[vc_row css_animation="" row_type="row" use_row_as_full_screen_section="no" type="full_width" angled_section="no" text_align="left" background_image_as_pattern="without_pattern" css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_separator type="normal" color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]

di Giuseppe Baiocchi del 05-04-2020

[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1701634721742{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
La storia delle guerre di Vandea (1793-95-99 - 1815) nell’arte ufficiale del XIX secolo è strettamente legata a quella dei diversi regimi politici che si sono susseguiti. Gli eventi hanno lasciato un segno profondo e duraturo nella regione. Non esiste alcun potere politico che non abbia tentato di difendere la causa dell’una o dell’altra delle forze coinvolte. Poco dopo la fine della guerra, assistiamo a una vera “eroizzazione” della Repubblica.
[caption id="attachment_11896" align="aligncenter" width="1000"] Charles-Melchior Descourtis (1753 - 1820), Il giovane Darruder. Il tamburino Darruder vendica suo padre ucciso dai vandeani, nella battaglia di Fougères, nel 1793. [/caption]
Attraverso le immagini, la giovane Repubblica cerca di mettere in evidenza gli eroi popolari che si sono distinti durante le guerre della Vandea: i Blues. Come gli scultori, ai pittori viene chiesto di fissare nell’eternità le caratteristiche di tali personaggi. Il coraggio è il pretesto per tutte le produzioni nazionali siano esse incisioni, poesie, canzoni. Ci sono figuranti umili, riuniti, ognuno più coraggioso dell’altro, il che servì alla propaganda rivoluzionaria, come il giovane Darruder di Charles-Melchior Descourtis (1753 - 1820), oppure il granatiere di Bressuire, l’eroina di Milhier di Jean-Baptiste Lesueur (1749 - 1826), o il fabbro della Vandea che curiosamente, non hanno lasciato tracce nella storia della Vandea militare.
Sotto l’aspetto pittorico i dipinti dei generali vandeani e più in generale l’arte che ha raffigurato gli scontri delle guerre di Vandea hanno ricevuto quasi interamente l’influsso della pittura romantica. Difatti in Germania, a Jena, nel 1796, i fratelli Wilhelm August (1767-1845) e Karl Wilhelm Friedrich von Schlegel (1772-1829), Johann Christian Friedrich Hölderlin (1770-1843) e Georg Friedrich Philipp Freiherr von Hardenberg (Novalis 1772-1801) diedero vita a un cenacolo intellettuale dal quale ebbero origine le idee di un nuovo movimento artistico-letterario, il Romanticismo che modificò radicalmente il modo di considerare l’uomo, la natura, l’arte, la religione, la politica. In primo luogo per i romantici la natura – al pari dell’anima – si fondava su un principio di ordine spirituale ed era un’entità organica, vivente e in divenire, non riconducibile a schemi oggettivi o meccanici e non conoscibile per via razionale.
Secondo i romantici gli antichi vivevano in una comunione immediata con la natura, irrimediabilmente persa nella modernità, che aveva prodotto una frattura insanabile, fonte di infelicità, tra l’uomo e il suo ambiente naturale e spirituale. A tale comunione ormai perduta l’uomo moderno continuava ad aspirare spinto dalla nostalgia, pur essendo consapevole della sua irraggiungibilità. La vita umana veniva caratterizzata così da una tensione infinita verso ciò che stava al di là della realtà concreta. I romantici tedeschi coniarono il termine “Sehnsucht” – letteralmente desiderio di desiderare – per indicare l’insaziabile inquietudine che portava l’uomo a tendere verso una realtà ulteriore, pur sapendo che essa, nella sua più intima essenza, era impossibile da attingere, poiché i processi di meccanizzazione, poi accellerati dalla rivoluzione industriale, furono la causa della frattura insanabile tra l’uomo e la natura prodotta dalla modernità.
La potenza della téchne, della scienza – ovvero tutte quelle modalità di dominio sull’ente –, che con la filosofia moderna e contemporanea avrebbero fatto dell’uomo il fondamento del reale, hanno sostanzialmente svuotato di contenuto il Dio della tradizione, il Dio cristiano.
L’uomo moderno e contemporaneo – che fonda i suoi cardini intorno al concetto di metafisica, derivante dall’idealismo tedesco –, ha sostituito il divino, con il credo di poter essere proprio “lui” il fondamento ultimo del reale, in quanto soggettività assoluta: individualismo. Non a caso Friedrich Wilhelm Nietzsche scrisse che: “Dio è morto”, annunciandolo nelle piazze. Tuttavia il grande filosofo tedesco, era consapevole che non si trattasse di una chiacchiera da pazzo, di un folle. Di contro, la presa di coscienza drammatica di un avvenimento che ha completamente ribaltato la comprensione di tutta la nostra epoca.
Con la prima Restaurazione del 1815, la situazione si modifica in modo significativo: in effetti, in un disegno permanente di riconciliazione e pacificazione nazionale, Luigi XVIII deve soddisfare sia coloro che lo accusano di voler dimenticare i sacrifici fatti dai suoi seguaci per il suo ritorno sul trono di Francia, sia i liberali che augurano una nuova Francia. Il re, sempre tiepido per non scomodare tutti, ordinò nel 1816 di ritrarre postumi i generali vandeani, da collocare nella sala delle guardie del castello di Saint-Cloud. I primi dipinti prodotti furono presentati all’Esposizione parigina del 1817. Le famiglie coinvolte e sopravvissute alle plurime guerre vandeane furono chiamate da Luigi XVIII per recepire le risposte che il re riceveva dopo la richiesta emessa ai pittori ufficiali.
Le opere presentarono fin da subito alcune contraddizioni: alcune delle famiglie non riconobbero i loro generali che avevano cresciuto, altri hanno stigmatizzato le posizioni scelte. Ad ogni buon conto le famiglie che fornirono ai pittori elementi di autenticità furono generalmente soddisfatte.
Anne-Louis Girodet de Roussy-Trioson (1767 - 1824) è uno dei primi pittori francesi ad aderire al progetto del Regno. In questo ritratto a figura intera, si mostra il generalissimo dell’Esercito Cattolico e Reale l’umile Jacques Cathelineau (1759 - 1793) rappresentato in piedi, di fronte, con la testa rivolta verso sinistra. Esposto al Salon tra il 1831 e il 1869, questo olio su tela del 1825 è alto 2,20x1,50m.
[caption id="attachment_11897" align="aligncenter" width="1000"] Anne-Louis Girodet de Roussy-Trioson, Jacques Cathelineau, olio su tela del 1825 è alto 2,20x1,50m. [/caption]
Le saint de l’Anjou, così come venne ribattezzato, non è nel mezzo di una battaglia, ma è intento a dare ordini vicino ad una vegetazione dal gusto romantico. Afferra in mano una sciabola su cui è inciso il suo nome e un giglio. Porta il rosario reliquiario conservato tutt’oggi al Museo della Dobrée a Nantes. Sullo sfondo, dietro gli alberi, sono rappresentati due elementi simbolici: una croce e una bandiera bianca bianca con fleur-de-lis: Dio e il Re, sono in realtà un unicum. Questo ritratto è stato dipinto su richiesta della Maison du Roi e già nel 1817, Luigi XVIII l’aveva ordinato per il suo castello a Saint-Cloud. Successivamente, il Re accettò l’esecuzione di repliche di questo capolavoro destinato alle famiglie. Completato nel 1825, dopo la morte di Luigi XVIII, ha inciso sul retro il marchio del Re Carlo X e dei Musei reali.
Secondo generale eseguito da un pittore dalla non minore bravura è quello dello storicista Léon Cogniet (1794 - 1880), famoso per aver insegnato ad una generazione artistica di fenomeni. Anche lui non sfugge al fascino di dipingere un generale vandeano. Ne sarà un esempio “il principe di Talmont Antoine-Philippe de La Trémoille”, (1765 - 1794) olio su tela del 1825, conservato al Museo di storia dell’arte di Cholet.
[caption id="attachment_11898" align="aligncenter" width="1000"] Léon Cogniet “il principe di Talmont Antoine-Philippe de La Trémoille”, olio su tela del 1825. [/caption]
L’energico e simpatico personaggio, di rilievo nelle guerre vandeane, è letteralmente in posa. Stride leggermente con lo sfondo cupo di un bastimento repubblicano ligneo che sta per essere assaltato e preso. Sempre sulla destra dello sfondo, si intravedono contadini realisti che impugnano il vessillo bianco e oro del Re di Francia Luigi XVI. Talmont rappresenta l’eroe classico, in prima fila, che senza paura incoraggia, alzando il cilindro, i suoi uomini. L’impatto cromatico è di una perfezione sconvolgente se osservato da vicino, così come dettagliatissimi sono i particolari del quadro.
La monarchia zoppa di Louis-Philippe I d’Orléans (1773 - 1850) adottò un nuovo atteggiamento nei confronti della memoria delle guerre di Vandea. Dal 1830 al 1848, il regime mise tutta la sua energia nel combattere ciò che poteva ricordare la guerra civile e di conseguenza rievocare rancori mai sopiti. Tutte le forme di espressione artistica sono influenzate da questa volontà ostile, che si impegna contemporaneamente in una politica di riabilitazione repubblicana.
Molti architetti e scultori sono certamente preoccupati, poiché la monarchia di luglio interrompe i lavori di costruzione della cappella neogotica di Mont-des-Alouettes (1825 - 1968) su progetto dell’architetto diocesano Maurice Ferré e demolisce la statua di Charrette del 1826 davanti alla La cappella di Notre-Dame della pietà presso Legé e interrompe il progetto di costruzione del monumento di Fortuné Parenteau (1814 - 1882) a Quatre-Chemins-de-l’Oie.
Durante la costituzione delle Gallerie storiche di Versailles, i ritratti dei leader vandeani vengono catalogati per essere respinti. L’assenza di alcune memorie militari è quindi giustificata: «Se ci sono alcuni che sono sorpresi di non trovare i dipinti, la motivazione è data dal pensiero che ha presieduto questo lavoro, che non ha voluto perpetuare il triste ricordo della nostra discordia civile» .
Fu così che il dipinto di Thomas Degeorge (1786 - 1854) evocante "La morte di Bonchamps" commissionato nel 1828, fu rifiutato dalla giuria del Salon nel 1837. Lo Stato si impegnerà a proporre un compromesso acquistando l’opera per donarlo alla città di Clermont-Ferrand. Tale opera sarà particolarmente singolare nello stile, poiché possiede anche molti elementi dello stile artistico neoclassicista: innanzi tutto la posa, poiché Bonchamps è adagiato morente come nelle antiche tragedie greche e spirando con la sua celebre frase «Ho servito il mio Dio, il mio re, la mia patria. Ho saputo perdonare», lasciava le sue ultime volontà, tra cui il perdono di circa 5.000 repubblicani catturati il giorno prima nella battaglia di Cholet (1793) al suo attendente Charles Marie di Beaumont conte d’Autichamp (1770 - 1859). Oltre ai due protagonisti principali in pose greco-antiche – da osservare con attenzione anche il panneggio delle vesti e dei teli –, un prete sta per concedergli l’estrema unzione e un contadino vandeano invoca il miracolo, ma per i martiri Dio ha sempre altre vie. Infine la luce è magnificamente inserita per dare risalto al gruppo principale del dipinto ad olio.
