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di Giuseppe Baiocchi del 14/08/2018

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Andrea di Pietro della Gondola, questo il vero nome di Palladio, (1508/1580) è un architetto del Rinascimento, nella sua architettura egli non si sofferma sul singolo aspetto ma ha avuto il talento per riuscire ad osservare la città, il tema del progetto, fino al linguaggio analizzando tipo e costruzione.
Nel suo famoso trattato di architettura consegnato alla storia: “I Quattro libri sull’architettura” l’architetto veneto sostiene che il passato è il tempo e il luogo dove cercare “quel che serve” per costruire il presente, per edificare una città immersa nella natura, ma che allo stesso tempo abbia forti caratteri di monumentalità.

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a cura di Stefano Scalella
20 Giugno 2018 – Palazzina Azzurra di San Benedetto del Tronto (Via Buozzi n.14)
Introduce: Maria Rosa Romano
Interviene: Ludovico Romagni
Interviene: Enrica Petrucci
 
Mercoledì 20 Giugno presso la Palazzina Azzurra di San Benedetto del Tronto (Via Buozzi n.14) è andato in scena il 41°evento dell’associazione Das Andere, il nono incontro del programma culturale 2018 “Crisi e metamorfosi”. Ospiti dell’associazione sono stati i professori Ludovico Romagni ed Enrica Petrucci, che hanno presentato il loro ultimo saggio “Alterazioni del costruito – Osservazioni sul conflitto tra antico e nuovo”, moderati dall’architetto Maria Rosa Romano. È necessario definire nuove strategie progettuali capaci di descrivere livelli di alterazione crescente di preesistente e di definire i gradi di trasformazione in progressione: in tal modo possiamo distinguere sia le diverse categorie di manipolazione sia i soggetti attuatori. Tuttavia, all’interno di uno scenario urbano in cui coesistono i frammenti incompiuti e abbandonati della città, vale a dire i rifiuti della storia identificati nei siti archeologici o nei ruderi dei monumenti, nonché le rovine del tardo Moderno, occorre interrogarsi sulla validità della distinzione fra le tradizionali categorie di intervento sulle preesistenze e sui nuovi innesti. Il tema di una reinterpretazione consapevole dei luoghi investiti dal recente sisma mostra livelli di complessità inediti e coinvolge il rapporto fra preesistenza – pur mutilata e frammentaria – e nuovi interventi. La sfida si pone in tutta la sua complessità e guarda agli esempi del passato come riferimento su cui impostare nuovi temi di ricerca progettuale.

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a cura di Stefano Scalella
16 Giugno 2018 – Libreria Rinascita - Piazza Roma n.7, 63100 Ascoli Piceno
Introduce: Giuseppe Baiocchi
Interviene: Luca Taddio
Interviene: Damiano Cantone
 
Sabato 16 Giugno, presso la Libreria Rinascita (Piazza Roma n.8 – 63100 AP) è avvenuto il 40°evento dell’associazione Das Andere, l’ottavo incontro della programmazione culturale “Crisi e metamorfosi” scelta per la stagione 2018. Ospiti i professori di estetica Damiano Cantone e Luca Taddio, i quali si sono interrogati sull’importanza dell’affermazione dell’architettura nella società, nella politica e nella fenomenologia moderna e contemporanea.
Dal momento che un progetto viene realizzato, si afferma e nel compiersi (affermarsi), sfugge al controllo dell'architetto, il quale non potrà confutare la sua opera nell'inesorabile scorrere del tempo: essa potrà cambiare funzione sfuggendo così all'idea iniziale del progettista. La chiave di lettura che questo libro sviluppa per interpretare l’architettura contemporanea è offerta dalla parola affermazione, che rappresenta il punto di incontro tra la dimensione architettonica e quella filosofica. Ciò non deve essere inteso come se da un lato vi sia l’architetto e dall’altro il filosofo che riflette, quanto piuttosto come la presa di coscienza che nel piano immanente del fare e del produrre vi è in gioco un sapere, intrinseco al produrre stesso, che oltrepassa le competenze specifiche dell’architettura. È tale necessario sconfinamento che può diventare oggetto d’analisi critica sia da parte del filosofo sia dell’architetto.

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di Giuseppe Baiocchi del 31/06/2018

