile le percossa tutte – singoli brani pianistici, in parte di natura demoniaca e della forma più leggiadra; quindi sonate per violino e pianoforte, quartetti per strumenti ad arco, e ciascuna così differente dall'altra da sembrare sorta da una fonte diversa. Poi fu come se egli, convogliatele in una fiumana irruente, le fondesse tutte in una cascata, gettando il placido arcobaleno sopra le acque precipitanti attese a riva dal volo delle farfalle e dal canto degli usignoli. Se egli calerà la sua bacchetta magica dove la potenza della musica infonde la sua forza, nel coro e nell'orchestra, allora ci verranno dischiuse prospettive ancora più magnifiche dei segreti del regno dello spirito. Possa il Genio supremo corroborarlo in ciò che pertiene a questa aspettativa, giacché egli possiede anche un altro genio, quello della modestia. I suoi compagni lo salutano al suo primo affacciarsi al mondo, dove lo aspetteranno forse ferite ma anche allori e palme; noi gli diamo il benvenuto come gagliardo combattente.
In ogni epoca vige un'alleanza segreta di spiriti affini. Serrate, voi che vi appartenete, le fila, sicché la verità dell'arte splenda con sempre maggiore limpidezza, spandendo ovunque gioia e benedizione".
Per approfondimenti:
_Baroni, Fubini, Petazzi, Santi, Vinay – Storia della musica – edizioni Piccola biblioteca Einaudi
_Elvidio Surian – Manuale di storia della musica, vol.3 – edizioni Rugginenti (6°)
 
 © L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

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di Carlotta Travaglini 02/02/2017

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Joseph Joachim fu un violinista, didatta, direttore d’orchestra e compositore ungherese vissuto nella seconda metà dell'ottocento, fino ai primi del novecento. A seguito del trasferimento con la famiglia nella città di Pest, iniziò gli studi col primo violino del teatro dell’opera della sua città, Serwaczynski (più tardi anche maestro di Wieniavski), il miglior violinista della città. Nonostante i suoi genitori non fossero esperti nel settore, furono istruiti nella scelta di un maestro “non ordinario”. All'età di otto anni fa la sua prima esecuzione pubblica, a seguito della quale si sposterà a Vienna, dove seguiterà gli studi al locale Conservatorio sotto la guida di M. Hauser, uno dei violinisti di maggior virtuosismo dell'epoca e G. Hellmesberger. In seguito ebbe modo di perfezionarsi più a fondo con Joseph Bohm, fondatore della moderna scuola violinistica ungherese. Allievo dell'insigne Pierre Rode a Budapest, fu particolarmente impegnato come camerista; faceva parte di un quartetto che collaborò anche con Ludwig Van Beethoven, del quale eseguì la prima del Quartetto d'archi op.12.Di lui Joachim ricorda in particolare ed elogia l'innata capacità nell'arte del fraseggio: aveva infatti una straordinaria ed immediata comprensione dell'idea musicale che gli si proponeva, ed era perfettamente in grado di rendere le intenzioni di qualunque autore, il suo violino aggirava qualunque impedimento tecnico o lacuna interpretativa.
[caption id="attachment_7699" align="aligncenter" width="1024"] Adolph von Menzel, Clara Schumann e Josep Joachim in concerto -1854.[/caption]
Sua cugina, Fanny Figdor, lo ospita a Lipsia: qui Felix Mendelssohn è direttore della Gewandhausorchester Lepzig, orchestra tra le più antiche e prestigiose del mondo. Il maestro, che ne nota le precocissime doti e ne rimane strabiliato, sceglie di seguirlo personalmente, rendendolo un suo protetto. Joseph Joachim si esibirà così svariate volte sotto la direzione del maestro, come insigne solista. La sua prima esecuzione è quella del Concerto per violino di Heinrich Wilhelm Ernst, ma sarà ma sarà quella del Concerto per violino op. 61 in re maggiore di Beethoven a Londra nel 1844 che gli consegnerà gloria imperitura.