[caption id="attachment_11899" align="aligncenter" width="1000"] A sinistra possiamo osservare due particolari del dipinto di Thomas Degeorge, "La morte di Bonchamps", olio su tela del 1828. A destra una foto del sepolcro del generale nella chiesa di Saint-Florent-le-vieil, capolavoro dello scultore David d’Angers. [/caption]
Ancora più neoclassica è l’opera marmorea per la tomba del generalissimo, eretta nella chiesa di Saint-Florent-le-vieil, capolavoro dello scultore David d’Angers (1788 - 1856), e sicuramente il più bel monumento elevato alla memoria di un generale vandeano. Qui in questo angolo di pace, sopra le insegne borboniche e della famiglia, tutto si rifà squisitamente alla scultura classica della Roma antica, grazie all’estremo pathos che la scultura trasmette.
Le morti eroiche o il ricordo dei generali sono i motivi che attirano di più l’adrenalina degli artisti: è il caso del celebre Julien Le Blant (1851 - 1936). Pittore storicista del periodo, è considerato uno dei massimi artisti del genere vandeano: molte le scene della chouannerie e delle guerre della Vandea. Nel 1874 partecipò al Salon di Parigi e fu più volte premiato. Una delle sue opere più celebri è il cupo quadro “Esecuzione del generale Charette a Place de Viarmes a Nantes, marzo 1796” un olio su tela, del 1883 alto 1,60 m. e largo 2,80 m. Il 29 marzo del 1796, fu eseguita un’altra esecuzione celebre che stroncò la controrivoluzione: a Nantes in Place des Agriculteurs, che in seguito divenne Place Viarme, il generale vandeano François Athanase de Charette de la Contrie (1763 - 1796), è posto in primo piano di spalle. Il dipinto anche se scuro, attira l’attenzione proprio sul generale in veste bianca con dettagli rossi. Il portamento è fiero, nobile, sereno.
[caption id="attachment_11900" align="aligncenter" width="1000"] Julien Le Blant,“Esecuzione del generale Charette a Place de Viarmes a Nantes, marzo 1796”, un olio su tela, del 1883, alto 1,60 m. e largo 2,80 m. [/caption]
Ferito alcuni giorni prima durante un combattimento a Guyonnière, la sua testa è fasciata da uno dei famosi fazzoletti di Cholet: davanti a lui un compagno si dispera; il soldato che gli è davanti quasi si vergogna, abbassando lo sguardo. Determinato davanti al plotone di esecuzione in arrivo in terzo piano, senza macchia, affermerà prima del trapasso indicando il cuore: “Regolate bene la mira, è qui che dovete colpire un uomo coraggioso” – il romaticismo, insieme allo storicismo regnano in questo dipinto. Un sacerdote “giurato” è retrocesso in fondo alla piazza, accanto ai soldati: il militare rifiuta i sacramenti da quello che considerava un eretico. La pennellata sulle pietre lucenti per lastricati, che occupa la maggior parte dell’opera, contribuisce alla gravità della scena. Questa tela fu esposta al Salon di Parigi nel 1883.
Qualche anno prima (1878) Le Blant presentò al Salon l’opera “Morte del generale d’Elbee” del 1878. Fucilato il 4 gennaio 1794, Maurice Joseph Louis Gigost d’Elbée (1752 – 1794) verrà giustiziato nella sua poltrona, accanto ad altre vittime, dopo che le truppe del generale Turreau situate a destra, lo trascinarono, ferito, a ridosso del castello di Noirmoutier che domina la costa occidentale dell’antica contea di Poitou.
[caption id="attachment_11901" align="aligncenter" width="1000"] Julien Le Blant, “Morte del generale d’Elbee” olio su tela del 1878. A destra la poltrona dell'esecuzione del generale con ancora i fori di proiettile del 1794. Si trova anch'essa presso il museo di Noirmoutier. [/caption]
Tecnica pittorica legata allo storicismo, questo olio su tela 140x206cm oggi si trova al museo Noirmoutier. La scena è cruda: il generale franco-tedesco è già morto, trapassato con la testa leggermente inclinata sul corpo floscio. Sullo sfondo, con un grande realismo e minuzia di dettagli, si intravede il mare e le truppe repubblicane che si allontanano.
Nella seconda metà del XIX secolo, il ricordo delle guerre di Vandea è ancora molto presente. Ma sempre più, i criteri religiosi prevalgono sui motivi politici. L’era fu particolarmente propizia per il movimento cattolico. Con l’esaltazione dei martiri e l’inizio del processo di beatificazione, il culto delle reliquie contribuisce in gran parte a guidare il ricordo della difesa della fede e i quattro territori della Vandea militare si prestano al loro ricordo grazie alle numerose chiese.
Dal 1850 al 1913, le 90 opere d’arte che evocano le guerre di Vandea furono inviate nei saloni parigini. Ciò rappresenta una media annuale che varia tra quattro e nove dipinti. Per alcuni artisti, la guerra del 1793 non fu solo un tema occasionale, ma divenne una specialità a sé stante. Il soggetto si inserisce in un campo particolarmente apprezzato che rappresenta quindi il vertice dell’arte pittorica: la pittura dello storicismo, nella quale avviene lo sforzo massimale dell’artista per il realismo e il dettaglio dei particolari. Inizialmente è quello delle scene di battaglie, il pretesto per riproporre al grande pubblico le uniformi e le vesti della fine del Settecento.
Sarà di impatto visivo sicuramente il dipinto “Generale Lescure, ferito, attraversala Loira a Saint-Florent” di Jules Girardet (1856 - 1938); un olio su tela del 1882. Questo straordinario dipinto si trova nella Williamson Aryt Gallery di Birkenhead. La scena è epica: dopo la sconfitta del 19 settembre 1793 di Cholet, Louis Marie de Salgues, marchese di Lescure (1766 - 1793) fu ferito gravemente da un proiettile alla testa a Tiffauges.
[caption id="attachment_11902" align="aligncenter" width="1000"] Jules Girardet, Generale Lescure, ferito, attraversala Loira a Saint-Florent”, un olio su tela del 1882. [/caption]
Nel ripiegamento ciò che resta del suo esercito attraverso il tratto denominato dal nome del quadro. Grande realismo e tensione emotiva in tutto il dipinto, gli sguardi sui volti di ogni individuo sono molto espressivi, le nuvole possiedono un grado di realismo parossistico, aleggia una rassegnazione mista a paura: il paesaggio, ben eseguito, rende a questa opera una grande profondità prospettica.
Come in passato, la pittura storica rimane un mezzo di propaganda al servizio dei regimi politici. Lo stato è un mecenate che incoraggia la produzione artistica per la Repubblica. Questo desiderio è particolarmente evidente dopo la nomina di Edmond Turquet (1836 - 1914) alla carica di Sottosegretario di Stato per le Belle Arti per quasi quattro anni, tra il 1879 e il 1887.
Alcuni artisti sono sensibili a non irritare la committenza statale e cercano sempre di dipingere un il soggetto rappresentandolo in una luce favorevole alla causa governativa. Ad esempio, “La battaglia di Le Mans” di Jean Sorieul (1825 - 1871) del 1852 raffigura la profonda umanità di un giovane generale repubblicano. Al contrario, altri artisti lavorano per difendere la causa monarchica, sia per affermare la propria libertà artistica, sia per rispondere a commissioni private di legittimisti.
Tuttavia, i pittori evocano le guerre di Vandea senza indulgere in alcun atto di attivismo politico. Le critiche mosse ai Saloni parigini evidenziano la popolarità di questi temi, ma anche i loro limiti.
La pittura del genere nel XIX secolo inserirà della confusione, creando una nuova immagine: la figura del vandeano-chouan bretone. Non è raro infatti osservare nelle scene dei dipinti, dei personaggi della guerra di Vandea presi in prestito direttamente dal repertorio iconografico di Bretagna, Finistère o Morbihan, vestiti con pantaloni a sbuffo stretti alle ginocchia, gilet ricamati e grandi cappelli. I paesaggi stessi a volte sembrano più ispirati alla brughiera bretone che alla Vandea. Inoltre, la letteratura popolare ha anche contribuito a diffondere questa immagine della “Vandea-Chouan”, che combina due diverse realtà storiche.
Parallelamente alle scene di battaglia, i pittori ufficiali evocano molto spesso il tema della difesa della fede, in particolare attraverso la rappresentazione di messe celebrate in segreto: appaiono i famosi preti “refrattari”, ovvero i religiosi che non giurarono sulla Costituzione civile del clero (1790), l’eresia che divise la Chiesa francese durante l’epoca rivoluzionaria.
Durante la Terza Repubblica i soggetti assumono tutta l’acuità del tormentato. Essendo la religione oggetto di incessanti minacce, non è inutile invocare le reminiscenze di un passato ancora chiuso nei ricordi e mettere sotto gli occhi di ognuno le qualità dei suoi antenati cristiani, tramite l’arte.
Chiudiamo questa esperienza riavvolgendo il nastro, con un dipinto di Paul-Émile Boutigny (1853 - 1929) “Henri de La Rochejaquelein combatte a Cholet (1793)” del 1899 conservato al Museo di storia dell’arte di Cholet. In questo tardo quadro del genere, lo storicismo domina la scena di una delle battaglie più significative dell’inizio del conflitto. C’è frenesia, l’olio dei colori sulla tela rende la scena accesa. Il giovane La Rochejaquelein, forse l’eroe più amato per la sua gioventù e coraggio, crea entusiasmo allo spettatore. Posto semi-girato in primo piano con una giacca verdastra e fascia blancs attira l’attenzione per le poche persone che ha intorno.
[caption id="attachment_11903" align="aligncenter" width="1000"] Paul-Émile Boutigny “Henri de La Rochejaquelein combatte a Cholet (1793)”, olio su tela del 1899. [/caption]
La scena è in movimento e la luce è diffusa su quasi tutto il dipinto. Intorno a lui la battaglia si è trasformata in uno scontro all’arma bianca. Il giovane sembra quasi dire a chi lo segue: «Se mio padre fosse fra noi, vi ispirerebbe più fiducia, poiché mi conoscete appena. Io del resto ho contro di me la mia giovinezza e la mia inesperienza; ma ardo già di rendermi degno di comandarvi. Andiamo a cercare il nemico: se avanzo, seguitemi; se indietreggio, uccidetemi; se mi uccidono, vendicatemi»!
 