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L’evento fondatore dell’epoca contemporanea, sia stato esso storico o mitico, fausto o infausto, è certamente la rivoluzione francese. L’evento consiste nello storico passaggio dalla Tradizione alla Modernità, mediante il quale la bassa borghesia e i banchieri si sarebbero sottratti alla condizione di sottomissione per diventare indipendenti, liberi e sovrani.
Questo processo storico, compiutosi nel 1789, ha avuto pieno successo, grazie al lavorìo propagandistico degli intellettuali, degli opinionisti e degli storici compiacenti del nuovo sistema di potere; diffusosi tra le stampe giornalistiche e giunto fino a noi nella letteratura e nella scuola statale, con il consenso tacito di alcuni ambienti cattolici conformisti che hanno fatto permeare in sinu Ecclesiae una concezione della storia e della società subordinata a quella rivoluzionaria.
[caption id="attachment_10456" align="aligncenter" width="1000"] Louis-Charles-Auguste Couder, Inaugurazione degli Stati Generali, 5 maggio 1789, olio su tela, 400 x 715 cm, Versailles, Musée national du château et des Trianons - 1839.[/caption]
Sarà proprio da tale istanza che la Rivoluzione Francese, equivarrà alla Rivoluzione per eccellenza, perché ha applicato le rivoluzioni precedenti e ha preparato quelle successive contenendole in una camera stagna dei futuri errori ed orrori.
Come affermava il politologo italiano Augusto Del Noce (1910 – 1989) «Rivoluzione è la parola-chiave per intendere la nostra epoca»: una parola magica, capace di giustificare o santificare alcune porzioni della storia dell’uomo, che è stata ripresa anche dall’epoca post-moderna; infatti, la dissoluzione del sistema comunista-sovietico e la parallela costruzione del sistema socialista dell’Unione Europea sono state presentate come gli eventi epocali che riconcilieranno le due anime antagoniste della rivoluzione, ossia la liberté e l’égalité, nella fraternité, e imporranno un modello politico “inclusivo e solidale” che garantirà un “nuovo ordine mondiale” e darà inizio ad una nuova storiografia, capace di realizzare quella unificazione del globo, detta “repubblica universale”.
Solo recentemente il mito rivoluzionario ha cominciato a incrinarsi: nel 1989, alle stanche celebrazioni ufficiali del secondo bicentenario del 1789, si opposero vivaci e moderne anti-celebrazioni che riaprirono la diatriba dialettica, mai sopita, su antiche questioni considerate risolte e vetuste divisioni credute superate. Alcuni intellettuali avviarono una risoluzione pacifica per sedare le polemiche montanti, asserendo come nell’epoca post-moderna doveva necessariamente avvenire quella riconciliazione tra la Tradizione e la Rivoluzione. I progressisti, figli di un nichilismo mai superato, auspicavano un’unione all’insegna diabolica dell’amore, tra Cristianesimo e laicismo, vandeani e giacobini, Maistre e Volteire. Tale manovra fu pubblicata nel 1989, dal Centro culturale Lepanto, il quale criticò con giustezza anche la posizione conciliatrice del cardinale Paul Poipard, allora presidente del Pontificio Consiglio della Cultura.
Questa manovra, difatti, in apparenza esecutrice di moderazione, possedeva lo scopo ben poco edificante di bloccare sul nascere il movimento anti-rivoluzionario, per non farlo divenire una coscienza popolare. Se attuiamo un realismo storico, oggi si ammette con franchezza che la rivoluzione giacobina, pur promettendo libertà, eguaglianza e fratellanza, in realtà produsse successivamente schiavitù, oppressione e odi. La presa della Bastiglia, festeggiata nella Francia Repubblicana ogni anno, pur pretendendosi popolare e democratica, in realtà fu opera di una setta militante che s’impose con l’inganno, la seduzione e la violenza.
Tuttavia ancora la storiografia ufficiale pretende che tali scomode verità restino confinate nel campo teorico e in ristretti ambienti intellettuali. Lo stesso storico Marco Tangheroni (1946 – 2004) affermava nel suo saggio Cristianità, modernità, rivoluzione come «sotto il profilo storiografico la revisione è in atto, ma deve restare, secondo la cultura dominante, circoscritta a una innocua cerchia di accademici»: difatti la scuola e i media continuano a ripetere le solide falsità, per mantenere il popolo nella menzogna ideologica e impedirgli di alzare il velo della verità storica. Tale revisione critica ha portato alla riscoperta di alcuni autori contro-rivoluzionari dell’epoca, tra i quali inquadriamo in una figura centrale e di spicco Joseph de Maistre (1753 – 1821).
Tale pensatore subì, già con il romanzo del 1880 di Gustave Flaubert (1821 – 1880) Bouvard et Pécuchet (1880), una pesante satira che gli procurò prima una damnatio famae e una volta defunto una damnatio memoriae. Oggi, di contro, appare come un vero e proprio storico dell’avvenire: non solo seppe valutare le negatività rivoluzionarie, prevedendone i tragici postumi che ancor oggi tormentano la società odierna, ma riuscì mirabilmente ad intuire le condizioni basilari della sua terapia. Non meraviglia dunque che, fin dal contestato bicentenario del 1789, per riprendere il celebre storico Jacques Solé (1932 – 2016) «molti ritrovano […] gli accenti di un Joseph de Maistre che si erge contro Satana», riaffermando con forza, l’inconciliabilità tra due civiltà e culture in opposizione polare: quella antropocentrica della Rivoluzione e quella teocentrica della Tradizione. Ma chi era veramente de Maistre? A darcene breve descrizione è il poeta, scrittore e politico francese Alphonse Marie Louis de Prat de Lamartine (1790 – 1869): «Era un uomo di alta statura, con una bella e virile figura militare, con una fronte alta e scoperta, su cui ondeggiavano, come i resti di una corona, solo alcune ciocche di capelli argentati. Il suo occhio era vivo, puro, franco. La sua bocca aveva l'espressione abituale di fine umorismo che caratterizzava tutta la famiglia: possedeva nei suoi atteggiamenti la dignità del suo rango, del suo pensiero, della sua età».
[caption id="attachment_10457" align="aligncenter" width="1000"] Memoriale a Joseph e Xavier de Maistre, presso il castello di Chambery, Francia.[/caption]
Alla vigilia degli atti rivoluzionari, Joseph de Maistre era un magistrato e senatore sabaudo giunto all’età di 36 anni senza aver fatto nulla di rilevante, era bene inserito in una società europea che godeva di mezzo secolo di pace e stava incoscientemente scivolando verso l’apostasia generale, senza curarsi dei segnali inequivocabili che avrebbero trascinato nel baratro la Francia, e successivamente l’Europa tutta, nel grande ciclone dei nazionalismi.
Basti pensare che, nel 1787, uno studioso dell’Università di Pavia riteneva che non bisognasse più temere l’insorgere di “disordinate rivoluzioni”, perché la “repubblica delle lettere” aveva ormai neutralizzato quel fanatismo responsabile dei secolari conflitti religiosi e politici. Tesi completamente distante da quanto storicamente avvenne: lo stesso Pio VII, nel suo Panegirico, asseriva come la rivoluzione traeva «le estreme conseguenze della depravazione e della dissoluzione […] instaurando una tirannia quale non si era mai vista in tutto il corso della storia […] spazzando via, per quanto le fu possibile, l’intera struttura delle istituzioni cristiane […] provocando il più brutto voltafaccia dello spirito umano che fu dato di sperimentare da quando sorse il Cristianesimo».
Tale trauma sociale ed etico, risvegliò l’opinione pubblica europea, costringendola a rivedere le proprie idee e a fare scelte drammatiche dividendosi in tre settori ideologici: un primo campo era nella posizione contro-rivoluzionaria, che valutò il fenomeno diabolico, come fattore da combattere in quanto perverso; un secondo fronte accademico era stanziato nella posizione progressista, la quale valutò la rivoluzione come divina, dunque da favorire in quanto provvidenziale; infine quella ibrida del conservatorismo, posizione moderata e neutralista che valutò il 1789 come atto meramente umano, dunque da accettare, come un fatto compiuto. Tale divisione tripartita, come afferma anche il professor Guido Vignelli (1954), è sopravvissuta fino ad oggi, anche se sembra non innescare più le vivaci polemiche di antico periodo.
De Maistre tra il 1789 e il 1790, influenzato dall’illuminismo massonico, prese la posizione della tendenza transigente alla rivoluzione, ovvero, considerò questa come un male necessario da tollerare, illudendosi che potesse fungere come strumento per riformare l’Ancien Régime adeguandolo alle nuove esigenze sociali e abolendone l’assolutismo e le ingerenze nella vita ecclesiastica; tale movimento di pensiero puntava anche verso una riconciliazione del Direttorio con la Monarchia, illudendosi che la caduta del giacobinismo avrebbe ridotto la Rivoluzione ad una pacifica e graduale riforma. D’altronde come affermava lo stesso Julius Evola (1898 – 1974) nel suo celebre saggio Le sacre radici del potere: «quei Re assolutistici e nemici dell'aristocrazia feudale, […] si scavarono letteralmente la propria fossa. Centralizzando, disossando e disarticolando lo Stato, sostituendo una superstruttura burocratico-statale a forme virili e dirette di autorità, di responsabilità e di parziale, personale sovranità, essi crearono il vuoto intorno a sé, perché la vana aristocrazia cortigiana di palazzo nulla più poteva significare e quella militare era ormai priva di rapporti diretti con il paese. Distrutta la struttura differenziata che faceva da medium fra la nazione e il sovrano, restò appunto la nazione disossata, cioè la nazione come massa, staccata dal sovrano e dalla sua sovranità. Con un sol colpo, la rivoluzione spazzò facilmente quella superstruttura e mise il potere fra le mani della pura massa. L'assolutismo aristocratico prepara dunque le vie alla demagogia e al collettivismo. Lungi dall'avere carattere di vero dominio, esso trova il suo equivalente solo nelle antiche tirannidi popolari e nel tribunato della plebe, forme parimenti collettivistiche».
Successivamente quando de Maistre capì che il dramma, si stava trasformando in tragedia, egli mutò opinione, passando alla teoria intransigente, la quale condannava la rivoluzione fin dal suo inizio, denunciandone gli errori intellettuali e i vizi morali che l’avevano favorita, smentendone le iniziali promesse libertarie e prevedendone il rapido sviluppo in senso anticristiano, totalitario e terroristico. Fra questi primi scrittori contro-rivoluzionari spiccarono molti sacerdoti, come i gesuiti Augustin Barruel (1741 - 1820), Pierre de Cloriviére (1735 - 1820), Francismo Gustà (1744 - 1816), Sebastiano d’Ayala (1744 - 1817), Giovanni Marchetti (1753 - 1829), Gianvincenzo Bolgeni (1733 - 1811), Luigi Mozzi de Capitani (1746 - 1813) e Lorenzo Ignazio Thjulen (1746 - 1833); a loro possiamo aggiungere l’olivetano Michele Augusti, il francescano Filippo di Rimella, l’eudista Jean-Francois Lefranc (beatificato come vittima del Terrore), mons. Adeodato Turchi vescovo di Parma e il canonico Bonaventure Proyart; fra i laici spiccò Audainel, pseudonimo del conte Louis d’Antraigues.
Successivamente la Francia rivoluzionaria invase ed annetté la Savoia e Joseph de Maistre rimanendo fedele al proprio sovrano, fuggi a Losanna nella neutrale Svizzera. Qui il conte frequentò l’ambiente degli esuli sfuggiti alla rivoluzione, soccorrendoli materialmente e proteggendoli diplomaticamente; ma ben presto si accorse che doveva “illuminarli” spiritualmente per liberarli da quell’illusorio progetto riconciliatore che li traviava in sterili manovre impedendo la restaurazione dell’ordine cristiano.
Fu così che in pieno clima rivoluzionario il conte de Maistre pubblicò come opera anonima la sua fatica letteraria di maggior caratura: Considerazioni sulla Francia. Il libro in controvertenza rispetto ai focolai europei, ebbe un incredibile fama e successo: ne furono stampate ben quattro edizioni in Svizzera, nella stessa Francia e in Inghilterra. Diventò presto il testo fondamentale dei contro-rivoluzionari, dai visconti Louis-Gabriel-Ambroise de Bonald (1754 – 1840) e François-René de Chateaubriand (1778 – 1848), passando per Alphonse Marie Louis de Prat de Lamartine (1790 – 1869), fino ad arrivare all’esule sovrano Luigi XVIII che lo elogiò, dopo aver letto il saggio.
[caption id="attachment_10460" align="aligncenter" width="1000"] Statua di Alphonse Marie Louis de Prat de Lamartine dello scultore Paul Niclause, nell'omonima piazza nel 16°arrondissement di Parigi.[/caption]
Lo stesso generale giacobino Napoleone Bonaparte (1769 – 1821) dopo averlo letto, proclamò la sua pericolosità, bandendo l’opera dal territorio francese: de Maistre, senza rendersene conto, divenne il manifesto politico della sperata restaurazione, facendo compiere al movimento contro-rivoluzionario un salto di qualità culturale ed ideologico-religioso fondamentale per il proseguo degli eventi storici.
All’interno del suo tomo, il conte suddivideva la rivoluzione francese in cinque distinte macro-caratteristiche: la prima trattava il suo carattere sovversivo, in quanto fenomeno politico, morale e culturale, poiché i giacobini minavano a sradicare le fondamenta della società; nella seconda analizzava il programma anti-cristiano della rivoluzione, la quale senza nasconderlo urlava la distruzione delle basi sociali della Chiesa cattolica; il terzo punto analizza il processo storico della rivoluzione, che appare unitario, coerente e progressivo, mosso da un dinamismo meccanico che s’impose anche contro le intenzioni dei suoi protagonisti (si veda Maximilien-François-Marie-Isidore de Robespierre, 1758 – 1794); la quarta caratteristica disvela il carattere massonico della rivoluzione, favorita da una occulta cospirazione settaria, che seppe legare forze sovversive prima divergenti, come i protestanti, gli gianseniti, i gallicani, gli illuministi, i liberali e i democratici in una comune strategia; infine una quinta analisi viene prodotta per il risultato squisitamente politico che la rivoluzione ha prodotto: ovvero l’aver riunito con sapienza plurisecolare, il soggettivismo religioso protestante e il razionalismo filosofico illuminista nel naturalismo politico liberale.
A conoscere bene la storia della religione cattolica, la Rivoluzione Francese non sembra altro che un ingranaggio di un meccanismo più complesso, che in teologia si traduce nella lotta tra bene e male, tra Chiesa divina e anti-Chiesa satanica che anima la volontà degli ultimi d’instaurare il paradiso in Terra mediante “l’assalto al cielo”, per riappropriarsi dei poteri divini “alienati” nel trascendente e «riorganizzando tutto senza Dio e senza Re».
Molte furono le nazioni soggiogate dal sogno della libertà, della fraternità e della eguaglianza: prime fra tutte l’Italia di Foscolo. De Maistre aveva compreso appieno che la Rivoluzione Francese, che come primo prodotto ebbe il bonapartismo, non si ribellava contro la Monarchia, contro la Chiesa o contro la società tradizionale, quanto contro il divino governo del mondo, contro Dio stesso, essa mirava a realizzare l’assoluto naturalismo politico, secolarizzando gli Stati e cancellando ogni traccia della società cristiana. Difatti lo stesso poeta inglese giacobino William Blake (1757 – 1827) nel 1791 esaltava la rivoluzione come un evento che, risuscitando dall’abisso infernale gli angeli ribelli, doveva «risvegliare i popoli dal sonno dogmatico di cinquemila anni» e «far saltare le dighe del caos».
L’evento del 1789, poteva essere anche uno strumento usato dalla divina Provvidenza per punire la Francia, e tramite questa l’intera Europa, vendicando le secolari colpe da loro commesse contro i diritti di Dio e della Chiesa, e allo stesso tempo offrendo una storica occasione di pentimento, riscatto e riscossa.
Come afferma lo stesso professor Guido Vignelli, «Maistre comprese che la rivoluzione francese era mossa da un originario scopo anti-religioso mal nascosto dal paravento deista. Essa sognava di realizzare l’umana felicità “tornando alla natura”, ossia a un paradiso terrestre che riteneva perduto non per colpa dell’umana malizia espressa nel Peccato Originale, bensì per colpa di un sistema sociale ingiusto basato sull’autorità economica, familiare, politica e religiosa, con le conseguenti disuguaglianze e discriminazioni».
Saranno gli anni in cui il filosofo tedesco Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770 – 1831), evolverà le teorie di Cartesio nell’idealismo hegeliano, ovvero l’uomo fondamento del reale: l’essere umano si sostituisce al Dio cristiano. Infatti l’atto storicamente più grave di tutta la rivoluzione francese è la decapitazione di Luigi XVI. Ma perché un gesto così forte? Perché uccidere un Re, che era già stato estromesso? La risposta è semplice: per estirpare il sangue aristocratico, che è scelto da Dio, perché sangue di Dio in terra. La decapitazione venne giustificata dai giacobini come la necessità di liberarsi dalla tutela del Re come padre della Patria; più tardi i socialisti vorranno liberarsi anche del padrone, i sessantottini del padre di famiglia e dall’insegnante come padre educatore, e infine gli ideologi atei, come il conte Donatien-Alphonse-François de Sade (1740 – 1814) e Herbert Marcuse (1898 – 1979), direttamente da Dio padre.
Quando si parla di rivoluzione ambivalente e progressista, alcune tesi accademiche hanno optato per l’esistenza di due “illuminismi” contrapposti, dunque di due “rivoluzioni”. Tale prima analisi disserta circa l’esistenza di un primo movimento moderato e realistico con attori principali il barone Charles-Louis de Secondat (1689 – 1755) e François-Marie Arouet (Voltaire 1694 – 1778), che insieme al famoso trattato dell’Encyclopédie (1772) avrebbe preparato il terreno alla prima rivoluzione, di stampo pragmatico-liberale in continuità con le riforme promosse dall’aristocrazia progressista durante il Regno di Luigi XVI. Il secondo “illuminismo” è, di contro, quello utopistico-fanatico culminato nel pensiero di Jean-Jacques Rousseau (1712 – 1778) che avrebbe organizzato ideologicamente la seconda “rivoluzione” totalitaria e socialista tentata tra il 1792 e il 1795, rompendo con il riformismo precedente. Tale pensiero si è affermato con il romanzo di Anatole France (1844 – 1924) Gli dèi hanno sete (1912) e con l’opera lirica di Umberto Giordano (1867 – 1948) Andrea Chénier (1896).
[caption id="attachment_10461" align="aligncenter" width="1000"] Un giacobino in azione in un fotogramma del film Un peuple et son Roi (2018) con Regia di Pierre Schoeller. Un film con Louis Garrel, Gaspard Ulliel, Adèle Haenel, Céline Sallette, Laurent Lafitte.[/caption]
Pertanto la conduzione, secondo molti autorevoli pensatori, errata di tale pensiero si instaura nell’affermare che bisognerebbe recuperare e portare a compimento la prima rivoluzione illuministica, allo scopo di risanare i danni provocati dalle estreme conseguenze della seconda, definitivamente smentita dal fallito esperimento sovietico.
Applicando un noto motto alchemico solve et coagula, la Rivoluzione universale tende a dividersi sempre in due correnti distinte, per favorire il successo della stessa strategia rivoluzionaria, che utilizza propriamente una divisione dei ruoli: da una parte la dialettica della fazione lenta e moderata, dall’altra la porzione veloce e estremistica. In tal modo la Rivoluzione può raccogliere un massimale di consensi insperato ammaliando correnti ideologiche non allineate fra loro: da un lato tranquillizza gli individui tiepidi e timorosi usando toni morbidi e contemporaneamente, eccita i fanatici usando toni duri, potendo sempre ritirarsi nella soluzione moderata qualora fallisca la soluzione militaresca. In realtà “le due fazioni opposte” colpisco sempre unite il potere, in una sorta di lingua biforcuta – che riprendendo simboli teologici, ci appare come quella del maligno -, che aggira gli ostacoli e progredisce in forma graduale, subdola e inavvertita, fino a raggiungere lo scopo finale. Non a caso la rivoluzione francese è stata esplicitata come una grande Idra con quattro teste: quella ottocentesca del bonapartismo, dove l’alta borghesia si sostituisce al clero e alla aristocrazia; le altre tre novecentesche, figlie di un nazionalismo estremizzato che si inquadrano nel fascismo, nel nazismo e nel bolscevismo.
Sarà de Maistre a svelare l’arcano nella sua opera Considerazioni sulla Francia, dove affermava che i moderati «condannano questa rivoluzione solo per non attirarsi l’universale esecrazione, ma essi l’approvano, ne apprezzano gli autori e i risultati, e di tutti i crimini da essa prodotti condannano solo quelli di cui poteva fare a meno». La critica, difatti, contro gli atti del Terrore rivoluzionario è sempre dettata da atteggiamenti deboli e moderati. Un esempio tangibile ci è dato dalla concordia tra moderati e estremisti nel Congresso massonico di Wilhelmsbad del 1782, dove fu de facto progettata la rivoluzione europea, insieme al Congresso massonico di Parigi del 1785, che preparò l’insurrezione del 1789. Quest’ultimo, ispirato dall’anarchico tedesco illuminista Johann Adam Weishaupt (1748 – 1830) e organizzato dalla loggia Les Amis Réunis, fu presieduto dal marchese Savalette de Lange (1745 – 1797) e animato da futuri protagonisti della rivoluzione, come il conte di Mirabeau Honoré Gabriel Riqueti (agente degli illuminati, 1749 – 1791), dal marchese di Condorcet Marie Jean Antoine Nicolas de Caritat (agente dei filosofi, 1743 – 1794), dall’abate Emmanuel Joseph Sieyès (agente dei gallicani, 1748 – 1836), Antoine Pierre Joseph Marie Barnave (agente dei calvinisti, 1761 – 1793) e l’architetto Nicolas Le Camus de Mézières (agente dei gianseniti, 1721 – 1789).
Questo movimento ideologico pose come prima pietra miliare l'anti-religiosità, cercando di sostituire il Cristianesimo con una religione civile e l’istituzione della Chiesa cattolica con una comunione democratica. La prima svolta si ebbe infatti nel 1792 quando Luigi XVI, dopo aver ricevuto due brevi pontifici condannanti la politica anti-cristiana, rifiutò di approvare il decreto di deportazione del clero che non aveva giurato fedeltà alla Rivoluzione, e scrivendo al vescovo di Clemont affermava di essere deciso di ristabilire il culto cattolico in Francia. Fu in tale istante che il Sovrano firmò la sua condanna, poiché i giacobini capirono che non potevano più contare sulla complicità del Re per continuare la persecuzione anti-religiosa. Eppure “i moderati” invece che rinunciare e tornare sui propri passi, appoggiarono tacitamente il Terrore, progredendo rapidamente verso la conclusione totalitaria. Ancora per riprendere Vignelli «nessuna contraddizione tra due illuminismi e due rivoluzioni […] il primo illuminismo doveva generare il secondo e la prima rivoluzione la seconda».
Così la “rivoluzione permanente” annunciata da Voltaire nella loggia massonica Les Neuf Soeurs ed inaugurata nel 1789 da Mirabeau nella Assemblea Costituente, doveva coerentemente progredire fino alla dittatura avviata nel 1792 da Robespierre con il Comitato di Salute Pubblica. Bisogna affermare con intelligenza che il Terrore giacobino non fu un incidente di percorso verso la “via del progresso”, ma fa la logica conseguenza di un progetto anticattolico nato a livello religioso col Protestantesimo, elaborato a livello filosofico dal Razionalismo, progettato a livello culturale dall’illuminismo e attuato a livello politico dal Liberalismo: Lutero, Zwingli e Calvino, dapprima tramite Cartesio, Hobbes e Bayle, poi tramite Voltaire, Diderot e Rousseau, armarono le mani di Danton, Marat e Robespierre.
Di rilevanza accademica è il dibattito sull’ideologia del conservatorismo, rispetto al suddetto discorso reazionario. Il conservatore medio, da un lato nutre simpatia per il conte de Maistre, ma parallelamente individuano nella contro-rivoluzione un mero rovesciamento della rivoluzione stessa. Intendono il movimento reazionario come speculare a quello rivoluzionario, indicando una soluzione alla problematica ideologica, attraverso una sintesi riconciliatrice. L’equivoco ideologico dei conservatori è facilmente esprimibile: la mentalità relativistica e storicistica basata sul primato del negativo, tipico della dialettica gnostica ed hegeliana, fa dipendere la verità dall’errore, il bene dal male, la giustizia dall’ingiustizia. Bisogna di contro affermare con forza che la negatività dipende sempre dal bene. Dunque non bisogna tentare mai una mediazione tra una tesi errata ed una giusta, nell’illusione di ottenere una sintesi pacificatrice; bensì bisogna opporle l’antitesi veridica rispettiva e con le sue giuste proporzioni. Per paradosso, saranno proprio le posizioni conservatoriste che de facto dipendono ideologicamente dalla rivoluzione, poiché ne creano una personale attenuazione o correzione della teoria, il che condanna tale tesi ad essere sconfitta, proprio dalla radicalità e dalla coerenza della strategia giacobina.
Sarà proprio de Maistre, nel capitolo X del suo saggio Considerazioni sulla Francia, che rispondendo a Condorcet – il quale asseriva come la controrivoluzione sia stata una “rivoluzione di senso contrario” -, asseriva come «la Contro-rivoluzione non sarà affatto una rivoluzione di segno contrario, bensì il contrario della Rivoluzione». Sarà così che il reazionario opporrà al rivoluzionario, non un suo ribaltamento di vizi e errori, ma una personale reazione basata su un’azione culturale, sociale e politica, che si ispiri alle verità e alle virtù negate dai settari.
Qui è di fondamentale importanza la Dottrina sociale della Chiesa, la quale viene ripresa dal contro-rivoluzionario ed applicata ad una seria e corretta teologia della storia. Il tutto inoltre deve essere fuso con gli interessi sociali che la rivoluzione ha creato. Difatti la contro-rivoluzione – come spiega abilmente de Maistre -, non vuole negare uno specifico modo di procedere nella Rivoluzione e non mira certamente ad annullare le conquiste sociali dei moti. Operare invece una reazione consiste nell’annullare la modernità disgregatrice che la Rivoluzione stessa produce, nelle sue forme filosofiche, artistiche e architettoniche – per traslare l’argomento in una tesi più contemporanea. Attenzione, le abolizioni non devono consistere in una censura o peggio in una persecuzione, ma unicamente in un non utilizzo pratico all’interno della società.
Così il conservatore diviene incapace di valutare la Rivoluzione alla luce di una corretta teologia della storia, non risale alle cause prime né scopre i fini ultimi della crisi, non ne coglie la radice metafisica né quella satanica, dunque non conosce l’adeguata terapia. Egli acquista una visione terzoforzista, la quale si pone in mezzo tra le due ideologie, auspicando che unicamente alcuni concetti-idee come quelli della famiglia, dell’ordine e della patria, bastino a neutralizzare la libertà rivoluzionaria. Inoltre oggi sempre più il conservatorismo, si lega indissolubilmente alle teorie liberali, amiche e figlie della Rivoluzione stessa. Il conservatore essendo essenzialmente un pragmatico e un opportunista (in quanto spesso imprenditore), muove le sue tesi da interessi e timori e non da princìpi. Il conservatorismo critica la Rivoluzione francese unicamente nei suoi eccessi, come la violenza, la velocità (anche se oggi il conservatore “va di fretta”), il centralismo, il settarismo, l’estremismo e al ricorso all’inganno ideologico. Ritengono che la rivoluzione sia stata storicamente inevitabile, quindi impossibile da vincere e pericolosa da contrastare: lo afferma lo stesso visconte Alexis Henri Charles de Clérel de Tocqueville (1805 – 1859), nel suo La democrazia in America, quando asserisce come «È mia ferma opinione che la grande rivoluzione democratica sia un fatto irresistibile contro il quale non sarebbe desiderabile né saggio lottare […] perché voler arrestare il cammino della democrazia sarebbe come lottare contro Dio stesso; perciò alle nazioni non resta che adattarsi alle condizioni sociali imposte dalla Provvidenza». Il francese vive nell’ossessione di cedere per non essere sconfitto, per arrivare alla sua coscienza riconciliatrice tra le due ideologie. Bisogna capire bene come la Rivoluzione Francese nel suo complesso mira sempre nella distruzione di un qualcosa e non certamente alla sua conservazione, soprattutto all’interno della matrice etico-morale, molto cara al conservatorismo.
[caption id="attachment_10462" align="aligncenter" width="1000"] Théodore Chassériau, Ritratto di Alexis de Tocqueville (particolare).[/caption]
Così è accaduto con la pratica dell’aborto, dove il conservatore ha inizialmente tollerato l’errore, successivamente l’ha permesso e infine l’ha giustificato. Come cita de Maistre «egli accetta la liberté limitandosi a reclamarla anche per la Chiesa; accetta l’égalité preservando la proprietà, la famiglia e l’istituzione ecclesiastica (il che si dimostrerà storicamente fallimentare), accetta la fraternité, limitandosi a contenerla entro le esigenze di pubblico ordine; accetta tacitamente la démocratie rivoluzionaria, preoccupandosi unicamente di frenarne gli eccessi», ma la domanda che possiamo porci è la seguente: come poter contrattare politicamente con un estremismo? La storia è piena di esempi concreti di fallimento. La Rivoluzione Francese, secondo de Maistre, va stroncata sul nascere di questa o in mancanza di tale condizione, va sconfitta approfittando delle sue debolezze cicliche.
A questo punto, il conservatore giunge ad un bivio cruciale: se il suo fallimento lo può risvegliare dalle illusioni moderate, egli può con coraggio e dignità rompere il compromesso; di contro può accettare definitivamente la Rivoluzione non più come fatto storico, ma anche come diritto, non solo nelle sue conseguenza, ma anche nelle sue cause, giustificando il moto rivoluzionario come bene concretamente possibile. L’iniziale subordinazione passiva si trasforma in attiva collaborazione: di conseguenza il conservatore giudicherebbe il reazionario non come un concorrente strategico da neutralizzare, ma come un nemico ideologico da distruggere. Tale processo diviene atto concreto, in illustri famiglie aristocratico-conservatoriste, prima tra tutte la famiglia francese degli Ormesson, vicende narrate magistralmente nella sua decadenza dallo scrittore Jean d’Ormesson nel romanzo A Dio piacendo.
Lo scisma, se di scisma ideologico contro-rivoluzionario vogliamo parlare, si suddivise in tre porzioni distinte: vi fu una destra che rimase fedele all’originaria posizione intransigente, combattendo il Risorgimento e preparando la strada alla futura Azione Cattolica – ne ricordiamo degli esempi nel marchese Cesare d’Azeglio (1763 - 1830), nel conte Emiliano Avogadro della Motta (1798 - 1865), nel conte Clemente Solaro della Margarita (1792 - 1889), il principe Antonio Capece Minutolo di Canosa (1778 - 1838), il celebre conte Monaldo Leopardi (1776 - 1847) e da illustri sacerdoti, quali Luigi Guala (1834 - 1893), Pietro Scavini (1790 - 1869), Antonio Bresciani (1798 - 1862), Luigi Taparelli d’Azeglio (1793 - 1862), Giuseppe Baraldi (1778 - 1832), Pietro Balan (1841 - 1893) e Giacomo Margotti (1823 - 1887) -; un’altra “moderata” conservatrice e filo-risorgimentale che vide tra i suoi protagonisti Antonio Rosmini Serbati (1798 - 1855) e infine una progressista che accettò la Rivoluzione cooperando con essa – ne sono protagonisti di rilievo Félicité de Lamennais (1782 - 1854), Charles de Montalembert (1810 - 1870) , Henri Lacordaire (il giovane 1802 - 1861), Gioacchino Ventura (1792 - 1861) e Vincenzo Gioberti (1801 - 1852).
[caption id="attachment_10466" align="aligncenter" width="1000"] Tre dei protagonisti del mondo reazionario dei tre fronti: (da sinistra a destra) il conte Monaldo Leopardi (1776 - 1847), Antonio Rosmini Serbati (1798 - 1855) e Félicité de Lamennais (1782 - 1854).[/caption]
Fu da questo trittico ideologico che l’ideale Rivoluzionario ebbe storicamente la meglio producendo quello che oggi viene definito come cattolicesimo liberale e parallelamente pose le basi per la creazione del democristianesimo. L’atto di nascita della Democrazia Cristiana deve necessariamente essere cercato nella rottura tra Lamennais e de Maistre: il primo sosteneva l’imposizione di non introdurre l’atto rivoluzionario all’interno di un quadro demonologico, riducendo la Rivoluzione Francese come mero atto umano, dunque neutro e recuperabile ed a inquadrarlo addirittura come moderna incarnazione del Vangelo, operata dal Divino immanente della storia. Fu con tale processo-ideologizzante che nel XX secolo farà sostituire l’impegno sociale cristiano con l’idolatria umanitaria. Questa posizione rivoluzionaria inizialmente fu minoritaria e isolata da tutti i Papi, ma oggi è divenuta maggioritaria e viene sostenuta da autorevoli approvazioni ecclesiastiche. Ne è prova, ad esempio, le immagini rappresentanti Mosè situate nella chiesa svizzera di Martigny: Mosè scende dal monte Sinai presentando al popolo due tavole contenenti non l’antico Decalogo, ma le nuove Leggi dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino.
Il presupposto ideologico della Contro-Rivoluzione, smentisce anche il luogo comune, preso buono dalla frangia conservatorista, che vede nella reazione un’incapacità latente di costruire un futuro, impegnandosi unicamente nel rimpiangere il passato e criticare il presente: niente di più falso. Difatti se si analizza nel pieno controllo e dedizione l’opera di de Maistre, questo pone tutte le condizioni preliminari – non adottate nel Congresso di Vienna – per ricostruire lo Stato, appoggiandosi oltre che a elementi morali, culturali e sociali anche a quelli teologici. In particolare nel suo Considerazioni sulla Francia, egli mira a ri-sacralizzare la politica, poiché la fede concederà la vera forza al nuovo apparato. D’altronde tutti gli imperi, i regni e le repubbliche che hanno posto alla base il carattere religioso, sono durate secoli, gli Stati socialisti o liberali, molto meno, poiché per riprendere l’enciclica di Papa Pio IX Nostis et nobiscum «non è in potere degli uomini fondare nuove società e comunità contrastando la naturale condizione delle cose umane».
Bisogna riaffermare una vera teologia politica capace di rivendicare i diritti di Dio Creatore e Legislatore, di Cristo Redentore e della Chiesa Santificatrice, come solo fondamento e difesa dei diritti umani subordinati al bene sociale comune finalizzato alla vita eterna. Politica e religione “non possono, non devono, non vogliono” rapportarsi in forma egualitaria, poiché non sono elementi sullo stesso piano di confronto, poiché si devono porre unicamente in un ordine gerarchico: una fede che non diventa cultura, è un’entità non pienamente accolta.
Ora pensate se il pensatore di Chambéry avesse potuto osservare la nostra Unione Europea basata su una Costituzione ancor più artificiosa, pletorica e atea di quelle varate dalla Rivoluzione Francese! Riprendendo nuovamente il professor Guido Vignelli «Secondo Maistre, una società politica dura e prospera solo se la “coscienza civile” accetta e rispetta un diritto pubblico fondato su una tradizione, ossia su un “dogma nazionale” rivelante il ruolo storico affidato dalla Provvidenza a quella società, il che presuppone una “ortodossia” che esprima una concezione dell’uomo, del suo posto nel cosmo e nella storia, dei suoi doveri verso Dio».
Difatti proprio in assenza di trascendenza non possono sussistere né diritti, né doveri certi, né libertà, né veritiere responsabilità, né carità sociale, ma unicamente un arbitrio che trasla tra gli eccessi dell’anarchia e quelli del dispotismo: mali che non posso essere scongiurati da Costituzioni, trattati, “carte dei diritti” o istituzioni internazionali umanitarie che pretendono con arroganza di sostituirsi alla giustizia cristiana. Non vi è possibilità di fondare il bene comune, il diritto pubblico e l’ordine civile su un relativismo dei valori, ma unicamente e sempre su un assoluto. Ancora una volta la storia ci giunge da aiuto e supporto: l’evoluzione rivoluzionaria giacobina sfocerà nei già citati regimi totalitari, i quali inizialmente desacralizzarono la politica allo scopo di scristianizzarla, poi dovettero risacralizzarla, tentando di rifondare l’ideologia della volontà di potenza su una sorta di improbabile “religione civile” basata sul culto di nuovi idoli, quali ricordiamo l’Essere Supremo, la Ragione, la Natura e la Libertà, poi nell’ultimo stadio quest’ultime si trasformarono nel Partito, nella Classe, nella Nazione, nella Razza, nel Popolo e nell’Umanità. La politica secolarizzata che ha seguito da sempre lo Stato-Nazione liberale, lo Stato-Popolo democratico e lo Stato-Classe socialista hanno già ampliamente manifestato il proprio personale fallimento nel corso del XX secolo.
In conclusione uno dei più grandi meriti di questo riscoperto maestro della politica, della teologia e della storia, consiste nell’aver preparato quella condanna ecclesiastica del naturalismo, del liberalismo e del democratismo, formulata poi dai Papi Gregorio XVI, Pio IX, Leone XIII e San Pio X. Nonostante la crisi, la divisione interna e le persecuzioni subite, oggi la scuola contro-rivoluzionaria dimostra vitalità e incisività, appoggiandosi alla teologia agostiniana della storia, poiché se l’apostasia dell’Europa liberale è costata un secolo di rivoluzioni e successivamente due guerre mondiali, quanto costerà espiare le offese a Dio e la rovina delle anime compiute durante 70 anni di comunismo, 60 di democrativismo, 50 di crisi della Chiesa e 40 di rivoluzione sessuale? La risposta ci torna nuovamente dal buon de Maistre: «Non c'è che violenza nell'universo; ma noi siamo corrotti dalla filosofia moderna, che ci ha detto che “tutto è bene”, mentre invece il male ha tutto insozzato, e in un senso verissimo si può dire che “tutto è male”, poiché nulla sta al proprio posto. [...] Ma stiamo attenti a non perdere coraggio: non esiste castigo che non purifichi, non esiste disordine che l'amore non ritorca contro l'origine del male. È dolce, in mezzo al generale sovvertimento, presentire i piani di Dio».
 