Negli anni in cui si distinse nell'attività orchestrale, come primo violino di spalla, iniziò a dedicarsi anche alla composizione, in particolare di brani virtuosistici per violino: i primi brani risalgono al 1848 ed arrivano fino agli ultimi anni della sua vita. Dopo la morte di Mendelssohn è al primo leggio della Gewandhausorchester Leipzig assieme al violinista Ferdinand David. In seguito, a Weimar, ha modo di suonare anche nell’orchestra di Franz Liszt, con la cui musica avrà esperienze contrastanti. Liszt infatti è attualmente uno degli esponenti più agguerriti della “Nuova Scuola Tedesca”, assieme ad Hector Berlioz e Richard Wagner, la quale, in sostanza, si faceva promorice e sostenitrice dell'estetica del contenuto, della volontà di subordinare, in ambito musicale, la forma al contenuto. Ciò consisteva nel prediligere il carattere descrittivo della musica, la sua capacità di rappresentare elementi di varia natura, da aspetti del concreto a concetti elevati oggetto di altre arti. La conseguenza di questo rivoluzionario modo di pensare sarebbe stato un rinnovamento totale e subitaneo dell'intero sistema musicale, nella modifica radicale del lascito delle tradizioni e nell'abbandono di musiche ormai considerate obsolete perché troppo rigide per rispondere a questo imperativo morale. Una forma statica non avrebbe potuto rappresentare nulla: le strutture portanti del passato si sgretolano, in nome della fusione delle arti, dei generi, dei tempi all'interno di un singolo brano, ed il futuro della musica sembra non essere altro se non quello di una “corrente impetuosa e continua”, caratterizzata dalla perenne generazione e rigenerazione.
Joachim dapprima sembrerà apprezzarne le nuove idee musicali: ne è la prova, ad esempio, un Concerto per violino in un movimento, in sol minore, da lui composto nel 1851 e dedicato a Franz Liszt. In seguito, tuttavia, si schiera dalla parte opposta, assolutamente a favore della cosiddetta “musica del passato”. In una lettera al maestro dell'agosto 1857 troviamo scritto:
«Non mi è assolutamente simpatica la tua musica; contraddice tutto ciò che dalla prima giovinezza ho appreso come nutrimento per la mente dallo spirito dei nostri grandi maestri».
[caption id="attachment_7700" align="aligncenter" width="1503"]copertina-per-sito1 Nella immagine, particolare di dipinti raffiguranti: Franz Liszt, Hector Berlioz e Richard Wagner - tre degli esponenti principali della “Nuova Scuola Tedesca”.[/caption]
Ad Hannover, nel 1853, avviene uno degli incontri più significativi della sua vita: quello con Johannes Brahms, impegnato in una tournée europea con il violinista Eduard Reméniy. Con il maestro, già noto pianista ed astro nascente della composizione, nasce subito un’intesa, destinata a consolidarsi negli anni. Nel 1860 un folto gruppo di musicisti decide di esprimere il proprio pensiero contro le nuove tendenze “progressiste” della musica in Germania; tra di essi figurano Joseph Joachim e Johannes Brahms.
Fitta è la loro corrispondenza in proposito, negli anni precedenti. «Sono sovente tentato di attaccar briga e scrivere contro Liszt» confessa Brahms in una lettera a Joachim del 1859; spesso rigetta le composizioni del maestro indicandole come “fandonie”; non sembra mai entrare in polemica, invece, con Richard Wagner La pubblicazione viene accolta con biasimo, e gli assertori vengono tacciati di conservatorismo. I due maestri non entreranno più nel fulcro di dibattiti pubblici.
In questi anni riceve numerosi stimoli alla composizione. Scrive numerose tipologie di brani, e mette per iscritto anche numerose Cadenze ai più famosi concerti; celebre è quella del Concerto per violino e orchestra di Johannes Brahms, da lui eseguita per la prima volta nel 1879 ed ora frequentemente ripresa dai moderni esecutori. Si distingue anche come camerista: nel 1869, con Robert Hausmann (violoncello), Karel Halíř (2° violino) ed Emanuel Wirth (viola), fonda il celebre Quartetto Joachim, che ottiene una risonanza a livelli europei.