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

[vc_row css_animation="" row_type="row" use_row_as_full_screen_section="no" type="full_width" angled_section="no" text_align="left" background_image_as_pattern="without_pattern" css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_separator type="normal" color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]

di Giuseppe Baiocchi del 09-03-2020

[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1701187489353{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
A Torino presso il palazzo della Cisterna, nell’ottobre del 1898 nasceva il principe Amedeo di Savoia, definito dai posteri e dagli storici come “l’eroe dell’Amba Alagi”. Nella città sabauda rimase fino ai sette anni, quando il padre, Emanuele Filiberto, si trasferì a Napoli, al comando di quel Corpo di Armata.
La prima fanciullezza, come da tradizione, non era stata lieta per il piccolo aristos: all’età di due anni si era infatti svolta la tragedia di Adua (1896), evento che portò l’assassinio di suo zio, il Re Umberto I, il quale fu ucciso da un anarchico italiano Gaetano Bresci (1869 - 1901).
Iniziava allora in Italia lo strano e ben doloroso fenomeno per il quale – a somiglianza di un solo altro paese, la Francia – l’istanza sociale e la necessità materiale delle folle sembrava dovessero essere inscindibili da una furibonda, iconoclasta volontà di distruzione delle tradizioni patrie e della virtù militare. A Napoli l’ambiente era più sereno: quella reggia di Capodimonte era più sorridente con il suo magnifico parco, il cielo era più mite, l’anima popolare meno intristita dalla propaganda dei negatori. In tale ambiente crebbero Amedeo ed il suo fratellino minore Aimone – sopraggiunto dopo di lui – e quel vasto palazzo con parco senza fine, vide il di-sfrenarsi delle loro fanciullezze. Fu un ragazzo terribile Amedeo, di quelli le cui ragazzate lasciano il cuore sospeso.
In quell’epoca ormai lontana, l’aviatore Louis Charles Joseph Blériot (1872 - 1936) aveva attraversato la Manica, Jorge Antonio Chávez Dartnell (1887 - 1910) aveva sorvolato le Alpi; l’aviazione – con l’opera ed il sacrificio dei pionieri – faceva le sue prime asperrime prove, ed Amedeo aveva una voglia pazza di volare.
Voleva volare il giovane duca, ma macchine non ne aveva; trovati due vecchi ombrelli in un solaio, ne irrobustì le stecche con spago e filo di ferro, ed ecco i nostri due argonauti lanciarsi con questi ombrelli aperti, attaccati al manico, dal primo, ma pur altissimo piano della Reggia. Videro dal basso, col cuore sospeso, discendere precipitosamente i due ragazzi e fu un accorrere di gente: non si erano fatti quasi niente in quel volo precipitoso di otto metri, solo qualche ammaccatura: «Volare mi piace» – asserì serissimo Amedeo, strizzando un occhio alla gente accorsa ansiosa e trepidante a raccattare i due signorini.
Altro episodio curioso, fu alle spese del colonnello Emilio Montasini, aiutante di campo del padre e ottimo colonnello d’artiglieria: Amedeo, da promesso artigliere, volle rendergli onore.
Vi erano nel parco della reggia alcuni vecchi cannoni di bronzo del Settecento ad avancarica. Amedeo prese la polvere di molte cartucce da fucile, caricò il vecchio cannone, pose una lunga miccia, mise Aimone a far da palo per annunciare l’arrivo del colonnello e quando questi apparve al cancello, diede fuoco. Il vecchio palazzo tremò, il boato si udì per tutta Napoli: pallido, emozionato il colonnello accorse. Questa volta era stata troppo grossa, ed i due colpevoli furono trascinati davanti ai genitori per avere la giusta sanzione. Ma, nel salire la grande scalea, Amedeo diceva al fratello: «Hai inteso che colpo? Io di artiglieria me ne intendo»! Questo spirito avventuroso, questo sorridente arditismo spericolante lo accompagnarono per tutta la vita.
Nelle due foto, da sinistra a destra, Amedeo Umberto Lorenzo Marco Paolo Isabella Luigi Filippo Maria Giuseppe Giovanni di Savoia-Aosta, in una foto di giovane età (Torino, 21 ottobre 1898 – Nairobi, 3 marzo 1942). E’ stato un generale, aviatore e patriota italiano, membro di Casa Savoia appartenente al ramo Savoia-Aosta. Fu viceré d’Etiopia dal 1937 al 1941. Nella foto di destra Umberto I (Umberto Rainerio Carlo Emanuele Giovanni Maria Ferdinando Eugenio di Savoia; Torino, 14 marzo 1844 – Monza, 29 luglio 1900) è stato Re d’Italia dal 1878 al 1900.
Infine evento che suscitò un simpatico scalpore europeo, fu durante il soggiorno spagnolo formativo, dove durante una corrida, il giovane Amedeo diede spettacolo all’entrata dell’arena durante lo svolgimento del gioco. Anche in questa esperienza vi fu – da parte dell’istitutore – molta paura. Di contro l’arena fu in tumulto tra applausi, urla di entusiasmo e lanci di cappelli. I giornali madrileni ne fecero un gran parlare e dissero chi era il protagonista: il nipote dell’ex Re di Spagna: Amedeo Ferdinando di Savoia. I giornali del Regno d’Italia censurarono l’accaduto. Tre erano gli elementi fondamentali della sua natura: la noncuranza assoluta del pericolo, che gli veniva da una tradizione secolare di gloria militare e civile; un senso pratico ed ordinato della amministrazione e della vita, che aveva assorbito dai suoi vecchi antenati piemontesi; ed infine una rara sincerità: virtù che ottiene comprensione, anima gli uomini e solleva entusiasmi ed affetti. Fu certo la sincerità più limpida che gli sgorgava dal cuore quella che guidò naturalmente la sua condotta tra gli allievi della Accademia Militare della Nunziatella di Napoli allorché, a 15 anni, fu rinchiuso in quel collegio per iniziare la sua vita militare. I primi periodi per il duca furono duri, ma con il suo carattere ben presto divenne fratello e amico dei suoi camerati, i quali nonostante la confidenza nutrivano sempre grande rispetto per Amedeo. Egli aveva, innata, questa incommensurabile virtù della semplicità che aggioga le anime: virtù che non si può improvvisare, che deve essere innata, che deve avere perciò origini lontane, come in lui le aveva, nei secoli. Aveva 17 anni quando nel 1915 scoppiò la guerra Europea. Scrisse di suo pugno una petizione al Re: voleva andare a combattere per il regio-esercito l’ultima guerra dell’Unità, così come era propagandata. Ma, data la sua età, era obbligatorio il consenso del padre.
Emanuele Filiberto firma: per il giovane ufficiale si spalanca la prima – piccola – avventura della sua vita. Vestito in grigio-verde in un reggimento di artiglieria a cavallo, si reca presso il Monte Sei Busi: impavido sotto valanghe di ferro e di fuoco, si merita una medaglia di bronzo. Dissero di lui: «noi, tuoi compagni, noi soli veramente sappiamo che se non fossi stato un principe di Savoia, la medaglia sul tuo petto sarebbe stata d'argento. Noi siamo testimoni che ci hai perduto ad essere principe». Leggendo la motivazione della sua seconda medaglia – questa di argento, quando aveva 19 anni – si comprende come l’avesse meritata: non vaghe ed altisonanti parole, non retoriche frasi, ma fatti precisi: era veramente un soldato, ed alla prova del fuoco quella sua temerarietà infantile, si era trasformata in ragionata e consapevole virtù guerriera.
Durante la guerra carsica, recatosi a visitare una trincea – che un generale aveva fatto costruire e che personalmente illustrava -, la quale doveva fungere a modello ed esempio di come sarebbero dovute essere strutturate tutte le trincee, egli non espresse giudizio guardando muto l’opera che pur era costata tanta sollecitudine e tanta fatica, finché, alla reiterata domanda espressa dallo stesso generale: «che gliene sembra Altezza Reale», Amedeo non esitò a rispondere nella sua invincibile sincerità: «la sto studiando attentamente per evitarla»! Questo episodio riferito da Beretta a De Vecchi trova il suo riscontro in altri successivi di epoche diverse, come ad esempio quello di quando, deliziandosene perdutamente, vide nel cielo di Gorizia – ove egli allora era addetto – un aeroplano eseguire la più ardita gamma di loopings, di tonneaux, di virate, di cabrate che si fossero mai viste e che pur erano severamente proibite; ed accanto a lui, vi era furente il comandante della brigata aerea, il quale si avvicinò all’avventuroso giovane pilota appena atterrato per comunicargli di tenere gli arresti. Amedeo era pieno di ammirazione, si avvicinò al giovane ufficiale, lo prese sotto braccio, gli disse: «che bello, ma perché non me lo ha detto che sarei venuto con lei»?
Nelle tre immagini da sinistra a destra. Il nonno di Amedeo: Amedeo Ferdinando Maria di Savoia (1845-1890), era figlio del primo Re d’Italia Vittorio Emanuele II. Fu re di Spagna (1871 -1873) e il primo duca d’Aosta, capostipite del ramo Savoia-Aosta; al centro il padre: Emanuele Filiberto Vittorio Eugenio Alberto Genova Giuseppe Maria di Savoia-Aosta (1869 – 1931) è stato un membro di Casa Savoia, appartenente al ramo Savoia-Aosta, ed un generale italiano; infine il fratello Aimone Roberto Margherita Maria Giuseppe Torino di Savoia-Aosta (1900 –1948) è stato un membro di Casa Savoia, appartenente al ramo Savoia-Aosta, e un ammiraglio italiano. Fu anche re di Croazia con il nome di Tomislavo II, senza però mai prendere possesso del trono.
Quel giovano era il tenente Tait, che divenne poi il suo aiutante di volo e non lo abbandonò mai più: gli fu vicino nell’ora estrema. Finita la grande guerra, nel 1919 Amedeo se ne andò con lo zio in Somalia. L’amore dell’Africa lo dominava dall’infanzia, da quando bambino se ne andava al porto a vedere le navi che partivano. Abitava con lo zio un bungalow nel villaggio di Afgoi, a 20 Km. da Mogadiscio. Quel vecchio marinaio ed esploratore, quella grande anima chiusa ed ardente di Luigi di Savoia, che conobbe tutte le altezze tutte le discipline e tutte le rinunce, stava trasformando un lembo di Africa con la sua tenace volontà di colono.
Il senso eroico della vita non aveva bisogno di insegnarlo al nipote Amedeo, poiché era impresso nel suo spirito. Ma altre cose gli insegnò, rimanendo impresse e gli servirono da viatico quando si trovò venti anni dopo a dominare il vastissimo territorio dell’Etiopia. Gli fece comprendere la tenacia delle opere durevoli: ad amare la terra che risponde all’uomo che la lavora e la feconda col suo sudore. «Non mi sbaglio, – diceva suo zio –, ma se noi vogliamo, la Somalia ha un grande avvenire: canna da zucchero, cotone, arachidi, alberi di kapoc, possono rendere enormemente». Queste nozioni gli servirono come vedremo, più tardi, e le mise in pratica.
Rimase sei mesi presso lo zio e poi ritornò facendo il giro del Capo di Buona Speranza, ma si ammalò e dovette sbarcare a Zanzibar, ove stette un mese tra la vita e la morte, soccorso dalla madre, accorsa subito al suo capezzale. Della sua malattia e delle angosce materne troviamo indelebile nobilissima traccia nelle pagine scritte dalla duchessa madre nel suo libro: «Ma vie errante».