Per approfondimenti:
_Joseph de Maistre, Considerazioni sulla Francia, Editori Riuniti, Roma 1985;
_Joseph de Maistre, Elogio all’Inquisizione di Spagna, Il Cerchio, Rimini, 1998;
_Guido Vignelli, Radicalità e attualità di un grande Maistre, Editoriale il Giglio, Salerno, 2010;
_A.Del Noce, Lezioni sul marxismo, Giuffré, Milano, 1972;
_Centro Culturale Lepanto, numeri 86-88 del maggio 1989;
_M.Tangheroni, Cristianità, modernità, rivoluzione, Sugarco, Milano, 2009;
_J.C.Gignoux, Joseph de Maistre, prophète du passé, historien de l’avenir, Nouvelles Editions Latines, Paris, 1963;
_J.Solé, Storia critica della Rivoluzione Francese, Sansoni, Firenze, 1989;
_K.L. von Haller, Restaurazione della scienza politica, UTET, Torino, 1964;
_C.Dawson, La divisione della Cristianità occidentale, D’Ettoris, Crotone, 2009;
_Pio VI, Charitas quae, lettera apostolica del 13-04-1791;
_L.Guerci, Uno spettacolo non mai più veduto al mondo. La Rivoluzione Francese come unicità e rovesciamento degli scrittori controrivoluzionari italiani, UTET, Torino, 2008;
_Plinio Corrêa de Oliveira, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, Sugarco, Milano, 2009;
_Plinio Corrêa de Oliveira, Nobiltà ed élites tradizionali analoghe, Marzorati, Milano, 1993;
_H.Delassus, Il problema dell’ora presente, Cristianità, Piacenza, 1978;
_G. De Ruggiero, Storia del liberalismo europeo, Feltrinelli, Milano, 1962;
_D. Fisichella, Joseph de Maistre pensatore europeo, Laterza, Bari, 2008;
_C. de Tocqueville, La rivoluzione democratica in Francia, UTET, Torino, 2007;
_H. Arendt, La rivoluzione, Einaudi, Torino, 2007;
_P. Calliari, Pio Brunone Lanteri e la contro-rivoluzione, Lanteriana, Torino, 1976;
_R. de Mattei, Idealità e dottrine delle Amicizie, Biblioteca Romana, Roma, 1981;
_A. del Noce, Il cattolico comunista, Rusconi, Milano, 1981;
_Pio IX, Nostis et nobiscum, enciclica dello 08-12-1849;
_L. de Bonald, La Costituzione come esistenza, Il Settimo Sigillo, Roma, 1985.
 