È il primo violinista a registrare brani per una casa discografica; nel 1903 incide due lati per la Grammophone Company, lascito utilissimo per avere un’idea concreta della maniera di suonare il violino ottocentesca.
Si dedica, fin da giovane, anche alla didattica violinistica: insegna al Conservatorio di Lipsia e fonda a Berlino la Royal Academy of Music nel 1866. È infatti una delle figure centrali della moderna scuola violinistica tedesca insieme a Ludwig Spohr, che ne è il fondatore. 
[caption id="attachment_7701" align="aligncenter" width="1746"] Quartetto Joachim: Joseph Joachim (1. Violino), Robert Hausmann (Violoncello), Emanuel Wirth (Viola) e Heinrich de Ahna (2. Violino).[/caption]
È autore di un’apprezzatissima Violinschule, compilata con Arthur Moser, insegnante di violino particolarmente interessato ai problemi dei bambini. L’opera rappresenta il primo tentativo di fornire all’allievo un metodo “globale”, dove tecnica pura ed arte del fraseggio vengono insegnati ed appresi di pari passo come facenti parte di un unico meccanismo, e non separatamente ed in contesti differenti. Musica e prassi rigorosa fanno insieme parte del dialogo tra maestro ed allievo, che va necessariamente costruito in modo sequenziale e progressivo.
Ludwig Spohr, nel suo metodo, considerando tutti gli aspetti necessari ad una ‘buona’ esecuzione musicale, esigeva dal violinista una perfetta intonazione, un rispetto rigoroso del tempo e del valore delle note, la resa dei piano e dei forti; qualora si volesse eccellere in una “bella” esecuzione, allora la si doveva arricchire di un suono bello e corposo senza cedimenti, di frasi ben caratterizzate e variegate in ciascuna minuta sfumatura e nella maestria nell'esplorazione degli infiniti timbri dello strumento; un lavoro complesso, al quale lo studente-virtuoso poteva arrivare con zelo e con una spiccata capacità creativa, importantissima nel Romanticismo.
Queste indicazioni risultano utili per comprendere come si suonasse il violino ai tempi di Joachim. Il maestro assimila ed amplia considerevolmente la lezione del predecessore: educa infatti fin da subito l’allievo all’interpretazione del pezzo, impartendogli non semplicemente una serie di regole obbligate, ma una gradualità che lo scorti dalla meccanica alla musica.
Dettagliatamente troviamo il percorso da seguirsi del giovane musicista, espletato da esempi ed immagini. La prassi musicale viene spiegata nei primi due volumi. Leopold Auer, violinista ed importante didatta ungherese, ricorda le massime del maestro come spesso “caotiche”, ed il suo metodo di insegnamento “sempre con il violino in mano”. Da una lettura del suo volume non si notano però tali incongruenze; d'altronde, tra i violinisti che si sono formati nella sua scuola, si parla di un numero maggiore di 400 elementi. Lo stesso Auer non poté non ricordare il maestro con i massimi elogi.
Nel secondo volume, in particolare, vengono trattate anche problematiche specifiche dell'intonazione, per definire i quali Joachim stesso si impegnò in studi di acustica applicata con il fisico J. Helmholtz. Vi sono, poi, descrizioni di aspetti dell'esecuzione tipici della musica romantica, come ad esempio i portamenti, piccoli glissati usati a fini espressivi, a cui dedica particolare attenzione, ed il vibrato, che distingue in tipologie diverse a seconda dell'intenzione e della dinamica musicale richiesta allo specifico suono.
Riprendendo Johannes Brahms, da "Album Letterario o Lo scrigno del giovane Kreisler", questi asseriva: "Metti per iscritto tutto ciò che senti essere divenuto vero in te, foss’anche solo una reminiscenza".
