[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1573942416144{padding-bottom: 15px !important;}"]L'età di Vauban e le fortificazioni alla moderna[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Giuseppe Baiocchi del 17-11-2019[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1577135244954{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
L’architettura militare, quale disciplina, nacque e si sviluppò in Italia intorno agli ultimi anni del XV secolo; più tardi, i suoi princìpi dovevano essere messi alla prova e perfezionati nei Paesi Bassi. Se si considera il periodo storico non può non sfuggire come si trattasse dei due teatri di guerra principali su suolo europeo. Gli architetti italiani dovendo fronteggiare il rapido incremento di mobilità e di potenza avuto dalla artiglieria, indagarono a fondo i rapporti esistenti tra il fuoco d’artiglieria e l’architettura.
Il fuoco d’infilata fu ora riconosciuto come la chiave per la difesa di un punto fortificato mediante il tiro d’artiglieria. Ciò condizionò molto la progettazione, poiché lo scopo principale dell’architettura militare dell’età moderna fu quella di posizionare le fortificazioni in modo tale che nessun loro elemento potesse essere battuto d’infilata da parte dell’artiglieria attaccante. Si sviluppò così un concetto difensivo di “sviluppo in profondità” posizionando sul percorso dell’attaccante una serie di ostacoli. Prima invenzione pregevole fu l’invenzione del bastione angolare verso la fine degli anni Venti del XVI secolo, ad opera di Michele Sanmicheli (1484 – 1559). Un altro italiano, questa volta un matematico, Niccolò Tartaglia (1499 – 1557) nel 1556 inventò quella che viene definita “la strada coperta”, un camminamento defilato dal fuoco degli attaccanti, che correva lungo il perimetro di una fortezza, al di là del fossato che ne difendeva le cortine e i bastioni.
Essa sostituisce il “cammino di ronda” effettuato sugli spalti nelle fortezze medievali. Tale sistema difensivo era efficace qualora si volesse lanciare improvvise sortite sul campo di battaglia. Protetti da un basso parapetto e sempre sotto il fuoco delle artiglierie della fortezza, i contingenti di truppe dei difensori potevano spostarsi lungo la strada coperta in qualsiasi punto delle difese esterne per opporsi ad un eventuale assalto nemico, per rintuzzarlo o per sfruttare una ritirata degli assalitori volgendola in rotta. La sponda esterna del fossato (da cui partiva il declivio dello spalto naturale) veniva sorretta da un muro di sostegno che prese il nome di “controscarpa”, poiché era opposto a quello di “scarpa” che sosteneva la cortina.
Ancora un terzo architetto italiano Galeazzo Alghisi (1523-73) creò l’innesto di un bastione più arretrato e più rialzato (sette metri) rispetto ai suoi corrispettivi, definito “il cavaliere”, che garantiva non solo il fuoco d’infilata dall’alto e concedeva al difensore grande visione campale, ma le colubrine posizionate sugli spalti e nelle feritoie potevano colpire anche all’interno del bastione, qualora questo veniva conquistato dal nemico.
Ma fu Antonio da Sangallo il Giovane (1484 - 1546) a far riconoscere la forma canonica dei bastioni dei tre secoli successivi. La realizzazione del Forte di Nettuno (1501-02) vantava i migliori bastioni dell’epoca: semplice fortificazione quadrangolare con un bastione ad ognuno dei quattro angoli che permette la “rasatura” perimetrale di ogni prospetto della fortezza.
[caption id="attachment_11616" align="aligncenter" width="1000"] Il Forte Sangallo, o Fortezza di Nettuno, è una fortezza posta sul litorale della città di Nettuno, in prossimità del suo borgo storico. Esso difendeva Nettuno, all'epoca considerata "granaio del Lazio", dagli attacchi da mare.[/caption]
Tale sistema d’infilata fu perfezionata dal già citato Sanmicheli con il famoso “angolo di saliente”, ovvero l’avanzamento del bastione verso l’esterno – lungo la sua linea capitale (la bisettrice tra i due angoli che componevano il bastione) – con l’inclinazione delle due facciate più corte del complesso: ciò permise un miglior fuoco di infilata e un maggior numero di servienti sulle mura per le armi a polvere nera.
Sempre lo stesso architetto per la prima volta inventa un’altra aggiunta difensiva che sarà usata fino al XIX secolo: la controguardia. Nel 1535 nel Lido di Venezia progetta ed edifica il forte di Sant’Andrea che taglia il cordone ombelicale con il medioevo. Invece del solito quadrangolo con torri o bastioni agli angoli, crea uno stretto rettangolo allungato con le terminazioni inclinate e con uno stretto bastione curvo sulla facciata principale. L’ingresso posto nella parete posteriore della fortificazione, era protetto da un’altra opera sagomata a forma di bastione, una piattaforma, e da un fossato collegato da un canale marino. Da qui il termine di controguardia: un muro a V, con l’apice rivolto all’esterno così da riprendere con la sua sagoma la stessa forma puntuta della fortezza. Lo scopo rimaneva sempre quello di allontanare eventuali nemici dal mastio principale, vero centro nevralgico della difesa e parallelamente tenerlo a distanza con il fuoco delle batterie di cannoni.
[caption id="attachment_11618" align="aligncenter" width="1000"] Il Forte di Sant'Andrea a Venezia è una fortezza edificata alla metà del XVI secolo sui resti di precedenti opere difensive ormai in rovina, parte del sistema difensivo della laguna di Venezia.[/caption]
Durante la guerra degli ottant’anni (1568 – 1648) su terra olandese tra calvinisti e cattolici spagnoli, un altro italiano Pietro Francesco Tagliapietra, detto Paciotto d’Urbino (1521-91), fu chiamato per progettare la cittadella di Anversa nel 1567. La cittadella di forma pentagonale aveva collaudato dei bastioni a punta di freccia, con le due facciate lunghe ben 110 m. Internamente vaste erano le riserve che garantivano le vettovaglie per una intera guarnigione di ben 5.000 uomini. Tale fortezza ha resistito per tre secoli, fino all’assedio del 1832. Quarantadue anni dopo, nel 1874-81, fu demolita.
Ingegnere alsaziano ispirato ai maestri italiani fu Daniel Speckle (1536-89) il quale inventò il “sistema tenagliato”: creare dei tracciati poligonali, con bastioni a freccia agli spigoli, come tracciato delle mura delle fortificazioni. Migliorò anche la funzionalità della via coperta fornendo agli spalti un’angolazione a “denti di sega” che avrebbe consentito ai difensori di colpire sempre di infilata gli attaccanti e tale sistema difensivo perdurava durante tutta l’eventuale avanzata d’avvicinamento degli assalitori. Speckle progettò anche una galleria all’interno della muratura di controscarpa per il posizionamento di fucilieri, i quali avrebbero potuto agevolmente colpire “a rovescio” i nemici scesi nel fossato. Propose anche il “sistema rinforzato”: ovvero la creazione di bastioni separati dalle mura dei fossati, doppiati da meno possenti bastioni angolari, posti al punto di confluenza delle cortine. Da questa idea in planimetria si noteranno in seguito moltissime fortezze similari in planimetria ad un aculeo, senza più nessuna linea retta antistante il nemico. Il bastione diveniva così molto rilevante per gli scopi di difesa, quasi decisivo.
[caption id="attachment_11619" align="aligncenter" width="1000"] Nelle tre immagini (da sinistra a destra): sistema tenagliato di Daniel Speckle tratto dalla sua opera Architectura von Vestungen; Statua di Daniel Specklin ad opera di Alfred Marzolff (1867-1936). Facente parte del portale principale dei macellai piccoli, rue de la Haute-Montée a Strasburgo (sul retro dell'Aubette); la cittadella di Anversa, costruita tra il 1567 e il 1569 da Paciotto da Urbino. Sia il rilievo che lo studio geometrico delle proporzioni della fortezza sono ad opera di Speckle che li pubblicò nel 1589.[/caption]
Difatti con il progresso scientifico delle armi da fuoco si ebbe come conseguenza l’avvicinamento dei bastioni, entro i limiti della gittata delle armi difensive (140-180 m), i quali contrastavano efficacemente le nuove moderne armi da fuoco portatili. Difatti anche i cannoni venivano caricati molto più a mitraglia (180 m), con cocci di ferro e di vetro, che a palla: la distruzione che portava l’effetto a mitraglia sulla fanteria nemica era devastante.
Gli olandesi crearono alla fine del Seicento una vera e propria scuola delle fortificazioni con il suo interprete più celebre: Maurits conte di Nassau (1567-1625), dal 1618 principe van Oranje. In una regione piatta come quella dei Paesi Bassi non vi era ragione di costruire fortezze in altezza, ma in ampiezza con larghi baluardi e ampi spalti. L’acqua, da sempre elemento tipico della tradizione olandese, divenne uno degli elementi centrali della difesa poiché la falda freatica del terreno si trovava ad un metro di profondità. Fu del tutto naturale usare lo sbarramento acquifero per allagare le campagne e bloccare o rallentare gli invasori. La costruzione di dighe, che all’occorrenza potevano essere aperte in punti nevralgici del Paese, divenne prassi comune. Le fortezze basse e larghe olandesi possedevano quello che viene definito come un tiro teso effettuato radente al terreno, poiché erano armi poste quasi allo stesso livello del fossato inferiore: il colpo seguiva gran parte della propria traiettoria in mezzo alle schiere nemiche ad una potenza inimmaginabile, rispetto al tiro classico dall’alto chiamato “ficcante”, il quale possedeva margini di errore molto più alti. Si inventa così la “falsa braga” ovvero un camminamento protetto da parapetto sistemato ai piedi delle mura, così che la sua altezza fosse pari a quella del muro di controscarpa costituente la parete esterna del fossato. Ciò comportò un nuovo fuoco di sbarramento una volta che il nemico avesse raggiunto la strada coperta. Gli architetti e gli ingegneri che seguirono le progettazioni successive, cercarono, nel limite del caso, di non progettare più “a lume di naso”, ma “a sistema”, ovvero seguendo un rigido schema di progettazione difensiva, che spesso non si adattava più alla preesistenza, la quale veniva generalmente quasi completamente stravolta.
Ma un’altra scuola, dopo quella italiana e olandese doveva imporsi in Europa, plasmando un’architettura militare che dominò tutto il XVII secolo: il Regno di Francia della dinastia dei Borboni. Massimo esponente dell’arte militare del XVII secolo fu Sébastien Le Prestre de Vauban (1633-1707) capace di progettare ed edificare ben 160 fortificazioni bastionate definite in ambito accademico “fortificazioni alla Vauban”.
Quando nel 1665 possedeva già il grado di Ingénieur ordinaire du Roi, aveva avuto svariate esperienze importanti di carattere militare e soprattutto la protezione del Primo Ministro Cardinale Giulio Raimondo Mazzarino (1602-61). Nel 1703 diviene Maresciallo di Francia, la massima onorificenza della gerarchia militare. Un ingegnere militare Vauban, capace di far osservare le sue condotte militari fino al XIX secolo.
Prima di morire affermò: «l’arte della fortificazione non consiste nell’uso di regole o sistemi, bensì molto più semplicemente, nell’avvalersi del buon senso e dell’esperienza». Sono accreditati al francese tre sistemi difensivi. Il primo sistema consisteva in un tracciato poligonale bastionato: la lunghezza del complesso architettonico, poiché il numero di fronti bastionati dipendeva dalle dimensioni che si volevano dare al manufatto edilizio difensivo e nei riguardi della necessità del terreno. La lunghezza del fronte bastionato era di 330 m e tutti gli altri elementi della fortezza divenivano sottomultipli di tale misura fondamentale. Quando la situazione imponeva l’adozione forzata di un fronte più ampio o più ristretto, tutte le altre misure venivano aggiustate in proporzione, moltiplicando per lo stesso coefficiente che dava il rapporto tra la misura base e quella effettivamente adottata, così che ogni elemento risultasse perfettamente proporzionato.
Caratteristico in Vauban fu anche la ripresa del raccordo curvo, anziché piatto, per le facce del bastione: il così detto “orecchione”. Il sistema prevedeva anche l’impiego di “tenaglie” a forma di V ad angolo ottuso, cioè di bassi antemurali inseriti davanti il setto murario definito “cortina”. Tale aggiunta mirava a fornire un ulteriore fuoco radente il fossato. Il tutto veniva rafforzato dall’utilizzo di mezzelune e di controguardie situate a protezione delle “tenaglie” e dei bastioni.
[caption id="attachment_11625" align="aligncenter" width="1000"] A sinistra: Raccordo curvo del bastione definito "orecchione"; xilografia di Sébastien Le Prestre, poi marchese di Vauban; i tre sistemi di Vauban in assonometria.[/caption]
Il secondo sistema si basa sul distacco dei bastioni dalla prima linea di difesa: qualora un bastione fosse caduto nelle mani degli assedianti, questi ultimi avevano conquistato unicamente una sacca isolata della fortezza. Il terzo sistema consisteva fondamentalmente in un perfezionamento del secondo con una serie di difese ancor più in profondità e parallelamente una variazione di combinazioni difensive, davanti la cortina principale: controguardia e lunetta, opera a corno e opera a corona. L’opera a corno consisteva in un piccolo bastione fuori dal complesso principale che aveva scopo quello di proteggere una testa di ponte e impedire al nemico di posizionarsi in una parte del terreno particolarmente favorevole per danneggiare le mura; aveva sempre un rivellino sul suo lato più ristretto. L’opera a corona, simile a quella “a corno”, possedeva dimensioni più maestose per una bastionatura più grande.
Suo omologo olandese, il barone e ingegnere Menno van Coehoorn (1641-1704), si rese inizialmente celebre per l’invenzione del mortaio da 112 mm, un pezzo leggero impiegato nelle guerre di posizione. Coehoorn nel suo “Nieuwe Vestingbouw (Nuove fortificazioni)”, espose i principi di tre nuove “sistemi”, i quali però non vennero applicati nelle sue stesse bastionature, ma i princìpi del trattato furono ripresi dopo la sua morte per la città fortificata di Mannheim.
I sistemi dell’olandese furono elaborati tenendo presenti alcuni princìpi fondamentali: provvedere a una poderosa difesa dei fianchi, impedire all’attaccante di installarsi all’interno delle difese eventualmente conquistate, concedere ai difensori ampie possibilità di effettuare sortite e, infine, evitare ogni inutile spesa. Riprendendo a piene mani la tradizione militare della nuova Repubblica delle Sette Province Unite (1648), l’acqua era sempre utilizzata come mezzo primario di difesa. Le controguardie del sistema bastionato avevano sempre metri quadri ridotti per non rendere il sito utilizzabile dall’artiglieria nemica. Una caratteristica delle fortificazioni del Coehoorn è l’impiego che egli fa delle caponiere: inserite nei rivellini. La caponiera è un’altra opera fortificata che serve per sbarrare il passaggio al nemico. Le terminazioni del camminamento erano chiuse da gallerie per il fuoco di fucileria, separate dal resto del camminamento per mezzo di piccoli fossati. Tale inviluppo difensivo continuo poneva al suo centro progettuale il manufatto militare del rivellino, il quale aumento di consistenza, fino ad essere bastionato: un bastione davanti alla cerchia primaria con ai fianchi piccoli rivellini interposti nello spazio del fossato.
Tra i due grandi Maestri Vauban e Coehoorn il secondo riuscì ad edificare bastionature 1/3 più economiche del primo. In Francia il secondo sistema di Vauban fu migliorato dall’ingegnere Louis de Cormontaigne (1697-1752), il quale rimosse le torri-bastione, adottò dei ridotti più efficaci all’interno del rivellino, la trasformazione delle piazzole rientranti della strada coperta in piccoli ridotti indipendenti, isolati dal resto della strada coperta per mezzo di diramazioni del fossato. La lunghezza delle faccio dei bastioni venne aumentata fino a portarla a circa un terzo del lato del poligono difensivo, mentre il rivellino anteposto alla cortina venne a sua volta ampliato in modo da mascherare meglio le estremità dei bastioni stessi. Purtroppo le sue idee non furono mai applicate nel concreto e oggi ci rimangono i suoi trattati: modelli di chiarezza e precisione su cui studiarono i futuri architetti e ingegneri militari di tutta Europa.
L’opera di Cormontaigne fu proseguita dal marchese Marc René de Montalembert (1714-1800), uomo militare di grande esperienza che poteva vantare nove assedi e quindici campagne di guerra. Montalembert pubblicò diversi saggi sull’architettura militare tra cui “La Fortification perpendiculaire” pubblicato nel 1776. Alla fine del suo personale percorso di saggista concluse i suoi undici tomi allegando il titolo “L’art défensif supérieur à l’offensif”. L’architetto francese fu il promo a comprendere l’importanza dello scontro tra l’artiglieria del difensore e quella dell’assediante: l’artiglieria dell’assediato non doveva essere posta “in barbetta” (sulla cima delle fortificazioni), ma all’interno di alcune casematte (opera fortificata, progettata strutturalmente per ricevere bombardamenti) ben riparate. I cannoni dovevano essere posizionati su ordini sovrapposti e il più serrati possibili, così da implementare il fuoco.
[caption id="attachment_11624" align="aligncenter" width="1000"] Augustin de Saint-Aubin, incisione su carta vergata del marchese Marc René de Montalembert (1714-1800); planimetria di caponiera con le quali l'architetto intendeva difendere i fossati delle proprie fortezze; immensa torre casamatta a più piani con 24 cannoni a livello.[/caption]
Essendo un militare altamente addestrato, preferisce ai princìpi di Vauban una fortificazione concentrata, opponendo al nemico una grande potenza di fuoco, servita da molti cannoni, ora più precisi e più potenti grazie al miglioramento tecnologico. È quindi all’origine della creazione di numerose fonderie di cannoni in Francia, tra cui le forges de Ruelle, vicino alla sua città natale, Angoulême. Sarà lui a rompere la progettazione degli angoli salienti, divenendo il precursore, di fortezze spogliate di difese d’avanzamento. La disposizione architettonica proposta dal Marchese de Montalembert ha diversi forti che si affiancano l’un l’altro e si presentano faccia a faccia con il nemico. Fu tale trovata a contrapporsi alla collaudata fortificazione orizzontale: l’idea di Montalembert si incentrava su di una fortificazione verticale, la quale potesse – grazie all’ampia visuale – concentrare il fuoco dei cannoni, laddove il nemico si fosse riunito con le proprie forze. Nasceva dunque il “sistema perpendicolare del Montalembert”: torri casematte a più livelli fuori terra, ognuno dei quali era dotato di batterie di 24 cannoni pesanti. Le torri erano situate dietro ai salienti, alle tenaglie e alla linea di controguardie che costituivano le difese esterne. Anche in questo caso, l’attuazione di tali princìpi vide il costo economico compromettere la sua realizzazione. Tuttavia i suoi progetti diventarono la falsariga di molte architetture militari del XIX secolo.
 