Ritornato in Patria nel 1920 fu destinato a Palermo. Era l’epoca tremenda del dopoguerra italiano, quando imboscati e disertori si riunivano per dare veste di ideale alla fellonia ed alla viltà. Del resto, sempre, nelle ore torbide della nostra vita nazionale la diserzione diventa un ideale, il tradimento una virtù e l’incitamento alla rivolta esige il suo premio. Fu per sfuggire a tale stato nauseante di eventi, che Amedeo – sotto il nome di capitano della Cisterna – se ne andò in Congo belga, a Stanleyville a fare l’operaio in una fabbrica di sapone. Della sua esperienza disse: «Voglio vedere cosa sarei capace di fare nella vita civile se fossi nato diversamente da come sono nato». Non si può dire che l’esperimento non sia riuscito, perché da operaio semplice divenne capo operaio, e poi assistente, ed alla fine del 13° mese era già vice-direttore della grande fabbrica e stavano per nominarlo direttore, quando dette le dimissioni per ritornare in Italia; e solo allora si seppe chi era. La cronaca pettegola dette un’altra versione di questa strana sosta di oltre un anno nel Congo. Così dopo 13 mesi – dalla lunga esperienza del Congo –, ritornò con una carovana da lui allestita, lungo i grandi laghi equatoriali: il Victoria ed il Tangunica. Sostò ai piedi del Ruvenzori, in memoria dello zio che ne aveva fatto la scalata, ed, ultima tappa del viaggio, prima di imbarcarsi a Mombasa, fu a Nairobi, quella fatale Nairobi, dove doveva venti anni dopo chiudere la sua nobile vita. L’Amore dell’Africa ormai lo teneva, e nel Continente Nero riuscì a farsi destinare nel 1925, rimanendovi per sei anni, fino al 1931, salvo brevi parentesi a Torino per la scuola di guerra, o quella ancor più breve – ma importante – del suo matrimonio nel 1926 con Anna di Francia, la dolce e nobile compagna della Sua vita. Il Regno d'Italia stava riconquistando la Libia, di cui non aveva potuto occuparsi durante la guerra, mantenendo solo la costa. In queste operazioni di polizia che talvolta si tramutavano in vere e proprie e sanguinose battaglie, seguito dal maggiore Volpini, suo aiutante – che doveva poi morirgli accanto da generale sul picco dell’Amba Alagi – Amedeo si distinse perché fu infaticabile e temerario, a piedi, a cavallo, a dorso di cammello, a bordo di aeroplani, mitragliando i ribelli a volo radente, tornando con l’apparecchio crivellato di colpi.
Tutte le marce e le battaglie, di Zella, dei pozzi di Bir Tagritt, Nufilia, Marzuk, Kufra, ricordano il suo nome. Con la occupazione di Kufra la colonia era ridonata totalmente alla patria, e la si poteva oramai attraversare in piena tranquillità dalla costa fino al più profondo deserto. Ritornato in patria alla morte del padre – comandante vittorioso della III Armata, avvenuta nel 1931 –, non solo per il passato glorioso del duca ma per un suo testamento spirituale che rimane una delle pagine umane più nobili e belle che siano mai state scritte, Amedeo divenuto Duca di Aosta, passò l’anno seguente nella aviazione. Si compiva così un Suo ardentissimo voto.
Cinque anni egli passò, assegnato a Gorizia, e dimorante con Sua Altezza Reale Anna e le sue due figliuole nel malinconico castello di Miramare: cinque anni, quale comandante, prima di stormo, poi di brigata aerea, indi di divisione.
Le sue squadriglie erano ragione di orgoglio per l’ala Italiana, per precisione di volo, per disciplina e coraggio ed allenamento di piloti. Intanto si era svolta la conquista dell’Etiopia. In uno slancio concorde di volontà l’Italia aveva conquistato un Impero; ed egli, andati via i due primi Vice-Re manifestò, per la prima volta nella vita, il desiderio di un comando.
Amedeo di Savoia, duca d’Aosta con i genitori, durante il primo conflitto. ©Maurizio Lodi
Era un poco rischioso, specie dopo un ultimo e grave attentato al Governatore del tempo, ed il Re era titubante, ma egli insistette, ed eccolo infine partire il 21 Dicembre 1937 da Napoli, Vice-Re dell’Etiopia. Queste sono vicende recenti, ogni Italiano le conosce, ed io non ho che da riassumere solo qualche dato, qualche fatto saliente che aiuti a mettere in rilievo la figura del nostro Principe. Egli sbarcò a Massaua, e la prima sosta fu al cimitero di Dogali, a salutare i cinquecento, i morti di De Cristoforis, ancora allineati in ordine di battaglia, sotto la terra arsa. Arrivato ad Addis Abeba si accorse subito che tra i veri pionieri si era mescolato un piccolo mondo di profittatori, e non esitò a buttarsi a corpo perduto per eliminare le iniquità, per mettere ovunque ordine e pulizia; non esitò a dire ai suoi funzionari: «se non mi chiamassi Savoia vorrei fare a cazzotti con certa gente»! Memore degli insegnamenti dello zio indimenticabile, Amedeo cominciò subito a realizzare un vasto piano di sfruttamento agricolo e minerario del vastissimo Impero.
Spesso egli asseriva: «gli Italiani non sanno quale immensa ricchezza essi hanno conquistato». Nell’Amara vi erano i giacimenti immensi di lignite e di torba, cave di marmo e di argilla, e c’era da sviluppare la industria del baco da seta. Nel Calla Sidama vi erano miniere di ematite e di limmite ed i grandi fiumi auriferi, le immense foreste ove già erano state catalogate ottantaquattro specie di legno pregiato. La foresta di Belleltà, non tutta ancora esplorata dall’uomo, poteva rivelare incredibili sorprese, sgominante quale era per la sua vastità, intersecata da fiumi torrenti e ruscelli, sbarrata da alberi secolari, intrecciata da liane, fauna favolosa di scimmie, di leopardi neri, di pitoni e bufali ed elefanti e rinoceronti. Nell’Harrarino le foreste degli Arussi, piene di podacarpi ed eucalipti gonfi di cellulosa, e le piantagioni di caffè e le miniere di mica. Nella Eritrea e nella Somalia il cotone, i semi oleosi, nella Migiurtinia l’incenso, la mirra, lo stagno.
Né aveva trascurato con sotterfugi ingegnosissimi che, dalle Indie olandesi, gli fossero inviati i semi del caucciù per svincolare la patria da questo gravoso tributo allo straniero. Era un mondo favoloso che si apriva al lavoro degli Italiani, già da secoli dispersi per tutto l’orbe terraqueo in cerca di pane: colà milioni e milioni di lavoratori avrebbero trovato sfogo e ricchezza! Questa era la sua opera dunque, grandiosa opera, alla quale si accinse con tutto il fervore dell’anima.
Ogni domenica, libero dai fardelli burocratici, dagli incartamenti e dai ricevimenti, si dedicava alle visite nei punti più lontani dell’Impero con il suo apparecchio ad Elolo, su piste di fortuna tra il Kenia Italiano e quello Inglese, ove c’era un presidio con un solo tenente bianco ed una banda di Dubat. Quel povero tenente non vedeva un bianco da sette mesi, rimase confuso e quasi singhiozzava quando riconobbe il Vice-Re che scendeva dall’aeroplano su quel campo di fortuna. In quell’angolo sperduto di mondo il Duca, sotto una tenda, divise con quell’ufficiale un piatto di pasta preparato dai Dubat.
Amedeo, nel viaggio di ritorno, ricordando gli occhi umidi, la voce trepida di quel tenente, asseriva ai suoi compagni di volo: «ci vuole tanto poco a fare contenti gli uomini»!
Un’altra domenica, a Ricchiè, un vecchio centenario, saputo dell’arrivo del Vice-Re in quella sperduta località, si fece portare alla sua presenza in barella da due servi. Si prosternò nella polvere, disse: io ho perduto un figlio in battaglia per l’Italia, io sono fiero di avere perduto mio figlio per te. Ed Amedeo concludeva, nel viaggio di ritorno: «la poesia è la sola regola della vita».
Un’altra domenica a Debra Sina, davanti ad una banda di 600 uomini ve n’era uno, alto quasi come lui, Basciai Uoldié, che era stato il più acre nemico degli italiani, il quale aveva tagliato a suo tempo il ponte di Termaber per ritardare la marcia italiana su Addis Abeba, che era considerato, ed a giusto titolo, un eroe nazionale Abissino. Basciai Uoldié aveva dichiarato che non avrebbe fatto atto di sottomissione ad altri che al Vice-Re in persona, ed Amedeo non aveva atteso che andasse da lui; volle – di contro – andare davanti lui stesso al suo valoroso avversario e stabilì che tutti gli uomini della banda avrebbero conservato le armi. L’indigeno si pose un ginocchio in terra e disse: «giuro di servirti, fino alla morte». E mantenne la parola, perché tre anni dopo perì da prode, combattendo per il Regno d’Italia. Alla inaugurazione della strada Dancala tra Dessié ed Assab – lunga 1000 chilometri -, un’opera romana costruita sotto il sole ardente dai nostri operai.
Uomo anche vicino ai lavoratori italiani in Africa Orientale: lungo le strade dell’Impero, numerose erano i tumoli degli operai deceduti per incidenti sul lavoro. Spesso Amedeo si fermava per l’ultimo saluto agli scomparsi: «Questi tumuli», diceva il viceré, «che si snodano lungo questa strada grandiosa sono come gli acini di un rosario, il rosario del lavoratore Italiano». Tale atteggiamento lo portò ben presto ad essere stimato e rispettato sia dai civili che dai militari.
Nelle ultime sue visite, sulla fine del 1939 fu a Bonga, nel Galla Sidamo, tra i pigmei. Tutta la popolazione indigena era schierata nuda lungo la strada, uomini e donne. La popolazione – che ancora accendevano il fuoco fregando due pezzi di legno – possedeva armi ancora primitive, e gli italiani, se consideriamo strettamente il periodo del comando del viceré monarchico, portarono civiltà e prosperità, abolendo le vessazioni alla popolazione civile del viceré fascista Graziani. Riportiamo un passaggio del bellissimo romanzo I fantasmi dell'Impero del trio Cosentino-Dodaro-Panella: «Sua Altezza Reale il Duca Amedeo di Savoia Aosta non aveva avuto fretta a riceverlo [...]. Il suo rapporto stava sulla grande scrivania del nuovo Vice Re ordinatissima, così diversa da quella di Graziani, sempre ingombra di carte [...]. Per carità, il duca era stato cortesissimo. Lo aveva accolto in piedi, sorridente, in uniforme da generale dell’Aeronautica, sovrastandolo di trenta centimetri buoni dall'alto dei suoi due metri, e gli aveva calorosamente stretto la mano. L’ufficio era lo stesso di prima, eppure niente sembrava uguale; anche Mazzi era stato sostituito da un segaligno maggiore di cavalleria piemontese, sicuramente con tutti i quarti di nobiltà in regola. E i saluti fascisti s'erano ridotti al minimo indispensabile: non ne aveva visto fare nemmeno uno da quando era arrivato».
Oggi, gli ex cittadini dell’Impero italiano sono ricaduti nuovamente nelle barbarie: l’abbandono – per causa del conflitto mondiale – del Regno d'Italia, portò queste regioni nel caos più assoluto, dove tiranni senza scrupoli adoperarono per lunghissimo tempo i loro interessi, in maniera brutale.
Luigi Amedeo Giuseppe Maria Ferdinando Francesco di Savoia (Madrid, 29 gennaio 1873 – Villaggio Duca degli Abruzzi, 18 marzo 1933) è stato un ammiraglio, esploratore e alpinista italiano.