Joachim dedica il terzo volume interamente all’interpretazione, segno tangibile dell'importanza di questo aspetto nella formazione del musicista. I suoi saggi si incentrano su svariati autori; a partire da Bach, proseguono fin nell’analisi minuta dei Riporto alcuni estratti - dello stesso Joachim - dal saggio sul Concerto in mi minore op.64 di Felix Mendelssohn:
"All'età di sedici anni ho avuto molte volte il privilegio di eseguire questo concerto accompagnato dall'autore: conosco quindi bene le sue intenzioni, poiché quando se ne presentava l'occasione egli non risparmiava la critica. Il 1° tema è un tenero lamento, deve essere reso con emozione, ma piano. Si eviteranno accenti troppo marcati, pur disegnando le linee ondulate e le sfumature di colore della melodia. Se volessimo precisare queste linee per mezzo di segni, subito diverrebbero troppo evidenti. […] Si dovrà anche evitare un ritardo troppo pronunciato dove la melodia termina […] (si arriva all'abuso di esagerare la sospensione del tempo, e di opporre subito un allegro ad un adagio!). [...]".
Ancora un estratto dal saggio sul Concerto in re maggiore op.77 di Johannes Brahms: "Il violinista solista fa il suo ingresso con un audace passo ascendente in minore che prosegue con fervore. Gli accordi in ottavi che iniziano alla 9a misura del solo, devono essere realizzati con un suono pieno, ma breve ed energico; il passaggio in quintina si esegue con estrema vivacità ma diminuendo fino alle semicrome con dinamica “piano” che, in una sonorità sempre più eterea, devono giungere al “pianissimo”. Si dovrà tener ben presente l’accompagnamento ricco di temi, ed unirvisi il più strettamente possibile. Dalle terzine dove Brahms scrive “espressivo” è concessa una maggiore libertà interpretativa, senza che per questo il “ritardando” che precede il trillo degeneri in un adagio. […] appare un nuovo episodio, colmo di fascino, che deve essere reso con uno stato d'animo intimo e raffinato, anche nelle decime, pur difficili che siano. Per l'interpretazione di queste ultime è illuminante l'indicazione “lusingando [...]".
Dalle analisi del repertorio romantico emerge come la creatività del musicista abbia un ruolo fondamentale nell’esecuzione e nella lettura del pezzo, e come si suonasse in un clima di “libertà” individuale, del cui dispiegamento una maggiore chiarezza dell’architettura del pezzo e una padronanza tecnica senza pari non possono che essere soltanto le basi. Anche il musicista fa parte del processo creativo, al pari del compositore.
Casa Schumann è uno dei più pittoreschi e fruttiferi prodotti della convivialità romantica ottocentesca. Robert Schumann è uno dei più grandi compositori dell'epoca romantica: pianista, si dedica anche all'attività giornalistica ed alla critica musicale, fondando una propria rivista, la Neue Zeitschrift für Musik [Nuova Rivista di Musica]; sua moglie, Clara Wieck, con la quale Joachim ha occasione di suonare più volte, è una delle più importanti e talentuose pianiste dell'epoca. A questa dimora sono legati vari aneddoti, tra i quali la stesura della celebre Sonata F.A.E. In occasione di una visita di Joseph Joachim, Robert Schumann, Albet Dietrich e Johannes Brahms decidono di comporre una sonata per violino e pianoforte in suo onore: di ognuno dei tempi il violinista dovrà riconoscere l’esecutore, e per farlo gliene sarà portata una copia, per non avere indizi dall'originale manoscritta. Schumann si dedica al II ed al IV movimento, Dietrich al I e Brahms al III (il celebre Scherzo). Il titolo richiamerebbe la sequenza di note fa-la-mi (F, A, E, in notazione alfabetica), utilizzate più o meno direttamente dai compositori, ma fa in realtà riferimento, in sigla, al motto di Joachim «Frei aber einsam», “Libero ma solo”.
Nuovamente troviamo questa sigla nel taccuino personale di Brahms (Album letterario o Lo scrigno del giovane Kreisler), prestato per un periodo all’amico Joachim. Al suo interno, tra le citazioni di autori e filosofi noti che il compositore si premura di annotare nel corso degli anni, il violinista inserisce delle proprie riflessioni ed osservazioni firmandosi con il suo “f.a.e.”, o con la corrispettiva sigla musicale:
"Quando avvertiamo in noi un embrione di idea, sovente ci sforziamo solo, e con troppa ansia, di farlo venire al mondo il più velocemente possibile, e così si atrofizza prima che si sia riusciti a farlo crescere robusto in noi al punto che da solo, squarciando il nostro petto, come canto aneli verso il cielo".