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Questo scrittore isolato, eppure molto frequente nella letteratura occidentale, è cresciuto in reputazione varcando i confini della natia Svevia e della Svizzera, fino a comprendere non solo l’intero mondo di lingua tedesca, ma anche il Giappone e, in specie dopo la sua morte gli Stati Uniti. La lotta di Hermann Hesse (1877 – 1962) per fornire un senso alla propria individualità lo ha indotto a scrivere senza tregua persino sulle esperienze più private della sua vita, come se ognuna fosse materiale informe in attesa di essere plasmato, mediante il potere della parola scritta, in opera d’arte.
[caption id="attachment_10505" align="aligncenter" width="1000"] Tra il 1901 e il 1914, quasi sempre in compagnia di amici, Hesse intraprese sette viaggi in Italia, che lo condussero nell'Italia settentrionale, attraverso la pianura Padana, in Toscana e soprattutto a Venezia e Firenze. Fin dall'inizio, a determinare il suo tragitto fu il piacere del vissuto individuale, fuori dai percorsi turistici consueti. Mentre i primi viaggi furono caratterizzati da un felice senso di liberazione, da curiosità e da entusiasmo giovanile, dopo alcuni anni il suo viaggiare venne determinato dal riconoscimento e dalla confidenza con la gente e il paese. Reso maturo e sensibilizzato dalla sua insoddisfazione nei riguardi della vita, indirizzato verso un riconoscimento più profondo del suo Io, Hermann Hesse - negli ultimi viaggi durante il 1913 e il 1914 - si sentì diverso nei confronti dell'Italia, il paese amato, ma nel profondo rimastogli estraneo. La prima guerra mondiale e l'ascesa al potere di Mussolini, misero fine ai viaggi in Italia. Tuttavia fu il piacere per la vita e la cultura del sud a determinare, nel 1919, la scelta di stabilirsi per sempre in Ticino, con lo "sguardo verso l'Italia" e nell'aurea della sua cultura.[/caption]
Grazie alla sua vastissima produzione narrativa, poetica, di lettere e diari, questo scrittore ha compiuto un lavoro di interazione tra l’esperienza conscia e quella inconscia. Ciò che egli ha fatto, in verità, è stato proiettare, nei suoi scritti editi e inediti, un’unica «autobiografia creativa». Molte sono state le sue corrispondenze con eminenti letterati, psicologi, artisti della sua epoca, ed altrettanti gli attestati di stima. Il celebre scrittore Thomas Mann scriverà in una lettera indirizzata a Hesse, nel 1916: «Come avrei potuto rimanere indifferente alle sue righe e alla questione che le concerne. Mi farebbe piacere aiutarla e penso di poterlo fare, ma quando a me non con denaro. Ieri, quando ritirai la sua lettera alla posta, avevo appena fatto un versamento a favore di un collega bisognoso. Le richieste che mi vengono sottoposte da parte di privati sono troppo grandi. Inoltrerò comunque il suo scritto ad un’agenzia che spero possa essere interessata. Scrivo inoltre alla casa editrice Fischer, chiedendole di inviarle alcuni esemplari gratuiti dei miei libri. La prego di credermi che la stimo immensamente per la sua esemplare attività piena di abnegazione». Saranno proprio le private lettere che creano il costante interrogativo sul pensiero dell’opera letteraria hessiana.
I racconti di Hesse, come i sogni che egli raccoglieva, sono espressione di esperienze consce e inconsce, e pertanto rivelano fatti, incontri, sentimenti, che vengono velati al grande pubblico. Essi dimostrano con la massima trasparenza la profonda ansia morale di Hesse, scaturita da questa insistente e pervasiva ricostruzione di se stesso. Avendo cominciato da bambino a essere un autodidatta, egli è rimasto sempre un deliberato modello dell’autonomia della coscienza. Non dobbiamo stupirci pertanto che le sue opere siano divenute nel tempo vere e proprie inchieste morali, intrecciate e romanzate senza soluzione di continuità. Proprio in tale intima interrelazione di interessi personali, morali e artistici consiste il valore, e insieme l’alto prezzo della conquista realizzata da Hermann Hesse.
Fin dall’infanzia lo scrittore tedesco ha assorbito la sua vita personale nel lavoro, proiettando con naturalezza molti dei dilemmi e delle crisi storiche del suo tempo. Fu questa interazione, finemente intonata, tra i suoi conflitti psicologici e gli eventi storici a fare di lui un interprete della crisi della coscienza collettiva.
La sua acuta percezione della frattura nella visione poetica trovò risonanza nelle menti dei suoi lettori. In tal modo lo scrittore spesso liquidato come insignificante, poté divenire sempre nuovamente oggetto di culto per i molti che confidavano nella sua capacità di aprire la via a soluzioni in genere non tentate da romanzi e poesie, per condurre i lettori, biblicamente fuori dalla crisi che li attanagliava.
Ma chi è Hermann Hesse? La famiglia Hesse era missionaria con un misto di pietismo e puritanesimo-sentimentalista, unito al fervore evangelico. Sia del tutto in forma impersonale, la crisi esisteva anche nel contesto storico in cui Hesse crebbe. Non vi erano ancora le due grandi Guerre Mondiali, ma i suoi anni giovanili coincisero con la prima delle due decadi del nuovo impero tedesco creato da Bismarck nel 1871. Una delle conseguenze per gli Hesse fu che la frontiera tra il tedesco Württemberg, dove essi per lo più risiedevano, e la Svizzera, che era la loro seconda residenza, divenne più simile a una barriera, mentre un rampante industrialismo di provenienza nordica cominciò ad invadere le loro vite.
[caption id="attachment_10509" align="aligncenter" width="1000"] Nelle tre immagini (da sinistra a destra): il famoso copricapo panama-Montecristo di Hermann Hesse a Montagnola; l'attestato Premio Nobel del 1946, che Hesse non ritirò alla premiazione; gli occhiali usati abitualmente dallo scrittore.[/caption]
Quando nel 1904 uscì il primo romanzo di successo, Peter Camenzind, la sua fama si fondò non soltanto sulle belle evocazioni del paesaggio bernese o sulle lunghe conversazioni sul tema dell’arte, bensì anche sulla sua capacità di esprimere un senso di diffuso, occulto pericolo. La vita semplice, lontano dalla corruzione cittadina, era minacciata, e quella paura afferrava non solo Hermann Hesse, ma anche un’intera generazione di lettori. Quando alcuni anni dopo Sotto la ruota accrebbe enormemente la sua reputazione, rivelando l’impersonale “ruota” del sistema educativo che stritolava la gioventù, lo scrittore ancora una volta rendeva palese una crisi che attanagliava simultaneamente la vita privata e pubblica. Hesse fu il capofila, attraverso i suoi personaggi, di una contro-cultura intesa a creare argini contro l’invadenza della tecnologia e dello Stato impersonale.
Dopo la fine del primo conflitto mondiale (1918) scrisse Demian, sotto pseudonimo. Il romanzo si rivolgeva a tutti gli individui nati a cavallo di secolo, i quali ora sulla soglia dell’età adulta erano posti di fronte alle conseguenze di una lunga guerra perduta. Opera sulla krisis psicologica e storica, il Demian tratta il ribaltamento dei valori privati e pubblici e delle tensioni sessuali dell’epoca. Sarà propriamente il suo duplice carattere di critica verso la guerra e parallelamente l'immersione nei panni di coloro che ne erano stati vittime. Hesse per la prima volta si sforzò di proporre un rinnovamento spirituale fuori dal gergo manipolatore delle fazioni politiche, di sinistra e destra, che allora dominavano la scena pubblica. Egli si opponeva, inoltre, agli schemi ideali del commercio e degli affari che i suoi lettori associavano alla generazione dei loro genitori. Il suo primo grande successo gli fu garantito dalla creazione di un linguaggio nuovo basato sulla mistica dell’Io individuale. Scriverà nel Demian: «Io desideravo solo di vivere fino in fondo ciò che avevo scoperto di essere. Perché doveva essere così difficile?». Si crea quella che in tedesco viene definita Verinnerlichung, ovvero l’interiorizzazione dell’essere umano.
Nel secondo dopoguerra scriverà Il gioco delle perle di vetro, pubblicato per la prima volta nel 1943 in Svizzera, dopo la fine della guerra, nell’agosto 1946: con la sua trama di dotti riferimenti, di musicologia e di filosofia, questo romanzo inaugurava una voga di appartato umanesimo, soprattutto perché dimostrava di prendere le distanze dall’impegno politico diretto. Questo lavoro fu costantemente influenzato dagli avvenimenti politici della Germania e dalle conseguenti vicende della guerra. Nella sua opera letteraria, riuscì a creare un mondo alternativo dello spirito e della cultura, nel quale l'umanità doveva riuscire ad opporsi alla dittatura per riuscire a creare un futuro migliore. Se il romanzo poteva avere un fine etico banale, concreto fu l'impegno dello scrittore nell'aiutare rifugiati ed immigrati nella Svizzera che strizzava l'occhio (fino al 1942) al nazionalsocialismo tedesco. Successivamente, nel pieno della crisi post-bellica del 1946, Hesse riceveva il premio Nobel per la letteratura, un segno che si stavano curando almeno le ferite culturali, dal momento che quell’importante premio era assegnato a uno scrittore tedesco che non era stato né un emigrato, né un nazionalsocialista. Ma per paradosso, grazie al suo romanticismo letterario, Hesse fu legato dalla critica tedesca, al passato da cancellare che si cercava di ripudiare. Solo ultimamente il mito hessiano sta riprendendo timidamente piede nel settore letterario tedesco.
[caption id="attachment_10507" align="aligncenter" width="1000"] Copertine delle prime edizioni in tedesco delle opere più celebri di Hermann Hesse (da sinistra a destra): Demian, Der Steppenwolf (Il lupo della steppa), Das Glasperlenspiel ( Il giuoco delle perle di vetro), Siddhartha.[/caption]
Fu così che lo scrittore, negli anni sessanta, divenne celebre negli Stati Uniti d’America. Fino a quel momento Hesse era rimasto terreno sterile: persino il premio Nobel non aveva stimolato la diffusione delle sue opere e agli inizi degli anni cinquanta molti dei suoi libri giacevano invenduti. In quel periodo storico riuscì ad imporsi sul mercato letterario americano per il breve romanzo Siddharta, tradotto da Hilda Rosmer e pubblicato da Henry Miller nel 1951. Tuttavia, dopo aver aperto una nuova via mistica orientale, il libro cruciale del suo successo fu Il lupo della steppa: romanzo underground emblematicamente urbano, rifletteva adeguatamente gli atteggiamenti dei giovani americani che lo leggevano. Nel 1963, allorché la guerra del Vietnam cominciò ad assumere dimensioni serie, Il lupo della steppa divenne per tutti una Bibbia di riferimento. Un viaggio psichedelico della propria via interiore, dove un regno "privato" da scoprire, potesse contenere riserve tali da permettere a uomini e donne di venire a capo di un mondo minaccioso e oppressivo. Era, in tal senso, facile identificare quell’enfasi sull’immaginazione artistica con un viaggio psichedelico, ravvisandovi un’importante dimensione del significato di Hesse. Ondate di entusiasmo si espandevano dall’Est all’Ovest, dal Midwest al Sud; dagli studenti ginnesiali e liceali a quelli delle università e a gente di ogni condizione. Il consenso per l’autore non era mai stato così esteso nell’Europa centrale, dove Hesse era stato letto essenzialmente come uno scrittore borghese nei corsi di studi umanistici e nelle università, e da esponenti del ceto professionistico. Ma i giovani di un continente dove egli pensava che non sarebbe mai stato compreso, gli risposero in maniera sorprendente. La sua misteriosa percezione del significato di gioventù, e parallelamente l’autocomprensione del voler essere accettati dall’autorità e essere liberi di protestare contro la sua stessa ingiustizia, fecero dell’autore tedesco un caposaldo di un’intera generazione. Da asserire come il successo fu concesso anche dalla traduzione del testo americano, che aboliva il carattere alto-borghese dell’autore, in lingua originale.
Eppure, al pari di Rilke, Hesse valutava il continente americano come un inferno tecnologico privo di anima, temendo che anche l’Europa poteva ben presto seguirne l’esempio. Difatti il pensiero del tedesco di Calw, non muterà opinione, ma sarà vittima dell’equivoco americano che lo renderà astorico proprio grazie ai suoi lettori: i giovani che avevano adottato uno stile di vita hippie, intravedevano nell’autore un mero insegnante meditativo; ed in questo ruolo – sintesi di Gesù e Buddha, svincolato da determinazioni temporali o geografiche – ha ottenuto dopo la sua morte un’esplosione di consenso.
[caption id="attachment_10512" align="aligncenter" width="1000"] Nella foto: Hermann Hesse (al centro) sul ponte della nave, insieme all'amico Hans Sturzenegger (a sinistra). Nel 1911 egli intraprese con il suo amico pittore Hans Sturzenegger un viaggio di sei settimane in Indonesia e Ceylon, per conoscere di persona il paese che per la sua famiglia era stato così importante. Dieci anni dopo, Hesse scrisse il racconto Siddharta, il quale contiene i risultati dei suoi ultimi studi sul tema "India". L'India, le sue lingue, la sua cultura e il suo pensiero sono stati familiari a Hesse sin dall'infanzia. Entrambi i genitori lavoravano e vissero in India come missionari, il nonno materno Hermann Gundert vi trascorse 24 anni e divenne un noto studioso dei vari dialetti indiani. Hesse cominciò presto a dedicarsi alla letteratura indiana e al buddhismo.[/caption]
Se in America Hesse fu considerato come lo scrittore dell’interiorità, dell’assoluto soggettivismo e come mistico orientale, nella vecchia Europa, in particolare nei paesi di lingua tedesca, Hermann Hesse veniva valutato come autore romantico dei “romanzi familiari” e come guida per i giovani che ambivano ad una salvezza spirituale, che rimandava all’elemento naturale.
Nel suo ultimo ritiro svizzero, nel paese di Montagnola, molteplici saranno i giovani letterati che giungevano alla sua meta in cerca di consigli, rendendolo sempre più un maestro di vita. Oggi sono nati dietro l’autore, veri e propri interessi commerciali - sicuramente disdegnati da Hesse oggi, se fosse ancora in vita -, con la creazione di capi di abbigliamento, fumetti e locali dedicati ai suoi romanzi.
Ma nella cinematografia, nonostante due pellicole, il successo non è giunto. Tale mancanza è imputabile innanzi tutto per via del carattere peculiare dei suoi scritti, sempre molto incentrati sul concetto dell’immaginazione. I suoi romanzi non sono solo pretesti per un’auto-esplorazione, ma la loro stessa natura li preclude alla drammatizzazione, non adattandosi verso una rappresentazione visiva. Per questo il film Siddharta di Conrad Rooks si rilevò un insuccesso, così come Il lupo della steppa di Fred Haines: non c’era un’India reale in Siddharta; non vi poteva essere una realtà nella Basilea o nella Zurigo degli anni venti de Il lupo della steppa, ma esisteva unicamente un ideale surrealista e metafisico.
In conclusione l’autore, con l’esatta consapevolezza delle proprie crisi, ha prodotto un’immaginario speculare del vuoto spirituale del suo tempo, mediando una loro presa di coscienza. In tal senso egli donò molto “spirito” a molte persone, rimanendo – di contro – egli stesso appartato. Egli resta enormemente significativo per la storia sociale del nostro tempo: riflette le incertezze e gli equivoci della nostra storia, dalla fine del secolo scorso ai nostri giorni, assurgendosi ad interprete della crisi che ha realizzato la propria identità nell’esplorazione soggettiva della vita interiore.
 