Alla soglia degli anni quaranta, oscure nuvole si addensavano sull’orizzonte europeo. La Germania nazista invade la Polonia e la guerra europea era scoppiata. L’Italia vi entrò solo un anno dopo: il viceré ripartì in patria per discutere con il Capo del Governo Mussolini, i limiti delle truppe del regio-esercito in Africa Orientale. Espresse egualmente il suo pensiero, e ne possiamo trovare traccia nei diari di Galeazzo Ciano, nelle affermazioni dei sopravvissuti, nonché nella risposta scritta che egli inviò alle precise domande che gli furono rivolte nel 1940 e delle quali non si tenne, purtroppo, alcun conto: le condizioni militari dell’Impero erano tali che non solo un’offensiva non sarebbe stata possibile, ma neppure una azione difensiva. Avrebbe potuto, sì, esserci una resistenza più o meno lunga, avrebbe potuto l’esiguo corpo di spedizione, sprovvisto di armi per una guerra moderna, sacrificarsi, scrivendo pagine ardenti di gloria militare, ma l’Impero sarebbe stato perduto: i britannici disponevano di continui rifornimenti, dati dall’immenso patrimonio coloniale e soprattutto – in chiave africana – dal controllo del canale di Suez. Nonostante le problematiche Amedeo gioca d’anticipo, è spregiudicato: Mussolini promette la resa dell’Inghilterra con l’operazione tedesca “Leone marino” e l’acquisizione della Somalia britannica e francese, che avrebbe permesso al Regno d'Italia importanti contropartite al tavolo della pace.
Il primo anno si chiuse all’attivo con la spedizione del Somaliland, ma con il sopraggiungere delle armi, delle munizioni, dei viveri provenienti da tutto il Commonwealth, le truppe inglesi passarono alla offensiva mentre il nostro corpo di spedizione ripiegava ordinatamente dall’invasione – tatticamente di scarso rilievo, per mancanza mezzi – del Sudan britannico. In questi tempi amari, pagine che farebbero l’onore e la gloria di ogni popolo del mondo sono pressoché ignorate dagli Italiani, quando non sono calpestate ed irrise. Le pagine di Cheren, fulgide, non meno di quelle delle Termopili, le pagine di Culquabert che vide ad ondate sacrificarsi i Carabinieri Reali, sono oggi un libro chiuso. Sigillato sembra il libro immortale dell’Amba Alagi, ma ben si riaprirà un giorno se è vero che la patria è una verità eterna e che, nel nostro breve cammino mortale, la gloria illumina il cuore degli uomini.
L’ultimo consiglio di governo al Ghebì di Addis Abeba fu tenuto il 3 aprile del 1941. Con 3.800 uomini il viceré salì i 3.400 metri dell’Amba Alagi. Il 16 maggio, dopo 43 giorni di assedio e dopo avere reiterate volte respinto le intimazioni di resa, le condizioni erano queste: il comando italiano aveva ridotto gli effettivi a 2.500 uomini, poiché 1.300 erano periti negli aspri combattimenti, non esisteva più un solo colpo di cannone, vi erano ancora pochi caricatori per le armi leggere, i pochi muli erano stati già tutti sacrificati, la sete era allucinante, ma dalle pendici del monte si vedeva avvicinare sempre più una marea di fute bianche, i 30.000 armati di Ras Seium. No, non vi era più scampo! Ed il duca che aveva cercato più volte la morte su quell’Amba desolata, che aveva visto morire attorno a sé i migliori suoi fidi, pensò che aveva il dovere di risparmiare l’orrenda carneficina che attendeva i superstiti, adesso che era salvo l’onore della bandiera. Mandò fuori il suo Volpini a trattare con gli inglesi; ma gli armati di Ras Scium non rispettarono la guarentigia della bandiera bianca, una scarica di fucili uccise lui e gli altri parlamentari, così che furono gli inglesi a dover recarsi dal duca; e due giorni dopo vi fu la discesa dall’Amba Alagi.
Amedeo di Savoia fu l’ultimo ad abbandonarla dopo avere diviso con i superstiti le poche cose ed il danaro che gli restava; ma prima si recò nel forte Toselli, dove due giorni prima era stato sepolto il generale Volpini, l’amico del cuore, che per 15 anni aveva – ai suoi ordini – diviso la gioia e le asprezze della sua vita, ed aveva pagato l’estremo tributo alla sua granitica fedeltà. Venne portato ad Adi Ugri ove restò 15 giorni, chiuso in una piccola casa, in attesa della sistemazione definitiva, e fu ad Adì Ugri, nel chiuso di quattro pareti che seppe dalla radio della medaglia d’oro al valor militare assegnatagli da Sua Maestà il Re: «ho seguito con viva affezione e con ammirata fierezza la tua opera di comandante e di soldato. Ti ho conferito la medaglia d’oro al Valore Militare, desiderando premiare in te anche coloro che, combattendo ai tuoi ordini, hanno bene meritato dalla Patria». Sì! Egli si sentiva di essere il depositario dei mille e mille caduti nella difesa dell’Impero; nel suo cuore batteva quello di una moltitudine di morti e di superstiti.
La Sua nuova dimora fu stabilita a Nairobi. Gli fu assegnato il villino da caccia di Lady Me Millan, a 70 Km da Nairobi, edificio abbandonato da anni, infestato da pulci, da zecche e da topi, e dovette personalmente per una settimana intera, aiutato dai suoi, provvedere a liberarsi – per quanto possibile – da questi ospiti indesiderabili.
Le gazzette inglesi farneticavano sulla libertà di cui godeva il principe, che poteva recarsi ove volesse, ospite, dicevano, e non prigioniero di Sua Maestà Britannica; che da Addis Abeba gli erano stati portati i suoi cavalli, che possedeva una automobile per i suoi spostamenti. La verità era un’altra: Amedeo non poteva andare al di là di 380 m dalla casetta, vigilato da un bene attrezzato e numeroso corpo di guardia, ed invece dei cavalli e dell’auto, esisteva una carrozza di cui si servivano gli ufficiali inglesi, che dopo una settimana l’avevano resa inservibile. Era un prigioniero, come gli altri, che ebbe la prima lettera dei suoi dopo sette mesi di prigionia, e niente lo feriva e lo umiliava più delle letture delle riviste sud africane ed inglesi che gli ufficiali di guardia gli mostravano. In una si diceva che, sull’impegno della sua parola di onore, gli sarebbe stato concesso di andare in Italia a rivedere la sua famiglia. Il rossore gli salì al viso. Come si poteva pensare che egli avrebbe accettato un simile privilegio? Un’altra volta lesse in una rivista sud africana che i suoi magnifici soldati erano i «contemptible scavengings in the biways of the battle».
Umiliato, depresso, in quella solitudine disperata rotta solamente dalle notizie sempre peggiori che giungevano dai lontani campi di battaglia europei, fu punto un giorno da una zecca, e ne risultarono altissime febbri a tipo tifoideo, che gli durarono settimane e lo ridussero allo stremo, mentre il suo medico, il dottor Borra, invano chiedeva di poter fare delle analisi e degli esami speciali, ed invano chiedeva medicinali. Appena rimessosi chiese ed ottenne di poter recarsi al Comando del Campo da cui dipendeva, per avere la assicurazione che le donne ed i bambini internati nel Kenia sarebbero stati evacuati per primi, con precedenza su tutti.
Voleva entrare nel campo per salutare i suoi soldati prigionieri, ma gli fu vietato, ed allora girò attorno al filo spinato entro il quale erano rinchiusi, mentre i suoi vecchi soldati gli gridavano parole di amore. Fu visto pallido, diritto, con gli occhi gonfi di lacrime, e non si vergognò di dire a chi lo accompagnava: «talvolta piangere è una felicità»! Ma la febbre tornata altissima dimostrava i sintomi inequivocabili della malaria. 
In quell’organismo, debilitato dalla lunga sofferenza morale, dalle privazioni fisiche durate nelle lunghe settimane di assedio sull’Amba Alagi, i lunghi attacchi febbrili determinati dalla insalubrità del luogo, portarono il duca alla morte.
Nelle tre foto da sinistra a destra: la tomba del viceré Amedeo a Nairobi, capitale del Kenya; cartolina di propaganda che mostra un fante italiano coloniale, che riprende le fattezze del duca d’Aosta, intento ad attendere il momento del ritorno italiano; foto, antecedente al conflitto, di Amedeo di Savoia duca d’Aosta, viceré dell’Africa Orientale Italiana.
Quando si recò a trovarlo il maggiore Ray Wittit, unico tra gli ufficiali inglesi che, avendo in tempi felici conosciuto il duca di Aosta, non aveva dimenticato l’omaggio che a lui si doveva nella sventura, quando andò a trovarlo e lo vide in quelle condizioni, su quel lettino di ferro ove non poteva allungare i piedi, con gli occhi lucidi di febbre, nella più grande desolazione, non poté contenere il suo sdegno, che esplose in sacro furore: questo era il modo di trattare un principe reale della più vecchia dinastia regnante di Europa? Questo era il modo di trattare un glorioso nemico, leale e cavalleresco, tenendolo lì, a 70 km dal consorzio umano, in quella casetta abbandonata al limite di una foresta? Questa era la asserita, vantata ospitalità del Re di Inghilterra? Così riuscì ad ottenere che, a spese del duca, questo fosse ricoverato in una casa di cura, La Maja Cumbery Nursing Home.
Ma oramai il destino era segnato, ed ecco allora – per salvare la faccia – il medico inglese che appare all’ultima ora, ecco anche affacciarsi quel Rennel Road, compagno di giochi della sua fanciullezza, quando il padre era ambasciatore in Italia nei tempi felici. Il padre che amava ed era riamato dagli italiani aveva scritto al figlio: ricordati di quanto dobbiamo ai duchi di Aosta, e sii di conforto al prigioniero.
Ma il figlio era andato all’aeroporto, aveva salutato con ostentata indifferenza lasciando di ghiaccio il duca che gli era andato incontro per abbracciarlo; ed ora, eccolo lì, vicino al suo letto di morte: «Che sei venuto a fare ora? – gli disse il duca – ora è tardi, vattene». Si, oramai era tardi per le finzioni del mondo; adesso voleva essere solo con Dio e con i pochi fidi superstiti, per prepararsi a morire; oramai aveva gli occhi chiari della morte che guardano con distacco le cose vane e caduche. Il 1° marzo il comando inglese, convinto ormai della fine imminente, consente infine agli amici del duca di recarsi al suo capezzale.
«Scrivi, scrivi, io ti detto, ho paura di non fare in tempo, scrivi; giunga l’estremo saluto ai miei soldati di terra, del mare e del cielo, compagni di arme di tante campagne d’Italia e di Libia. Ai miei camerati di prigionia, ed a tutti quelli che con indomito valore mi hanno seguito in questa epopea africana, lascio il retaggio di portare il tricolore sulle Ambe dove i nostri morti montano la guardia. Scrivi, Verin, scrivi: riaffermo al mio Re, in questa ora suprema la fedeltà di tutta la vita». Poi asserisce al dottor Borra: «quante volte, caro dottore, ho pensato che sarebbe stato meglio morire sull’Amba Alagi. Colà la morte non mi ha voluto. Ma ora, di fronte a Dio, penso che sarebbe stata vanità: bisogna saper morire anche in mano al nemico, anche in un povero ospedale». Padre Boratto gli somministra i Sacramenti la sera del 2 marzo: mancano poche ore alla fine, ed il duca dice al cappellano militare «come è bello morire in pace, con Dio, con gli uomini, con se stesso. Questo solo è quello che veramente conta».
Alle ore 3:56, al duca sopravviene la fine. La morte del duca d'Aosta ci ha lasciato un pezzo di quel Regno d'Italia, oggi scomparso, che tanto di buono aveva prodotto per aumentare il prestigio nazionale fuori dal Bel Paese. Oggi, egli diviene esempio distinto di capacità umane e militari: un esempio gestionale per la classe politica. 
Per approfondimenti:
_Edoardo Borra, Amedeo di Savoia, terzo duca d'Aosta e Viceré d'Etiopia, Mursia, Torino, 1985;
_Dino Ramella, Il duca d'Aosta e gli italiani in Africa orientale, Daniela Piazza Editore, Torino, 2017;
_Gigi Speroni, Amedeo d'Aosta, L'eroe dell'Amba Alagi, Rusconi, Milano, 1998.
_Cosentino-Dodaro-Panella, I fantasmi dell’Impero, Serlio Editore, Palermo, 2017.
 