L’unione artistica, dapprima concretizzatasi nella stesura a quattro mani del manifesto contro la musica “progressista” della Nuova Scuola Tedesca, confluisce in una fedele amicizia.
Joachim segue sempre più da vicino l’attività e la ricerca musicale del compositore, e ne incentiva e valuta il processo creativo. Significative saranno le nozioni di tecnica violinistica nel repertorio strumentale. Da questo sodalizio nascerà il celebre Concerto per violino op.77 in re maggiore (1878) del quale Joachim stesso fornirà un utile saggio di estetica e di stile nel III volume della sua Violinschule.
Nel 1884 Joachim divorzia dalla moglie Amalie, convinto di una sua presunta relazione con Fritz Simrok, l’editore di Brahms; quest’ultimo interviene con una lettera amichevole scritta a lei, ma i rapporti tra i due si raffreddano ugualmente. Verrà ripristinata solo in seguito, quando Brahms scriverà il Concerto per violino e violoncello op.102 come “offerta di pace” a Joachim.
"Ogni artista è un Edipo: se si ferma, senza risolverli, dinnanzi agli enigmi del tempo, la Sfinge lo getta nell’abisso dell’oblio ed egli non le transita innanzi verso il futuro dell’immortalità".
Joseph Joachim muore nel 1907 a Berlino, dopo una gloriosa carriera di interprete, didatta ed acuto studioso, consacrato per sempre come leggendario virtuoso del violino. Da fonte di ispirazione e sostegno all’amico Brahms si è fatto straordinario dispensatore di consigli per tutti gli altri interpreti e compositori a venire, affermandosi come uno dei protagonisti indiscussi del secolo scorso: un musicista a tutto tondo, il cui lascito è destinato ad essere in ogni tempo oggetto di confronto ed arricchimento. Concludo ancora con Joachim: "Non elogiate, non ammirate: amate, imitate!".
 
Per approfondimenti:
_Johannes Brahms, Album Letterario o Lo scrigno del giovane Kreisler, EDT, 2007
_Enciclopedia della musica Garzanti
_Enzo Porta, Il violino nella storia: maestri, tecniche, scuole, EDT, 2000
_Renato di Benedetto, Storia della musica: L’Ottocento I, EDT, 1985
_Christian Schmidt, Brahms, EDT, 1990
 
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

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di Carlotta Travaglini del 12/11/2016

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Molti musicologi sostengono sia opportuno denominare l'epoca Barocca età del basso continuo, per determinare, in ambito strettamente musicale, quella che ne è una costante caratteristica – un brano diventa facilmente riconoscibile dal suono di un clavicembalo, di un organo o di un liuto, o di un arco grave come il contrabbasso o il violoncello, che insieme ne abbraccia e sostiene la melodia. La musica viene conchiusa su strutture ben delineate e le forme strumentali esplorate si vanno via via stigmatizzando; i diversi strumenti, distaccatisi dalla voce, iniziano così a profilarsi e ad emergere nelle loro vesti più caratteristiche.
Il ruolo del violino nell'epoca barocca era già consolidato in due prassi fondamentali, quella solistica e quella dell'accompagnamento orchestrale; musicisti provenienti da diverse aree ci testimoniano questo tipo di approccio allo strumento. Nell'opera di personalità autorevoli del periodo immediatamente successivo, ad esempio, l'eredità della profonda ricerca teorica e pratica di più di due secoli di musicisti si fa già abitudine e studio quotidiano.