Per approfondimenti:
_Ralph Freedman, Hermann Hesse. Pellegrino di una crisi – Lindau, 2009;
_ Hermann Hesse, Il lupo della steppa – Mondadori, 2016;
_ Hermann Hesse, Siddharta – Piccola Biblioteca Adelphi, 1985;
_ Hermann Hesse, Demian – Mondadori, 1998;
_Hermann Hesse, Il giuoco delle perle di vetro – Mondadori, 1998.
 
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di Giuseppe Baiocchi del 02/06/2018

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Quali fattori contribuiscono alla coesione di una comunità? In prima istanza vengono forse in mente una medesima lingua, nemici esterni o interessi economici comuni. Ma alla base di tutto ciò troviamo le idee condivise che si tramandano di generazione in generazione e impregnano la comunità. Tali idee diventano la carta d’identità di una collettività e costituiscono, da ultimo, il fondamento della coscienza nazionale.
Questi concetti devi averli fatti propri anche Walter Mittelholzer nato il 2 aprile 1894 a San Gallo da una famiglia di panettieri. Segue in gioventù una formazione da fotografo presso la città di Zurigo e durante la Prima Guerra Mondiale (1914-1918) si arruola come volontario nelle nuove truppe di aviazione, scattando fotografie per le ricognizioni e ottenendo il brevetto di pilota.
Walter Mittelholzer (2 aprile 1894 - 9 maggio 1937) fu un pioniere dell'aviazione svizzera. Era attivo come pilota, fotografo, scrittore di viaggi e anche come uno dei primi imprenditori aeronautici. Qui in una foto giovanile nel 1918.
Nel 1919 fonda con Alfred Comte (1895 – 1965) la prima compagnia aerea svizzera il cui progetto include tra l’altro la realizzazione di fotografie aeree. Noto per le sue spedizioni aeree, Mittelholzer contribuisce a sviluppare l’aviazione civile. Diventa direttore tecnico della compagnia Swissair, fondata nel 1931.
Egli è un maestro della fotografia aerea: riesce a scattare foto di qualità impressionante anche a bordo di aerei a elica aperti e nelle condizioni di luminosità più difficili. L’equipaggiamento di base delle sue spedizioni comprende una gamma di attrezzature cinematografiche e fotografiche molto vasta e moderna. Le prime fotografie aeree sono state scattate da palloni aerostatici intorno al 1860. Uno dei pionieri in quest’ambito è Eduard Spelterini (1852 – 1931), fotografo e aerostiere svizzero. Walter Mittelholzer contribuisce a rendere il nuovo strumento ancora più popolare con fotografie scattate da traballanti aerei ad elica. A suscitare stupore e meraviglia è soprattutto la prospettiva a volo d’uccello, a quei tempi inusuale. Le costose vedute aeree ritraenti paesaggi e centri abitati hanno successo commerciale e vengono stampate in libri, calendari e riviste.
A partire dal 1918 Walter Mittelhozer inizia a fotografare fabbriche e aziende da voli a bassa quota, per poi vendere gli scatti ai rispettivi proprietari. Nasce così un inventario fotografico di edifici industriali e infrastrutture completamente nuovo. Nella prospettiva odierna questi straordinari documenti testimoniano il cambiamento strutturale della Svizzera.
Nel 1920 la compagnia aerea Comte-Mittelholzer & Co, fondata nel 1919, diventa Ad Astra Aero dopo la fusione con altre imprese. Walter Mittelholzer ne diventa il direttore nel 1924. La società svolge la propria attività all’aerodromo di Dübendorf e possiede un hangar per gli idrovolanti allo Zürichhorn. Vende fotografie aeree, voli turistici e i primi voli di linea.
Per finanziare il volo in Africa del 1926/1927 Mittelholzer ha bisogno di sponsor. Crea pertanto il «Fondo per la spedizione in Africa» al quale aderisce per esempio il banchiere privato zurighese Oskar Guhl. La spedizione viene sponsorizzata con grande effetto pubblicitario anche da aziende come Nestlé o la tedesca Kaffee-Handels-AG (HAG).
Il mondo con cui Mittelhozer guarda alle culture straniere è segnato dal colonialismo. Le sue immagini mostrano esseri pre-moderni, esotici e dalla pelle scura in contrasto con l’identità bianca e moderna, considerata superiore. Lo stesso aeroplano diventa un elemento essenziale di questo immaginario: «Gli indigeni si meravigliano del grande uccello come di un essere soprannaturale», asserirà nei suoi scritti.
I documenti allegati e le immagini di making-of non pubblicate da Mittelhozer dimostrano come numerose immagini e riprese siano il risultato di messinscene preparate a tavolino. Ad esempio, viene inscenata una “naturalezza originale” delle tribù africane. Prima degli spettacoli i danzatori indigeni si devono togliere i vestiti occidentali.
Re Amimo è stato pregato di cambiarsi per posare davanti alla macchina fotografica. A destra lo si può vedere vestito all’occidentale. Arnold Heim, Volo in Africa, 1927.
Lo svizzero è un pianificatore molto meticoloso che difficilmente lascia qualcosa al caso. Ciò vale non solo per la preparazione minuziosa delle sue spedizioni aeree, dal finanziamento alla programmazione delle rotte e degli stop per il rifornimento fino alla scelta delle attrezzature. Anche nelle fotografie scattate e pubblicate si notano gli interventi mirati di Mittelholzer.
Non sono solo le scene e i motivi, ma anche le stesse fotografie a essere manipolate: nelle immagini di nudo pubblicate nei libri di viaggio si ritoccano i genitali in modo da nasconderli. Durante il volo in Africa, Arnold Heim (1882 – 1965), membro della spedizione e co-autore, protesta invano contro tali ritocchi. Durante i suoi voli all’estero Mittelholzer riprende e fotografa anche etnografie, immortala paesaggi ed edifici. Raccogliere motivi per i suoi film e per i suoi libri è un elemento fondamentale dei suoi viaggi: «Ogni giorno libero del nostro soggiorno lo trascorro appostato con cinepresa e macchina fotografica in attesa di una preda».
Volo sul Kilimangiaro 1930: Fokker F.VIIb-3m CH-190. Il banchiere e barone viennese Louis von Rothschild convince Walter Mittelholzer a portarlo in aereo in Kenya, allora colonia della corona britannica, per un safari di caccia grossa. Mittelhozer è il primo pilota a sorvolare il Kibo che, con i suoi 5895 metri s.l.m., è la vetta più alta del massiccio del Kilimangiaro.
Dalla fusione della società Ad Astra Aero con la Balair nasce la compagnia aerea nazionale Swissair. Mittelholzer prosegue il commercio di fotografie aeree in una società affiliata. Nel contesto di forte crescita economica del secondo dopoguerra, la società Swissair Photo AG riceve ordini per voli di rilevamento da tutto il mondo.
Con un fondo di circa 3,5 milioni di fotografie, la biblioteca del Politecnico federale di Zurigo possiede uno degli archivi fotografici pubblici più grandi della Svizzera. Le immagini testimoniano, fra molti temi, lo sviluppo dello stesso Politecnico, i viaggi di ricerca, lo sviluppo degli agglomerati urbani, nonché i cambiamenti storico-sociali, politici e tecnici della Svizzera. Il significativo lascito di Mittelholzer è stato acquistato dalla fondazione Luftbild Schweiz fra il 2009 e il 2012 in quanto parte integrante dell’archivio fotografico della compagnia Swissair. Le 18.000 immagini del lascito sono state tutte inventariate, digitalizzate e rese accessibili online al pubblico.
Walter Mittelhozer acquista fama internazionale con le sue numerose spedizioni aeree all’estero. La più celebre risale al 1927 quando, primo fra tutti, sorvola l’intero continente africano da nord a sud a bordo dell’idrovolante “Switzerland”. Mittelholzer trasforma i suoi voli all’esterno in eventi mediatici. Fornisce testi e fotografie a riviste mentre è ancora in viaggio. Realizza filmati basati su tali spedizioni e pubblica con successo ben undici libri di viaggio. L’unione tra spirito d’avventura ed entusiasmo per la tecnica, su sfondi esotici, garantisce ottimi introiti.
Alcune immagini mostrano le marcature di Mittelholzer delle sezioni selezionate. Sciaffusa, 1918-1937.
Nel 1928 esce il libro di Walter Mittelholzer Alpenflug (Volo sulle Alpi). Per le illustrazioni Mittelholzer dispone di 6.000 fotografie aeree della società Ad Astra. Agli occhi di questo appassionato alpinista «volare è il mezzo e il fine per rappresentare in modo nuovo le nostre amate montagne grazie all’ausilio della fotografia».
Non ci è dato sapere se Walter Mittelholzer, come sostiene il Dizionario storico della Svizzera, avesse le carte in regola per diventare lo «svizzero del secolo». Resto il fatto che egli prendeva il suo ruolo molto seriamente: da pioniere, vestito da pilota nella classica posa davanti all’aereo, o da direttore, insieme a personalità dell’economia, della politica o dello spettacolo.
Ancora nel pieno delle forze, una sfortunata missione alpina in Bassa Austria farà trovare la morte al pioniere svizzero il 9 maggio del 1937 con un amico e uno studente, sulla parete di ghiacciata del Mürztal in Stiria.
Mittelholzer è noto al grande pubblico per le sue fotografie aeree e per esser stato il cofondatore di Swissair. Con grande spirito imprenditoriale e talento tecnico, è riuscito a conciliare fotografia e aviazione. In ciò svolge un ruolo determinante la sua abilità commerciale, di cui si avvale utilizzando mezzi comunicativi diversi. Il modo in cui lo svizzero di San Gallo guarda ai luoghi, paesi e popoli stranieri nutre, in testi, fotografie e film, il fascino che il suo pubblico sente per le avventure e l’esotismo a sfondo coloniale.
 
Per approfondimenti:
_Informazioni raccolte presso il Museo di Storia della Svizzera - Landesmuseum Zürich in Museumstrasse 2. 
 
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di Giuseppe Baiocchi del 31/05/2018