Per approfondimenti:
_Bar-Le-Duc J.E. de-, La Fortification réduite en art et demonstrée, Francoforte sul Meno 1604;
_Belidor B.F. de-, Les Sciences des ingénieurs, Parigi 1729;
_Bisset C., The Theory and Construction of Fortification, Londra 1751;
_Borgatti M., La fortificazione permanente contemporanea, secondo volume, Torino 1898;
_Brialmont H., Manuel des fortifications de campagne, Bruxelles;
_Cassi Ramelli A., Castelli e fortificazioni, Milano 1974;
_Clausetti E., Storia della Tecnica militare dal Medioevo ai giorni nostri, Milano 1944;
_Corps Royal du Génie, Mémoires sur la fortification perpendiculaire, Parigi 1786;
_Maggiorotti L.A., Architetti militari, in Genio italiano all'estero, Roma 1933;
_Marchi F. de-, Della Architettura militare, Brescia 1599;
_Speckle D., Architectura von Vestungen, Strasburgo, 1589;
_Vauban S. Le Preste de-, De l'Attaque et de la défense des places, secondo volume, L'Aia, 1737-42;
_Hogg I., Storia delle fortificazioni, Istituto geografico De Agostini, Novara 1982.
 
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

[vc_row][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1572526215397{padding-bottom: 15px !important;}"]Il cristianesimo «anarchico» di Lev Tolstoj[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Valerio Pignatta del 31-10-2019[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1573950652277{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Lev Nikolàevič Tolstoj nacque nel 1828 a Jasnaia Poljana, nel governatorato di Tula, dal conte Nikolaj Il'ič e dalla principessa Marija Nikolaevna Volkonskaja e morì ad Astrapovo (ribatezzata nel 1918 Tolstoj) nel 1910. Non è questa la sede dove trattare le vicende che lo hanno visto protagonista del mondo letterario russo ed internazionale, che oltre a essere molto numerose si prestano a studi vasti e complessi, che riguardano soprattutto gli aspetti letterari dell'opera di Tolstoj.
[caption id="attachment_11597" align="aligncenter" width="1000"] Lev Nikolayevich Tolstoj nel 1849 posa giovanissimo per uno studio fotografico di San Pietroburgo.[/caption]
Ci concentreremo invece intorno alla svolta morale che verso i cinquant'anni di età egli diede alla sua vita. Dopo aver trascorso un esistenza coronata da successi, amori, guerre, viaggi e fervori letterari, Tolstoj si ritrovò a dover affrontare una profonda crisi di natura spirituale, che lo spinse ad analizzare gran parte delle dottrine religiose esistenti – sia occidentali che orientali – alla ricerca di un nutrimento spirituale che appagasse il suo forte desiderio di identificare lo scopo della propria vita. Questo viaggio interiore lo condusse alla scoperta del proprio senso della vita nei Vangeli, il cui messaggio lo rifornì di un rinnovato vigore, aprendogli una nuova e fertile età senile traboccante di amore e impegno, non più letterario ma sociale, per l'umanità¹.
La nuova vita di Tolstoj fu caratterizzata, in sintonia con la parola di Gesù, dalla riscoperta della semplicità e dal valore della vita contadina, assieme a una profonda avversione nei confronti del potere degli Stati, delle Chiese organizzate e delle classi agiate. «In generale – scrivono Vladislav Lebed e Gloria Gazzeri nella nota introduttiva a una raccolta di saggi tolstojani – lo scopo della ricerca religiosa di Tolstoj fu di riportare il cristianesimo alla sua primitiva purezza e giungere ad una religione universale, valida per tutti i popoli basata sul Vangelo e su quelle verità fondamentali che sono comuni a tutte le religioni. Per lui l'unica legge valida è quella dell'amore. Mettere in pratica la legge dell'amore conduce ad una nuova dimensione spirituale, ci fa nascere alla vera vita»².
Se volessimo riassumere in un breve quadro introduttivo il concetto spirituale della vita di Lev Tolstoj nella sua vecchiaia, potremmo riportare anche le parole di Pietro Citati, che intrecciano la vita e l'opera dello scrittore russo in maniera mirabile: «Ciò che importa è accettare la volontà di Dio. Non desiderare nulla, obbedire, accogliere con amore tutto quello che ci viene chiesto: fare quello che è necessario, quello di cui abbiamo bisogno, quello a cui trascina irresistibilmente la nostra vocazione. “Ti agiti, ti dibatti, sempre perché vuoi nuotare in una direzione che ti è propria. Ora accanto, incessantemente, e vicino ad ognuno, scende il torrente divino, infinito, dell'amore, sempre nella sola e stessa direzione eterna. Quando ti sarai sfinito in tentativi di fare qualcosa per te stesso, di fuggire, di diventare sicuro, abbandona tutte le direzioni che sono tue, gettati in questo torrente, e ti porterà, e sentirai che non ci sono limiti, che sei tranquillo per sempre libero e felice”. Quando diventeremo così mobilmente e fluidamente passivi, acquisteremo la qualità suprema del cuore: la gioia, la calma, la tranquillità, la capacità di agire con facilità e senza sforzo, come se l'azione sgorgasse spontaneamente dalla fonte dell'Essere. Allora non ci proporremo più delle grandi azioni: amare tutto il genere umano, essere laboriosi e astinenti. “Si può fare una grande malvagità, ma un'opera buona non si può farla che piccola”. Quello che conta, in ogni opera buona, è la perfezione formale: l'amore, l'attenzione, la pazienza, la precisione con cui viene compiuta»³.
Ciò che Tolstoj intendeva con “amore” non era molto diverso da quello che Pëtr Kropotkin (1842 -1921) intendeva con “mutuo appoggio”, e su cui aveva scritto un intero volume⁴. I due pensatori furono in contatto epistolare e indubbiamente si influenzarono reciprocamente⁵.
[caption id="attachment_11598" align="aligncenter" width="1000"] All'inizio del 1851, il giovane conte Tolstoj decise volontariamente di recarsi nel Caucaso e di unirsi ai ranghi dell'esercito zarista. L'esempio del fratello maggiore di Nikolai, che aveva già prestato servizio nel Caucaso settentrionale, convince Lev Nikolaevich della decisione giusta. Nei suoi diari, ha scritto: «partecipai alle operazioni militari. Volevo davvero mettere alla prova il mio coraggio. E guardare anche con i miei occhi cos'è la guerra». Tolstoj vive nel villaggio di Starogladovskaya nella regione di Kizlyar, incontra i suoi compagni di lavoro e fa amicizia con gli abitanti degli altipiani (ceceni Balta Isaev e Sado Misirbiev) , prende parte alle operazioni militari, si prepara agli esami per il grado militare e nel settembre di quell'anno diventa Junker della 4a batteria della 20a brigata di artiglieria.[/caption]
Sostiene George Woodcock (1912-95), uno dei massimi storici dell'anarchismo, che nel principe Kropotkin Tolstoj vedeva un esempio vivente delle rinunce da lui stesso compiute solo nelle proprie teorie e nelle proprie opere. Per tale ragione nutriva nei confronti dello scienziato anarchico un sincero rispetto e una profonda ammirazione. Al tempo stesso possiamo facilmente constatare l'influenza che Proudhon esercitò sullo scrittore di Jasnaja Poljana a partire dalle letture che quest'ultimo fece del libro Che cos'è la proprietà? Nel 1857⁶. Cinque anni dopo Tolstoj compì un viaggio a Bruxelles andando a trovare Proudhon, con il quale discusse appassionatamente il problema della pubblica istruzione. Possiamo poi aggiungere che l'insegnamento che Tolstoj cercò di mettere in pratica sui suoi studenti contadini era di carattere estremamente libertario e «il tipo di libera collaborazione fra insegnanti e allievi che cercò di attuare nella pratica era molto vicino ai metodi propugnati da William Godwin nell'Enquirer»⁷. Tutta l'opera saggistica e politica del Tolstoj maturo si colloca quindi nell'alveo dell'anarchismo, che lo scrittore russo sviluppò in seguito secondo una propria personale interpretazione di tipo più spirituale.
Tra le idee portanti dell'anarchismo cristiano di Tolstoj vi è sicuramente l'ideale della nonviolenza, che egli trasse dall'insegnamento evangelico. Tale concetto, su cui non scese mai a compromessi, destò a suo tempo l'ammirazione e l'interesse del Mahatma Gandhi, il quale dichiarò di essersi convertito alla filosofia della nonviolenza (ahiṃsā) proprio grazie alla lettura di Tolstoj⁸. Lo scrittore russo credeva che la nonviolenza fosse una caratteristica fondamentale dell'essere umano e che mettendo in pratica tale principio si sarebbero risolti buona parte dei problemi che affliggono l'umanità. È da Henry David Thoreau (1817-62), da Ralph Waldo Emerson (1803-82) e dai trascendentalisti americani, che qualche storico dell'anarchismo fa risalire il principio tolstojano di fondare i rapporti umani sulla persuasione pacifica⁹.
Anche per quanto riguarda il rifiuto di obbedire a istituzioni in antitesi con i dettami della propria coscienza e all'uso di questa disobbedienza come arma politica e sociale si potrebbero benissimo ritrovare delle similitudini fra Tolstoj e questi pensatori libertari. Per Thoreau la disobbedienza civile costituì infatti un elemento fondamentale del proprio rapportarsi con le istituzioni¹⁰, proprio come lo fu per Tolstoj. Con ogni tipo di istituzione. Altri, nel variegato mondo libertario “teistico”, hanno espresso posizioni diverse al riguardo. Ad esempio, la disobbedienza civile per Vernard Eller (1927 - 2007) significa fare deliberatamente azioni illegali solo contro un governo o un potere che consideriamo illegittimo¹¹. Lo scopo di ogni protesta per un cristiano sarebbe quella di spingere le persone a far conoscere loro la verità nella speranza di spronarle ad agire per il bene. Per Eller la cosa migliore sarebbe quella di protestare usando la conversazione, lettere, articoli, libri, film ecc. per far percepire alla gente il contenuto della propria convinzione e dare agli altri la possibilità di riconoscere quello per cui si sta protestando, ossia testimoniare a favore di una presa di posizione. Tuttavia, se le persone non vogliono cambiare il loro atteggiamento di fronte ad una problematica, lo si deve accettare. Non si può imporre agli altri la nostra convinzione di possedere la verit๲. Usare la disobbedienza civile o i metodi legali solo per forzare gli altri e ottenere l'attenzione pubblica sulla propria causa secondo Eller non è corretto. In fondo si tratta della solita competizione per il potere. Ci sono però anche per lo studioso americano delle azioni di disobbedienza alle autorità o a una legge ingiusta che vanno messe in atto per ubbidire a Dio.
Anche il filosofo e teologo tedesco Dietrich Bonhoeffer (1906-45), che Eller classifica quale pensatore alquanto vicino, teologicamente e politicamente, all'anarchismo, ha assunto una posizione abbastanza libertaria rispetto alla disobbedienza civile. Bonhoeffer in realtà non è mai stato un anarchico cristiano, ma è importante perché, secondo Eller, dimostrerebbe (come aveva già affermato Karl Barth) che l'anarchismo cristiano deriva dall'orientamento escatologico della Bibbia¹³. Per Bonhoeffer approvare le autorità mondane o lottare contro di loro significa sempre rimanere in schiavitù. L'unica libertà è quella di ignorarle e obbedire solo all'autorità di Dio. Alla fine della sua analisi però Bonhoeffer legittima chiaramente il potere della Chiesa e dello Stato. Egli sostiene che si debba disubbidire alle autorità illegittime e immorali, ma che si debba ubbidire totalmente a quelle che sembrano essere in accordo con Dio. In ciò la sua analisi diverge molto rispetto a quella di altri pensatori libertari come Jacques Ellul (1912-94) o dello stesso Tolstoj¹⁴.
Anche rispetto alla nonviolenza Tolstoj occupa un posto tutto suo e piuttosto radicale. Il teologo americano Eller si discosta al quanto da Tolstoj e si pone in una posizione più mediata. Per lui, solamente grazie al potere della resurrezione – e solamente grazie a questo potere – siamo in grado di rinunciare alla violenza e anche all'autodifesa. Questo perché la resurrezione ha fatto capire che Dio volendo può resuscitare qualsiasi essere se decide di farlo, per cui il cristiano non ha e né deve più aver paura. La vera nonviolenza è basata sulla fede e sulla resurrezione. Il cristiano deve accettare che la pace non è un qualcosa che è alla portata dell'essere umano, ma è una qualità che viene solo da Dio.
Per Eller senza la capacità della resurrezione l'uomo non è in grado di mettere in pratica la nonviolenza; prima deve sperimentare la resurrezione, e poi sarà in grado di applicare e vivere la nonviolenza. I pacifisti che si richiamano alla Bibbia ignorano, per Eller, questa premessa fondamentale¹⁵.
Per Tolstoj invece non ci sono appigli nelle Scritture che possano limitare un'interpretazione più che integrale della nonviolenza. È un puro dovere dell'uomo che si professa cristiano e basta. Il “non uccidere” biblico, anzi, per lui si estende sino a comprendere il mondo animale, del quale si fece intransigente difensore¹⁶.
Ma la nonviolenza per Tolstoj non significava limitarsi a non usare le armi o a non uccidere. Essa includeva anche di evitare di offendere il prossimo, di ingiuriarlo, di scandalizzarlo e persino di doversene difendere in caso di aggressione da parte sua. Insomma, ciò che Gesù aveva sommamente saputo fare. La visione di Tolstoj è dunque molto più radicale e cristiana di quella di Eller. Tolstoj non elaborò nessuna teoria o speculazione a giustificazione di ipotesi maggiormente “ragionevoli”, ma si attenne rigorosamente alla lettera del Vangelo, senza tuttavia ricavarne rigide norme applicative. Egli in ultima analisi affermò semplicemente che l'importante è divenire consapevoli che Dio è in noi e che si può manifestare secondo la sua volontà. Se qualche volta lo si sente dentro di sé è giusto agire secondo quella propria percezione o esperienza. In altre parole, se si sente che Dio è un'entità buona allora si prova a diventare un essere umano buono, ci si prodiga ad aiutare dove si può e quando si può, senza arroganza verso se stessi o pensando di dover raggiungere la perfezione. Inoltre, secondo Tolstoj la resurrezione altro non è che una farsa inventata dagli uomini. Secondo lo scrittore russo: «Il miracolo della resurrezione è in netto contrasto con l'insegnamento di Gesù; e appunto perciò era tanto difficile obbligare Gesù risorto a dire qualcosa che fosse degno di lui: perché l'idea stessa che egli potesse risorgere era in netto contrasto con tutto quanto il senso della sua dottrina. Bisogna non aver capito affatto la sua dottrina, per poter parlare della possibilità di una sua resurrezione nel corpo. Gesù aveva persino negato esplicitamente la resurrezione¹⁷, quando aveva spiegato come bisogna intendere la resurrezione di cui parlavano gli ebrei»¹⁸.