[caption id="attachment_6783" align="aligncenter" width="1000"] Bonaventure Migliore, Natura morta con strumenti musicali - Olio su tela, fine XVII[/caption]
Secondo Leopold Mozart:
Non si deve suonare da solisti se prima non si sa bene accompagnare (…) si deve essere capaci di interpretare correttamente e in modo appropriato le più svariate composizioni prima di accingersi a eseguire concerti solistici. Così come si può riconoscere immediatamente se un quadro è stato dipinto da un artista, allo stesso modo si può capire subito se uno che esegue con criterio il suo assolo abbia mai imparato ad accompagnare in modo appropriato una sinfonia o un trio, o se sappia apportare il miglior affetto in un'aria”.
Questo autore, di grande levatura nella letteratura violinistica, considera infatti essenziale una formazione a tutto tondo del musicista, che fin da subito sia ben indirizzata ad una costante e consapevole ricerca.
Diverse fonti fanno risalire pressappoco agli inizio del XVI secolo la nascita del violino, frutto di numerosi nomi della celebre scuola di liuteria italiana; già nella musica vocale cinquecentesca le parti delle voci vengono gradualmente sostituite da strumenti ad arco. Ad esempio, nelle Sacrae Symphoniae di Giovanni Gabrieli, organista e maestro di cappella della Basilica di S. Marco, compaiono specifiche designazioni strumentali; il maestro affronta approfonditamente ed assume tutte le possibilità che la polifonia possa offrirgli, creando una musica sinfonica vocale in cui gli strumenti non raddoppiano semplicemente le voci ma si muovono secondo altre linee melodiche che arricchiscono l'armonia. Con Claudio Monteverdi, in particolare nel VIII libro di Madrigali guerrieri et amorosi abbiamo invece un'evoluzione: egli è il primo ad indicare, nello specifico per il violino, delle ben precise “affezioni”, dei ben precisi modi di eseguire delle note che obbediscono al gusto e all'intenzione del testo e della melodia. Trattasi di effetti che si ottengono con un ben preciso modo di far scorrere l'arco sulle corde: è Monteverdi, ad esempio, ad inventare il caratteristico tremolo.
La capacità espressiva del violino viene rivelata, ma lo strumento è ancora al di sotto della voce, protagonista indiscussa del panorama musicale; la accompagna e ne segue strettamente le parole.
La nozione 'corale' della composizione musicale permea la produzione di questo periodo. Iniziano ad apparire composizioni esclusivamente strumentali (prive, cioè, di parti vocali) basate su una polifonia garantita dall'esecuzione di più strumenti o da uno strumento a tastiera.
La nozione di concerto grosso compare per la prima volta con il compositore Arcangelo Corelli.
Prima di allora, questa forma non viene istituzionalizzata, ma ne troviamo dei precedenti nelle opere di numerosi compositori, anche nei rinascimentali: nei cori spezzati di Andrea e Giovanni Gabrieli, compositori del periodo, troviamo un embrione di quello che sarà poi la sua alternanza tra ripieno e concertino.
[caption id="attachment_6784" align="aligncenter" width="1000"] Da sinistra a destra: Leopold Mozart, Giovanni Gabrieli, Claudio Monteverdi, Arcangelo Corelli (particolari di ritratti).[/caption]
E' qui che il violino assolve nell'esecuzione questi due ruoli insieme, svolti alternativamente e in due gruppi differenti dell'orchestra – di questi due il secondo (anche detto, appunto, soli), quello “concertante”, tiene le redini dell'intera orchestra. Non c'è contrapposizione tra due gruppi dell'orchestra, bensì su un dialogo vero e proprio, in cui i soli si trovano a convergere col resto dell'orchestra nel momento del ripieno orchestrale, creando, per l'incremento degli strumenti in uso, il caratteristico contrasto tra piano e forte. Il concertino è formato da due violini ed un violoncello, sulla scia dell'immediato antecedente: la sonata a tre barocca.
La forma del concerto grosso viene in seguito “superata” - ma non interrotta – da quella del più evoluto concerto solista. Verrà tuttavia a più riprese rielaborata e riutilizzata: si pensi al Concerto brandeburghese n.3 di Johann Sebastian Bach, o all'Op.3 e all'Op.6 di Georg Friederich Haendel.