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

[vc_row css_animation="" row_type="row" use_row_as_full_screen_section="no" type="full_width" angled_section="no" text_align="left" background_image_as_pattern="without_pattern" css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_separator type="normal" color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]

di Giuseppe Baiocchi del 23-02-2020

[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1701187621513{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Franz Josef Otto Robert Maria Anton Karl Max Heinrich Sixtus Xaver Felix Renatus Ludwig Gaetan Pius Ignatius (1912 - 2011), noto come Otto d’Asburgo ha sicuramente ricoperto nella storia del secondo dopoguerra un ruolo di spicco all’interno della politica europea.
Il giovane Otto in uniforme imperiale e regia da ufficiale.
Capo della Casa d’Asburgo dal 1922 al 2007, anno in cui abdicò in favore del figlio Karl Thomas Robert Maria Franziskus Georg Bahnam von Habsburg-Lothringen (1961), fu il primogenito maschio dell’imperatore austriaco e re d’Ungheria Karl I (1887 - 1922) e di sua moglie Zita di Borbone-Parma (1892 - 1989). L’educazione dell’arciduca Otto, nonostante le ristrettezze economiche dettate dall’esilio, non sarà trascurata. L’erede, di una delle più importanti famiglie europee, fu seguito dal precettore conte Henri de Degenfeld, che lo avvia verso un’istruzione portata avanti anche da ex-ministri e direttori della Monarchia Duale, i quali avranno il gravoso compito di elevarlo verso un livello d’istruzione corrispondente al diploma superiore. Coerente con la tradizione asburgica sviluppa, come il padre, un alto senso di responsabilità, che successivamente gli tornerà utile in vista delle sue battaglie politiche.
Ma come poteva essere la giornata di un arciduca? Sicuramente molto dura: ci si alzava alle 06:30 di mattina, seguiva la Santa messa, la prima colazione, una breve pausa e successivamente si praticava equitazione o scherma, secondo le tradizioni di famiglia. Dunque lezioni e compiti, fino a colazione, poi Ottone poteva avere una ricreazione per riprendere i suoi studi fino al pranzo serale. Incredibile ci appare oggi, anche la conoscenza delle lingue europee: oltre il francese e l’inglese, il tedesco e l’ungherese, si esprimeva correttamente in italiano, spagnolo, ceco, croato e serbo.
La famiglia gli insegna presto che ogni sua azione è sempre sotto «gli occhi di Dio», istruendolo verso i temi della tradizione cristiana.
Oltre al rigore, degno di un Imperatore, la sua infanzia doveva toccare anche la problematica delle ristrettezze economiche, dettate dalla condizione, sempre instabile, della famiglia soprattutto dopo la morte del padre nel 1922 nell’esilio portoghese di Madeira. Accade anche che Otto non possa uscire di casa per diversi giorni finché il calzolaio del villaggio spagnolo non gli ripari il suo unico paio di scarpe, o che il ragazzo veda piangere una delle dame di compagnia della madre Zita, perché non vi erano i soldi per la spesa. La famiglia imperiale, in esilio, sarà prima ospitata da Alfonso XIII de Borbón (1886 - 1941) che li trattò da vero signore e galantuomo dal 1922 al 1929, successivamente si trasferirono in Belgio in uno château vicino Louvain, dove l’arciduca ereditario d’Austria poté frequentare l’università nella medesima città. La madre nel suo primo giorno universitario gli disse: «È una gran cosa essere fino a questo punto nelle mani di Dio». Alcuni amici della famiglia imperiale, gli offrirono un’auto per spostarsi e all’età di 23 anni conseguirà il dottorato in scienze politiche sociali, bruciando i tempi: siamo agli inizi degli anni trenta.
Una generazione di ex sudditi imperiali lo guardava, nonostante l'esilio, come punto di riferimento per un’eventuale restaurazione e in alternativa come leader politico. Uno di questi era lo scrittore Joseph Roth (1894 - 1939), afflitto dalla piaga dell’alcolismo. Alcuni suoi amici conoscendo l’infatuazione dello scrittore per gli Asburgo, ebbero l’idea di chiedere all’arciduca di intervenire. Il giovane, dopo aver convocato lo scrittore galiziano asserì: «Roth, in qualità di vostro imperatore, io vi ordino di smettere di bere». Roth, già ex soldato dell’Imperiale e regio esercito, in piedi sull’attenti, rispose una decisa esclamazione affermativa, prima di lasciare la stanza.
Nel frattempo la Repubblica d’Austria, nel 1933, con il cancelliere austro-fascista Engelbert Dollfuss (1892 - 1934) – per scongiurare la presa del partito nazionalsocialista hitleriano in Austria –, rafforza il suo potere politico: viene sospeso il regime parlamentare creando un sistema corporativistico fascista a partito unico, con il Fronte Patriottico. L’arciduca Otto è inquieto per gli avvenimenti e riceve molti attestati di stima e sostegno da numerosi austriaci, sotto l’ala del cugino, il principe Maximilian Fürst von Hohenberg (1902 - 1962), figlio dell’arciduca assassinato a Sarajevo nel 1914, Franz Ferdinand.
Tutto precipita un anno dopo, quando nel 1934 Dollfuss viene assassinato il 25 luglio a Vienna, durante un tentativo di Colpo di Stato nazionalsocialista. Sarà in tale periodo che avviene un evento alquanto particolare e portentoso, a simbolo dell’attaccamento della popolazione austriaca nei confronti della casata degli Asburgo: il 26 agosto il piccolo borgo di Kopfstetten ha il coraggio di nominare l’arciduca Otto, cittadino onorario – ricordando come l’Asburgo fosse apolide in quel periodo. Da due anni, 269 comuni avevano già compiuto questo gesto di sfida di fronte alla minaccia di Adolf Hitler che amava affermare: «L’Austria? Sono cinque Asburgo e cento ebrei».
Riconoscente, il giovane rampollo pretendente al Trono, invia dal suo esilio belga una lettera aperta al sindaco di Kopfstetten, proprio l’ultima cittadina – come ci ricorda Zweig ne “Il Mondo di ieri” – da dove la famiglia imperiale aveva lasciato l’Austria: «Gli adii di Kopfstetten sono incisi per sempre nella mia memoria, anche se allora ero molto piccolo. Non dimenticherò mai l’angoscia che percepivo sul viso dei miei genitori nell’atto di separarsi da un popolo al quale avevano dedicato tutto se stessi […] Mi sembra sempre di sentire mio padre, l’Imperatore Karl, gridare “Arrivederci!” ai soldati che erano venuti alla stazione per portargli l’ultimo saluto. Purtroppo non ha più rivisto la sua patria, questo Re della pace! E per quanto mi riguarda, con questa lettera conto di trovarmi già tra voi. So che i vostri cuori sono tutti in festa pronti ad accogliermi.. e per questo vi dico cordialmente a presto»!
Successore di Dollfuss, il cancelliere Kurt Alois von Schuschnigg (1897 - 1977), da lui designato, nel 1935 riesce a far adottare dal parlamento alcune misure favorevoli alla dinastia il cui soggiorno in Austria era vietato. I decreti anti-Asburgo del 1919 sono parzialmente aboliti e due Burg, così come cinque case a Vienna, gli sono restituite. Possiamo pensare che Otto potesse cogliere il momento storico per una restaurazione nero-oro in Austria? Il cancelliere, viste le pressioni politiche si reca da Otto e nelle sue memorie scriverà: «dal pretendente al trono si diffondeva l’immagine di una personalità molto simpatica, cosciente delle sue responsabilità, sobrio nei modi, dotato di una intelligenza aperta, affinata dalle molteplici conoscenze e da una estrema gentilezza, una persona che sopportava a stento il suo destino di esiliato, con un impero giovanile che lo portava a non vedere gli effetti prospettici dovuti alla lontananza». Ancora tentativi, come quello avvenuto sempre tra il cancelliere, in lotta con l’estrema destra e l’estrema sinistra, e il capo del governo francese Pierre Laval (1883 - 1945). Ancora von Schuschnigg annoterà: «L’Austria e gli Asburgo sono concetti che, storicamente parlando, sono inseparabili come quello di Vienna dall’Austria o quello della Francia dai Borboni». Otto rappresentava l’uomo della tradizione e del legante culturale austriaco, colui che potrebbe garantire l’indipendenza d’Austria, nei confronti della Germania. Inoltre Otto d’Asburgo fu uno dei leader del tempo a opporsi nettamente alle lusinghe di Hitler, il quale prometteva all’interno del Mein Kampf, la restaurazione della monarchia asburgica in cambio del sostegno al nazionalsocialismo austriaco. La risposta di Otto mostra grande coraggio, quando senza ambiguità risponde su di una testata giornalistica: «Hitler è il solo uomo con cui ho sempre rifiutato di avere la benché minima relazione». Otto fin dall’inizio fu convinto, leggendo attentamente la sua opera, che il leader del partito nazionalsocialista voleva la guerra.
Intanto gli avvenimenti precipitano: nel 1936, in segno di riconoscenza verso il Führer per non essersi opposto alla campagna d’Etiopia del regime fascista (1935), Benito Mussolini ritira il suo appoggio al governo austriaco come “protettore dell’Austria” ritirando le truppe del Regio-esercito dal Brennero. Al fine di mantenere l’indipendenza, il cancelliere Schuschnigg è costretto a firmare un accordo con Hitler nel quale quest’ultimo prometteva di non invadere l’Austria in cambio della partecipazione dei “nazisti moderati” al governo di Vienna: ancora un’ultima illusione. È da affermare, di contro, che quasi la metà del Paese voleva ed ambiva all’annessione alla Germania, per ricreare quello che fu Il Sacro Romano Impero a lingua unicamente tedesca, dunque pangermanista.
Addirittura anche i socialisti austriaci erano impegnati a sostenere l’Anschluss e così il 12 marzo del 1938, avveniva quello che passerà alla storia come Delenda Austria: la nazione veniva inglobata al Reich tedesco, con i blindati della Wehrmacht che supereranno la frontiera della Repubblica austriaca, senza incontrare resistenza dall’esercito. L’Austria si trasformava nella Ostmark (La Marca dell’Est), una provincia del Grande Reich.
L’avversione di Otto al nazismo, fin dagli albori, lo pose come l’acerrimo nemico di Hitler, per quanto riguardava le posizioni del Führer sull’istituzione monarchica. È tristemente famosa la frase del nome in codice dell’Anschluss “Operazione Otto” e altrettanto forti furono le frasi di Hitler sprezzante sul passato dell’Austria-Ungheria, che definiva “impero meticcio”. Ancora due inviti da parte del cancelliere tedesco vengono rifiutate nettamente da Otto. Una posizione diversa, rispetto a quella presa dagli Hohenzollern, specialmente dal Kronprinz August Wilhelm Heinrich Günther Viktor Hohenzollern (1887 – 1949, il primogenito del Kaiser Guglielmo II) il quale aveva pubblicamente appoggiato Hitler durante la campagna elettorale, per avere in cambio una restaurazione della propria famiglia. L’arciduca ricorderà come una volta incontratosi con il principe prussiano, questi si presentò in camicia bruna delle SA, mettendolo «a forte disagio». Come in altri casi politici, Hitler sfruttò il nome della Casa reale per prendere voti, poi una volta al potere, scaricò gli Hohenzollern, non restituendo alcun “Trono e Altare”.
Una settimana dopo l’annessione dell’Austria, il giorno di compleanno del Führer, il Ministro austriaco della Giustizia emette un mandato d’arresto contro Otto d’Asburgo e si legge nella nota «alto tradimento», poiché domandò aiuto alle Potenze straniere per impedire l’annessione. La stampa di lingua tedesca è dura, additandolo come «un reietto degenerato degli Asburgo» e un «criminale in fuga»: inizia la caccia all’uomo, che terminerà solo con la fine della seconda guerra mondiale. Il primo tentativo di rapimento da parte nazista, avviene nel 1939, quando un commando della Gestapo tenta di rapirlo: a Parigi, Otto soggiorna in un hotel di boulevard Raspail e, dopo l’armistizio del 1940, esso figura nella lista dei 76 nomi stabilita dall’alto comando come “elementi pericolosi e sovversivi”. Le autorità francesi hanno ordine espresso di arrestare tali individui; addirittura Walter Richard Rudolf Hess (1894 - 1987) voleva assassinarlo immediatamente dopo l’arresto avvenuto. L’arciduca si trovava in una situazione di immenso pericolo: la sera del 9 giugno 1940, quando il governo francese era già stato trasferito a Bordeaux, Otto è invitato ad un pranzo al Ritz da un ex ambasciatore americano presso il re dei belgi, per le 20:30. Una cena alquanto surreale se si pensa che cinque giorni dopo le truppe tedesche entravano trionfalmente a Parigi. La città è un deserto e gli uomini possono sentire il rumore dei loro passi che risuono nella sottostante piazza: «Eravamo i soli ospiti dell’albergo. Era incredibile quando ci penso… […] La cena era stata servita secondo le regole dell’albergo da camerati in frac come se niente fosse. La cena fu sontuosa, la discussione entusiasmante». Curioso che il libro degli ospiti del Grand Hotel veda, dopo la firma dell’arciduca, quella del feldmaresciallo Erwin Johannes Eugen Rommel (1891 - 1944), avvenuta pochi giorni dopo; qualche anno più tardi Otto d’Asburgo affermerà «di sicuro il mio nome non gli sarà sfuggito»! Il giorno dopo egli partirà per la Spagna ed il Portogallo, aiutando anche un centinaio di compatrioti austriaci alla frontiera con la Spagna franchista. A breve approda negli Stati Uniti, dove a Washington, convince l’amministrazione Roosevelt a dichiarare il 25 luglio “l’Austrian Day” e pubblica articoli per la rivista “The Voice of Austria”.