Secondo Tolstoj la resurrezione di Gesù fu la menzogna principale usata ai tempi degli apostoli e dei martiri dei primi secoli della storia cristiana, quale prova basilare per la dimostrazione agli increduli e ai dubbiosi della verità della dottrina di Gesù¹⁹.
La resurrezione, secondo l'autore di Guerra e pace, fu usata come riprova della natura divina della dottrina insegnata dal Cristo da parte delle nascenti Chiese cristiane, che ricorsero quindi sin dall'inizio all'inganno²⁰.
Ma per il nobile russo tutto il pensiero cristiano fu travisato sin dall'inizio. Tolstoj infatti così riassunse il problema della manifesta incoerenza tra la vita della stragrande maggioranza dei cristiani e il messaggio evangelico: «Tuttavia gli uomini, in generale, non percepiscono la dottrina di Cristo come un cammino verso la perfezione. La maggior parte della gente l'ha intesa come una dottrina redentrice, riscatto dal peccato per mezzo della grazia divina, trasmessa dalla chiesa per cattolici e ortodossi, acquistata per mezzo della fede per protestanti e calvinisti.²¹ Questa interpretazione ha fatto scomparire la sincerità e la serietà dell'impegno personale di fronte alla morale cristiana. I teologi delle varie chiese possono ben predicare a sazietà che questi mezzi di salvezza non impediscono affatto all'uomo l'impegno morale, ma anzi lo aiutano. Certe premesse portano con loro conseguenze inevitabili e nessuna argomentazione potrà impedire alla gente di trarle. L'uomo imbevuto di questa fede nella redenzione non cercherà più di assicurarsi la salvezza per mezzo dei suoi sforzi personali; troverà ben più comodo accettare il dogma insegnatogli e attendere dalla grazia divina il riscatto delle colpe commesse. È ciò che accade alla maggior parte dei cristiani»²².
Tolstoj venne scomunicato ufficialmente dalla Chiesa ortodossa nel 1901, una di quelle Chiese che secondo il celebre scrittore russo, stravolgendo il significato del messaggio evangelico non era diventata altro che espressione della «legittimazione del potere costituito».²³ Il provvedimento non venne mai revocato e ancora oggi trova numerosi sostenitori tanto in Russia quanto in Occidente. Tolstoj, dunque, sottolineò sempre l'importanza della coerenza e della necessità «di non tradire le
proprie idee con la propria vita, di non tradire la propria dignità umana sottomettendosi a un'istituzione»²⁴. Per Tolstoj: «nessuna forma di governo, né elettiva, né ereditaria, né per diretta unzione divina, è stata fino ad oggi in grado di salvarsi dalla corruzione e dall'abuso del potere per fini privati. Al contrario, è risaputo che proprio le cariche rovinano gli uomini, e il miglior privato cittadino diventa inevitabilmente tanto più corrotto quanto più alta è la carica che viene a ricoprire»²⁵.
Anzi, la partecipazione a qualsiasi titolo alle istituzioni statali da parte di uomini intelligenti e onesti ottiene come risultato solo quello di attribuire autorità morale a un organismo che di per sé non potrebbe mai averne. Senza quelle persone l'essenza brutale dello Stato sarebbe sotto gli occhi di tutti²⁶.
E in merito a quest'ultima convinzione Tolstoj fu esplicito: «Ogni governo, per poter essere un governo, deve essere composto dagli individui più insolenti, più brutali, più corrotti»²⁷.
E per ribadire tale concetto aggiunse: « A queste associazioni a delinquere chiamate governi viene interamente rimessa la violenza contro la proprietà, contro la vita, contro il naturale sviluppo spirituale e morale di ogni individuo»²⁸.
Dalla scomparsa di queste associazioni “criminali” sarebbe derivata secondo il nobile russo la scomparsa stessa o la diminuzione della violenza, base organizzativa su cui esse si fondano²⁹.
La fine di tutti i governi non avrebbe comunque significato anche l'estinguersi degli aspetti positivi della legge, dell'istruzione e della giustizia, che avrebbero continuato a esistere in una forma purificata dai mali del potere centralizzato³⁰. In ciò Tolstoj si avvicinava molto alle idee professate da un altro grande pensatore libertario inglese suo contemporaneo, William Morris (1834 - 1896), il quale sosteneva nelle sue opere che la scomparsa dello Stato, e quindi della proprietà privata, avrebbe semplicemente purificato la società, la quale si sarebbe elevata a una forma superiore senza aver più avuto la necessità dell'esistenza di un diritto civile o penale³¹.
Ovviamente, per il nonviolento Tolstoj il metodo da adottarsi per eliminare i governi sarebbe dovuto consistere in quel che oggi si potrebbe definire un boicottaggio totale dell'amministrazione pubblica , che avrebbe portato lentamente, ma inesorabilmente, alla sua estinzione indolore: «Per cambiare veramente qualcosa, ognuno dovrebbe cominciare col cambiare se stesso, invece di voler ammaestrare o forzare gli altri. Come? Rifiutandosi di prender parte a tutto ciò che tiene in piedi i governi e quindi le leggi e il dominio d'un uomo sull'altro. Rifiutandosi di pagare tasse dirette o indirette e rifiutando di riscuoterle sotto forma di stipendi o pensioni varie. Rifiutando la protezione offerta dallo stato. Possedendo soltanto ciò che nessun altro rivendica per s黳².
Insomma, per Tolstoj la realizzazione di una società veramente conforme al bene non passa attraverso una rivoluzione politica bensì, come per Godwin e Proudhon, attraverso un rinnovamento morale capace di minare la società esistente dall'interno delle sue basi. Coloro che vogliono intraprendere questo rivolgimento sociale dovono cominciare da loro stessi, operando scelte che li portino a cessare di cooperare con il sistema vigente, rifiutandosi di servire nell'esercito o nella polizia, di adire i tribunali, di pagare le tasse ecc.
Il suo pensiero non si scagliò solo contro le istituzioni, ma anche nei confronti di tutti i luoghi comuni sugli “idoli” della nascente società capitalistica: «Tutti i perfezionamenti esterni che possono sognare gli uomini religiosi o gli uomini di scienza si compiano pure; tutti gli uomini si convertano al cristianesimo e tutti i miglioramenti desiderati […] si avverino […]; se l'ipocrisia che regna oggidì sussiste, se gli uomini non professano la verità che conoscono, ma continuano a simulare la credenza in ciò a cui non credono, la stima per ciò che non stimano, la loro condizione non solo rimarrà la stessa, ma diverrà peggiore. Più gli uomini saranno al coperto dal bisogno, più aumenteranno i telegrafi, i telefoni, i libri, i giornali, le riviste; più cresceranno i mezzi per propagandare le menzogne e le ipocrisie contraddittorie, e più gli uomini saranno disuniti, per conoscenza infelici, come avviene presentemente»³³.
Così quando Lev Tolstoj nel 1894 scrisse Il regno di Dio è in voi, considerata la sua opera spirituale più importante, non fece altro che ricalcare alcune idee che già furono di diversi gruppi e interpreti della semplicità materiale della vita cristiana liberata dalle false illusioni della società materialista. Per Tolstoj la libertà e la fratellanza – e in generale le qualità morali dell'essere umano – erano ben più importanti di un progresso realizzato ma fine a se stesso³⁴.
[caption id="attachment_11600" align="aligncenter" width="1000"] lya Yefimovich Repin, Leo Tolstoj su seminativo - olio su tela, 1887.[/caption]
Ricordiamo che, in sintonia con la posizione tolstojana, secoli prima Francesco d'Assisi (1182 – 1226) aveva messo in guardia contro i pericoli della cultura e della scienza, che a suo parere facevano «inorgoglire e dimenticare lo spirito di carità e la pura semplicit໳⁵. Anche Gandhi fu molto influenzato da queste analisi distruttive che Tolstoj fece della civiltà occidentale.
Lo scrittore russo predicò inoltre il concetto del vivere del proprio lavoro che egli aveva mutuato dal contadino e filosofo russo Timofej Bondarev (1820-98),³⁶ e che sarà attuato in seguito dalle comunità tolstojane inglesi posteriori. I cristiani primitivi, i Diggers, il filosofo danese Søren Kierkegaard (1813-55) e molti altri libertari precedenti si erano parimenti espressi allo stesso modo. In maniera non dissimile da quanto sostenuto dai cristiani libertari dei secoli precedenti, anche Tolstoj interpretò il Vangelo come vessillo degli umili e dei poveri, sostenendo in vari saggi che i ricchi e gli orgogliosi non sarebbero potuti entrare nel Regno dei Cieli. Egli puntualizzò però la questione in maniera veramente acuta: «Ma gli umili e i mendicanti ci entreranno, nel Regno di Dio, solamente quando saranno umili e mendicanti non perché non sono riusciti a diventare famosi e ricchi, ma perché non avranno voluto commettere quei peccati che bisogna commettere per diventare importanti e ricchi»³⁷. Per usare le parole del Cristo, Tolstoj sostenne che l'uomo non può servire due padroni (Dio e Mammona), ma è necessario che scelga tra uno dei due³⁸.
Affinché l'umanità potesse vivere in pace e fraternamente tutti i beni (ciò che egli chiama il Regno di Dio sulla terra), e le istituzioni statali sarebbero dovute a suo parere essere abolite. Quando la legge, lo Stato e la proprietà sarebbero stati aboliti, la produzione cooperativa li avrebbe sostituiti, la distribuzione sarebbe avvenuta secondo il principio comunistico secondo cui ognuno riceve secondo i propri bisogni, ma senza nulla di superfluo⁴⁰.
Tolstoj si schierò, così come i primi cristiani e gli Anabattisti, contro il giuramento, rifacendosi alle parole di Gesù nel Vangelo che invitavano proprio ad evitarlo⁴¹.
Secondo Tolstoj, l'essere umano è totalmente nelle mani di Dio e non può sapere se potrà far fede a ciò che giura di fare. In questo divieto del giuramento appaiono evidenti le implicazioni anarchiche, dato che i militari, i funzionari pubblici, i magistrati, i giurati, ecc. prestano giuramento allo Stato. Se coloro che desiderano seguire gli insegnamenti di Gesù applicassero la sua parola, sostiene Tolstoj, è palese che la maggior parte degli Stati moderni non potrebbe più reggersi a meno di dichiararsi esplicitamente anticristiana⁴². Un corollario di questo insegnamento consiste nel non ricorrere mai ai tribunali per difendere i propri diritti, che deriverebbe secondo Tolstoj direttamente dal comandamento cristiano di non opporsi al male col male⁴³. Anche questa presa di posizione ha intrinseche caratteristiche anarchiche che furono e saranno proprie di numerosi movimenti libertari della storia.
Già in Guerra e pace il romanziere russo aveva espresso chiaramente le responsabilità personali che ognuno dovrebbe prendere rispetto alla problematica del male: «Noi siamo convinti che una guerra risulti dal concorso di milioni di volontà umane, fra le quali quella del condottiero o del diplomatico non ha maggior peso di quella dell'ultimo soldato. Infatti, se quel caporale qualsiasi non avesse voluto riprendere servizio, e se non l'avessero voluto dieci, cento, mille altri, il numero degli effettivi si sarebbe ben presto ridotto di troppo, e, di conseguenza, la guerra non si sarebbe fatta»⁴⁴.
Circa trent'anni dopo (nel 1896) riprese il concetto con parole che non lasciano adito a dubbi: «Prendete ch'io serva nell'esercito? Bene, potete ordinare finché vi pare, ma io non mi presenterò, perché considero l'assassinio di massa alla stessa stregua dell'assassino privato, e soprattutto mi ripugna l'idea di uccidere dietro ordine d'un comandante, che considero l'atto più vile che un uomo possa commettere»⁴⁵. E invitando a disertare gli eserciti nel 1898 scriveva: «Destatevi, fratelli, non ascoltate né quegli scellerati che, fin dalla vostra infanzia, vi infettano col diabolico spirito del patriottismo opposto al bene ed al vero, e soltanto necessario a questo scopo: di privarvi delle vostre sostanze, della vostra libertà e della vostra dignità umana; né quei vecchi ingannatori che predicano la guerra in nome di un Dio crudele e vendicativo inventato da loro e di un cristianesimo pervertito e falso; né tanto meno Ricordiamo che, in sintonia con la questi nuovi Sadducei che, nel nome della scienza e della civiltà, avendo come loro solo intento la continuazione del presente stato di cose, si radunano in assemblee, scrivono libri e fanno discorsi promettendo di organizzare una nuova e pacifica vita per gli uomini senza che questi facciano alcuno sforzo. Non credete loro! Credete soltanto alla vostra coscienza, che vi dice che non siete né bestie, né schiavi, ma uomini liberi, responsabili delle vostre azioni e perciò che non potete farvi omicida né di vostra volontà, né per volontà di comandanti, i quali vivono di tali omicidi. E basta solo che vi destiate perché comprendiate tutto l'errore e l'insania di ciò che avete fatto o state facendo e, compresola, smettiate quel male che voi stessi aborrite e che vi rovina»⁴⁶.
[caption id="attachment_11601" align="aligncenter" width="1000"] Leo Nikolaevich racconta la storia di un cetriolo di sua composizione ai nipoti Sonia e Ilyusha (particolare), 1909. Foto di V. G. Chertkov (Collezione del Museo statale di L. N. Tolstoy).[/caption]
Nel 1881, data della sua rinascita spirituale, Tolstoj rinunciò con atto notarile a tutti i diritti d'autore sulle opere che avrebbe scritto da allora in poi, convinto con ciò di rispettare l'assoluta gratuità del messaggio evangelico e di coloro che vi si attenevano. Da allora, in effetti, si dedicò con successo alla divulgazione instancabile di quella che egli definiva la “verità del Vangelo e la sua giustizia”, commisurando ad esse ogni istituzione umana e ogni comportamento sociale⁴⁷.