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Nella prima metà degli anni quaranta dell’Ottocento si fece progressivamente strada in ampi segmenti della società italica la questione nazionale, grazie al sempre più intenso dibattito pubblico animato da posizioni diverse e ideologicamente contrapposte. Quella che raccoglieva più larghi consensi fu inizialmente la proposta moderata e neoguelfa, poiché intendeva mantenere gli equilibri sociali esistenti e ribadiva la centralità dell’ordinamento monarchico, tanto che alcuni ambienti di corte la consideravano tollerabile.
Pius PP. IX, nato a Senigallia il 13 maggio 1792 e deceduto a Roma, il 7 febbraio 1878 è stato il 255º vescovo di Roma, Papa della Chiesa cattolica e 163º e ultimo sovrano dello Stato Pontificio dal 1846 al 1870. Nella foto è circondato dai membri della famiglia papale nei primi anni del 1870. Il Segretario di Stato, il Cardinale Antonelli, (contrassegnato da una freccia), non fu mai un prete, ma uno degli ultimi che ricoprì il grado di cardinale laico. Successivamente con Benedetto XV, il cardinale laico fu abolito.
In questa situazione di crescenti aspettative per un dialogo che si sperava costruttivo, l’elezione a Papa, nel giugno 1846, dell’arcivescovo di Imola Giovanni Maria Mastai Ferretti (1792 – 1878) che a 54 anni, con il nome di Pio IX, produsse uno scuotimento in tutta la penisola italica ed in tutte le corti europee. Il Pontefice giunse al pontificato possedendo una fama di autentica religiosità, con un atteggiamento distante dalle chiusure del suo predecessore Gregorio XVI, le quali erroneamente gli avvalsero l’icona del liberalismo moderato, tanto profetizzato da Vincenzo Gioberti (1801 – 1852).
Le iniziative, che poi saranno cardine della sua beatificazione, lo renderanno molto stimato dal popolo: l’amnistia per tutti i detenuti politici e gli esiliati (16 luglio 1846), la creazione di una Consulta di Stato (14 aprile 1847) e una maggiore libertà di espressione degli organi di stampa (15 marzo 1847); tali atti furono visti dall’opinione risorgimentale, di stampo nazionalista, come quella forma liberale di espressione che dopo la Restaurazione (01 novembre 1814 - 9 giugno 1815), non si era più riuscita a conquistare. Non bisogna confondere le ideologie cristiane ed evangeliche, come pretesto per una visione “liberale” del Pontefice, il quale di contro possedeva teorie legittimiste, successivamente applicate durante il suo Regno: da qui la grande calunnia storica di ambiguità mossa contro Pio IX, che non poteva certamente accettare, come Vicario di Cristo le teorie, successivamente comprese da lui stesso, dell’idealismo cartesiano (e successivamente hegeliano, poi marxista), che poneva l’uomo al posto di Dio, frutto della Rivoluzione francese del 1789. Come afferma lo storico Roberto de Mattei: «È in quell’ “artificiosamente montato” che non è difficile trovare le vere cause del “delirio collettivo dell’opinione pubblica” che, dal luglio del 1846 all’aprile del 1848, creerà, attorno al nome di Pio IX, il mito del Papa “liberale”, frutto in realtà […] di un “sistematico sfruttamento” delle iniziative del pontefice, per realizzare lo storico “abbraccio” tra la Chiesa e i principi della rivoluzione francese». Nell’autunno del 1847 tutte le monarchie della penisola italica, travolte dai moti, avevano loro malgrado intrapreso una svolta riformista e avviato un programma di pur graduale rinnovamento delle istituzioni statali. Nondimeno, a conferma del carattere ormai dirompente delle istanze nazionali, risultò presto evidente che questo mutamento di rotta non sarebbe stato sufficiente a placare le aspettative che si nutrivano da più parti. Fin dal gennaio 1848, infatti, la penisola italiana e l’intera Europa furono percorse da nuovi moti rivoluzionari che sarebbero sfociati in una prima resa dei conti tra i sovrani riportati al Trono dalla Restaurazione e i loro sudditi, dopo che ad essi era stata data la possibilità di accedere alla vita politica dello Stato. Pio IX fu artefice, tra le tante innovazioni del suo Regno, della Lega doganale italiana (3 novembre 1847) con il Granducato di Toscana e il Regno sabaudo del Piemonte, con lo scopo di favorire – attraverso una tariffa daziaria unica - l’integrazione economica italica attraverso la caduta delle barriere esistenti fra i vari Stati. Più tali concessioni venivano sancite, più l’errata interpretazione dei futuri patrioti nazionalisti italici aumentava nei confronti dello Stato Pontificio. Furono proprio le “rivolte” sfociate un anno dopo a far arenare tale progetto, che poteva ideologicamente aderire in un lungo-medio termine, verso una confederazione di Monarchie italiche rette sotto un Papa Reggente: modello che fu adottato dal 1867 da Franz Joseph con la creazione dell’Austria-Ungheria. Come fu ampiamente evidente, la metodologia delle “concessioni” non fu strategia premiante nel frenare le istanze nazionali, le quali di contro ambivano verso una malcelata volontà di potenza su tutti gli Stati Sovrani della Penisola. Fu lo stesso Pio IX ad accorgersi dello “scacco nazionale” della Prima Guerra di Indipendenza italiana (23 marzo 1848 – 24 marzo 1849) con l’antico alleato dell’Impero cattolico austriaco (ricordo come ad uno Stato cristiano fosse impedito di muovere guerra contro un suo fratello cattolico, previa disposizione pontificia), difatti già il 29 aprile - dopo aver inviato sulla linea del fronte in avanguardia due divisioni volontarie comprendenti 7500 uomini comandate dai generali Durango e Ferrari, con la sola missione di proteggere i confini dello Stato Pontificio con il Regno Lombardo-Veneto austriaco (Nota1) - il Papa comprese l’errore ideologico della posizione neoguelfa riformatrice e richiamò le proprie truppe ripudiando la guerra contro l’Austria in un discorso tenuto davanti ai propri cardinali: «Fedeli agli obblighi del nostro supremo apostolato, Noi abbracciamo tutti i Paesi, tutte le genti e Nazioni in un istintivo sentimento di paterno affetto».
25 aprile (San Pietro) 1870: Pio IX benedice le truppe pontificie. Bisogna necessariamente aprire una digressione sulla figura di uno dei comandanti pontifici Giovanni Durando (1804 – 1869). Di orientamento massonico-liberale, partecipò precedentemente a diversi moti rivoluzionari in Piemonte (1831), in Belgio (1832), in Portogallo (1833-1838), e Spagna. Dal 24 marzo 1848 assunse il comando delle truppe pontificie ed estere al servizio di Pio IX, il quale commise certamente un errore politico, rimettendo la fiducia in un generale di indubbia capacità militare, ma di ideologia non affine al pensiero legittimista: incarico che successivamente il Pontefice pagò a caro prezzo, nei confronti dell’Austria. Nell'aprile del 1848, trovandosi a sud del Po nei territori pontifici, contravvenendo agli ordini di Pio IX di ritirarsi e rientrare a Roma, attraversò il fiume recandosi nel Veneto insorto contro gli austriaci. Durango assunse anche l'incarico, per conto di Carlo Alberto, di coordinare i volontari veneti, partecipando così alla Prima guerra di indipendenza italiana. L’evento comportò un forte caso diplomatico tra lo Stato Pontificio e L’Impero d’Austria. Ideologie come quella nazionalista, oggi ben nota e studiata, erano certamente “terra incognita” per i Sovrani dell’epoca, che inizialmente non compresero affatto le mire nazionali, di cui la Monarchia liberale dei Savoia si era fatta promotrice. Nello Stato della Chiesa si era intanto aperta una frattura tra i settori più conservatori e le diverse anime dello schieramento liberale, deluse dalla decisione di Pio IX di recedere all’adesione alla guerra contro l’Austria. Da allora il Governo liberale fu affidato al moderato conte Terenzio Mamiani Della Rovere (1799 – 1885), anch’esso appartenente alla Massoneria italiana: appare evidente come le logge massoniche liberali, si erano insinuate all’interno dello Stato retto dal Pontefice, elemento che contribuì alla caduta della suddetta realtà statale. Il 12 Luglio Mamiani è costretto a dimettersi, per lasciare il posto il 16 settembre a Pellegrino Rossi (1787 – 1848), il quale possedeva un progetto federalista - inviso a chi voleva unire l'Italia in uno Stato centralizzato sul modello francese - di una confederazione di Stati, che affermava la piena autonomia dello Stato della Chiesa e rimaneva neutrali nel caso di un’eventuale ripresa della guerra di Carlo Alberto contro l'esercito di Radetzky. Il nuovo Ministro cercò anche di attivare una politica di pacificazione sociale e risanamento finanziario. In ambienti rivoluzionari fu elaborato un piano per assassinarlo: la mattina del 15 novembre 1848, giorno di riapertura del Parlamento, Rossi fu accoltellato sulle scale del Palazzo della Cancelleria; il suo assassinio fu l'inizio della serie di eventi che portarono alla proclamazione della Repubblica Romana. Difatti pochi giorni dopo, il 24 novembre, verso sera, Pio IX, travestito da prete e accompagnato dal suo cameriere segreto, esce dal Quirinale e in carrozza si fa accompagnare davanti alla Chiesa dei Santi Pietro e Marcellino; qui lo raggiunge il Conte Carlo Spaur, Ambasciatore di Baviera, che lo porta fuori da Roma e dallo Stato Pontificio con destinazione Gaeta, dove sarà accolto da Francesco II.
Pio IX con il re delle Due Sicilie Francesco II (a sinistra con il frac scuro) nel 1862. Sotto la spinta delle “rivendicazioni” dei democratici si formò una Giunta di Stato non eletta – sotto forte pressione dei mazziniani confluiti da tutta la penisola a Roma – che sciolto il Parlamento, convocò un’Assemblea costituente romana (9 febbraio 1849) che tramite il suffragio universale poneva le basi per una Costituente nazionale, autoproclamò la Repubblica e la decadenza “di diritto e di fatto” del potere temporale del Papa. Roma fu capovolta: tra il febbraio e il marzo 1849 il governo democratico abolì il controllo vescovile sull’istruzione, soppresse il Sant’Uffizio e incamerò i beni ecclesiastici. Moltissimi furono i volontari che, animati da Mazzini, affluirono in quei mesi a Roma per difendere la città: Giuseppe Garibaldi (1807 – 1882), Carlo Pisacane (1818 – 1857), Goffredo Mameli (1827 – 1849) e Nino Bixio (1821 – 1873). Si nominò un triunvirato, su modello napoleonico, composto da Giuseppe Mazzini, Carlo Armellini (1777 – 1863) e Aurelio Saffi (1819 – 1890), dotato di potere “illimitato” per la “difesa della Repubblica” (Nota 2). Il 1º gennaio il Papa emanò un motu proprio con il quale condannò la convocazione dell'Assemblea Costituente e comminò la scomunica sia a coloro che avevano emanato il provvedimento sia a coloro che avessero partecipato alla consultazione elettorale. Le elezioni si svolsero comunque e decretarono la vittoria dei democratici, che furono gli unici votanti delle elezioni imposte. Non si recarono ai seggi, infatti, legittimisti e i moderati: le componenti sociali più sensibili al richiamo del pontefice. Tuttavia, dopo che era venuto meno il sostegno della Toscana, e in seguito ai contraccolpi dell’insuccesso militare piemontese, l’esperimento romano si trovò in crescente difficoltà. D’altra parte la Repubblica francese, a cui i romani avevano guardato come un modello esemplare, non solo non mostrò alcun genere di solidarietà, ma anzi proprio Luigi Napoleone – nell’intento di accattivarsi il clero – fu fra i primi ad inviare reparti militari contro la Repubblica per il ripristino del potere papale. Il 1°luglio 1849, dopo aver approvato simbolicamente il testo definitivo della Costituzione repubblicana, l’Assemblea costituente non poté più opporre alcuna resistenza contro la coalizione formata da Francia, Spagna e Regno delle Due Sicilie: con l’assedio di Roma dello stesso anno, Pio IX poté tornare sul suo Trono. Il Pontefice scosso dal pericolo appena corso di essere delegittimato, cancellò ogni traccia del biennio rivoluzionario e si pose politicamente come punto di riferimento del Trono e dell’Altare. Come nuovo segretario di Stato fu nominato Giacomo Antonelli (1806 – 1876), che perseguitò gli avversari politici, ordinando molti arresti e riportò gli ecclesiastici al vertice di tutti i principali organismi pubblici. I gesuiti in particolare ripresero ad esercitare una grande influenza all’interno dello Stato Pontificio, anche attraverso la rivista “La civiltà cattolica”, fondata nel 1850. Il 14 agosto del 1850 Papa Pio IX, con una Legge unica nell’Europa dell’epoca, stabilisce disposizioni per tutto lo Stato Pontificio per la tutela e la formazione dei sordomuti. Il 14 ottobre del 1853, viene avviato il Servizio Telegrafico (sulla Via Appia, all’altezza della Basilica di San Sebastiano). La rete è rappresentata esclusivamente dalle linee che servono a collegare Roma con gli Stati confinanti (in modo da garantire i contatti del Papa con i propri alleati, come il Regno di Napoli e il Granducato di Toscana). Pio IX durante il suo pontificato, il più lungo della storia, se si accettua quello dell’apostolo Pietro, manifestò la sua avversità allo Stato italiano e alle idee laiche e liberali che hanno lasciato un segno profondo nella storia d’Italia, risolta con i famosi “Patti Lateranensi” del 1929 ad opera di Benito Mussolini (1883 – 1945). Nell’enciclica Quanta cura del 1864 non lasciava alcun spazio al compromesso: i cattolici dovevano opporsi “alle nefande macchinazioni di uomini iniqui che […] schiavi della corruzione, con le loro opinioni ingannevoli (di cui egli era stato inizialmente sedotto) e con i loro scritti dannosissimi, si sono sforzati di sconquassare le fondamenta della cattolica religione e della civile società, di levare di mezzo ogni virtù e giustizia, di depredare gli animi e le menti tutti”. Nel contesto di questo aspro conflitto fra Chiesa e Stato vanno ricordate le due note a presa di posizione di Pio IX: la dichiarazione dell’infallibilità del Papa fatta proprio a ridosso della presa di Roma e soprattutto il Non expedit (1874), con la proibizione per i cattolici di partecipare alla vita politica dello Stato italiano. Egli dovette soffrire molto, poiché l’incomprensione e l’odio delle forze massoniche e rivoluzionarie, continuarono ai danni del suo Stato, nei confronti delle province di Marche e Umbria (18 settembre 1860), durante il periodo dell’unificazione nazionale ad opera di Garibaldi, appoggiato tacitamente dal Regno sabaudo, dopo aver sconfitto a Castelfidardo le forze papaline. Furono solo le forze francesi di Napoleone III (nel frattempo divenuto Imperatore dei francesi, aprendo il secondo Impero napoleonico) stanziate nel Lazio che permisero allo Stato Pontificio di perdurare per altri undici anni (Nota 3). La via per Roma sembrava dunque chiusa per il completo assoggettamento della penisola. Nel novembre 1867, fallì infatti un nuovo tentativo intrapreso da Garibaldi per conquistare la città: un corpo di spedizione francese attaccò presso Mentana i suoi volontari, che dopo un duro combattimento furono costretti a cedere alle forze soverchianti dei loro avversari. A risolvere la situazione fu, nel 1870, la sconfitta della Francia di Napoleone III a Sedan, ad opera della Prussia di Bismarck. La scomparsa di uno dei due contraenti fece rompere l’indugi al processo di unificazione italiano che il 20 settembre 1870, grazie all’artiglieria aprì un varco nella cinta muraria che circondava la città – la famosa Breccia di Porta Pia – e il corpo militare dei Bersaglieri ebbero la meglio sulle truppe pontificie. La Guardia palatina d'onore, creata da Papa Pio IX nel 1850, manteneva la bandiera, su concessione dell’esercito sabaudo, dopo la presa della città.
Tra i corpi militari più prestigiosi dello Stato Pontificio vi era quello della Guardia nobile, che venne costituito l'11 maggio 1801 da papa Pio VII come reggimento di cavalleria pesante. Comprendeva l'ex corpo delle lance spezzate, disciolto il 20 febbraio 1798 a seguito dell'occupazione francese di Roma, unito ai cavalleggeri pontifici. Il corpo, che fu anche chiamato "Cavalleggeri", era composto da reclute provenienti dai cadetti delle famiglie nobili ed era inizialmente diviso in due compagnie. Inizialmente questo reggimento doveva servire come scorta personale per il pontefice, nonché per le maggiori cariche ecclesiastiche dello Stato Pontificio inviate per conto del pontefice nelle province dello Stato in missioni particolari. Uno dei compiti della Guardia era quello di dare l'annunzio di nomina ai nuovi cardinali che abitavano fuori Roma, consegnando lo zucchetto cardinalizio. Il primo militare ad espletare tale funzione fu il marchese Costaguti, che nel settembre del 1801 annunciò a Antonio Felice Zondadari la nomina ad Arcivescovo di Siena. Il marchese Luigi Serlupi d'Ongran portò lo zucchetto cardinalizio al card. Angelo Roncalli poi Papa Giovanni XXIII. Una delle missioni più note eseguite da questo corpo fu l'aver scortato Pio VII a Parigi per l'incoronazione di Napoleone Bonaparte nel 1805. Il corpo fu sciolto dopo la seconda invasione francese (1808), salvo poi essere ricostituito dallo stesso Pio VII con decreto del 4 ottobre 1815. Nel 1824 Leone XII unificò le due compagnie affidandole ad un unico comandante, con mandato a vita. Con l'unificazione dell'Italia e la confisca degli Stati papali nel 1870 con la presa di Roma, la Guardia nobile rimase in servizio ma mutò la propria natura divenendo un corpo elitario di guardie a piedi. Affiancatasi sempre più, per servizio, alla Guardia palatina d'onore e alla Guardia svizzera pontificia, la Guardia nobile venne sostituita da quest'ultimo corpo nelle proprie funzioni per volere di papa Paolo VI il 14 settembre 1970 come parte delle riforme introdotte dal Concilio Vaticano II.

