[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1593187383880{padding-bottom: 15px !important;}"]La poesia contemporanea del Paolanti: la trilogia delle ombre[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Giuseppe Baiocchi del 29-06-2020[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1596031120949{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Umberto Piersanti, nel suo romanzo Cupo Tempo Gentile, descrive la realtà dei moti studenteschi. Il protagonista del romanzo, Andrea, percepisce invece, in questo turbine di sconvolgente rivolta verso la tradizione, il desiderio di preservare con la medesima un candido contatto, pur non nascondendo la fascinazione che egli stesso prova nel constatare l’entusiasmo dei giovani coinvolti nella protesta. Andrea viene accusato di essere un decadentista dai coetanei, impegnati e autoproclamati promotori dei dogmi del marxismo in una società che, a fatica e lentamente, comincia a prendere debito atto dell’affievolimento del dominio della borghesia alimentata dalla morale cattolica.
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Umberto Piersanti (nato il 26 febbraio 1941) è un poeta italiano , scrittore di prosa, professore di sociologia della letteratura all'Università di Urbino , in Italia, ed editore della rivista letteraria Pelagos .[/caption]
Il decadentismo di Andrea trova scaturigine dal suo amore per la poesia, per l’arte, per D’Annunzio e l’estetica.. Per tutte quelle cose che non trovavano posto nel nuovo paradigma ideologico che si impostava sul finire degli anni ’60 nel nostro Paese.
Invero, muovendo dal lontano ricordo degli eventi ammirevolmente sussunti nelle pagine del poeta Piersanti, pare opportuno interrogarsi se davvero la poesia si stia avviando verso la sua morte, avuto riguardo anche al fatto che, illo tempore, i maestri del Novecento si ritenevano, solo per essere artisti, figli di un’ideologia in decadenza. Tutto questo non sfuggì all’attenzione di Eugenio Montale in occasione del discorso tenuto a Stoccolma il 12 dicembre 1975, allorché si presentò per ritirare il premio Nobel per la letteratura conferitogli all’epoca: «Sono qui perché ho scritto poesie: sei volumi, oltre innumerevoli traduzioni e saggi critici. Hanno detto che è una produzione scarsa, forse supponendo che il poeta sia un produttore di mercanzie e le macchine devono essere impiegate al massimo. Per fortuna la poesia non è una merce. Essa è una entità di cui si sa assai poco, tanto che due filosofi così diversi l’uno dall’altro come Croce, storicista idealista, e Gilson, cattolico, sono d'accordo nel ritenere impossibile una storia della poesia».
Non resta che chiedersi oggi, nel momento in cui il materialismo ha raggiunto il suo culmine storico, coadiuvato dal consumo sfrenato, unico motore antropologico ed esistenziale del nuovo millennio globalizzato, in una società ormai infetta da un relativismo che considera “decadente”, se non intirizzita, la tradizione (nella sua eccezione più ampia), la morale e l’etica (in qualunque declinazione la si voglia cogliere), cosa resta della poesia? Recarsi nelle librerie e tentare di consultare una raccolta di componimenti lirici – che non siano del secolo scorso o dei precedenti si intende – è inverosimilmente difficile. Non impossibile, ma comunque molto difficile. Le ragioni possono essere plurime e non vale la pena neppure sindacare su di esse, dopotutto ogni momento storico ha le sue regole, una consuetudine improntata alla convinzione della doverosità di determinate scelte.
Qualcuno resiste. In un “pezzo di cielo ad affogare i cattivi ricordi”, avrebbero cantato i Modena City Ramblers. C’è chi ancora oggi si proclama poeta, rivendicando con orgoglio questa appartenenza identitaria, frapposta, forse anche miseramente, ad una società materica e pretensiva dell’immediatezza in ogni archetipo logico-deduttivo. Quest’ultima tendenza, infatti, si contrappone alle tante forme di espressione artistica moderna, dal cinema alla televisione, saturi di programmi e contenuti scarsamente introspettivi e volti al depauperamento iconico della percezione emotiva, ponendo quale contropartita il gergo per-verbale (nel linguaggio di Lacan), desideroso di intuire l’inconscio rimanendo solido nell’Io, ma entusiasta della presenza dell’es in un complesso sistema neurologico che dai tempi di Freud è un mistero secondo soltanto alla concepibilità della trascendenza.
Qui trova posto Daniele Paolanti: giurista e avvocato nella vita, poeta e letterato nell’esistenza. Lo stesso Paolanti non ha mancato di precisare, in occasione delle presentazioni dei suoi volumi, la sua incondizionata adesione al dualismo di Sartre circa il binomio essere ed esistere. Ecco perché essere avvocato non preclude esistere come poeta, conducendo quindi una ricerca, tutt’altro che sistemica, nell’alveo di quella tradizione ingiustamente tanto vituperata. La prima opera pubblicata di Daniele Paolanti fu Le Ombre del Silenzio, edito nel 2018 da Artemia Nova Editrice e già da allora portatore di un buon successo nelle vendite (malgrado la poesia fosse ancora ritenuta di scarso intrattenimento). Il poeta annunciò sin da allora che la prima raccolta di canti sarebbe stata l’alfiere di una trilogia di opere che in quel momento trovava inizio: la trilogia delle ombre. «Le ombre sono speculari alla luce, esistono in quanto esiste una fonte luminosa. Sono la proiezione geometrica di qualcosa di appariscente, tangibile e percettibile, eppure alla vista si rivelano amorfe, spesso anche sinistre. Le ombre sono il compendio delle imperfezioni, del lato speculare al “sereno”, l’opposto della quiete placida, gli strani furori di Vittorini o lo spirito guerriero che dorme in Foscolo», così Paolanti giustificava la scelta del tema delle Ombre per la trilogia inaugurata nel 2018, pochi mesi dopo la perdita del padre. L’autore si prodigava in una ricerca introspettiva e intimista, talvolta forse finanche troppo intimista, un’esposizione di sé che, quasi pudicamente, veniva celata con l’impiego di un linguaggio ermetico, spesso anche inaccessibile, ma saturo di immagini e richiami letterari, dai quali si percepiva l’intenzione di volersi esporre con cautela, un passo alla volta, quasi a centellinare il proprio “Io” nell’impossibile confronto con un insondabile “es”.