Per quanto riguarda invece il vivere in prima persona la verità evangelica alla lettera, fu un passo che mai gli riuscì, nonostante egli lo difendesse a parole quale unica via per arrivare a Dio. Tolstoj si arrovellò sul compiere questo salto per vari decenni. Tuttavia non riuscì mai a mettere in pratica l'esortazione di Cristo: «Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi»⁴⁸. Il nobile russo cercò di aggirare questo scoglio promuovendo riforme economiche che avrebbero condotto da sole alla redistribuzione delle ricchezze nella società, e spesso progettò nei suoi Diari una fuga in qualche eremo della Russia centrale o del Caucaso, ma senza mai realizzarla.
A proposito di questa violenta contraddizione interiore che consumò Tolstoj sino ai suoi ultimi giorni, Igor Sibaldi afferma: «Per trent'anni portò dentro di sé questo tumore psicologico del primo passo non compiuto, il costante rimorso di non aver dato lui stesso quell'esempio tanto nobile e tanto facile; e nondimeno non recedette mai, non cercò mai di individuare negli ingranaggi della dottrina del Vangelo una qualche molla sbagliata, con la quale giustificare la propria riluttanza alla limpida scelta che il Vangelo sembrava imporgli prima di ogni altra: sostenne anzi fino alla fine che quella scelta di povertà era non soltanto necessaria, ma anche e soprattutto facile»⁴⁹.
Nel Vangelo Tolstoj amò sempre quell'infinita irriducibilità e spietatezza della ragione che non si ferma davanti a niente pur di soddisfare la propria sete di conoscenza e di comprensione. Anche Dio è compreso in questa razionalità e infine umanizzato, dato che viene da Gesù chiamato Padre. Nella visione di Tolstoj non ci sono riferimenti nei Vangeli a un Dio Creatore. Se Dio è quindi semplicemente padre di ogni uomo, che comprende a sua volta di esserne il figlio, viene a mancare l'incommensurabile distanza che da sempre sta tra la divinità e l'essere umano. Un Dio fattosi uomo non poteva essere per Tolstoj, con il suo retaggio anarchico, che motivo di estrema esultanza⁵⁰.
Questo andava per lui di pari passo con la direttiva di Gesù di non dare a chicchessia la qualifica di “maestro”⁵¹, con la condanna della preghiera in pubblico⁵², con la proibizione dei voti, del giuramento e del giudizio che si poteva ricavare dal Discorso della Montagna, e infine con l'esempio della vita e della fine di Gesù, incomparabile con l'ἐκκλησία dei credenti suoi contemporanei e da essi assassinato.
Come sostiene Woodcock: «L'anarchismo di Tolstoj è l'aspetto esterno, espresso nel comportamento, del suo cristianesimo. L'assenza di vero conflitto fra questi due aspetti è dovuta al fatto che la sua è una religione senza misticismo, addirittura una religione senza fede, perché, con Winstanley, egli fonda le sue convinzioni sulla ragione e le sottomette alla prova della verità. […] È una religione umanizzata: il regno di Dio dobbiamo cercarlo non fuori di noi, ma in noi stessi. Perciò l'atteggiamento di Tolstoj rientra chiaramente nell'ambito del pensiero anarchico; la sua idea dell'immanenza del regno di Dio è affine all'idea proudhoniana di una giustizia immanente, e il suo concetto di una religione fondata sulla ragione lo pone in stretto rapporto con Godwin e Winstanley»⁵³.
La fiducia di Tolstoj nella ragione umana fu totale, da lui ritenuta l'unico strumento in grado di far conoscere Dio e la verità: «Per liberarsi dalle mistificazioni della fede in genere, l'uomo deve capire e ricordare che l'unico mezzo di cui egli è in possesso è la sua ragione è di conseguenza, ogni predicazione che affermi qualcosa contraria alla ragione è un inganno o un tentativo di eliminare l'unico strumento di conoscenza che Dio ha dato all'uomo. Per essere libero dagli inganni della fede, l'uomo deve capire e ricordare che lui non possiede nessun altro mezzo di conoscenza, tranne la sua ragione. Quelli che dicono di credere non alla ragione, ma a Mosè, a Cristo, a Budda, a Maometto, alla Chiesa, al Corano, alla Bibbia ingannano se stessi, perché qualunque sia la loro fede, essi credono non in colui che rivela loro la verità in cui credono, non in Budda, Cristo o la Bibbia, ma alla ragione che dice loro di credere a Mosè, a Cristo, alla Bibbia e di non credere a Budda o Maometto, e viceversa. La verità non può entrare nell'uomo che per il tramite della ragione, perciò l'uomo che pensa di conoscere la verità per mezzo della fede e non con la ragione inganna se stesso e usa male la sua ragione; non la usa per quello a cui è destinata, ma per risolvere la questione a chi di coloro che trasmettono una dottrina e affermano che essa è vera bisogna credere e a chi bisogna non credere. Mentre la ragione è destinata non a decidere a chi bisogna credere e a chi bisogna non credere – questo la ragione non può risolverlo – ma a verificare l'esattezza di quello che viene proposto. Questo la ragione può sempre farlo e a questo è destinata»⁵⁴.
L'insegnamento di Tolstoj diede origine a un movimento politico-religioso che porta il suo nome, e che dalla Russia si estese a numerosi paesi europei e all'America. I seguaci di Tolstoj pagarono con il carcere e l'esilio la propria propaganda anarco-cristiana, il loro rifiuto del servizio militare ecc. Gli ultimi di loro in Russia furono arrestati e deportati negli anni Trenta del Novecento.
Uno degli esempi più importanti dell'influenza di Tolstoj sui movimenti anarco-cristiani è stato il gruppo dei Catholic Workers guidato da Dorothy Day (1897 – 1980), che vide la luce negli Stati Uniti negli anni Sessanta⁵⁵.
Bibliografia:
  1. Lev N. Tolstoj, La Vera Vita (Dottrina cristiana), pubblicata la prima volta in inglese a Londra nel 1898 col titolo The Christian Teachering, ora in Lev N. Tolstoj, La Vera Vita – Il denaro – Come leggere il Vangelo, A.I.I.-Manca, Genova, 1991 pp. 1-134, cfr. pp. 3-8.
  2. Vladislav Lebedev e Gloria Gazzeri, “Nota introduttiva” a Lev N. Tolstoj, La Vera Vita – Il denaro – Come leggere il Vangelo, cit., pp. IV-V.
  3. Pietro Citati, Tolstoj, Adelphi, Milano, 1996, p. 291.
  4. George Woodcok, L'anarchia. Storia delle idee e dei movimenti libertari, Feltrinelli, Milano, 1966, cit. p. 196 Cfr. Pëtr Kropotkin, Il mutuo appoggio, Anarchismo, Catania, 1979.
  5. Valerio Pignatta, Storia delle eresie libertarie. Dai testi sacri al Novecento, Odoya, Bologna 2012.
  6. Ibidem, p. 182.
  7. Ibidem, p.183.
  8. Si veda Pier Cesare Bori e Gianni Sofri, Gandhi e Tolstoj. Un carteggio e dintorni, Il Mulino, Bologna 1985.
  9. Max Nettlau, Breve storia dell'anarchismo, L'Antistato, Cesena, 1964, cit., p. 260. Nettlau sostiene che la linea Emerson-Thoreau-Tolstoj-Gandhi fosse una linea di combattimento tanto valida e notevole quanto quella rivoluzionaria.
  10. Di Thoreau vedasi Henry D. Thoreau, Disobbedienza civile, SE, Milano, 1992 e il famoso Henry D. Thoreau, Walden ovvero la Vita nei boschi, Rizzoli, Milano, 1990.
  11. Vernard Eller, Christian Anarchy: Jesus' Primacy Over the Powers, Eerdmans Pub Co, Grand Rapids, Michigan, 1987 , cit. p. 210.
  12. Ibidem, pp. 210 – 216.
  13. Ibidem, p. 160.
  14. Sulle tendenze anarco-cristiane di Bonhoeffer si veda il sesto capitolo a lui dedicato nell'opera di Eller Christian anarchy. Cfr. Vernard Eller, Christian Anarchy: Jesus' Primacy Over the Powers, Eerdmans Pub Co, Grand Rapids, Michigan, 1987, cit., pp. 159-268.
  15. Vernard Eller, Christian Anarchy: Jesus' Primacy Over the Powers, Eerdmans Pub Co, Grand Rapids, Michigan, 1987, cit., pp. 176 – 182.
  16. Tolstoj considerò il diventare vegetariani il primo scalino dell'evoluzione spirituale umana. Cfr. Lev Tolstoj, Il primo gradino (1895), ora in Lev N. Tolstoj, Contro la caccia e il mangiar carne, Isonomia, Este, 1994, pp. 23-64. Vedi anche: Roberta De Giorgi, Le rôle des Tolstoïens dans la popularisation du végétarianisme en Russie - In: LA REVUE RUSSE. - ISSN 1161-0557. - 44 (2015), pp. 109-118 oltre che Lev N. Tolstoj, Perché sono vegetariano, Principi di una vita etica, Piano B Edizioni-Elementi, Prato, 2016.
  17. Luca 20, 37-38.
  18. l'opera di Tolstoj inedita in italiano dal titolo Concordanza e traduzioni dei quattro Evangeli [1881], le cui conclusioni sono riportate ora, a cura di Igor Sibaldi, in Lev N. Tolstoj, Il Vangelo spiegato ai giovani, Guanda, Milano, 1995, cit., pp. 119-132, cfr. 128.
  19. Lev N. Tolstoj, Concordanza e traduzioni dei quattro Evangeli [1881], stralci ora in Lev N. Tolstoj, Il Vangelo spiegato ai giovani, Guanda, Milano, 1995, cit., pp. 119-132, cfr. p. 128.
  20. cit
  21. Martin Lutero, La libertà del cristiano, in Roland H. Baiton, Lutero, Einaudi, Torino, 1960, pp. 197 – 198.
  22. Lev N. Tolstoj, Contro la caccia e il mangiar carne, Isonomia, Este, 1994, cit., p. 29.
  23. Idem, “Per una rivoluzione culturale”[1901], ora in Lev N. Tolstoj, Scritti eretici, Edizioni La Baronata, Lugano, 1986, cit., pp. 103-120, cfr. p. 118. Sulle diatribe fra T. e la Chiesa ortodossa, vedi Pavel Basinskij, Fuga dal paradiso. La vita di Lev Tolstoj, Castelvecchi, Roma, 2014.
  24. Così Marco Bucciarelli nella “Nota introduttiva” a Lev N. Tolstoj, Scritti eretici, Edizioni La Baronata, Lugano, 1986, cit, p. 13
  25. Lev N. Tolstoj, “La salvezza è in voi”[1894], uno stralcio del quale si può trovare ora in Lev N. Tolstoj, Scritti eretici, Edizioni La Baronata, Lugano, 1986, cit., pp. 21-24, cfr. 23.
  26. Idem, “A una signora liberale”[1896], ora in Lev N. Tolstoj, Scritti eretici, Edizioni La Baronata, Lugano, 1986, cit., pp. 49-57, cfr. p. 51.
  27. Idem, “Il concetto di nazione”[1900], ora in Lev N. Tolstoj, Scritti eretici, Edizioni La Baronata, Lugano, 1986, cit., pp. 77-78, cfr. p. 83
  28. Ibidem, p. 84.
  29. Idem, “La schiavitù moderna”[1900], uno stralcio del quale si trova ora in Lev N. Tolstoj, Scritti eretici, Edizioni La Baronata, Lugano, 1986, cit., pp. 101-102, cfr. p. 101.
  30. Idem, “Il concetto di nazione”[1900], ora in Lev N. Tolstoj, Scritti eretici, Edizioni La Baronata, Lugano, 1986, cit., pp. 77-78, cfr. p. 86.
  31. William Morris, Notizie da nessun luogo, Garzanti, Milano, 1984, pp. 90-91.
  32. Lev N. Tolstoj,“La schiavitù moderna”[1900], uno stralcio del quale si trova ora in Lev N. Tolstoj, Scritti eretici, Edizioni La Baronata, Lugano, 1986, cit., pp. 101-102, cfr. p. 102.
  33. Lev N. Tolstoj, Il regno di Dio è in voi, Publiprint-A.I.I.-Manca, Trento-Genova, 1988, cit., p. 358.
  34. George Woodcok, L'anarchia. Storia delle idee e dei movimenti libertari, Feltrinelli, Milano, 1966, cit. p. 203.
  35. Chiara Frugoni, Vita di un uomo: Francesco d'Assisi, Einaudi, Torino, 1985, cit., p. 38.
  36. Mark Bevir, “La nascita dell'anarchismo etico in Gran Bretagna 1885 – 1900”, in Rivista Storica dell'Anarchismo, anno 7, n.1, gennaio – giugno, 2000, p.66.
  37. Lev N. Tolstoj, Il Vangelo spiegato ai giovani, Guanda, Milano, 1995, cit., p. 141.
  38. Ibidem, p. 51.
  39. George Woodcok, L'anarchia. Storia delle idee e dei movimenti libertari, Feltrinelli, Milano, 1966, cit. p. 204.
  40. cit.
  41. Matteo 5, 33-37.
  42. Così Igor Sibaldi nel commentario a Lev N. Tolstoj, Il Vangelo spiegato ai giovani, Guanda, Milano, 1995, cit., p. 102.
  43. Lev N. Tolstoj, Il Vangelo spiegato ai giovani, Guanda, Milano, 1995, cit., p. 17.
  44. Idem, Guerra e pace, IV voll., Garzanti, Milano, 1989, vol. III, P. 109.
  45. Idem, “A una signora liberale”[1896], ora in Lev N. Tolstoj, Scritti eretici, Edizioni La Baronata, Lugano, 1986, cit., pp. 49-57, cfr. p. 55.
  46. Questo brano è un estratto da un articolo che Tolstoj scrisse nel 1898 per la rivista di Milano Vita Internazionale, un periodico pacifista, organo ufficiale per la Pace e l'Arbitrato Internazionale, diretta dal Premio Nobel per la Pace Ernesto Teodoro Moneta. La rivista con l'articolo di Tolstoj venne sequestrata immediatamente per apologia di reato (diserzione) e lo scritto tolstojano inneggiante al rifiuto militare non venne mai più pubblicato in lingua italiana sino ad anni recenti. Oggi possiamo ritrovare questo pezzo in Lev N. Tolstoj, Patriottismo e governo e altri scritti antimilitaristi, Senzapatria, Sondrio, 1987, pp. 37-46, cfr. per quanto riguarda la citazione p. 46.
  47. Così Igor Sibaldi nella “Postfazione” a Lev N. Tolstoj, Il Vangelo spiegato ai giovani, Guanda, Milano, 1995, cit., p. 141. Anche su questo vedi Pavel Basinskij, Fuga dal paradiso. La vita di Lev Tolstoj, Castelvecchi, Roma, 2014.
  48. Matteo 19, 21.
  49. Così Igor Sibaldi nella “Postfazione” a Lev N. Tolstoj, Il Vangelo spiegato ai giovani, Guanda, Milano, 1995, cit., p. 142. La fuga che infine compì per diventare povero nell'ottobre del 1910 lo portò direttamente alla morte. Stefan Zweig scrisse nel 1927 un dramma teatrale su questo evento dal titolo Fuga e morte di Tolstoj. In quest'opera possiamo percepire la tormentosa vicenda umana di Tolstoj, un uomo di lotta con la quotidianità familiare che lo soffoca e gli toglie il coraggio dell'adesione totale alle proprie idee e il coraggio delle azioni conseguenti. Cfr. Stefan Zweig, Fuga e morte di Tolstoj, Stampa Alternativa, Roma, 1992.
  50. Così Igor Sibaldi nella “Postfazione” a Lev N. Tolstoj, Il Vangelo spiegato ai giovani, Guanda, Milano, 1995, cit., p. 149.
  51. Matteo 23, 8-10.
  52. Matteo 6, 5-6.
  53. George Woodcok, L'anarchia. Storia delle idee e dei movimenti libertari, Feltrinelli, Milano, 1966, cit. p. 202.
  54. Lev N. Tolstoj, La Vera Vita (Dottrina cristiana)[1898], ora in Lev N. Tolstoj, La Vera Vita – Il denaro – Come leggere il Vangelo, A.I.I.-Manca, Genova, 1991, cit. pp. 1-134. cfr. pp. 70-71.
  55. Si veda William D. Miller, Dorothy Day e il Catholic Worker Movement, Jaca Book, Milano, 1991.
 