Il prestigio della sua figura è tale che viene ricevuto anche presso la Casa Bianca dal presidente e sua moglie, incontrerà banchieri e industriali. Le sue conferenze affascinano il pubblico americano: le sue esposizioni sono chiare e precise, per un pubblico che conosce a malapena la Mitteleuropa. Sarà anche grazie al lavoro di Otto d’Asburgo, che alla conferenza dei ministri degli affari esteri che si era tenuta a Mosca il 19 ottobre 1943, gli alleati dichiararono che a conclusione del conflitto l’Austria sarebbe dovuta essere libera e indipendente, annullando, de facto, l’Anschluss. Infaticabile difensore dell’identità dell’Austria Otto d’Asburgo lavorerà a Washington fino al 1944, mentre la sua famiglia si era trasferita in Québec. Il suo ruolo negli Stati Uniti diviene essenziale, poiché egli si sforzò di far capire l’importanza dell’equilibrio geopolitico mitteleuropeo verso gli americani, ricordando loro molto spesso i gravi errori dei trattati post 1918, dove l’incoscienza, l’ignoranza e il disprezzo avevano regnato sovrane sui paesi sconfitti.
Scoperto ben presto il piano egemonico comunista di Stalin nei confronti dell’Austria, che prese il nome di “Morghenthau” (dal nome di un segretario di Stato americano al Tesoro che l’aveva elaborato), vi si oppose con grande energia. Tale programma prevedeva la divisione dell’Austria in due parti: Vienna sarebbe andata sotto il controllo dell’Unione Sovietica (come poi avverrà per circa dieci anni) insieme a metà del territorio austriaco. I negoziati, quando Otto ne viene a conoscenza, sono già in uno stadio avanzato. Il presidente americano riferisce all’arciduca che è possibile ancora rivedere tale piano a condizione che lo richieda il Primo Ministro britannico, un certo Winston Churchill. L’inglese decretò, con molta semplicità che «la strada per l’India, vitale per l’Inghilterra, passava per Vienna e che quindi bisognava modificare il piano d’occupazione dell’Austria». Un lavoro oscuro e silenzioso quello dell’arciduca: se il piano Morgenthau fosse stato applicato l’Austria sarebbe scomparsa. L’armata Rossa entra in Vienna il 12 aprile 1945, presentandosi come “liberatrice” e facendo temere un trionfo bolscevico alle elezioni. Stalin ordinerà l’edificazione di un monumento alla loro gloria in piazza Schwarzenberg, ancora presente, inquadrato oggi da una fontana.
Memoriale sovietico di guerra a Schwarzenbergplatz, Vienna.
L’Austria viene così “salvata” in quattro zone e non data interamente ai sovietici. La zona britannica controlla la Stiria, la Carinzia e il Tirolo orientale; la zona francese occupa il Tirolo settentrionale e il Vorarlberg; la porzione americana la parte sud dell’Alta Austria e Salisburgo; infine la Russia la Bassa Austria, il Burgenland e la parte dell’Alta Austria. Vienna stessa è scorporata in ben cinque zone, dove nel primo distretto era presente la sede amministrativa delle quattro potenze di occupazione e la capitale divenne dal 1948 il crocevia della guerra fredda.
L’esilio per Otto d’Asburgo sembra finire e dopo 25 anni può tornare nella sua terra (1945 - 1946): altra speranza effimera dopo tanti sforzi. Su richiesta del governo austriaco, gli Alleati ristabiliscono le leggi anti-Asburgo del 1919. L’accanimento ingiustificato porta la firma del presidente repubblicano Karl Renner (1870 - 1950), colui che nel 1938 aveva approvato l’annessione dell’Austria da parte di Hitler. La famiglia è costretta a ripartire per l’esilio, mentre l’Europa andava trasformandosi in quel “campo di battaglia” tra le due ideologie imperialiste che si affrontavano. L’arciduca risiede in Francia, ma viaggia spesso come conferenziere. Per lui, l’evento più importante nell’immediato dopoguerra è il matrimonio: a 39 anni nel 1951, sposerà a Nancy, antica capitale del ducato della Lorena, la regina ventiseienne di Sassonia-Meiningen.
L’atmosfera è particolare: oltre alle 80.000 persone presenti, è presente una scorta di soldati in uniforme ungherese e diversi dignitari sfilano con le uniformi dell’antico Impero. I due si conobbero nel 1950, dopo lo scoppio della guerra di Corea. I campi dei rifugiati ungheresi in Germania erano scossi dalla paura del vicino confine sovietico: «È così che ho incontrato la mia futura sposa. Lei cooperava con la caritas che si occupava degli ungheresi con i quali ne condivideva la sorte. I beni della sua famiglia che si trovavano in zona di occupazione sovietica, quella che sarebbe poi diventata la “Repubblica democratica tedesca”, erano stati confiscati integralmente. Questa giovane donna coraggiosa, esiliata come lo ero io e proveniente da una famiglia provata dalla sorte, mi ha subito attirato».
Dopo il matrimonio la coppia si trasferisce in Baviera, nella confortevole villa di Pöcking sul lago di Starnberg a sud di Monaco, romanticamente lo stesso luogo dove trovò la morte Ludwig II il 13 giugno del 1886. Le nascite si susseguono: Andrea (1953), le gemelle Monika e Michaela (1954), Gabriella (1956), Walburga (1958), Karl (l’erede tanto atteso nel 1961) e Georg (1964). Sulla moglie l’arciduca asserirà: «La favola non è mai terminata. Abbiamo avuto sette figli, cinque bambine e due bambini. Penso che le famiglie numerose siano una buona cosa, sia per i bambini come per il Paese».
Dopo la liberazione da parte sovietica dell’Austria nel 1955 (Trattato di Belvedere), Otto ottiene nuovamente la nazionalità austriaca, senza il permesso di tornare sul suolo natio. Nel 1957 Otto dichiara di riconoscere apertamente la Repubblica d’Austria, ma ancora i socialisti si oppongo forzatamente al suo rientro. Ancora il 31 maggio del 1962, egli rinuncia “in conformità all’articolo 2 della legge del 3 aprile 1919 al suo ruolo di membro del casato degli Asburgo-Lorena e alle rivendicazioni di sovranità che ne derivano. Nonostante i suoi gesti di distensione, il “dottor Asburgo” fa ancora paura in Austria. Solo nel 1966, il 31 ottobre, potrà rimettere piede su suolo austriaco, ma continuerà sempre a risiedere in Baviera, ottenendo anche la cittadinanza tedesca nell’aprile de 1978: tale operazione gli permetterà di candidarsi alle elezioni del parlamento europeo del 1979. Il ministro presidente della Bassa Austria accetterà la doppia cittadinanza – vietata in Austria – poiché il dottor Asburgo-Lorena ha merito di aver fatto «ricomparire sulle carte geografiche del mondo l’Austria, dopo la seconda guerra mondiale».
La vigilia del matrimonio una cena di gala si svolge all’hotel Excelsior. Otto indossa il collare dell’ordine del Toson d’Oro di cui è Gran Maestro; la regina esibisce un cerchietto di diamanti che apparteneva alla duchessa Maria Giuseppe, nonna del marito. A sua nuora Zita consegna le insegne in diamanti dell’ordine della Croce stellata che lei portava il giorno del suo matrimonio con Karl – onorificenza femminile in cui la sposa del capo del casato d’Austria è detentrice da quasi due secoli.
Otto viaggia in molti Paesi d’Europa per cooperare politicamente alla sua ricostruzione: famosa la conferenza del 28 marzo 1968 al gran teatro di Le Mans, avente titolo “Austria tra est e ovest” organizzata dall’Accademia du Maine diretta da Guy des Cars. Recentemente, teneva ancora una conferenza “a braccio” al Circolo dell’Unione interalleata con “L’Europa degli anni 2000”, seducendo il numerosissimo pubblico presente. Possiamo capire come egli potesse essere ascoltato anche dai politici di primissima classe, in occasione della guerra di Jugoslavia (1991 - 2001). La famiglia Asburgo, perso il potere temporale, dopo essere sopravvissuta a tante rivoluzioni, persecuzioni e guerre, oggi si impegna con costanza – seguendo l’esempio di Otto – in numerose attività diplomatiche, caritative, amministrative e culturali, sempre in segno dei valori dell’Unità Europea. Certamente nel segno di un Vecchio Continente non asservito dall’attuale tecnocrazia economica e politica: Otto si sorprese nel vedere sulle banconote europee nessun personaggio storico celebre per il nostro continente, né nell’aver denotato alcun elemento del patrimonio artistico, architettonico, spirituale, scientifico e industriale, ma vuoti archi astratti che non conservano in sé nessun valore. La soppressione delle feste cristiane, figlio di un pretenzioso calendario europeo comparso nel 2011 rammaricò molto l’arciduca, che da sempre si era battuto per altri valori. Il complotto per far dimenticare le radici e l’identità “dell’Europa dei popoli”, oggi è ancora in atto. Un vero e proprio lavaggio della coscienza europeo. Come afferma anche il dott. Federico Nicolaci nei suoi studi: «Lo stupore con cui l’Europa scopre oggi di essere una “tecnocrazia senza radici” (Habermad 2014, p.21) e una costruzione “fondamentalmente vuota” (Judt 1996), come la crisi dei debiti sovrani e la conflittualità intra-europea che da essi si è sprigionata dimostrano chiaramente, ricorda lo stupore del miope, giacché tale esito non è accidentale, ma è il risultato ultimo di un parossistico rafforzamento dell'approccio funzionalistico e tecnocratico all'integrazione europea. Un'auto-comprensione altamente impoverita dell'Europa ha reso possibile che venissero abbracciati quegli stessi processi di spoliticizzazione che sono oggi la causa della sua disintegrazione politica e culturale. È evidente, infatti, che un'Europa unita e legittimata solo dai benefici materiali (dispensati da una “polity” sovranazionale sottratta in linea di principio, e nel caso della BCE de iure, all'influenza politica democratica) è un'Europa profondamente instabile, essenzialmente disunita: quando tali benefici si rivoltano in svantaggi, come sta accadendo con la crisi dell'Euro, nessuna “energia” rimane ad arginare le forze centrifughe e disintegranti. Un’unione dei progetti è un tempio completamente vuoto, inanimato, e nella misura in cui l’Europa pensa di sé semplicemente in termini pragmatico-funzionali, allora essa pronuncia volontariamente la propria condanna».
Ancora, proseguendo con le problematiche europee, ci sono voluti ben 92 anni per pagare i 269 miliardi di Reichmarks, ossia i 200 milioni di euro, dovuti alle riparazioni di guerra della Germania, estrapolate nel trattato di Versailles, saldato solo il 3 ottobre 2010. Il ritorno dell’Imperatrice Zita, con i suoi funerali di Stato in Austria sono stati oggetto di ampie discussioni da parte dell’opinione pubblica europea. Meno contestata, la beatificazione dell’Imperatore Karl I, avvenuta il 3 ottobre del 2004, per mano di Papa Giovanni Paolo II, che permise l’esposizione del ritratto del beato Imperatore sulle finestre di città del Vaticano, ricordate anche da Otto, il quale lascia un grande vuoto politico il 14 luglio del 2011 alla veneranda età di 99 anni, presso il suo domicilio di Pöcking in Baviera. L’arciduca si era molto indebolito, dopo essere caduto da una scalinata e soprattutto dopo la perdita della sua amata moglie un anno e mezzo prima. Lascia i famigliari in punta di piedi, addormentandosi nel sonno, con stile, così come aveva vissuto senza mai alzare la voce, per tutta la sua vita.
Otto in età avanzata.
I suoi funerali solenni a Vienna il 1°agosto sono stati accompagnati da 1 milione di austriaci (in un paese di 8,3 milioni di abitanti), ma anche da ungheresi, ruteni, galiziani, croati, italiani, boemi: il vecchio Impero scomparso, si riuniva per l’ultima volta. Nella cattedrale di Santo Stefano, la cerimonia si è svolta in presenza di numerosi monarchi e principi europei, del bel mondo, ma l’evento solenne ha visto anche alte personalità della politica europea e personaggi di rilievo religioso. Presenti tutti i cavalieri dell’Ordine del Toson D’Oro, ordine di cui l’Arciduca era stato Gran Maestro in Austria ed erano presenti anche un nutrito gruppo di quattrocento Kaiserjäger in gran tenuta tirolese, simbolo dell’attaccamento dell’ex contea del Tirolo all’erede al Trono. La televisione pubblica ORF ha trasmesso le esequie in diretta con diversi reportage storici e attuali, fino alla storica cerimonia di sepoltura presso la Cripta dei Cappuccini, che si apprestava ad accogliere ancora una volta “un semplice peccatore”.
 