Nel concerto solista sicuramente la voce del violino viene maggiormente esplorata e valorizzata nelle sue sfumature e potenzialità. Il lascito che Antonio Vivaldi ci fornisce risulta a questo punto di sconfinato valore. Nei suoi innumerevoli concerti per violino solo e orchestra si avverte uno stacco netto dai modelli precedenti: il dialogo strumentale scompare e i ruoli di orchestra e solista si stabilizzano, rigorosamente distinti e ben profilati all'interno della strumentazione. Il solista spicca su tutti, ha una parte propria e possiede una chiara identità ed autonomia ragionata.
Così il violino troneggia nelle composizioni a lui dedicate, e, di pari passo con l'incremento del suo studio nelle sue diverse scuole, crescono, all'interno dei brani, la potenza di suono, lo scarto dinamico, la varietà espressiva, la difficoltà oggettiva, l'ambito di note che viene toccato (che procede sempre di più verso l'acuto), la velocità, il modo di eseguire singoli passaggi.
Il violinista ha modo di esprimere la propria voce ed il proprio virtuosismo quanto più trionfalmente possibile, potendo anche a tratti cimentarsi in un'inventiva propria in passi di larga libertà. La melodia era, infatti, al più un canovaccio, una linea guida sulla quale poter apporre variazioni sancite da serie di abbellimenti e fioriture di uso consolidato all'epoca.
Questo filone di ricerca viene seguito e notevolmente coltivato da numerosi successori e cultori di questo stesso (Geminiani, Locatelli, Tartini, etc.). La direzione che prendono i loro studi non è che un incremento, un'amplificazione della sua stessa - la voce del violino è vista come un unicum che per sua virtù di potenza sonora e naturale attitudine al virtuosismo può levarsi al di sopra degli altri strumenti: le sue possibilità appaiono sconfinate e la ricerca è prolifica, aprendo sempre nuovi interrogativi e strade da percorrere.
[caption id="attachment_6786" align="aligncenter" width="1000"]documento-foto-per-sito2 Da sinistra a destra: Antonio Vivaldi, Francesco Geminiani, Pietro Antonio Locatelli, Giuseppe Tartini (particolare dipinti).[/caption]
Appaiono così singolari, in tale frangente, le Sei sonate e partite per violino solo BWV 1001-1006, di Johann Sebastian Bach.
Scritte nel 1720, data in cui compare la partitura autografa, nel periodo in cui l'autore era maestro di cappella presso Cöten, rimangono inedite per l'intera vita dell'autore. Come suggerisce lo stesso titolo impressovi, non è assolutamente previsto l'accompagnamento di un basso continuo. La composizione strumentale viene privata delle sue “fondamenta”; la sola voce dello strumento deve 'compensarne' la mancanza e rendersi l'intero canto.
Di queste, tre sono indicate con il nome Sonata e tre con quello di Partita (sinonimo di Suite, in francese): includono tempi rapidi e veloci, alcuni nella forma strutturale di danze. Il violino, per la propria conformazione, non ammette l'esecuzione simultanea di più di due note appartenenti a due corde contigue, poiché sono facilmente suonabili appiattendovi sopra l'arco e facendolo scorrere. Di qui la tradizionale presenza di altri strumenti, nelle composizioni in cui è presente anche in veste di protagonista, che completassero l'armonia che da solo non era capace di coprire. Anche il termine “sonata”, di per sé, in epoca barocca, designava una composizione polifonica, dunque resa dalla compresenza di strumenti o almeno di un solista ed un basso continuo. Bach impone al violinista di eseguire da solo con il proprio strumento anche tre o quattro voci insieme.
[caption id="attachment_6787" align="aligncenter" width="1000"] Due particolari: Sonate e partite per violino (a sinistra). Statua di Johann Christian Bach a Lipsia in Sassonia, Germania.[/caption]

 I musicisti del tempo rimangono sicuramente sconcertati da un tale apparato musicale. Sappiamo che al tempo di Bach circolassero sì numerose copie manoscritte, ma che l'opera intera non fu mai pubblicata da editore se non successivamente. Risulta però essere già argomento di studio, come scrive Carl Philip Emanuel Bach, il secondo e il più famoso dei venti figli del compositore, in una lettera a Johann Nikolaus Forkel del 1774: "Uno dei maggiori violinisti mi disse una volta che non aveva mai visto nulla di più perfetto per diventare un buon violinista, né avrebbe potuto consigliare nulla di più utile per l'insegnamento, di questi Soli per violino senza basso".