© L'altro - Das Andere - Riproduzione riservata

[vc_row][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1571864630850{padding-bottom: 15px !important;}"]La via pulchritudinis: dal fenomeno al fondamento[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di don Riccardo Patalano  del 24-10-2019[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1571864703019{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
La Via della bellezza, a partire dall’esperienza semplicissima dell’incontro con lo stupore, può aprire la strada della ricerca di Dio e disporre il cuore e la mente all’incontro col Cristo: Bellezza della Santità Incarnata offerta da Dio agli uomini per la loro Salvezza. Essa invita i nuovi Agostino del nostro tempo, cercatori insaziabili d’amore, di verità e del bello, ad elevarsi dalla bellezza sensibile a quella eterna per poi scoprire con fervore il Dio Santo Artefice di ogni meraviglia.

Non tutte le culture sono in ugual misura aperte al Trascendente e ad accogliere la rivelazione cristiana. Allo stesso modo, tutte le espressioni del bello – o di ciò che ritiene di esserlo – sono lungi dal favorire l’accoglienza del messaggio di Cristo e l’intuizione della sua divina bellezza. Le culture, come le espressioni artistiche e le manifestazioni estetiche, sono segnate dal peccato e possono attirare, perfino catturare l’attenzione fino a farla ripiegare su se stessa suscitando nuove forme di idolatria. Non siamo troppo spesso messi di fronte a fenomeni di vera decadenza in cui l’arte e la cultura si snaturano fino a ferire l’uomo nella sua dignità? Il bello non può essere ridotto ad un semplice piacere dei sensi: sarebbe rifiutarsi di avere piena coscienza della sua universalità, del suo valore supremo, altamente trascendente. La sua percezione richiede un’educazione, poiché la bellezza non è autentica se non nel suo rapporto con la verità – d’altronde, di che cosa sarebbe lo splendore, se non della verità? – ed essa è, al tempo stesso, «l’espressione visibile del bene, come il bene è la condizione metafisica della bellezza» – «il bello non è forse la strada più sicura per raggiungere il bene»? A chiederlo a se stesso fu Max Jacob (1876 - 1944). Ampiamente accessibile a tutti, la via della bellezza non è, tuttavia, priva di ambiguità e di deviazioni. Sempre dipendente dalla soggettività umana, essa può essere ridotta ad un estetismo effimero, lasciarsi strumentalizzare ed asservire dalle mode attraenti della società dei consumi. Da ciò nasce l’urgente missione di educare a discernere tra “uti” e “frui”, cioè tra un rapporto con le cose e le persone fondato unicamente sulla funzionalità – uti -, e la relazione credibile e affidabile – frui -, radicata coraggiosamente sulla bellezza della gratuità, memori di quanto scrive Agostino nel suo De catechizandis rudibus: Nulla est enim maior ad amorem invitatio quam praevenire amando – non c’è invito più grande all’amore che precedere amando.

Perciò, è necessario chiarire che cos’è e in che consiste la via pulchritudinis: di quale bellezza si tratta, che permetta di trasmettere la fede mediante la sua capacità di raggiungere il cuore delle persone, di esprimere il mistero di Dio e dell’uomo, di presentarsi come un autentico «ponte», spazio libero per camminare con gli uomini e le donne del nostro tempo che sanno o imparano ad apprezzare il bello, e aiutarli ad incontrare la bellezza del Vangelo di Cristo che la Chiesa deve, per sua missione, annunciare a tutti gli uomini di buona volontà.
Dunque in che modo la via pulchritudinis può essere una risposta della Chiesa alle sfide del nostro tempo? Il Papa Giovanni Paolo II, instancabile indagatore dei segni dei tempi, indica la via nella sua Enciclica Fides et ratio: «Mentre non mi stanco di richiamare l’urgenza di una nuova evangelizzazione, mi appello ai filosofi perché sappiano approfondire le dimensioni del vero, del buono e del bello, a cui la parola di Dio dà accesso. Ciò diventa tanto più urgente, se si considerano le sfide che il nuovo millennio sembra portare con sé: esse investono in modo particolare le regioni e le culture di antica tradizione cristiana. Anche questa attenzione deve considerarsi come un apporto fondamentale e originale sulla strada della nuova evangelizzazione».
Questo appello ai filosofi può sorprendere, ma la via pulchritudinis non è forse una via veritatis sulla quale l’uomo si impegna per scoprire la bonitas del Dio d’amore, fonte di ogni bellezza, di ogni verità e di ogni bontà? Il bello, come pure il vero o il bene, ci conduce a Dio, Verità prima, Bene supremo e Bellezza stessa. Ma il bello dice più del vero o del bene. Dire di un essere che è bello non significa solo riconoscergli una intelligibilità che lo rende amabile. È dire, nello stesso tempo, che specificando la nostra conoscenza, esso ci attira, anzi ci cattura attraverso un influsso capace di suscitare meraviglia. Se esso esprime un certo potere di attrazione, ancor più, forse, il bello esprime la realtà stessa nella perfezione della sua forma. Esso ne è l’epifania. Esso la manifesta esprimendo la sua intima chiarezza . Se il bene esprime il desiderabile, il bello esprime ancor più lo splendore e la luce di una perfezione che si manifesta .
La via pulchritudinis è una via pastorale che non si può ridurre ad un approccio filosofico. Ma lo sguardo del metafisico ci aiuta a capire perché la bellezza è una via regale per condurre a Dio. Nel suggerirci chi Egli è, essa suscita in noi il desiderio di goderne nella pace della contemplazione, non soltanto perché Lui solo può soddisfare le nostre intelligenze e i nostri cuori, ma anche perché Egli contiene in se stesso la perfezione dell’Essere, fonte armoniosa e inesauribile di chiarezza e di luce. Per giungervi, è importante saper compiere il passaggio «dal fenomeno al fondamento». È di nuovo l’appello del Papa filosofo: «Ovunque l’uomo scopre la presenza di un richiamo all’assoluto e al trascendente, lì gli si apre uno spiraglio verso la dimensione metafisica del reale: nella verità, nella bellezza, nei valori morali, nella persona altrui, nell’essere stesso, in Dio. Una grande sfida che ci aspetta al termine di questo millennio è quella di saper compiere il passaggio, tanto necessario quanto urgente, dal fenomeno al fondamento. Non è possibile fermarsi alla sola esperienza; anche quando questa esprime e rende manifesta l’interiorità dell’uomo e la sua spiritualità, è necessario che la riflessione speculativa raggiunga la sostanza spirituale e il fondamento che la sorregge».
[caption id="attachment_11589" align="aligncenter" width="1000"] Claudio Coello, Il trionfo di sant'Agostino (particolare), 1664, Madrid, Museo del Prado.[/caption]
Questo passaggio dal fenomeno al fondamento non avviene spontaneamente per chi non sia in grado di passare dal visibile all’invisibile perché una certa abitudine alla bruttezza, al cattivo gusto, alla volgarità, si vede promossa sia dalla pubblicità sia da alcuni «artisti folli» che fanno dell’immondo e del brutto un valore, al fine di suscitare scandalo. I fiori capziosi del male affascinano: «vieni dal cielo profondo o esci dall’abisso, o Bellezza?», si chiede Charles Pierre Baudelaire (1821-67). E Dmitrij Karamazov, nell'ultimo romanzo di Fëdor Michajlovič Dostoevskij (1821-81), confida a suo fratello Alëša: «la Bellezza è una cosa terribile. È la lotta tra Dio e Satana e il campo di battaglia è il mio cuore».
Se la bellezza è l’immagine di Dio creatore, essa è anche figlia di Adamo ed Eva e, sulla loro scia, segnata dal peccato. Il rischio dell’uomo è quello di lasciarsi intrappolare dalla bellezza presa in se stessa, la quale da icona si trasforma in idolo: mezzo che inghiottisce il fine, verità che imprigiona, trappola in cui cade un gran numero di persone, per mancanza di un’adeguata formazione della sensibilità e di una corretta educazione alla bellezza.
Percorrere la via pulchritudinis implica impegnarsi a educare i giovani alla bellezza, aiutarli sviluppare uno spirito critico di fronte all’offerta della cultura mediatica, e a plasmare la loro sensibilità e il loro carattere per elevarli e condurli ad una reale maturità. La «cultura kitsch» non è caratteristica di una certa paura di sentirsi spinto ad una profonda trasformazione? Dopo aver a lungo rifiutato questa «passione», Sant’Agostino ricorda la trasformazione profonda dell’anima grazie all’incontro con la bellezza di Dio: nelle Confessioni egli ripensa con tristezza e amarezza al tempo perduto e alle occasioni mancate e, in pagine indimenticabili, rivede il suo percorso tormentato alla ricerca della verità e di Dio. Ma, in una specie di illuminazione nell’evidenza, egli ritrova Dio e lo coglie come «la Verità in persona» (X, 24), fonte di gioia pura e di autentica felicità: « Tardi t’amai, bellezza così antica, così nuova, tardi t’amai! Ed ecco, tu eri dentro di me ed io fuori di me ti cercavo e mi gettavo deforme sulle belle forme della tua creazione… Tu hai chiamato e gridato, hai spezzato la mia sordità, hai brillato e balenato, hai dissipato la mia cecità, hai sparso la tua fragranza ed io respirai, ed ora anelo verso di te; ti ho gustata ed ora ho fame e sete, mi hai toccato, ed io arsi nel desiderio della tua pace».
Quest’esperienza dell’incontro con il Dio della Bellezza è un avvenimento vissuto nella totalità dell’essere e non solo nella sensibilità. Di qui la confessione del De musica (6, 13, 38): Num possumus amare nisi pulchra? – «Che altro si può amare se non le cose belle?». Via Pulchritudinis è un percorso di riscoperta del ruolo evangelizzatore della bellezza e dell’arte. Non una stradina laterale, gradevole nel paesaggio ma poco frequentata, dove far scivolare la teologia cristiana, bensì il tentativo di riportare la riflessione su Dio per l’uomo sulla via principale. Il bello come strumento di conoscenza e di salvezza, dunque, come possibilità per tutti di scorgere, attraverso la nuda materia, la delicata presenza del divino. Via Pulchritudinis è il recupero di un significato antico eppure sempre nuovo, dove la bellezza si manifesta come luogo visibile e sensibile dell’infinito mistero dell’Invisibile. Il cristianesimo nasce alla luce della bellezza e la bellezza è il momento di apertura verso la trascendenza. Cosa sarebbero i nostri musei senza i capolavori di arte sacra? I nostri spartiti senza le messe, i requiem, i magnificat? Le nostre biblioteche senza le opere di letteratura cristiana? Via Pulchritudinis è una presa di coscienza: perché se Dio si lascia vedere e contemplare, la prima chiamata in causa non può essere che l’arte.
Molti hanno almeno sentito nominare i trascendentali moderni, intesi se non nel senso husserliano del termine quantomeno in quello kantiano: per Immanuel Kant, «trascendentale» è «ogni conoscenza che si occupa non di oggetti, ma del nostro modo di conoscenza degli oggetti, in quanto questa deve essere possibile a priori» (Critica della ragion pura, Intr., sez. VII). Meno nota è l’esistenza di un significato previo di trascendentale, non solo più antico e frutto di una lunga elaborazione concettuale, ma carico di un più forte spessore metafisico, ancor meglio ontologico: i trascendentali elaborati in filosofia dal XII secolo in poi (ma non in modo monolitico), che trovano una magistrale espressione nel pensiero di Tommaso d’Aquino.
Perché parlarne qui – e perché del bello? A prima vista potrebbe sembrare tutt’altro che un tema interdisciplinare, meritevole tutt’al più di una curiosità erudita. In realtà, in questo momento i trascendentali godono di una rinnovata attenzione in filosofia a livello internazionale, ad esempio nell’attualissimo tomismo analitico ma non solo, (e fin qui la cosa potrebbe interessare solo i filosofi di professione). Per di più, come tutto ciò che si dice di ciò che è – e quindi in parole più povere, ma imprecise, di tutto ciò che esiste, quindi di ogni cosa, ogni vivente e ogni persona – riguardano in profondità il fine e lo svolgersi della ricerca scientifica nonché la ricerca stessa e il ricercatore che la compie... e con lui ogni essere umano. Se, quindi, anche il bello possa annoverarsi tra di essi è una questione che tocca in profondità anche chi si occupa di scienza. Anticipo, infatti, che la questione nel pensiero di Tommaso è ed è stata oggetto di discussione, con autorevoli interpreti schierati a favore dell’una o dell’altra interpretazione.
Cosa sono, allora, i trascendentali? Comparsi per la prima volta con Filippo il Cancelliere (Philippus Cancellarius Parisiensis, 1165-1236), sebbene il termine – oggi filosoficamente consolidato – sia stato coniato solo molti anni più tardi con la tarda scolastica, i trascendentali sono appunto le determinazioni proprie di ogni ente in quanto ente. Cosa vuol dire? Essi oltrepassano, trascendono appunto, le divisioni tra gli enti (ad esempio la differenza tra specie) perché si dicono di ogni “cosa” che è, proprio perché è. Usare il verbo essere è improprio, perché in questo contesto si pensa agli enti concreti e individuali e non ad un essere generico, ma si può dire comunque che così l’essere è “pieno”, essere significa “essere con certe caratteristiche”. In termini filosofici, i trascendentali si distinguono concettualmente dagli enti ma sono ad essi coestensivi. I più noti, ma non gli unici, sono l’ uno («unum»), il vero («verum»), il buono («bonum»): essi indicano che ogni cosa è una, vera e buona – tanto più essa è.
Dietro l’apparente semplicità, si tratta di uno dei problemi più ardui della storia della filosofia, se non altro solo perché i termini del problema non si lasciano definire, strettamente parlando: sono talmente primi che non c’è nulla, di più generico di loro, che si possa usare per spiegarli.
Anche il bello è altrettanto primo, quantomeno per l’Aquinate? Se l’ammissibilità del trascendentale bello è ancora oggi una questione aperta, tanto più lo era nel Medioevo, quando però la stragrande maggioranza degli autori non lo includeva nelle liste dei trascendentali. Negli scritti di San Tommaso non si trova un’esplicita presa di posizione in merito, ma il tema della bellezza, anche se non è affrontato in un trattato a sé stante, non solo è presente a margine (neanche così a margine, talvolta) di molti altri problemi, ma è per così dire vissuto dall’Aquinate, che non per niente fu autore di inni sacri ancora oggi molto amati nella liturgia della Chiesa cattolica, come il Pange lingua. Se non si possono forzare i suoi testi ad affermare qualcosa che non vi è scritto, tuttavia da un punto di vista logico, a partire da quanto vi si ritrova pagina dopo pagina, argomento dopo argomento, una conclusione si può comunque suggerire.
[caption id="attachment_11586" align="aligncenter" width="1000"] Guido Reni (1575-1642), bottega di probabile Giovanni Andrea Sirani (1610-70): San Michele Arcangelo (particolare), prima metà del XVII secolo - olio su tela, 152x112cm.[/caption]
Ora, nel pensiero di San Tommaso, la bellezza è caratterizzata da alcuni elementi costitutivi, che sono «integrità o perfezione» (integritas sive perfectio), che indica la compiutezza e l’assenza di deformità o difetti di qualunque genere; «dovuta proporzione o armonia» (debita proportio sive consonantia), che indica la proporzione e il rapporto opportuno per ogni cosa; e «splendore» (claritas), che, nel suo senso più metafisico, indica come la bellezza risplenda e manifesti se stessa. Essi, infatti, devono essere intesi nella totalità della metafisica tommasiana, che li lega intimamente all’essere e li attribuisce non solo e non tanto alle realtà fisiche, quanto piuttosto allo stesso intelletto umano e sommamente alle realtà spirituali: è in queste ultime che si dà la bellezza maggiore (così come esse sono ontologicamente più perfette). La proporzione dovuta, ad esempio, in ultima analisi sembra raccordare ogni ente a Dio.
Dunque, non c’è equivocità tra bellezza corporea e bellezza spirituale e Dio è la fonte di entrambe: il mondo tommasiano è alieno da quelle divisioni che si affermeranno anche drammaticamente in autori successivi ed è fondamentalmente in armonia (ma non si dimentichi con ciò il peccato originale e ciò che esso porta con sé). Nello stesso tempo, per San Tommaso «belle sono le cose che viste piacciono» (pulchra dicuntur quae visa placent, Summa Theologiae, I, q. 5, a. 4, ad 1). Il pulchrum intrattiene con il piacere (delectatio) un rapporto privilegiato, forse più del bene, ed un rapporto costitutivo: la bellezza appaga il desiderio (tecnicamente, l’Aquinate scrive l’«appetito») al solo guardarla, senza che sia necessario raggiungerla od appropriarsene in altro modo. Si noti che è il piacere intellettuale, che in questo caso è coinvolto in quanto deriva dalla bellezza intellettuale, ad avere una dignità maggiore: per San Tommaso, esso non è una semplice delectatio, che è propria anche degli animali, ma consiste più propriamente nel gaudium.
Quel che si può dire qui, dunque, è che se ogni ente è bello, allora la realtà per noi risplende e suscita il nostro piacere al solo guardarla (anche senza possederla). Tommaso d'Aquino insegna che la bellezza risplende nel mondo sensibile, ma non è confinata in esso e, anche se per noi è più difficile scorgerla, si trova sommamente al di là di esso – e anche negli argomenti razionali: possiamo legittimamente aggiungere nelle dimostrazioni matematiche e nelle teorie scientifiche.
Dunque se un ente è uno, identico con se stesso e tale da abbracciare le sue parti, lo scienziato può avere un oggetto di studio, perché la molteplicità esasperata risulta necessariamente incomprensibile, forse anche fluttuante e caleidoscopica: l’intelletto non avrebbe un appoggio dove “fare presa”, ma solo un vortice sfuggente. È perché la realtà è vera che può sperare di concludere con delle leggi che non siano solo costruzioni funzionali o utilitaristiche. Se la realtà si apre alla mia intelligenza, allora posso sperare con fondatezza di capirla, almeno in parte, in modo appropriato e concludente. È perché la realtà è buona, che so che è un bene per me conoscerla – e che il mio sforzo per farlo è giustificato. Infine, è perché la realtà è bella che ci attrae e ci dà gioia contemplarla – e anche per questo ci attrae fare ricerca, anche se non se ne scorge un’immediata utilità pratica. La bellezza, per il ricercatore, – aggiungo – può essere un segno del bene, ma soprattutto un segno del vero – e costituire così un aiuto prezioso per la ricerca, a condizione, sia chiaro, di non divenirne il fine ultimo; è il vero (e il bene) che fiorisce in tutto il suo splendore. Sembra che nel pensiero dell’Aquinate si possa trovare una risposta a quell’interrogativo che suscitano i non pochi scienziati di professione (tra i quali Dirac) che indicano la bellezza di una nuova teoria come un potente criterio euristico se non addirittura di vaglio veritativo – e giustificarne almeno in parte le affermazioni.
Il fatto che la bellezza di una teoria scientifica o, ancor meglio, della realtà che essa ci dischiude, può suscitare a ragione la gioia di chi la coglie e la fa sua. I trascendentali tommasiani ci indicano che nella realtà si dispiega una fondamentale armonia. In conclusione, giustificano perché vale la pena fare ricerca scientifica.. e perché farla ci piace.
Proporre la via pulchritudinis come cammino di evangelizzazione e di dialogo, vuol dire partire da un interrogativo urgente, talvolta latente, ma sempre presente nel cuore dell’uomo: «Che cos’è la bellezza?», per condurre « tutti gli uomini di buona volontà, nei quali, in modo invisibile agisce la grazia», verso « l’uomo perfetto» che è « immagine del Dio invisibile» (Col. 1,15) .
Questa domanda risale all’alba dei tempi, come se l’uomo ricercasse disperatamente, dopo la caduta originale, quel mondo di bellezza ormai fuori dalla sua portata. Essa attraversa la storia sotto molteplici forme e il gran numero di opere, frutto di bellezza in tutte le civiltà, non riesce ad estinguerne la sete.
Pilato pone a Cristo la questione della verità. Cristo non risponde, o meglio la sua risposta è il silenzio: quella verità non si dice, ma si congiunge senza parole alla parte più intima dell’essere. Gesù si era rivelato ai suoi discepoli: «Io sono la Via, la Verità e la Vita». Adesso tace. Poco dopo mostrerà la via, cammino di verità, che porta alla Croce, mistero di sapienza. Pilato non capisce, ma misteriosamente, egli stesso dà la risposta alla sua domanda: « Che cos’è la verità?» . Davanti al popolo esclama: «Ecco l’uomo», cioè Cristo, che è la verità.
[caption id="attachment_11588" align="aligncenter" width="1000"] Paolo de Maio, San Tommaso D'Aquino - Olio su tela, 80 x 70 cm.[/caption]
Se la bellezza è lo splendore della verità, allora il nostro interrogativo si ricollega a quello di Pilato e la risposta è identica: Gesù stesso è la Bellezza. Egli si manifesta dal Tabor alla Croce per illuminare il mistero dell’uomo, sfigurato dal peccato, ma purificato e ricreato dall’Amore redentore. Gesù non è una via tra le altre, una verità tra le altre, una bellezza tra le altre. Egli non propone una via tra le altre: Egli è la via viva che conduce alla verità viva che dà la vita. Bellezza suprema, splendore di Verità, Gesù è la fonte di ogni bellezza, perché, Verbo di Dio fatto carne, è la manifestazione del Padre: « Chi ha visto me ha visto il Padre» ( Gv 14, 9).
Il vertice, l’archetipo della bellezza si manifesta nel volto del Figlio dell’uomo crocifisso sulla Croce dei dolori, rivelazione dell’amore infinito di Dio che, nella sua misericordia per le proprie creature, ripristina la bellezza perduta con la colpa originale. «La bellezza salverà il mondo», perché tale bellezza è Cristo, la sola bellezza che sfida il male e trionfa sulla morte. Per amore, il «più bello dei figli dell’uomo» si è fatto «uomo dei dolori», «senza apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi» ( Is 53, 2), e in tal modo ha reso all’uomo, ad ogni uomo, pienamente la sua bellezza, la sua dignità e la sua vera grandezza. In Cristo, e solo in Lui, la nostra via Crucis si trasforma nella sua in via lucis e in via pulchritudinis.
La Chiesa ricerca continuamente questa bellezza nell’incontro con il suo Signore e, con Lui, nel dialogo d’amore degli uomini e delle donne del nostro tempo. Nel cuore delle culture, per rispondere alle loro angosce, alle loro gioie e alle loro speranze, essa non cessa di affermare con il Papa Benedetto XVI: «chi fa entrare Cristo, non perde nulla, nulla – assolutamente nulla di ciò che rende la vita libera, bella e grande. No! solo in quest’amicizia si spalancano le porte della vita. Solo in quest’amicizia si dischiudono realmente le grandi potenzialità della condizione umana. Solo in quest’amicizia noi sperimentiamo ciò che è bello e ciò che libera».
© L'altro - Das Andere - Riproduzione riservata