Il 3 febbraio 1871 fu stabilito il trasferimento della capitale del neonato Regno d’Italia, da Firenze a Roma. Prima ancora che il trasloco fosse effettivamente ultimato, il governo italiano cercò di risolvere il conflitto con il papato impegnandosi attraverso la legge “Delle Guarentigie”, (maggio 1871) a garantire al pontefice la totale autonomia nello svolgimento del suo magistero spirituale e riconobbe alla Santa Sede una serie di prerogative: l’extraterritorialità dei palazzi del Laterano e del Vaticano e della villa Castelgandolfo, la libertà di comunicazione con i rappresentanti dei governi di tutti gli altri paesi del mondo. Pio IX aveva proclamato “ingiusta, violenta, nulla e valida l’occupazione italiana”; perciò il Regno d’Italia, ossia un Paese al 99% cattolico, si trovò a scontare il peso di una scomunica papale, destinata ad avere per numerosi anni a venire pesanti conseguenze tra il “Paese reale” e quello “legale”. Con il già citato Non expedit, Pio IX dichiarò infatti “non opportuno” – de facto una proibizione – che i cattolici partecipassero alle elezioni indette da uno Stato usurpatore. Anche se non tutti i cattolici erano pronti a seguire alla lettera la sua prescrizione, tale divieto comportò non poche noie al Regno d’Italia, sorretto da Vittorio Emanuele II. Papa Pio IX morì prigioniero a Roma il 7 febbraio 1878 e fu sepolto in Vaticano. Nel proprio testamento, il pontefice aveva designato come luogo definitivo di sepoltura la basilica di San Lorenzo al Verano. Nel luglio del 1881 avvenne la traslazione della salma. Fu organizzata una cerimonia pubblica, che iniziò alla mezzanotte tra il 12 e il 13 luglio, secondo l'uso dell'epoca. Ad accompagnare la salma del pontefice lungo le strade si accalcarono migliaia di cittadini. Nonostante fossero prevedibili scontri, non fu organizzato un visibile dispiegamento di polizia. Il governo italiano era restio a organizzare un servizio di sicurezza adeguato per, non creare l'impressione di un omaggio a una figura che aveva ritardato l'Unità d'Italia. D'altro canto gli ambienti ecclesiastici non vollero utilizzare le forze di sicurezza vaticane perché sarebbe stato un implicito riconoscimento della legge delle Guarentigie che le aveva istituite. La cerimonia fu interrotta da un gruppo di anticlericali che tentarono di impossessarsi del feretro, al grido di «al fiume il papa porco», attaccando il corteo funebre con sassi e bastoni nell'evidente intento di gettare la salma di Pio IX nel Tevere. Fu grazie ai fedeli e successivamente alla pronta reazione della polizia che si evitò l’irreparabile. Solo dopo alcune ore il corteo funebre poté riprendere la processione sino a San Lorenzo in una situazione di relativa tranquillità. L'episodio ebbe risonanza internazionale: l'Italia apparve come un paese in cui era possibile attaccare una persona anche oltraggiandone le spoglie mortali. Vi furono conseguenze politiche: il prefetto di Roma venne rimosso dall'incarico e il governo Depretis dovette rispondere a numerose interrogazioni parlamentari sulla vicenda. Il ministero degli Esteri inviò una lettera circolare alle monarchie europee per spiegare l'origine degli scontri. Riportiamo alcune parole, segno inequivocabile di un cuore ricolmo di Fede, di Speranza, di Carità, monito per tutti noi oggi nella lotta contro i discendenti ideali di coloro che egli ebbe come suoi nemici giurati: «Quanti tiranni tentarono di opprimere la Chiesa! Quante caldaie, quante fornaci e denti di fiere, e aguzze spade! Tuttavia non ottennero nulla. Dove sono quei nemici? Sono finiti nel silenzio e nell’oblio. E dov’è la Chiesa? Ella splende più del sole». Venne proclamato beato il 3 settembre del 2000 da Giovanni Paolo II dopo che la Chiesa cattolica riconobbe l'autenticità del miracolo ottenuto da suor Marie-Thérèse de St-Paul e l'intercessione di papa Pio IX. La Chiesa Cattolica oggi celebra la memoria del beato Pio IX, come ultimo Papa-Re. Questa è la frase canonica di presentazione del santo odierno. In realtà, questa asserzione non è corretta. Nella sua fredda schematicità, ciò che la rende errata è l’aggettivo “ultimo”. Ultimo naturalmente non è riferito a “Papa”, ma a “Re”. Ma un Papa è re non perché esercita un potere temporale su uno Stato, ma per via del suo ruolo di vicario in terra di colui Che è “Re dei re”, Re dell’universo e Signore del creato, signore in quanto fattore, reggitore, governatore, e un giorno giudice; di Colui che ebbe a dire, nel pretorio dinanzi al Governatore di Roma, di Se stesso: «tu lo dici: io sono re» (Gv., 18,37). La tiara (o triregno), simbolo per secoli della regalità pontificia, non era legata al possesso dello Stato Pontificio, tanto è vero che è stata abolita, non nel 1870, ma dalle riforme di Paolo VI. In conclusione possiamo certamente affermare che in mezzo agli eventi turbinosi del suo tempo, Pio IX fu esempio di incondizionata adesione al deposito immutabile delle verità rivelate.

  La teca contenente la salma di Pio IX.

Nota 1: Il Papa inviava, ai confini, una forza di 7.500 uomini, organizzati in quattro reggimenti di fanteria italiana, reggimenti svizzeri, due reggimenti di cavalleria, tre batterie da campagna, due compagnie del Genio ed una di artificieri, al comando del piemontese Giovanni Durando. Mentre al napoletano Ferrari, in posizione subordinata, venne affidato il comando dei 3.000 volontari. La piccola armata partì da Roma il 24 marzo 1848, seguita, il 26 dal Ferrari, con circa 2.300 volontari, cresciuti per via sino a 12.000. Ad essi se ne aggiunsero altri 1.200 organizzati dal bolognese Tito Livio Zambeccari (1802 – 1862), anch’egli noto massone del Grande Oriente d’Italia.

 

Nota 2: Se si attua una riflessione sul concetto di nazionalismo, le nuove forme statuali che si erano affermate, al fine di ritagliarsi delle sotto entità – a tutto vantaggio delle élite borghesi-massoniche, che di questo movimento si facevano promotori –, condussero verso la guerra civile i popoli europei. Queste entità progressivamente, si sono auto-convinte di possedere una «missione nazionale», la quale si rafforzò con il pretesto – nel caso dell’Austria-Ungheria, dopo il 1867 – della «parità politica» per auto-legittimare il proprio credo. Il collegamento dei diritti democratici, alle istanze nazionali - verità per le primissime rivoluzioni -, non ha avuto fondamento di giustizia in seguito, ma fu un meccanismo pianificato ad hoc dalle nuove élite borghesi dominanti. Successivamente le nazioni, che nel frattempo si erano auto-legittimate, non si sono certamente dimostrate democratiche: la Germania nazista, basata sul regime di nazione, non lasciava certamente diritti politici ai propri popoli sotto la sua sfera d’influenza. La stessa unità tedesca, del 1871, non si è ottenuta per via democratica, ma per auto-affermazione degli Junker. Il nazionalismo nasce proprio contro i diritti democratici: un potere viene sostituito da un altro, ma il nuovo che avanza, vuole possedere la legittimazione delle sue azioni violente, tramite la morale e l’etica della sua inesistente democrazia. De facto se ad una nazione fa capo una missione storica, la quale si pone in contraddizione con l’obiettivo di un’altra entità, la risoluzione per l’auto-affermazione è la guerra. Se come affermava Vincenzo Gioberti (1801 – 1852) «gli italiani hanno una sacra missione», già si asseriva che lo scopo storico degli italiani doveva entrare in conflitto con la missione storica degli altri Stati preunitari. Della sua opera fondamentale il Primato civile degli italiani si evince come l’avanguardia spirituale italiana, fondata su una «religione secolare della patria», si basava su caratteristiche di particolare assolutezza. La saldatura tra protesta liberale e rivendicazioni nazionali fu garantita fino al 1848, ma non si trattava di un successo duraturo e sarebbe stato messo presto in discussione. D'altronde tutta la mitologia della nazione è stata costruita a tavolino, come atto di pressione nei confronti di un processo storico. Ne sono testimonianza le Accademie della lingua, senza le quali il concetto di nazione si affievolisce. I nazionalismi assoluti non hanno portato alla liberazione politica, ma hanno condotto i popoli verso la schiavitù totale, come storicamente hanno dimostrato fascismo, nazismo e comunismo, evoluzioni novecentesche di tale pensiero. 

 

Nota 3: Durante l'insurrezione del 1831 fu nominato delegato straordinario di Spoleto e Rieti e con un'abile mediazione salvò la città da un inutile spargimento di sangue. Convinse i generali pontifici a non aprire il fuoco e ai rivoltosi concesse, alla deposizione delle armi, soldi e passaporti. Tale atteggiamento di moderazione contribuì, al momento della sua elezione a papa, a far pensare ai patrioti italiani che fosse uomo di idee liberali e aperto alla causa nazionale. In tale periodo salvò la vita al ventitreenne Carlo Luigi Napoleone Bonaparte, il futuro Napoleone III, che stava per essere fatto prigioniero dagli austriaci proprio a Spoleto. Il favore, fino alla sua capitolazione dopo la sconfitta prussiana, gli fu ricambiato con la salvaguardia dei suoi territori.

 
Per approfondimenti:
_Luigi Negri, Attualità & profezia - Ares 1999;
_Andrea Tornielli, Pio IX. L'ultimo Papa Re - Mondadori, 2011;
_Giulio Andreotti, Sotto il segno di Pio IX, Rizzoli, 2000.
 
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di Giuseppe Baiocchi del 28/05/2018

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Domenica 27 Maggio si è consumata l’ultima crisi politica che attanaglia il Paese da circa sette anni: il presidente della Repubblica Sergio Mattarella (1941) ha rifiutato di prendersi la responsabilità, verso il Governo 5Stelle-Lega del trinomio Di Maio-Salvini-Conte.
Secondo il comunicato del Quirinale, la motivazione prima del Capo dello Stato è stata quella di difendere l’Italia come Paese fondatore dell’Unione europea, dove ne è protagonista. Non farlo avrebbe significato porre «in allarme gli investitori e i risparmiatori, italiani e stranieri, che hanno investito nei nostri titoli di Stato e nelle nostre aziende. L’impennata dello spread, giorno dopo giorno, aumenta il nostro debito pubblico e riduce le possibilità di spesa dello Stato per nuovi interventi sociali. Le perdite in borsa, giorno dopo giorno, bruciano risorse e risparmi delle nostre aziende e di chi vi ha investito. E configurano rischi concreti per i risparmi dei nostri concittadini e per le famiglie italiane».
La stragante comunicazione delle agenzie di stampa, hanno apostrofato l’operato di Mattarella come discutibile e non possiamo meravigliarci affatto di tali affermazioni, poiché – come recita la costituzione - «Nella risoluzione delle crisi si ritiene che il Capo dello Stato non sia giuridicamente libero nella scelta dell'incaricato, essendo vincolato al fine di individuare una personalità politica in grado di formare un governo che abbia la fiducia del Parlamento. [...] Una volta conferito l'incarico, il Presidente della Repubblica non può interferire nelle decisioni dell'incaricato, né può revocargli il mandato per motivi squisitamente politici».
Ma quale è stato l’anello di rottura del tanto decantato braccio di ferro tra Matteo Salvini (1973, leader della Lega) e Sergio Mattarella? L’uomo è il professore, già Ministro dell’industria del Governo Ciampi (1993), Paolo Savona (1936). Il Capo dello Stato ha usato nei suoi confronti parole particolarmente dure asserendo: «Ho chiesto, per quel ministero, l’indicazione di un autorevole esponente politico della maggioranza, coerente con l’accordo di programma. Un esponente che – al di là della stima e della considerazione per la persona – non sia visto come sostenitore di una linea, più volte manifestata, che potrebbe provocare, probabilmente, o, addirittura, inevitabilmente, la fuoruscita dell’Italia dall’euro. Cosa ben diversa da un atteggiamento vigoroso, nell’ambito dell’Unione europea, per cambiarla in meglio dal punto di vista italiano».
[caption id="attachment_10287" align="aligncenter" width="1000"] Sergio Mattarella (Palermo, 23 luglio 1941) è un politico, giurista e accademico italiano, 12º presidente della Repubblica Italiana dal 3 febbraio 2015.[/caption]
L’aspetto imbarazzante della vicenda risiede propriamente nelle dichiarazioni dello stesso docente, il quale dopo aver affermato un silenzio nel rispetto istituzionale, si dichiarava sereno, poiché egli voleva unicamente un’Europa diversa, più forte, più equa e mai aveva asserito circa l’uscita dell’Italia: «Un’Europa da cambiare, non da distruggere», esclamava sul sito scenarieconomici.it, qualche tempo fa. Il famoso “piano B” del capo di accusa mosso contro di lui, in realtà era unicamente un’elaborazione accademica, presentata presso un Ateneo universitario aperto a tutti. Non troppo diverso da quello che la Germania, della contestatissima Merkel, sta preparando e di cui ha dato conto la Die Welt.
Al netto delle stridenti affermazioni che cozzano con la realtà delle parole della controparte, Giuseppe Conte (1964) passerà alla storia come il premier incaricato durato solo tre giorni: «Fino all’ultimo ho creduto e mi sono impegnato perché fosse possibile», ha asserito in conferenza stampa, leggermente imbarazzato. Mattarella per superare la sua preoccupazione verso le testate estere e gli investitori esteri in Italia, aveva proposto che lo stesso Conte potesse ad interim assumere l’Economia, ma Salvini aveva risposto come «se abbiamo la catena e non possiamo mettere un Ministro che non sta simpatico a Berlino, vuol dire che quello sarebbe un ministro giusto per i tavoli europei»: la rottura era compiuta.
Così dopo il Governo Monti (2011), Governo Letta (2013), Governo Renzi (2014) e Governo Gentiloni (2016), adesso il Capo dello Stato sta pensando di inserire un nuovo Governo tecnico con la figura di Carlo Cottarelli (1954), già commisario della spending review nel Governo Letta e dimissionario del Governo Renzi per incompatibilità con l’ex-premier. Insomma il voto degli italiani non sembra avere più nessun rilievo, ma al “popolo” si sta sostituendo “l’opinione dello spread”, uno strumento economico, da sempre instabile e non calcolabile, ma non sicuramente influenzabile dal posizionamento di un essere umano all’interno di una carica, come le istituzioni ci hanno voluto affermare.
Al netto dei pro e dei contro, ad inizio giugno c'è il G7 e alla fine dello stesso mese un'importante incontro europeo sui migranti, infine ad ottobre la legge di bilancio. Con che forza arriverà l’Italia a questi prestigiosi e importanti appuntamenti? Sicuramente “non da protagonista” come invece ha affermato il Capo dello Stato, rispetto alla posizione che il nostro Paese ricoprirebbe all’interno dello scacchiere europeo, sempre più a trazione franco-tedesca.
Perché, quale Europa Mattarella ha voluto tutelare? Per citare il filosofo Federico Nicolaci: «Lo stupore con cui l'Europa scopre oggi di essere una "tecnocrazia senza radici" (Habermad 2014, p.21) e una costruzione "fondamentalmente vuota" (Judt 1996), come la crisi dei debiti sovrani e la conflittualità intra-europea che da essi si è sprigionata dimostrano chiaramente, che siamo di fronte al risultato finale di un parossistico rafforzamento dell'approccio funzionalistico e tecnocratico all'integrazione europea. Un'auto-comprensione altamente impoverita dell'Europa ha reso possibile che venissero abbracciati quegli stessi processi di spoliticizzazione che sono oggi la causa della sua disintegrazione politica e culturale. È evidente, infatti, che un'Europa unita e legittimata solo dai benefici materiali (dispensati da una "polity" sovranazionale sottratta in linea di principio, e nel caso della BCE de iure, all'influenza politica democratica) è un'Europa profondamente instabile, essenzialmente disunita: quando tali benefici si rivoltano in svantaggi, come sta accadendo con la crisi dell'Euro, nessuna "energia" rimane ad arginare le forze centrifughe e disintegranti. Un'unione dei progetti è un tempio completamente vuoto, inanimato, e nella misura in cui l'Europa pensa di sé semplicemente in termini pragmatico-funzionali, allora essa pronuncia volontariamente la propria condanna.
Superfluo ricordare la lunga genesi degli Stati europei all'interno di un'unica communitas cristiana ed imperiale, la quale si è articolata con lo sviluppo della modernità e frantumata con il trionfo dei nazionalismi […].
Quale idea europea, dunque? L'idea di un'Europa capace di una progettualità politica che non sia un mero adeguamento alle istanze poste dalle logiche autonome dell'ordoliberismo, […] che sia un progetto comune in nome di un'idea di umanità che ci definisce in virtù dell'appartenenza ad uno spazio di senso comune. Solo questa coscienza potrebbe consentire ai popoli europei, oggi quanto mai divisi da sentimenti di inimicizia e latente ostilità, di ritrovare la giusta via (diaporein!) verso la costruzione di una autentica comunità europea, capace di modellare politicamente gli eventi e le linee di tendenza della nostra contemporaneità globalizzata. […] Congedarsi coraggiosamente dal modello esistente significa rifiutare l'idea che l'Europa debba configurarsi sovranazionalmente: rifiutare il presupposto funzionalista per cui non ci sarebbe altro modo di "fare" l'Europa se non "cedendo sovranità" ad un'entità politica sovranazionale e sovrastatale. Significa, quindi, rovesciare la posizione del problema: […] come sia possibile a partire dal processo di legittimazione della sovranità a livello nazionale stabilire modelli di stabile cooperazione politica tra i popoli europei. L'idea che l'integrazione europea coincida con la cessione di sovranità ad un esecutivo sovranazionale non è solo un antiquato residuo storico e ideologico, ma è anche una colossale menzogna […] una ricchezza che va preservata, non superata in qualche artificiosa entità sovranazionale […]. I popoli europei […] decidendo di riunirsi a agire in modo coordinato e orientato ad un medesimo fine, di natura squisitamente politico-emancipativa senza bisogno di inutili mediazioni e duplicazioni istituzionali».
 