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Nell'immagine le tre raccolte di poesie del poeta Paolanti (in foto). Le due copertine sulla sinistra sono già state pubblicate in questi due anni, "Le ombre dei desideri" sulla destra, sarà in uscita a settembre.[/caption]
Nel giro di un anno negli scaffali delle librerie pervenne la seconda opera di Paolanti (nonché secondo capitolo della trilogia delle ombre), anch’esso sempre edito da Artemia Nova Editrice, nel 2019: Le Ombre del Dolore. Stavolta il poeta si spinge oltre la “quiete apparente”, il sonno inquieto dello spirito foscoliano e rivela la sua indole marcatamente pasoliniana. “Mi sono sempre definito un pasoliniano, sempre che questo mio pensiero non sia d’offesa alla sua memoria” riporta spesso Paolanti nelle sue osservazioni. Stavolta il fiume deborda dagli argini e sconfina in una pluralità di emozioni che giungono dirette, senza censure o filtri. Le immagini diventano più dure, il linguaggio si ammorbidisce ed i temi trattati (amore, morte, dolore passionale o per la perdita degli affetti) si lasciano titillare da una lettura spesso anche puerile e candida, scevra di una maturità che il poeta, pascolianamente, rinnega.
Ed ora la trilogia si conclude. A settembre Le Ombre si disperderanno con la pubblicazione del capitolo conclusivo, che Paolanti ha scelto di nominare “Le Ombre dei Desideri” e che uscirà nelle librerie sempre edito da Artemia Nova Editrice. Dai canti annunciati e resi disponibili in anteprima per la recensione si palesa un libro completamente diverso: l’esordio è tradizionale, quasi dantesco, con un lungo canto di derivazione biblica che l’autore prega venga mantenuto ancora segreto. Poi è tutta un’altra storia: il linguaggio si è ammorbidito, anche se taluni canti (soprattutto l’ultimo) tocchino temi estremamente duri, con immagini anche molto crude (spesso riprese dalle tragedie greche di Euripide), eppure si è scelto un titolo diverso rispetto a quello che i lettori si aspettavano: in tantissimi credevano, forse anche indotti in tal senso dallo stesso Paolanti, che il capitolo conclusivo della trilogia sarebbe stato intitolato “Le Ombre della Morte”. Eppure no. Paolanti sceglie Lacan, il desiderio, l’esteriorizzazione di quanto interiorizzato e commistionato al proprio “io”. Per non parlare poi della scelta, quasi maniacale, di proporre sempre l’immagine dei fiori, da cui scaturiscono una serie consistente di componimenti: “i fiori sono la metafora perfetta dell’esistenza umana: fragile e meravigliosa”, si giustifica Paolanti. In copertina, rilevata in esclusiva in questa sede per la prima volta, è riportato il dipinto di Caravaggio “La Conversione di San Paolo”, circa la quale l’autore non commenta altro se non “forse cambierò anche io dopo questa opera”. Dopotutto Paolanti ha già annunciato pubblicamente di essere al lavoro su una nuova trilogia, complementare a quella appena conclusa, che stavolta avrà ad oggetto proprio la parte speculare delle ombre: la luce.
Per ora l’autore si propone così, come un poeta pasoliniano aggrappato ad una tradizione che resiste ancora al relativismo della modernità. Singolare, in argomento, la sua ultima dichiarazione sui social circa il proprio stile: «Da poeta contemporaneo non ho quasi mai provato invidia verso scrittori, solo mesta e profonda riconoscenza, gratitudine o qualcosa di simile. Eppure sono invidioso di qualcuno. No. Non è il corsaro friulano (Pasolini, ndr), che verosimilmente eleggerei a mia guida se dovessi compiere un viaggio ultraterreno di matrice dantesca. Ho sempre invidiato Leonardo Sciascia. Vero è che non sono un romanziere, sono pochi i contributi che ho lasciato in prosa ed io stesso mi considero uno scrittore di versi. Ma a Sciascia invidio davvero tutto. L'eccellenza di Sciascia è l'essenza nella scrittura.. La penna non va fatta scorrere, va educata, costretta a contenersi all'indispensabile, alla ricerca di quelle pochissime paroline che la cultura siciliana ci insegna possano bastare per raccontare un'infinità di cose».
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Sciascia e Paolo Borsellino (25 gennaio 1988).[/caption]
Attendiamo quindi la pubblicazione di questa nuova opera, con la speranza di conoscere di più circa le intenzioni dell’autore, anche per il futuro.
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