[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1571768342665{padding-bottom: 15px !important;}"]52°incontro DAS ANDERE[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]Dire Dio con arte. L'arte sacra tra tradizione e innovazione. G. Gasparro, M. Lasala, Don R. Patalano[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1571769237095{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Davanti ad un pubblico numeroso e con la presenza del sindaco Marco Fioravanti e del consigliere Emidio Premici, sabato 19 ottobre si è svolto il 52°incontro dell'associazione culturale onlus Das Andere presso la Bottega del Terzo Settore, che ha visto ospiti il Maestro Giovanni Gasparro e il critico d'arte Michele Lasala, insieme al Vice Cancelliere di Curia don Riccardo Patalano il quale ha portato i saluti del vescovo Mons.Giovanni D'Ercole.
L'evento introdotto dal presidente arch.Giuseppe Baiocchi ha trattato la tematica dell'arte sacra tra tradizione e innovazione. Dopo l'intervento di don Patalano in ambito teologico e filosofico inerente il modo di vedere un'arte che rappresenti il bello e il buono, il dott.Lasala ha trattato l'evoluzione del sacro dal medioevo fino, alla cosidetta "morte dell'arte", all'età moderna e a quella postmoderna.
Infine il Maestro Gasparro ha risposto alle domande inerenti il suo modo di vedere un'arte che sia figurativa, possegga alti riferimenti teologici e soprattutto mantenga vivo il fuoco della tradizione pittorica italiana in ambito barocco ma nel contempo dimostri di possedere quella contemporaneità che lo contraddistingue e che gli ha permesso di divenire in breve tempo uno dei pittori più importanti del panorama artistico italiano ed europeo.
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

[vc_row][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1570026725650{padding-bottom: 15px !important;}"]Georges Sorel. Vita e pensiero di un socialista eretico[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Gabriele Rèpaci  del 02-10-2019[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1571864372608{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
«È certo che occorre ristudiare Sorel, per cogliere al di sotto delle incrostazioni parassitarie deposte sul suo pensiero da ammiratori dilettanti e intellettuali, ciò che in esso è più essenziale e permanente». Così affermava Antonio Gramsci, nei suoi Quaderni del carcere riferendosi a Georges Eugene Sorel: di spirito irrequieto e frammentario, venato da un pessimismo pieno di tragiche significazioni; studioso ben preparato del pensiero socratico e del messaggio cristiano; teorico acuto del sindacalismo rivoluzionario e critico geniale del marxismo; attento alla lezione di Proudhon e di Renan, di Bergson e di James, Sorel si può annoverare, insieme con Nietzsche e Ortega y Gasset, tra gli esponenti della Lebensphilosophie (Filosofia della vita), ma nel contempo personifica la crisi politica e morale del suo tempo, e nel suo pensiero, che è impossibile compendiare in ordine sistematico, si riflettono i contrasti, le ambiguità e le antinomie che hanno alimentato le maggiori polemiche dell'ultimo Ottocento e dei primi decenni del Novecento.
[caption id="attachment_11545" align="aligncenter" width="1000"] Georges Eugene Sorel (Cherbourg, 2 novembre 1847 - Boulogne-sur-Seine, 29 agosto 1922) è un filosofo e sociologo francese, noto per la sua teoria del sindacalismo rivoluzionario. Può essere considerato come uno dei principali introduttori del marxismo in Francia.[/caption]
Georges Sorel nacque il 2 novembre 1847 a Cherbourg da una famiglia della media borghesia normanna. Dopo aver conseguito il diploma in lettere e scienze nella scuola locale si recò a Parigi dove frequentò un corso di matematica al collège Rollin e in seguito venne ammesso all'Ècole Polytechnique. La famiglia lo seguirà nella capitale in seguito alla fallimento del commercio del Padre. Scrive Pierre Andreu: «Il padre di Sorel fece pessimi affari. Alla nascita di Georges, teneva uno spaccio di acqua di Seltz e di acque gassose; verso il 1840 si ritrovavano nei giornali locali degli annunci pubblicitari per la vendita del sidro di Toques, suo paese natale. Più tardi lo troviamo locandiere e affittacamere, come lo qualifica un vecchio almanacco della città di Cherbourg. Che avesse fatto fallimento, come allora pretendono certi vecchi di Cherbourg, conoscenti di Sorel, non è sicuro […] La famiglia di Sorel ebbe dunque delle “disgrazie” […] e si può pensare che questa atmosfera di difficoltà finanziarie e di riprovazione morale che circondava allora – siamo in provincia, nel 1850, e lo stesso Sorel ha notato nelle sue Réflexions che fino al 1879 la bancarotta fraudolenta era punita con la morte – i commercianti sfortunati, isolando Sorel dalla sua classe, lo avesse preparato ad accettare più tardi le idee socialiste».
Giovane studente, alla vigilia della caduta del Secondo Impero si professava ardente legittimista: ammirava le tradizioni francesi e temeva che il regime del tempo – portando al potere «avventurieri materialisti e amorali» - se ne stesse completamente allontanando.
All'età di vent'anni iniziò la professione di ingegnere al Dipartimento governativo dei Ponti e delle Strade e nel luglio 1870 – qualche giorno prima della dichiarazione della guerra alla Prussia – venne trasferito in Corsica ove rimase per tutta la durata del conflitto.
Durante il periodo della Comune di Parigi (18 marzo 1871 – 28 maggio 1871), il giovane Sorel si trovava lontano dalla Francia, tuttavia le vicende di questi anni saranno sempre presenti all'interno delle sue valutazioni e dei suoi orientamenti. Nel 1875 incontrò la sua futura moglie Marie David, giovane operaia del Giura di umili origini e profondamente religiosa, che gli rimarrà accanto per tutta la vita. Nel 1892 preferì rinunciare all'incarico nell'amministrazione statale francese, rifiutando anche i diritti di pensione e si dedicò completamente agli studi di filosofia, di politica, di religione, di economia e di storia. Il 1893 è la data che segna l'incontro con il pensiero di Marx, contrassegnato da una prima fase di sostanziale ortodossia (1893 -1897) come testimoniano gli scritti riguardanti la concezione labriolana del materialismo storico e alcuni studi economici. In questa prima fase per Sorel non si trattava di assimilare il marxismo per farne un uso puramente politico, bensì di misurarne e valorizzarne tutte le potenzialità scientifiche rispetto ai recenti sviluppi delle scienze sociali.
Sotto la spinta dell'affare Dreyfus, Sorel si mostrò favorevole a una lotta comune del movimento operaio con le formazioni democratiche della sinistra borghese e partecipò attivamente alla battaglia ingaggiata dal blocco delle sinistre in difesa della Repubblica. A partire dal 1897, nell'ultimo articolo da lui pubblicato sulla rivista «Devenir social», Sorel cominciò ad avanzare dubbi sull'effettiva scientificità del paradigma marxiano e, qualche mese dopo, in una lettera indirizzata a Benedetto Croce espresse il suo favore nei confronti delle tesi esposte da Eduard Bernstein sulla rivista «Neue Zeit». Se il riformismo rimarrà solo una breve parentesi indissolubilmente legato al clima dell'affare Dreyfus, il revisionismo diverrà una costante del suo pensiero. Nei primi anni del Novecento entrò in contatto con il nascente gruppo del sindacalismo rivoluzionario capeggiato da Arturo Labriola ed Enrico Leone, e dietro invito di quest'ultimo, entrerà nel comitato di redazione della rivista romana «Il divenire sociale» che uscirà, quindicinalmente dal 1905 al 1910. Su queste pagine egli scriverà una serie di articoli (La lotta di classe e la violenza, La decadenza borghese e la violenza, I pregiudizi contro la violenza, Lo sciopero generale e La morale dei produttori) che che compendierà poi nella sua opera maggiore, Réflexion sur la violence (1908). Attorno al 1910 iniziò a guardare con simpatia Charles Maurras, l'Action française ed il nazionalismo integrale. Lo scoppio del primo conflitto mondiale lo vide da subito attestato su posizioni di aperta condanna della guerra. Nel tentativo di favorire la posizione antimilitarista italiana scrisse con insistenza a tutti i sindacalisti rivoluzionari con cui era ancora in contatto, così come a Croce, Pareto e a Missiroli, rivolgendo due vibranti appelli perfino dalle colonne dell'«Avanti». Tuttavia ormai i vecchi sindacalisti erano stati conquistati alla causa interventista, tanto da passare dalla redazione dell'«Avanti» al «Popolo d'Italia» di Benito Mussolini. Sorel nonostante l'abbandono da parte dei suoi vecchi compagni e immerso nel più nero pessimismo, avrà l'onestà di rivolgere un sincero elogio al Partito Socialista Italiano per la sua ferma opposizione alla guerra. Il trionfo inatteso del bolscevismo in Russia sorprenderà ed esalterà Sorel che non cesserà di ammirare e di difendere Lenin, non senza testimoniare al tempo stesso, una viva stima per Mussolini, di cui stava cominciando l'ascesa politica. Nel 1921 vendette la piccola villa di Boulogne in cui abitava dal 1893 per stabilirsi poco distante in un grande edificio dell'avenue Jean-Baptiste Clément. Negli ultimi mesi di vita, tormentato dai problemi fisici, non vide altri all'infuori del nipote Robert, del fidato amico e discepolo Édouard Berth e dei coniugi Delessalle. Morì in solitudine il 27 agosto 1922, venendo sepolto a Villeurbanne. Oggi riposa nel cimitero di Tenay; a pochi chilometri da Lione.
Non ha torto si è visto in Sorel il genio della contraddizione, per gli atteggiamenti assunti dal suo spirito vivacissimo e mai soddisfatto. Fu antimarxista, ma difese, sostenne ed esaltò la lotta di classe; fu antidemocratico, ma contemporaneamente teorizzò l'avvento vittorioso del proletariato; fu insieme antigiacobino e antiriformista, avversario irriducibile del cesarismo del Secondo Impero, della politica della Terza Repubblica e del radicalismo postdreyfusiano; avversò il positivismo e le correnti evoluzioniste per proclamare il valore della rivoluzione e la morale del sublime, ma accolse talune affermazioni positivistiche; fu antimilitarista, ma esaltò la funzione rinnovatrice della violenza; si dichiarò antipatriottico, ma ebbe vivissimo il senso della nazione e della tradizione francese; si definì antiterrorista, condannando l'esperienza del 1789, ma sottoscrisse i metodi leninisti della rivoluzione sovietica; fu anticlericale, ma lasciò pagine ricche di contenuto religioso; fu scettico e amaro, ma insieme animato da una fede incrollabile in una umanità migliore. Così ebbe dovunque contemporaneamente amici, detrattori e apologeti, a destra, al centro e a sinistra, senza riuscire mai a proporre un principio o un'idea valida per tutti.
Partito dalle affermazioni marxiste secondo cui la storia si identifica con la lotta di classe che produrrà un giorno la distruzione della società capitalistica, Sorel si distaccò da tutte le correnti socialiste, rivendicando contro ogni deviazione deterministica il valore assoluto e permanente delle forze morali, del sacrificio, della volontà e della libertà umana. La storia per Sorel rimane ancora un processo storico di divenire, di azione, di libertà, che si conquista e si realizza attraverso la lotta violenta; ma questa lotta e questa violenza, che costituiscono «la salute dell'umanità», hanno un valore e un fondamento essenzialmente morali, poiché le preoccupazioni d'ordine etico rimangono il presupposto e il principio informatore di tutte le pagine soreliane. «Ciò che vi è di veramente fondamentale in ogni divenire, è lo stato di tensione personale che si trova negli spiriti».
[caption id="attachment_11546" align="aligncenter" width="1000"] Sciopero operaio nel bacino minerario francese di Longwy: intonano l'internazionale e sventolano la bandiera rossa.[/caption]
Essere liberi significa così, non tanto sottrarsi allo sfruttamento economico, quanto superare la condizione attuale di tutta la società: ma per realizzare queste finalità occorre creare un «mito» in cui credere e per il quale agire (infatti mentre l'utopia è spesso intellettualistica, il mito ha sempre un fondamento religioso).
Nasce così il mito soreliano della violenza e della lotta di classe: il mito che non trasforma il mondo storico, ma lo rivoluziona; non lo cambia, ma lo distrugge; non lo adatta, ma lo ricrea. Attraverso questa lotta drammatica, che ha un fine costante di miglioramento morale, si realizza la vittoria rivoluzionaria del proletariato che è dovuta, non al prodursi del determinismo marxista, ma all'intervento spontaneo dell'azione e della volontà umana, ossia a quella forma di «volontarismo» che caratterizza il sostrato filosofico soreliano.
Correlativamente, la nuova forma politica, il sindacato operaio diventa il nucleo centrale, il fulcro vitale dell'ordinamento politico futuro, come lo furono in tempi diversi il convento, il feudo o la camera legislativa; mentre lo sciopero generale rappresenta, più che lo strumento, l'atto rivoluzionario supremo per realizzare la lotta di classe e per vivificare la combattività del proletariato fino al momento del grande urto, quando si annienteranno i gruppi monopolitistici del capitale, si distruggeranno le autorità politiche tradizionali e si affermeranno i nuovi quadri dirigenti e le nuove aristocrazie nate dalla lotta sindacale con «la missione di modificare il mondo, cambiandone la valutazione morale». E infatti nelle pagine di Sorel, torna insistente il motivo di una nuova morale, che «non è già un complesso di precetti, ma uno stato di entusiasmo che ci permette di vincere gli ostacoli posti dalle abitudini inveterate sulla via del progresso, i pregiudizi e il desiderio di immediati godimenti»: ossia una morale viva, dinamica, antiformale, libera da ogni schema pregiudiziale, aperta (per dirla con il linguaggio di Bergson), una morale che abbia «in sé l'idea del sublime». Così, questa costante preoccupazione etica che anima tutte le sue pagine giustifica come intorno al programma rivoluzionario di Sorel si siano raccolti pochi e non sempre vivaci animatori, mentre spiega come intorno alla sua personalità ricca e geniale si siano potuti riunire i plausi e i consensi degli esponenti più diversi della cultura e della politica, specie in terra italiana, dove Sorel ebbe ammiratori e difensori, da Benedetto Croce a Vilfredo Pareto, da Antonio Labriola ad Antonio Gramsci, oltre che Benito Mussolini.
Per approfondimenti:
_A. Monchietto, Da capo senza fine. Il marxismo anomalo di Georges Sorel, Petite Plaisance, Pistoia, 2015;
_M. Gervasoni, Georges Sorel, una biografia intellettuale. Socialismo e liberalismo nella Francia della belle époque, Milano, Unicopli, 1997;
_G. L. Goisis, Sorel e i soreliani, ed. Helvetia, 1984;
_G. Spadolini, Il pensiero politico di Georges Sorel ("La pensée politique de Georges Sorel"), coll. "Collana di filosofia e pedagogia ad uso delle scuole", nouvelle série, Le Monnier, Firenze 1972;
_S. Sand, L'illusion du politique. Georges Sorel et le débat 1900, Paris, La Découverte, 1984;
_P. Andreu, Notre maître, M. Sorel, Paris, Grasset, 1953;
_G. Sorel, Scritti politici, a cura di di R. Vivarelli, Utet,orino, 1963;
_B. Croce, Il pensiero di Georges Sorel, in Conversazioni critiche, I, Bari, Laterza, 1918;
_P. Lassere, Georges Sorel théoricien de l'impérialisme. Cahiers de la quinzaine, Paris, 1928;
_J. H. Meisel, The Genesis of Georges Sorel. An Account of His Formative Period Followed by a Study of His Influence, George Wahr Publ. Co., Ann Arbor, et Athena Publ., London 1951;
_J. Rennes, Georges Sorel et le syndicalisme révolutionnaire, Liberté, Paris 1936;
_I. L. Horowitz, Radicalism and the Revolt Against Reason. The Social Theories of Georges Sorel, with a Translation of His Essay on "The Decomposition of Marxism", Routledge & Kegan Paul, London, et Humanities Press, New York, 1961;
_E. Paresce, Giorgio Sorel e altri saggi, Gustavo Travi, Palermo, 1934;
_M. Freund, Georges Sorel. Der revolutionäre Konservatismus, Vittorio Klostermann, Frankfurt/M. 1932;
_V. Sartre, Georges Sorel. Elites syndicalistes et révolution prolétarienne, Spes, Paris 1937;
_R. Humphrey, Georges Sorel, Prophet Without Honor. A Study in Anti-intellectualism, coll. "Harvard Historical Studies", 59, Harvard University Press, Cambridge, et Oxford University Press, London 1951;
_C. Goretti, Il sentimento giuridico nell'opera di Georges Sorel, Il Solco, Città di Castello 1922.
 