Per approfondimenti:
_Federico Nicolaci, La questione europea, 2015;
_La Repubblica anno 25, n°20 - lunedì 28-05-2018;
_Il sole 24Ore anno 154, numero 145 - lunedì 28-05-2018.
 
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Le Memorie di Barry Lyndon vengono scritte dall'inglese William Makepeace Thackeray (1811 – 1863), influenzato dalla celebre «letteratura delle canaglie», ma soprattutto dal romanzo picaresco. Difatti Barry – protagonista del romanzo – in realtà è un guascone in buona fede: il termine pícaro, dallo spagnolo briccone, furfante, appare per la prima volta nella Farsa salamantina (1552) di Bartolomé Palau e successivamente sarà identificazione di una narrazione apparentemente autobiografica, fatta in prima persona e in cui il fittizio protagonista descrive le proprie avventure dalla nascita alla maturità. Lo sforzo interpretativo nel capire il protagonista da parte del lettore è molto alto, ed è uno dei motivi del successo di questo romanzo ottocentesco.
[caption id="attachment_10236" align="aligncenter" width="1000"] Samuel Laurence, William Makepeace Thackeray (particolare). Romanziere e autore britannico. È noto per le sue opere satiriche, in particolare Vanity Fair, un ritratto panoramico della società inglese.[/caption]   Ma chi è Barry Lyndon? È un uomo nuovo per i tempi del Settecento, all’interno del quale l’autore non risparmia critiche delicatamente velate verso gli illuministi, i tories, i wits e l’intera corte di Giorgio III; un po’ romanzo gotico, con un discreto retrogusto rococò, unito a sprazzi di neoclassicismo. L’autore sembra difatti giudicare con distacco un’epoca considerata conclusa, ma ampiamente rimpianta. L’opera racconta essenzialmente una vita di solitudine, la stessa che lo scrittore assaporerà mentre completava il romanzo in antichi palazzi d’oriente, lontano dalla sua Inghilterra. L’immersione in un Settecento di sogno è presente per gran parte del romanzo: non a caso il nome originale dell’opera si intitolava «Un romanzo del secolo scorso». Opera di difficile collocazione morale, Thackeray ci consegna Redmond Barry, membro della gentry irlandese, il quale cercherà per tutta la vita di farsi includere all’interno dell’aristocrazia inglese. Non è un personaggio malvagio, poiché durante la storia egli sarà coraggioso, generoso, pronto a mescolarsi a genti di ogni ceto, per via delle sue “decantate” origini aristocratiche, di cui non conosceremo mai a fondo la verità. Tutte queste virtù sono in parte manifestazioni di ambizione, vanità e snobismo, ma proprio per questo ci formano un uomo completo, pieno di pregi e difetti, che crea vere e proprie interpretazioni soggettive da parte di chi legge l’opera, consacrando le sue “Memorie” alla contemporaneità. Originariamente pubblicato con il titolo «The Luck of Barry Lyndon: A Romance of the Last Century by Fitz-Boodle» sulla rivista inglese Fraser’s Magazine nel 1844 a puntate, il romanzo verrà tacciato come immorale dai suoi contemporanei: lo scozzese Theodore Martin (1816 – 1909) parla di un’esperienza soffocante attraverso una lettura piena di «libertini e truffatori, bari e ruffiani». L’idea-forza del personaggio spesso può aver tralasciato qualche rifinitura o dettaglio all’interno del racconto, ma l’innovazione sotto il punto di vista letterario, per l’epoca, è certamente il recupero della narrazione in prima persona, usato successivamente solo con Dostoevskij, il quale si andava discostando dal romanzo vittoriano.
Come afferma Tommaso Giartosio: «Barry Lyndon è dunque una foce attraverso cui il largo fiume del moralismo a sfondo sociale dell’epoca vittoriana sbocca paradossalmente nel rigagnolo fetido, ma profondissimo, dell’analisi etico psicologica moderna». Difatti la genialità del britannico risiede nell’aver liberato un generico “cattivo romanzato” dall’uso del moralistico e oggettivo “lui”, sempre simbolo di distacco e negatività da parte di chi ci scrive l’opera. Ripudio di una facciata estetica per prediligere una piacevole lettura. William M. Thackeray stravolge nel suo romanzo alcune convenzioni che lo avevano legato, nelle sue precedenti opere, alla tradizione vittoriana incarnata nei personaggi, come il desiderio e il dovere. Difatti, tutto il capolavoro La fiera della vanità, è scandito tra bene e male, sancendo comunque il grande successo del britannico. In Barry Lyndon, di contro, ogni personaggio ha dentro di sé non più un unico valore prestabilito, ma una pluralità di sentimenti e azioni: in poche parole il bene e il male. Poche, pochissime le vere figure del dovere, come il generale Magny, il pastore protestante e il precettore Redmond Quin, sono spesso ai margini di questo racconto. Per paradosso la scalata sociale del nobiluomo Redmond Barry, sembra avverarsi con il matrimonio con una Lyndon, di cui appunto prenderà il cognome. Ma lo sgambetto del destino è dietro l’angolo: difatti l’autore non “punisce” il protagonista analizzando l’etica e la morale delle sue azioni durante tutta la storia, ma per la sua natura stessa: Barry Lyndon, occorre nuovamente affermarlo, ci trasmette la sensazione che le sue “imprese” provengano da una energia intrinseca la personaggio, la quale gli avrebbe consentito di arrivare al successo, qualsiasi fosse stata la sua nascita sociale. Ma ciò che Dio dà, Dio toglie: difatti il protagonista soffre terribilmente le situazioni di stallo, che lo portano in breve tempo al suo scivolamento, come egli stesso afferma: «Sono proprio una di quelle persone nate per guadagnarsi una fortuna, ma non per tenersela» - raggiunto il vertice, gli scopi si concludono. Il suo rapporto con il denaro è parallelo all’unità temporale della famosa frase “il tempo è denaro”; dal “tesoro” Barry tornerà presto verso la miseria della “provincia”. Tale binomio si accosta all’ambiguità del termine inglese luck ripreso sapientemente nel titolo “The Luck of Barry Lyndon” - (La fortuna di Barry Lyndon) -, poiché tale terminologia racchiude felicità e sventura, è ciò che è destinale, non ciò che deve essere, colpa e merito. Così la ruota della fortuna si acquisisce, ma difficilmente si conserva. Ma sarà proprio la sua “fortuna creata” a salvare il personaggio dal fallimento etico e morale, poiché questo rimarrà durante tutto il romanzo sempre unicamente se stesso, senza alterazioni, coerente con i suoi mutabili principi. Proprio tali prerogative, saranno altro merito di Thackeray, difatti all’interno dei suoi romanzi i personaggi divengono sempre e unicamente individui flessibili e mai immutabili. Lo stesso protagonista è soldato nell’universale caserma prussiana, gentiluomo disertore, nobiluomo nel bel mondo dublinese, con un interessante innesco di giochi di pronomi personali: “lui” (Balibari) diventa “io” (Barry), un “io” (Barry) diventa “lui” (Fritz) e ogni volta il soggetto diviene controvertibile in oggettivo, mentre la voce narrante si trasforma in processo temporale del divenire.
[caption id="attachment_10238" align="aligncenter" width="1000"] Estratto fotografico del film del 1975. Il cast del film comprende Ryan O'Neal nel ruolo di Redmond Barry Lyndon (inizialmente assegnato a Robert Redford), Marisa Berenson nel ruolo di Lady Lyndon, Leon Vitali nel ruolo di Lord Bullingdon, Patrick Magee nel ruolo dello Chevalier de Balibari e Anthony Sharp nel ruolo di Lord Hallam.[/caption]   A rafforzare la popolarità del romanzo nei tempi recenti, ci ha pensato il regista statunitense Stanley Kubrick (1928 – 1999). Barry Lyndon (1975) è sicuramente uno dei film più famosi di Kubrick, quello visivamente più affascinante, eppure la sua uscita fu un vero flop, che rischiò di mettere in crisi i rapporti tra il regista e la Worner, la quale aveva deciso di produrre Barry Lyndon per evitare una pellicola della quale si aveva grande timore per l’economia: il film su Napoleone Bonaparte, che Kubrick non riuscì mai a girare. Sono gli scherzi degli esperti degli incassi che spesso si dimostrano sbagliati e inattendibili. Per fortuna a non errare fu proprio Kubrick, che con Barry Lyndon ci lascia uno dei suoi film più belli e più densi. L’apporto più grande e geniale fu il punto visuale-scenografico: da una parte perché si ispirò alla grande tradizione della pittura inglese e parallelamente decise di girare tutto con una luce assolutamente naturale: per le celeberrime scene, illuminate unicamente dalle candele, utilizzò per la prima volta uno obiettivo Zeiss, realizzato per fini aerospaziali. Scelse di utilizzare dei lentissimi zoom all’indietro, realizzando che un piccolo particolare – inquadrato nella prima immagine – pian piano mostrasse in che contesto e situazione i personaggi vivessero. Questa lentissima carrellata all’indietro permise al registra di collegare l’individuo e la realtà in cui si muoveva. Così riuscì a restituire quella speciale soffusa malinconia, quella situazione sospesa che è la chiave più vera e più interessante per capire la genialità di questo film. Barry Lyndon vinse quattro statuette: miglior adattamento musicale, la migliore fotografia, la migliore scenografia e i migliori costumi, ma non quella per il miglior film e miglior regia. Kubrick non ha mai vinto l’Oscar per il miglior registra, anche se probabilmente se lo meritava, ma questa è una storia lunga che ci condurrebbe altrove.
Per approfondimenti:
_William M.Thackeray, Le memorie di Barry Lyndon - Fazi Editore;
_Tommaso Giartosio, Barry Lyndon: nascita, fortuna e (imprevista) innocenza del personaggio moderno - Fazi Editore.
 
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a cura di Stefano Scalella
21 Aprile 2018 – Bottega del Terzo Settore - Corso Trento e Trieste n.18 - 63100 Ascoli Piceno
Introduce: Edoardo Cellini
Interviene: Giuseppe Baiocchi
 

Sabato 21-04-2018 presso la Bottega del Terzo Settore, il presidente dell’associazione Arch.Giuseppe Baiocchi, ha presentato il suo secondo saggio storico “Finis Austriae – Sul tramonto dell’Europa”. L’incontro presentato dal consigliere Edoardo Cellini, ha analizzato il periodo storico che intercorre tra il 1898 e il 1918, anno della dissoluzione dell’Austria-Ungheria. Baiocchi ha analizzato la krisis spirituale che si è sviluppata all’interno della Monarchia Duale, soffermandosi sulle discipline architettoniche e artistiche.