L'apparato musicale dei Sei Solo è una costruzione architettonica rigorosa e impeccabile: nessuno è mai riuscito a trovarvi alcun segno di cedimento, alcuna struttura più debole al livello esecutivo. Come ammette lo stesso Forkel, musicologo e musicista tedesco, "I sei Soli per violino e i sei per violoncello [...], privi di accompagnamento, non ammettono assolutamente l'aggiunta di un'altra voce cantabile". Egli stesso fu uno dei massimi estimatori del compositore, contribuendo già al tempo alla diffusione della sua musica (fu anche il primo a comporre una sua biografia). Aggiunge, inoltre, che "Bach seppe combinare tutte le note necessarie all'autonomia della modulazione, in una sola parte, rendendone una seconda non solo superflua, ma addirittura impossibile".

Si può trovare un esempio di questo tipo di autosufficienza musicale nella Fuga dalla Sonata I in sol minore, nella quale il violinista arriva ad eseguire fino a quattro note in simultanea, in lunghi passaggi dal notevole impatto emotivo.
In epoche successive, nonostante il progresso musicale avvenuto, gli esecutori devono trovare ancora 'incompleto' il discorso musicale; ne vengono eseguite infatti numerose edizioni con una parte di accompagnamento svolta dal pianoforte (ad esempio, quella scritta da Robert Schumann), nel tentativo di attenuarne la difficoltà interpretativa. Si trattò soltanto, tuttavia, di una prova: tutt'ora l'opera originale resta di uno dei pilastri dell'intera letteratura violinistica, uno dei pochi sui quali si sia effettuato, e si effettui tutt'ora, un vero e proprio culto, destinato a perdurare e ad amplificarsi per l'eternità; è inevitabile che ogni esecutore di ogni tempo si cimenti e si confronti con una tale opera di ingegno.
La parte del violino è del tutto autonoma; questo aspetto è chiaramente verificabile all'ascolto, dove ogni intenzione musicale sembra aver trovato il suo posto. Non mancano ampi soli, in cui la melodia si “desquama” e si riappropria della monodia originale, propria del violino: è il caso del Presto o dei lunghi divertimenti della Fuga nella Sonata I.
[caption id="attachment_6788" align="aligncenter" width="1000"] Dettaglio delle prime battute del “Presto” dalla Sonata I[/caption]
Ma ad una mancanza di note non corrisponde una carenza di difficoltà tecnica o di perizia esecutiva; anche i lunghi “soli” bachiani hanno uno spessore senza pari, ed una delicatezza che si leva al cielo.
Con la sua opera Bach ha conseguito un atto risolutivo senza precedenti, ponendo a conclusione uno degli studi più maestosi e complessi che un'intelligenza potesse concepire. Il ruolo dello strumento viene emancipato, ed allo stesso musicista viene conferito un compito superiore ed universale: conservare ed innalzare una musica destinata a non perire, perché mai liberata dalla sua stessa costante spinta interiore di perenne rinnovamento.
 
Per approfondimenti:
_Leopold Mozart, Versuch einer grundlinchen Violinschule, 1756
_Giovanni Gabrieli, Sacrae Symphoniae tam vocibus, quam instrumentis, editio nova, ibid., 1597, Venezia
_Johann Sebastian Bach, «Sei solo / à / Violino / senza / Basso / accompagnato. /Libro primo / da Joh.Seb.Bach», 1720
_Johann Sebastian Bach, Suites a Violoncello solo senza basso, 1717-1723, Cöten
_Sechs Sonaten für die Violine von J.S. Bach mit hinzugefügter Begleitung des Pianoforte, Lipsia, 1885
 
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