© L'altro - Das Andere - Riproduzione riservata

[vc_row css=".vc_custom_1470767044080{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470767053433{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1569496911219{padding-bottom: 15px !important;}"]Il beato Pio IX. Storia dell'ultimo Papa RE. Crociani Baglioni, Nitoglia[/vc_column_text][vc_separator css=".vc_custom_1470767563136{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos6" css=".vc_custom_1569496548032{padding-top: 45px !important;}"]
a cura di Stefano Scalella
21 settembre 2019 –Piazza Roma n.7 - 63100 Ascoli Piceno
Introduce: Francesca Angelini
Modera: arch. Giuseppe Baiocchi
Interviene: conte e prof. Crociani Baglioni
Interviene: don Curzio Nitoglia
 
Riportiamo il video montato dell'evento di sabato 21 settembre presso la libreria Rinascita, il 51°incontro dell'associazione culturale onlus Das Andere. La lectio magistralis, introdotta da Francesca Angelini e moderata dal presidente Giuseppe Baiocchi, ha visto ospiti lo studioso don Curzio Nitoglia e il presidente dell'Istituto di studi storici beato Pio IX, il conte e prof. Fernando Crociani Baglioni.
La figura storica dell'ultimo Papa Re, Papa Pio IX, oggi beato da Santa Romana Chiesa, è certamente delle più avvincenti: riformatore, costruttore di opere ingegneristiche come le ferrovie, fine teologo e convinto oppositore all'Unità d'Italia. Punto focale della conferenza è stato quello di sdoganare i luoghi comuni intorno alla sua figura, come quella della fine dello Stato Pontificio, etichettato spesso come Stato arretrato, invaso - senza dichiarazione di guerra - dal neo-costituito Regno d'Italia nel 1860 e successivi 1867-70. Don Curzio Nitoglia invece si è concentrato sull'aspetto anti-liberale e anti-modernista del Sommo Pontefice, analizzando i suoi dogmi e il concilio Vaticano I. L'assocazione ringrazia il nuovo assessore alla cultura prof.Donatella Ferretti per la presenza e il nutrito pubblico che ha seguito l'incontro con forte interesse.

[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1569150157230{padding-bottom: 15px !important;}"]51°incontro DAS ANDERE[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]Il beato Pio IX. Storia dell'ultimo Papa Re. Don Cuzio Nitoglia, prof. Crociani Baglioni[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1569241450882{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]

Sabato 21 settembre alle ore 18:00 presso la libreria Rinascita (Piazza Roma n.7 - 63100 AP), si è svolto il 51°incontro dell'associazione culturale onlus Das Andere. L'evento, introdotto da Francesca Angelini e moderato dal presidente Giuseppe Baiocchi, ha visto ospiti lo studioso don Curzio Nitoglia e il presidente dell'Istituto di studi storici beato Pio IX, il conte e prof. Fernando Crociani Baglioni.

La figura storica dell'ultimo Papa Re, Papa Pio IX, oggi beato da Santa Romana Chiesa, è certamente delle più avvincenti: riformatore, costruttore di opere ingegneristiche come le ferrovie, fine teologo e convinto oppositore all'Unità d'Italia. Punto focale della conferenza è stato quello di sdoganare i luoghi comuni intorno alla sua figura, come quella della fine dello Stato Pontificio, etichettato spesso come Stato arretrato, invaso - senza dichiarazione di guerra - dal neo-costituito Regno d'Italia nel 1860 e successivi 1867-70. 
Di rilievo fu il suo non-éxpedit (1874), con il quale vietò ai cristiani di partecipare alla vita politica del Paese. Don Curzio Nitoglia invece si è concentrato sull'aspetto anti-liberale e anti-modernista del Sommo Pontefice, analizzando i suoi dogmi e il concilio Vaticano I. L'assocazione ringrazia il nuovo assessore alla cultura prof.Donatella Ferretti per la presenza e il nutrito pubblico che ha seguito l'incontro con forte interesse.
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1566051087040{padding-bottom: 15px !important;}"]Alle radici del decisionismo novecentesco[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Amedeo Maddaluno 19-08-2019[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1570026967475{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
È un libro potente quello di Orazio Maria Gnerre, studioso di storia del pensiero politico ormai da tempo impegnato nella ricerca di nuovi paradigmi di pensiero alternativi tanto al filone liberal-democratico occidentalista che a certo ribellismo della sinistra diritto-umanista e all’illiberalismo piccolo-borghese delle destre cosiddette “sovraniste”.
[caption id="attachment_11495" align="aligncenter" width="1000"] Orazio Maria Gnerre, Prima che il mondo fosse. Alle radici del decisionismo novecentesco - MIMESIS, Collana “Eterotropie”, 2018, Euro 10, pp.106.[/caption]
È un libro potente perché in così poche pagine riesce a restituire un affresco di ampio respiro del pensiero politico e metapolitico degli ultimi tre secoli. Scrivo degli ultimi tre secoli perché limitarsi a parlare di Novecento significherebbe non aver compreso a fondo la densità del saggio. De Maistre, Marx, Rousseau, Ortega Y Gasset, Juenger, Schmitt, Kelsen e tanti altri: i pensatori politici della modernità – intesa appunto come quella fase antropologica prima ancora che storia che inizia con il XVIII secolo della scienza, della tecnica e delle rivoluzioni politiche – sono tutti letti attraverso la filigrana del macrotema del “decisionismo”: del rapporto tra società di massa moderna e stato, diritto e polis in cui la società chiede alla polis cogente azione politica.
L’uomo moderno, l’uomo che ha abitato il pianeta negli ultimi duecentocinquanta anni, è antropologicamente – quindi spiritualmente e metapoliticamente – diverso dall’uomo che lo ha preceduto nel Rinascimento, nel Medio Evo, negli evi antichi. È per la prima volta – se escludiamo le poleis greche e la civitas romana repubblicana, fenomeni storico-politici comunque limitatissimi nel tempo e nello spazio – un “uomo società”, un uomo che è cosciente non solo del e nel rapporto con sé e con il Divino ma che è cosciente soprattutto del e nel rapporto con la complessità sociale e con i suoi prodotti – in primis la scienza, la tecnica, il capitalismo. Divenuto uomo-società, l’uomo moderno diviene quindi uomo-disagio, il disagio dell’incompletezza: è un uomo che non può e non sa più bastarsi e idealizzarsi come fece l’uomo greco o rinascimentale e che non può e non sa esaltarsi nel rapporto col Divino e il Sacro trascendente come l’uomo del Medio Evo e comunque come l’uomo della Tradizione.
Ecco il vero distillato dell’opera di Gnerre: l’uomo moderno presenta alla politica e alla polis, il proprio luogo sociale, il conto della propria insoddisfazione. Da qui l’eterno ritorno dei totalitarismi e degli autoritarismi letti – qui la vera rivoluzione copernicana insita nel pensiero dell’autore – non come errori della modernità, ma come suo sbocco naturale, come risultante dello smarrimento politico ma ancor più metapolitico e pre-politico dell’uomo moderno.
Cosa cerca quindi questo uomo della modernità, non trovandolo e volendolo quindi surrogato dal politico? Come accennavamo, il rapporto con il sé e il rapporto con il Divino: in una parola, il rapporto con il sacro, con il “Sacer” inteso come separato dalla polis, dalla civitas. L’uomo dell’agorà vive ogni giorno la nostalgia dello Spirito, la nostalgia dell’Acropoli a causa della “macchinalità” (indovinato termine che l’autore usa e ripete nel testo). Vi è nostalgia di sacro tanto nelle ideologie progressiste quanto in quelle reazionarie. La politica diviene, nel desiderio e nelle aspirazioni dell’uomo moderno, una teologia – che si scopre però sempre essere una teologia monca, secolarizzata, atea. Il sacro posticcio della modernità, il sacro surrogato, diviene quindi immancabilmente non un sacro religioso e presente, ma un sacro dell’altrove, un sacro teleologico, un sol dell’avvenire cui la politica dovrà condurci.
[caption id="attachment_11496" align="aligncenter" width="1000"] Konstantin Yuon, Nuovo Pianeta (particolare) - 1921.[/caption]
Non ha la pretesa di fornire soluzioni al disagio della modernità, Orazio Gnerre: compie già un immane lavoro intellettuale nel proporre la lettura davvero innovativa di cui parlavamo poc’anzi. Una cosa ci sentiamo di aggiungere e di chiederli, possibilmente da distillarsi in un prossimo studio: è possibile che allo smarrimento dell’uomo moderno sia succeduto l’ancor peggiore smarrimento dell’uomo postmoderno? Di un uomo che ha attraversato, sempre per causa della tecnica e del capitalismo (in una sua nuova fase), un’ulteriore rivoluzione antropologica che lo ha privato persino di quell’ultimo, imperfetto punto di riferimento e polo dialettico dell’umano – la società? Dall’uomo-società moderno all’uomo atomizzato e post-sociale post-moderno: questo è il personalissimo sospetto di chi scrive queste poche righe. Se l’uomo moderno ha perso il rapporto con il sacro, sia esso interiore o trascendente, per mantenere solo quello immanente con il sociale e il politico, all’individuo post-moderno non resta più nemmeno quella vita di relazioni, di società e di polis. Che resta quindi dell’Uomo, se lo priviamo persino dell’incontro, del confronto e dello scontro con i propri simili? L’uomo post-moderno ha persino smesso di invocare lo Stato ed il Politico. Non vorrei che la risposta sia che l’uomo post-moderno sia dunque anche post-umano, e che al disagio della modernità si sostituisca un disagio e un malessere ancora più profondo, aspro e angosciante: quello dell’assenza di ogni possibile punto di riferimento e appiglio, che produrrà mostri ancora peggiori di quelli della violenza e dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Mostri di cui non conosciamo ancora nemmeno il nome, mostri di un futuro che ci appare disperato, preda della solitudine, alienato di una nuova alienazione dopo quella dal sé, dal Divino e dal prodotto dell’opera. Una definitiva alienazione anche dal proprio simile, e quindi dall’ultimo contatto che l’uomo ha con l’umano: il volto del proprio prossimo.
 
Per approfondimenti:
_Orazio Maria Gnerre, Prima che il mondo fosse. Alle radici del decisionismo novecentesco - MIMESIS, 2018.
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1565961745720{padding-bottom: 15px !important;}"]Il Contrafactum dei trovatori e trovieri[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Carlotta Travaglini 17-08-2019[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1566052182016{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Uno dei procedimenti compositivi più frequenti della tradizione musicale medievale è il contrafactum: l’uso, tipico di trovatori e trovieri, di adattare ad un nuovo testo una melodia preesistente1, recuperata, in particolare, dal repertorio sacro. Il termine indica generalmente «l’imitazione strutturale complessiva» ed «ha, come è noto, immediate implicazioni musicali»2.
[caption id="attachment_11481" align="aligncenter" width="1000"] Gerard van Honthorst, Gruppo musicale su un balcone (particolare).[/caption]
Negli studi in materia abbiamo due diverse tendenze: una, più estensiva, che include nel perimetro del contrafactum la ripresa di elementi metrico-ritmici, pur in assenza di prove che obbligano ad imputare una ripresa melodica; l’altra, più limitativa, che considera contrafactum un componimento solo se la sua tradizione manoscritta dimostri, accanto al riutilizzo di schemi metrico-ritmici, la ripresa della melodia come modello. In base ad esse, possiamo considerare o meno la presenza di legami tra testo che imita e modello, o i casi in cui il primo continua a conservare parti della struttura o singoli elementi del secondo, pur acquisendo proprietà e significati artistici diversi. Oppure, siamo in grado di trovare un certo tipo di connessione tra i due, come per il caso di una parodia che il primo fa del secondo (imitando o riprendendo elementi del modello testuale, stravolgendoli o riscrivendoli in un altro contesto). In ogni caso, anche se il collegamento tra modello e imitazione non venisse trovato, questo non minerebbe il valore artistico che il contrafactum ha di per sé.
Nonostante l’uso vulgato del termine, la parola contrafactum non compare in alcun passo della trattatistica musicale dal IX al XVII secolo . La prima attestazione, nella variante contrafact, si trova nelle rubriche di un canzoniere della seconda metà del XV secolo, il Pfullingen Liederehandschrift, ed indica la parodia di un componimento sacro, senza alcun accenno alla musica. In quest’ambito, infatti, il termine “parodia” alluderebbe ad una tecnica compositiva, che consiste nel rielaborare materiali presi da un’altra opera per la creazione di una composizione autonoma, avente col modello un rapporto ben manifesto; nell’accezione comune, lo si fa risalire, invece, alla semplice imitazione, in chiave caricaturale, di un’opera o di un linguaggio letterario, musicale o artistico, oppure di un personaggio reale o fittizio.
Si può attribuire il trasferimento del termine in ambito musicologico a Friedrich Gennrich (1883 - 1967)3, che lo assume nei suoi primi lavori, ovvero «lo declina alla latina e gli conferisce un significato anche musicale, estraneo al suo impiego originario», senza far cenno alla comparsa del termine nel canzoniere tedesco .
Un’altra comparsa del termine è quella del tedesco Kontrafaktur, usato da Kurt Henning e dallo stesso Gennrich per indicare «diversi tipi di ripresa musicale, dall’intera intonazione a frasi e incisi melodici». Hans Spanke (1884 - 1944), nei suoi studi sul rapporto tra testo e musica nella lirica oitanica, lo utilizza limitatamente ai casi di imitazione metrica per cui la tradizione manoscritta attesti che la melodia sia stata utilizzata come modello, «anche in considerazione del fatto che lo stesso autore della Kontrafaktur abbia potuto scegliere una melodia diversa o che la sostituzione sia potuta avvenire nel corso della tradizione manoscritta».
Maria Sofia Lannutti, in un suo articolo, passando in rassegna i suoi diversi impieghi, conclude sottolineando che la mancanza di una definizione esaustiva del termine contrafactum, specie in ambito musicale, sia dovuta in primis alla sua «inconsistenza storica». Non è chiaro infatti se con esso si voglia definire una tecnica compositiva o il suo risultato, «un genere con possibili sottogeneri», o se sia legittimo adottare la nozione restrittiva di Spanke; non comprendiamo se sia il caso di servirsene in riferimento a componimenti con affinità metrica ma privi di melodia piuttosto che per altri con stessa melodia ma diversa struttura metrica; oppure, infine, una volta attestata l’intenzionalità imitativa dell’autore, quale sia il grado di affinità in base al quale sia giusto parlare di contrafactum.
John H. Marshall (1954), con il suo articolo Pour l’étude des “contrafacta” dans la poésie des troubadours , pone le basi metodologiche per i successivi studi sulle imitazioni metriche nei trovatori. Dalle sue conclusioni, si evince che per la maggior parte dei casi di ipotesi di un contrafactum le nostre deduzioni dipendono da argomenti testuali che permettono di attestarne una certezza soltanto relativa4, e per questo motivo siamo obbligati a cercare di stabilire criteri che escludano, per quanto possibile, una semplice coincidenza5. Consideriamo anche che spesso la melodia di un testo trobadorico non è tramandata da alcun manoscritto. L’uso dello schema metrico ed allo stesso tempo di quello rimico, o anche l’uso del solo schema metrico, indica che il prestito musicale è possibile. Affinché questa possibilità diventi una probabilità o una quasi certezza, altri fatti devono confermare il prestito. Quando un testo riprende lo schema rimico e quello metrico di un modello plausibile, allora il prestito musicale è possibile; quando ad uno schema metrico particolare si assommano, ad esempio, uno schema rimico inedito, o un’identità parziale o totale di timbri delle rime, o la riproduzione di specifiche caratteristiche metriche, il prestito musicale diventa certo. Un altro indizio per avvalorare un caso di contrafactum è, secondo Marshall, il fatto che il modello ipotetico ed il contrafactum ipotetico appartengano a generi poetici imparentati: è normale che da una canso o da un vers derivino un sirventes, una tenso o una cobla esparsa. Il contrario sarebbe un caso anomalo che dovrebbe essere provato con assoluta certezza. Abbastanza raro, nella poesia provenzale, è che una canzone cortese sia contrafactum di un’altra canso. In sostanza Marshall pone il componimento poetico e la sua intonazione sullo stesso piano, e ritiene ammissibile che l’affinità metrica, nel caso in cui la si possa considerare imitazione, sia «determinata dall’assunzione dell’intonazione del modello ed implichi pertanto in primo luogo una corrispondenza melodica».
Il contrafactum può presentarsi in varie gradazioni. La melodia del modello può essere utilizzata senza alcuna modifica, insieme, dunque, alla sua struttura metrica; oppure, essere ripresa in forma alterata, cosa che comporta variazioni nella struttura metrica, che viene abbreviata o estesa, e la ricreazione alterata di tutti gli altri elementi formali (es.: schema rimico, timbri delle rime); in questo caso si parla più di “adattamento” del modello che di “riproduzione”.
Un primo esempio potrebbe essere quello del trovatore Bertran de Born, che afferma, al v. 25 del suo sirventese D’un sirventes no·m cal far lonhor ganda (BdT, 80,13), di aver composto il testo sulla base del «so de n’Alamanda», ovvero della melodia (sonnet) della tenso fittizia tra Guiraut de Bornelh e Alamanda Si·us quer conselh, bel’ami Alamanda (BdT, 242,69). Il tema cortese di quest’ultima, dove il poeta chiede consigli all’amico su come comportarsi di fronte all’improvviso rifiuto della propria donna, è mutato in fervore politico: Bertran incita il re Enrico II a far valere i propri diritti contro il fratello Riccardo. Inoltre, nel suo repertorio poetico troviamo frequenti casi di composizioni su strutture metrico-ritmiche di altri autori. Tuttavia, soltanto del secondo testo possediamo la notazione musicale, tradita dal manoscritto R (Paris, Bibliothèque nationale de France, fr. 22543), e non abbiamo dunque possibilità di avvalorare la contraffattura.
[caption id="attachment_11484" align="aligncenter" width="1000"] Bertran de Born (1140 - 1215) era un barone del Limosino in Francia e uno dei maggiori trovatori occitani del XII secolo. Nell'Icona: Bertran come un cavaliere, da un chansonnier del 13 ° secolo.[/caption]
Come si nota, la ricerca nel campo dell’imitazione musicale ha sempre un impianto nettamente probabilistico e delle basi sostanzialmente ipotetiche, come già sottolineava Marshall. La tradizione trobadorica, infatti, a differenza di quella oitanica, o galego-portoghese o mediolatina, dove ciò accade con una certa frequenza, spesso manca dei riscontri più evidenti per avvalorare la tesi di una contraffattura, vale a dire la presenza di manoscritti che tramandino melodia e modello del derivato6.
Può accadere che melodie differenti siano associate a componimenti che presentano la stessa struttura metrica, oppure ad uno stesso componimento, lasciandoci supporre che le musiche trascritte fossero delle modalità d’esecuzione di un testo6.
Se quest’ultimo è sicuramente stato scritto e pensato da un autore, lo stesso non può dirsi della melodia. Sono pochi i casi in cui un poeta si dichiara autore del sonnet: ad esempio, Marcabruno, in Pax in nomine Domini! scrive che «Fetz Marcabru los motz e·l so» (fece Marcabruno parole e melodia). Inoltre, consideriamo che i manoscritti che recano la notazione musicale nella tradizione provenzale sono G (Milano, Biblioteca Ambrosiana, R 71 sup.), R (vd. supra), X (Paris, Bibliothèque nationale de France, fr. 20050) e W (Paris, Bibliothèque nationale de France, fr. 844), e che questi sono tutti imparentati fra di loro. Nel caso concreto in cui per uno stesso componimento sopravvivano più melodie, non notiamo divergenze tali da far pensare ad una pluralità di intonazioni: dunque se supponiamo legami fra i testi di tipo verbale, possiamo fare lo stesso per le melodie. Infatti, sono comunque attinte, in fase di trasmissione, dallo stesso bacino da cui sono ripresi i testi, che probabilmente coincide con i loro centri scrittori.
L’omogeneità del tessuto musicale è relativa, nel senso che esistono variazioni sostanziali, che riguardano cioè l’andamento della melodia, oltre a quelle meno rilevanti (disegni neumatici più complessi, liquescenze7); tuttavia, ogni “versione” può essere considerata una diversa esecuzione dello stesso testo, e proprio questa natura di modalità esecutiva la rende più predisposta a processi di riscrittura.
Dunque, riportando la conclusione di Lannutti, «l’imitazione è in primo luogo imitazione metrica, riguarda cioè il testo verbale e la sua struttura, mentre l’imitazione melodica è componente accessoria, e si può pensare che in molti casi essa sia frutto dell’iniziativa dei copisti, che probabilmente tendevano a sottolineare le affinità metriche con modalità esecutive comuni».
Prendiamo un esempio più complesso: la dipendenza di De l’estoile, mere au soleil, di un anonimo troviero, dalla canso Ara no vei luzir solelh di Bernart de Ventadorn, ravvisata da Marshall . La particolare scelta dell’autore oitanico testimonia la notorietà del modello adottato: la canso di Bernart de Ventadorn è tradita, infatti, da ben 18 manoscritti, uno dei quali è W, di tradizione francese, e ben 3 ne tramandano la melodia (G, R e W). Inoltre, come vedremo, il suo testo è un perfetto esempio di alterazione di una complicata forma metrica .
[caption id="attachment_11487" align="aligncenter" width="1000"] Bernart de Ventadorn, fu un importante trovatore dell'età classica della poesia trovata. Nacque nel 1135 e morì nel 1194. Ora pensato come "il maestro cantante", sviluppò i cançon in uno stile più formalizzato che consentiva curve improvvise. È ricordato per la sua padronanza e per la divulgazione dello stile trobar leu e per i suoi prolifici cançon, che hanno contribuito a definire il genere e stabilire la forma "classica" della poesia amorevole cortese , da imitare e riprodurre in tutto il resto secolo e mezzo di attività trovatore.[/caption]
Riporto di seguito la prima strofa di ciascun componimento: «De l’estoile, mere au soleil/Dont parmenable sont li rai,/Toute ma vie chanterai,/Et li raisons me conseille/Que de sa valour veraie/Aucune chose retraie,/Que nus ne la sert bonnement/Que gent guerredon n’en traie./Ara no vei luzir solelh/Tan me son escurzit li rai;/e ges per aisso no·m esmai/c’una clardatz me solelha/d’amor, qu’ins el cor me raya;/e, can autra gens s’esmaya,/eu melhur enans que sordei,/per que mos chans no sordeya».
Il primo consta di tre coblas unissonans, il secondo di dieci coblas unissonans più due tornadas finali, con una complessa disposizione di rims derivatius che intercollegano i vv. 1 e 4, 2 e 5, 3 e 6 e 7 ed 8.
Marshall afferma che l’anonimo autore abbia ripreso, in forma semplificata, la sapiente struttura metrica del modello: nella sua lingua troviamo riprodotto il timbro delle rime e le stesse parole di Bernart nei vv. 1-2, e una debole eco del sistema di rims derivatius nelle parole «pareil» e «s’apareille» ai v. 9 e 12, e «brai» e «braie» ai v. 19 e 22.
Per stabilire dei rimandi fra testi dobbiamo, dunque, soffermarci sull’imitazione metrica, l’unica a poter essere stata intenzionale: la rispondenza melodica ha seguito senz’altro percorsi più complessi.
 
Per approfondimenti:
1 Si veda in proposito Surian 2012, p. 87: «costume poetico che consiste nell'adattare ad un nuovo testo una melodia preesistente - orientamento laico della cultura medievale che si manifesta in un versante della poesia medievale», e p. 89: «il lato spirituale dell'amor cortese ebbe forse origine cristiana [...] in linea con lo scambio tra le sfere del sacro e del profano che caratterizza una buona parte della cultura medievale e che si realizza anche nella produzione trobadorica mediante il procedimento dei contrafacta» e ancora a p. 92, sui contrafacta dei trovieri: «si utilizza una melodia per testi diversi e viceversa». Lannutti 2008, p. 175.
2 Ibid., p. 176. «Invano lo si cercherà, infatti, nella banca dati della trattatistica musicale in latino dal IX al XVII secolo reperibile in internet (Thesaurus musicarum latinarum, www.chmtl.indiana.edu/tml/start.html)». 4 Ibid., p. 176.
3 Gennrich(a) 1918, p. 333 e Gennrich(b) 1918, p.4: «Es ist allgemein bekannt, daß es in der Liedliteratur sog. Contrafacta, d. h. Lieder gibt, die in bewußter Anlehnung an irgend ein berühmtes oder bekanntes Vorblides als Hauptfaktor fur das Enstehen eines Contrafaktums ansieht», in nota a testo a Lannutti 2008, p. 176.
4 Canettieri - Pulsoni 2003, pp. 115: «In assenza della notazione gli elementi accessori sono [...] di aiuto nell'accertamento della ripresa melodica, anche se ovviamente nessuno può escludere a priori che anche in presenza di quegli elementi la melodia sia del tutto differente da testo a testo».
5 Marshall 1980, p. 290: «La plupart du temps, nos conslusione dépendent d'arguments textuels qui ne permettent d'atteindre qu'à une certitude relative. On est obligé de chercher à établir des critéres qui excluent, dans la mesure du possible, la coïncidence».
6 Lannutti 2008, P. 179: «nella tradizione manoscritta melodie differenti sono associate non solo a componimenti che presentino la stessa struttura metrica […] ma anche ad uno stesso componimento, dimostrando che le intonazioni possono non risalire allo stesso autore del testo ma essere una pura e semplice modalità esecutiva, uno dei modi di eseguire il componimento poetico, e al limite un portato della tradizione manoscritta».

7 Le liquescenze sono quei neumi scritti nell’ultima nota di un gruppo posto sopra una sillaba la cui articolazione con la successiva si attua per mezzo di una consonante liquida, nasale o di una semiconsonante, e sono caratterizzati da una grafia più minuta o corsiva. Dato che la pronuncia prevede che il passaggio sonoro si attui con fluidità, questa figurazione prende, appunto, il nome di ‘liquescenza’.

 
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

[vc_row css=".vc_custom_1470767044080{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470767053433{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1565828069011{padding-bottom: 15px !important;}"]La scuola del Bauhaus. Raffaele Mennella[/vc_column_text][vc_separator css=".vc_custom_1470767563136{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos6" css=".vc_custom_1565827802942{padding-top: 45px !important;}"]
a cura di Stefano Scalella
22 Giugno 2019 – Corso Trento e Trieste n.18 - 63100 Ascoli Piceno
Introduce: Giacomo De Angelis
Modera: Giuseppe Baiocchi
Interviene: Raffaele Mennella
 
Sabato 22 giugno presso la Bottega del Terzo Settore è andato in scena il 50°evento dell'associazione onlus Das Andere. L'incontro ha visto la presenza dell'architetto e professore Raffaele Mennella, il quale ha magistralmente spiegato il periodo storico della Repubblica di Weimar analizzando cause ed effetti del primo esperimento politico liberale su suolo europeo. Il professore ha analizzato nel particolare la prima scuola di architettura del Bauhaus, spiegando limiti e innovazioni. Dopo la breve introduzione del consigliere Giacomo De Angelis il presidente arch.Giuseppe Baiocchi ha modererà l'evento, che ha mostrato, attraverso l'arte, le critiche dell'intellighenzia tedesca nei confronti della classe politica liberale. Grande affluenza di professionisti e studenti che hanno arricchito il dibattito finale.