Per approfondimenti
_Marie-Madaleine Martin, Othon de Habsbourg – prince d’occident, edizione Du Conquistador, 1959;
_Jean Des Cars, La storia degli Asburgo, Udine, Nuova editrice goriziana, 2018;
_Flavia Foradini, Otto d’Asburgo. L’ultimo atto di una dinastia, Trieste, Mgs Press, 2004.
 
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

[vc_row css_animation="" row_type="row" use_row_as_full_screen_section="no" type="full_width" angled_section="no" text_align="left" background_image_as_pattern="without_pattern" css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_separator type="normal" color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]

di Giuseppe Baiocchi del 15-02-2020

[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1701104590070{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Sono state denominate con una nota lievemente retorica le architetture della paura. Sono state nella storia, spesso, le architetture della speranza. Talvolta, possono essere state quelle dell’oppressione: le ardite e poderose mura che tenevano alta la minaccia sul capo di un popolo conquistato, poiché tali erano ad esempio, al momento della loro nascita, la torre di Londra o le cupe fortezze dell’Ordine Teutonico. 
Spesso sono considerate simbolo del romanticismo, quelle che più fanno sognare e accedono alla fantasia di chiunque le guardi, e con il pensiero ritorni ai tempi lontani, foschi o idealizzati, in cui furono erette. Prima di affrontare il Quattrocento e il Cinquecento, il castello “classico”, ovvero la rocca nello immaginario collettiv0, ha subito diverse evoluzioni. La tecnologia, come sempre, porta il cambiamento, secondo fonti autorevoli la prima data storicamente accertata è il 1324, proprio in questo anno ci sono i primi riferimenti di artiglierie, anche se è da puntualizzare che tale termine, comprendeva mangani, baliste e catapulte.
I primi cannoni erano di piccolo calibro e sparavano sia proiettili, sia frecce o altri dardi: il che suggerisce che il loro primo impiego sia stato quello di arma anti-uomo. Tuttavia il loro uso anche per l’assalto ad opere fortificate non doveva tardare. Già nel 1342, pare, gli scozzesi che assediavano il castello di Estrevelin disponevano di macchine d’assedio e cannoni; cinque anni più tardi nel 1347, Edoardo III fortificò un castello presso Calais, in Normandia, con spingarde, bombarde, archi e altre artiglierie. Una volta dunque che i princìpi su cui si basava l’impiego delle armi da fuoco furono compresi, le dimensioni delle armi stesse vennero rapidamente incrementate, così che esse furono ben presto in grado di sparare proiettili capaci di danneggiare opere in muratura. La prima breccia nelle mura, avviene nel 1377, nell’assedio di Ardres per mano dell’esercito francese, il quale sarà ben presto uno dei Paesi d’avanguardia per quanto concerne la polvere nera. Fortunatamente per i difensori dei castelli del XIV e XV secolo l’artiglieria era ancora in una fasce. I danni inflitti alle mura non erano minimamente paragonabili a quelli che, un paio di secoli dopo, avrebbero causato bocche da fuoco di calibro molto minore. Tra i fattori limitanti c’era in primo piano la pessima qualità della polvere da sparo, usata nei primi tempi. Essa conteneva, all’incirca, un 40% di salnitro, un 30% di zolfo e un 30% di carbonella - laddove le proporzioni sono, oggi rispettivamente del 75, del 10 e del 15% - e la purezza dei vari componenti lasciava molto a desiderare. Anche la lavorazione contribuiva alla scarsa resa: la polvere veniva macinata per mezzo di un pestello e di un mortaio e poi mescolata a mano. Il risultato era un prodotto farinoso, la così detta serpentina, che una volta infilato nella canna del cannone, aveva una combustione lenta – dunque un’esplosione assai meno forte del prevedibile – a causa della difficoltà di propagazione della fiamma in una simile massa non omogenea. Ne sortiva una velocità iniziale del proietto, al momento di lasciar la bocca da fuoco, assai bassa e una gittata molto scarsa del proietto stesso. A sua volta questa scarsa potenza della polvere favoriva l’adozione, come proietti, delle palle di pietra in luogo di quelle di metallo – assai più costose e di esecuzione molto più difficile. Altrettanto arretrato era il sistema costruttivo delle armi da fuoco e pesantemente limitava la difficoltà presentata dal loro trasporto. I cannoni dell’epoca erano pesanti, ingombranti e dovevano essere trasportati mediante cariaggi lentissimi, trainati da numerose pariglie di animali. Non solo: erano anche notevolmente costosi. Uno degli effetti più significativi dell’introduzione sui campi di battaglia delle armi da fuoco fu la progressiva scomparsa dei feudatari e dei combattimenti in proprio: oramai, solo i re e i grandi prìncipi potevano permettersi il costo dei necessari parchi di artiglieria.
Intorno al 1425 uno sconosciuto, ma geniale, francese migliorò grandemente la qualità della polvere da sparo modificando il processo di lavorazione: invece di preparare la polvere a secco, egli introdusse l’uso di mescolare gli ingredienti umidi, di impastare il materiale così ottenuto in “pani” e di passarli al setaccio, così da ottenere della polvere in grani omogenei, di grandezza costante. Non solo in questo modo la miscelazione degli ingredienti risultava più esatta, ma veniva anche migliorata, attraverso la maggior infiammabilità della polvere in grani, la velocità di combustione della polvere e quindi il suo potere propulsivo. Il risultato fu che la velocità di tiro e la potenza di fuoco dell’artiglieria si trovarono e raddoppiare quasi immediatamente nei riguardi delle tecniche costruttive dei cannoni, sia riguardo la robustezza degli stessi.
Parallelamente, come è ovvio, aumentò la forza d’impatto dei proietti, cioè il loro potere distruttivo; diventò così vitale, per i proprietari di fortificazioni, esaminare le proprie difese alla luce dei nuovi sviluppi e preparare adeguate contromisure atte a parare il nuovo pericolo.
Il mangano o trabocco, era la più efficace delle artiglierie messe a punto prima dell’invasione delle armi da fuoco. Con l’invenzione delle armi a polvere nera, il cannone rudimentale (come il Mons Meg) aveva una gittata di gran lunga superiore: i suoi proietti, con la loro traiettoria tesa avevano effetti assai più dirompenti sulle murature verticali delle fortificazioni, che ricevevano il colpo quasi perpendicolarmente, e con un’energia cinetica – derivata dalla velocità d’impatto assai superiore – notevolmente maggiore.
Successivamente la polvere da sparo trovava due nuove applicazioni dopo il cannone: la mina e il mortaio. Quest’ultimo non era altro che un cannone dalla canna estremamente corta, che veniva puntato verso l’alto e sparava proiettili della traiettoria molto curva in grado di scavalcare mura, terrapieni ed altri ostacoli per ricadere all’interno del luogo fortificato, là dove non c’è alcuna protezione dai colpi. Questo tiro curvo era, inizialmente, considerato poco efficace dagli artiglieri poiché una palla piena, cadendo quasi in verticale non aveva altro effetto che quello di sprofondare nel terreno, mentre la stessa palla sparata con tiro teso, poteva, dopo il primo impatto, rimbalzare e ricadere causando con ciò ulteriori danni. Le strategie mutarono quando vennero messi a punto proietti esplosivi, capaci di deflagrare nelle retrovie nemiche: il mortaio divenne allora un’arma assai interessante. La mina, di antica derivazione, veniva principalmente impiegata per diroccare le fortificazioni. Ma il suo effetto risultò moltiplicano in maniera enorme dalla possibilità di riempire la cavità scavata sotto le mura di polvere da sparo, e quindi di dare fuoco alla carica con effetti devastanti. L’invenzione della mina con polvere da sparo, e quindi di dare fuoco alla carica con effetti devastanti.
L’invenzione della mina con polvere da sparo viene attribuita all’italiano Giovanni Vrano, che avrebbe usato mine di questo tipo come contromisura alle mine, di tipo tradizionale, usate dagli Ottomani nel 1433, per assalire le fortificazioni di Belgrado. Benché la mina a polvere fosse un sistema terrificante, si capì ben presto che essa non significava un vantaggio solo per l’attaccante. Non solo poteva essere controbattuta con altre mine, come già aveva fatto Vrano, ma poteva addirittura essere usata come mezzo attivo di difesa.
Come detto pocanzi, dopo il 1425, i grandi miglioramenti tecnologici, portarono ad una rivalutazione del sistema difensivo in quanto tale. Le mura aumentarono in resistenza grazie alla creazione di terrapieni a ridosso della loro porzione interna, soprattutto interiore. Da una parte si rafforzava il muro contro eventuali cedimenti, dall’altra si provvedeva a creare una muratura con uno strato smorzante: in caso una palla avesse sbrecciato la muratura, avrebbe trattenuto eventuali schegge, o addirittura “assorbito” il colpo stesso, così che non cadesse all’interno. Occorreva poi mettere in grado i difensori di sparare con le armi da fuoco. A questo scopo vennero sovente riadattare le precedenti feritoie, in modo da poter garantire un sufficiente campo di tiro alle canne delle nuove armi. La forma più consueta di queste nuove cannoniere fu quella a toppa, “a buco di chiave”, come si diceva allora: in sostanza, una feritoia verticale che alla estremità inferiore portava un più o meno un più ampio foro tondo. Quest’ultimo serviva per brandeggiare la canna dell’arma, mentre la feritoia soprastante serviva ai serventi per osservare il campo di tiro e prendere la mira. Da questa forma basilare si svilupparono col tempo numerose variazioni – la forma a “cerchio di croce”; cioè con la feritoia sostituita da un’apertura a croce, che permetteva di ampliare la visione orizzontale. Naturalmente, si trattava di palliativi, tesi ad adattare costose e non facilmente sostituibili fortificazioni all’impiego delle armi da fuoco per l’offesa e la difesa. Ma la vera strada da seguire era un’altra, molto più radicale. Occorreva riprogettare tutta la struttura delle architetture fortificate in funzione del nuovo, potente ritrovato e dei suoi effetti. Non si poteva certo aumentare a dismisura lo spessore delle mura, se non si voleva rendere intollerabilmente disagevole l’accesso alle fortificazioni e troppo ristretto il loro spazio interno; allo stesso modo non si poteva considerare ideale la modificazione delle preesistenti feritoie, dato che in questo modo si precludeva ai difensori l’uso di armi di medio e grosso calibro. I camminamenti e le sommità dei castelli non erano né sufficientemente larghi per ospitare cannoni di grosso calibro era la sommità delle torri esistenti: solo lì c’era lo spazio per caricare, maneggiare puntare i cannoni e per ospitare i relativi serventi. Si doveva quindi erigere architetture nuove, sembra che architetti e costruttori abbiano affrontato la questione della resistenza delle murature ai colpi d’artiglieria da due diverse angolazioni. Da una parte essi tesero ad aumentare, lo spessore della muratura, così da assorbire l’impatto dei colpi in virtù della massa bruta; dall’altra parte cominciarono a sagomare le strutture architettoniche in modo tale che offrissero ai colpi la minor superficie verticale possibile mediante l’adozione di forme curve e di superfici oblique capaci di deflettere le palle che eventualmente le colpissero. L’articolazione balistica delle architetture fortificate si orientò a sua volta su due tipi di soluzione. Il primo consistette essenzialmente, nell’aggiunta di uno sperone a “becco”, in pratica di un cuneo, a una normale torre tonda orientando naturalmente la punta del becco nella direzione più probabile delle offese nemiche. Questi sono i vantaggi tipici del bastione angolare, con le sue facce protette e coperte dal fuoco dei difensori. Quando un colpo d’artiglieria colpiva una di queste facce, veniva deviato a lato, in una zona morta. L’unico modo per danneggiare considerevolmente la struttura, era quello di prendere in pieno lo spigolo del becco: ma in questo caso l’enorme spessore delle pietre con cui era realizzato questo elemento rendeva assai meno drammatico l’evento. Il secondo tipo di soluzione consisteva nel sagomare il muro e il suo parapetto superiore in modo tale che i colpi venissero deviati, invece che di lato verso l’alto, così che i colpi non potessero cadervi secondo un angolo retto, che avrebbe scaricato su di essa la massima parte dell’energia cinetica del proietto, bensì il più possibile “di striscio”.
Tuttavia mentre la sagomatura balistica delle fortificazioni muoveva i suoi primi passi, le mura dei vecchi castelli si sbrecciavano in gran quantità sotto i colpi delle nuove artiglierie. Si crearono nel frattempo nuovi cannoni di bronzo anziché di ferro fucinato, essendo notevolmente più leggeri, con il risultato che il pezzo poteva essere posizionato in posizione e persino spostato durante un assedio, con relativa celerità e i nuovi affusti rendevano assai più facile sia l’alzo, sia il brandaggio del pezzo e garantivano una maggior stabilità del complesso. Successivamente, con l’avvento del mortaio e della mina, ci furono spettacolari dimostrazioni del potere dei nuovi mezzi distruttivi, i quali non provocarono solo sgomento, ma anche un’accanita e febbrile ricerca di mezzi con cui essi potevano essere contrastati. Questi presero corpo soprattutto in Italia, e si concentrarono su quel caposaldo dell’architettura militare dell’età delle armi da fuoco che fu il bastione. La prima forma bastionata apparve nel 1433 ad opera di Filippo Brunelleschi e fu applicata alle fortificazioni della città di Pisa. Il bastione, in sostanza, è l’elemento che viene a sostituire la torre come rinforzo e collegamento di due tratti di cortina difensiva. Esso è sagomato in modo tale da essere più spazioso delle vecchie torri, così da consentire l’alloggiamento di un numero maggiore di pezzi di artiglieria e dei relativi serventi; ma soprattutto la sua sagoma permette di difendere, con il fuoco radente sviluppato dai cannoni, le cortine a destra e a sinistra del bastione e le facce contigue dello stesso. Così ogni bastione rimane protetto dal fuoco dei suoi omonimi posti ad ambo i lati, i quali possono colpire di infilata gli assalitori che si avvicinano.
Se teniamo conto delle altre fortezze costruite per i duchi di Urbino e Giovanni della Rovere (1457 - 1501), appare chiaro che, se vi era un progetto, era semplicemente quello di costruire nelle principali città e paesi, senza tener conto di altre considerazioni. Queste nuove fortificazioni, dunque, non furono progettate unicamente per scopi di natura militare, ma hanno avuto anche l’importante funzione di rappresentare il duca di Montefeltro agli occhi dei suoi sudditi, secondo una strategia che sembra seguita anche dal genero Giovanni della Rovere.
Viene ad emergere così un particolare rapporto tra la fortezza e la città, che vedrà come esempio massimo l’architetto, di origini senesi, Francesco di Giorgio Martini (1439 - 1502). A partire dal novembre 1477, viene chiamato ad Urbino presso la corte di Federico da Montefeltro (1422-82), di cui diviene fido consigliere e architetto militare, dopo le brillanti esperienze senesi. Di Giorgio Martini, a partire dal 1469, si dedicò con impegno al sistema di approvvigionamento idrico sotterraneo della città di Siena: lavori di miglioramento sull'acquedotto sotterraneo lungo venticinque chilometri. Il calcolo delle distanze e delle direzioni sotto terra presentava classici  problemi di calcolo strutturale, di stima e di attuazione. Dopo tutto per Siena, come per ogni altra città, l'acqua era l'elemento vitale per lo sviluppo urbano. La conoscenza dell'acquedotto diveniva dunque un segreto militare: rivelare l'ubicazione di un ingresso di acquedotti equivaleva a diffondere un segreto di Stato. Il progetto sotterraneo rappresentava per l'epoca la massima impresa ingegneristica dell'epoca, richiedendo il massimo dell'ingegno da parte di molti tecnici che coadiuvavano Francesco di Giorgio. 
Tale esperienza sarà formante nella sua conoscenza sulla stabilità delle costruzioni. Inoltre avrà acquistato dimestichezza con il bagaglio di conoscenze necessarie alla pratica costruttiva senese: dove reperire i materiali, come comporli, a chi rivolgersi per la loro lavorazione, quanto tempo impiegare per tali operazioni. Negli angusti condotti sotterranei, avrà forse anche avuto modo di riflettere sulle tecniche e gli stratagemmi militari, come la mina sotterranea che sarebbe riuscito a far brillare Napoli sotto Castel Nuovo nel 1495. L'architetto riuscì magistralmente a rappresentare gli interessi dei Montefeltro attraverso anche il suo celebre trattato di “Architettura civile e militare” (1480). Nella sua opera il Martini tratta la fortezza definita “moderna”, ovvero come questa debba poter incassare i colpi delle nuove armi a “polvere nera” e dello studio della posizione migliore per edificare una fortezza. L’architetto è completamente un uomo rinascimentale: in cui l’ordine architettonico e quello politico vengono uniti all’interno dell’architettura militare.
Francesco di Giorgio Martini (Siena, settembre 1439 – Siena, 29 novembre 1501) è stato un architetto, teorico dell'architettura, pittore, ingegnere, scultore, medaglista senese. Francesco di Valdambrino, busto Francesco di Giorgio Martini - legno dipinto, sec. XV, prima metà. Sullo sfondo la rocca di San Leo in provincia di Rimini, proprietà dei Montefeltro e progettata dall'architetto.
La rocca viene osservata come la “testa” del pensiero umanista rinascimentale, dove l’uomo si fa strada e si pone davanti a Cristo. Essa è indice di gerarchia: l’urbanistica militare è l'unione del lato sociale e politico umano. La fortezza deve essere posizionata in un'area privilegiata, rispetto alla città, per consentire di svolgere al meglio la sua funzione di controllo e possibile avvistamento del nemico. L’elevazione non è tuttavia fondamentale: se questa dovesse supplire in altezza, deve essere sempre posizionata in luoghi strategici del territorio. Le Magioni fortificate di Francesco di Giorgio Martini da un punto di vista topografico, come la testa comanda il corpo, sono sempre posizionate in punti nevralgici o in posizioni molto elevate. Altro punto decisivo trattato dall’architetto era il sito: prima di costruire avveniva un’attenta analisi del territorio dal quale si dovevano trarre vantaggi strategici. Nella cittadina di Cagli, in provincia di Pesaro-Urbino nelle Marche, il torrione posto sulla cinta muraria venne raddoppiato (da qui la denominazione a doppio bastione) per assolvere alle necessità difensive, sia verso l’esterno, che verso l’interno delle mura. A livello planimetrico il manufatto edilizio si presenta composto da due cerchi che creano un ovale: una forma che risponde alle necessità di copertura difensiva di entrambi i lati.
A Mondavio, sempre in provincia di Pesaro-Urbino, il mastio sembra composto da una serie di pilastri o contrafforti di ragguardevoli dimensioni uniti insieme. Ogni faccia è orientata in una direzione e larghezza differente, sia per guardare la campagna che per proteggere le strade principali. Anche il ponte di ingresso, altra componente del complesso architettonico, è protetto; così come le superfici angolari vengano interrotte e arretrate per raddoppiare la possibilità di fiancheggiamento. Un simile modo di adattarsi alle necessità del sito lo troviamo a Sassofeltrio, dove la coppia di torri cilindriche situate verso la città (a est), guarda anche a nord e a sud, lungo la linea perimetrale urbana. In breve, la forma architettonica viene concepita come un naturale esito delle condizioni topografiche, flessibili nel rispondere a immediate necessità. De facto la città non si poneva come una minaccia per la fortezza, ma diveniva parte integrante dell’urbe. 
Il disegno mostra la figura umana sovrapposta alla pianta di una cittadella. Mentre i piedi sono disposti davanti ai torrioni in basso, le braccia si trovano dietro ai torrioni superiori.
L’immagine del corpo e della testa, non è quindi solo una vuota analogia, ma un vero e proprio principio guida, di decisiva importanza per la loro realizzazione. Le fortezze di Francesco di Giorgio Martini nel territorio di Urbino rappresentano un esempio singolare di sistema difensivo regionale: una pianificazione alquanto dissimile rispetto a quello creato, ad esempio, dai fiorentini, che fondarono avamposti di una certa grandezza nei punti di accesso al loro territorio, come a Poggio Imperiale (1488-90 e 1496-97) e Sarzana (1487-92). Altrove in postazioni quali la rocca roveresca di Senigallia (1480), si denota la netta separazione fra la fortezza e la città. Al contrario le piccole fortezze dei Montefeltro coesistevano con la città. Per alcuni centri minori, come quelli appartenenti al territorio fiorentino o malatestiano, le fortezze rappresentavano il controllo e l’autorità dei Montefeltro. Difatti il servizio militare non portava solo la possibilità di ricchezza e carriera militare, ma anche ulteriori introiti nel ducato che permettevano di mantenere un sistema di tassazione non gravoso, il che fa capire la forte fedeltà tra la popolazione. La fortezza diviene dunque parte integrante del progetto urbanistico della città: i manufatti architettonici militari dei Montefeltro furono concepite come arsenali per una milizia locale amica, e non come basi operative per un esercito di occupazione. Dunque quando le milizie rimpatriavano tornando alle proprie basi, nelle stagioni piovose, i soldati probabilmente lasciavano le armi nella fortezza per tornare alle loro dimore. Il rapporto tra fortezza e abitato, popolazione e militari, duca e sudditi, era naturale interdipendenza.
Un altro interessante elemento delle fortificazioni introdotto da Francesco di Giorgio, destinato a lunga vita, fu la coponiera, ovvero la più comune “casamatta”: un basso edificio posto nel fossato o addirittura lungo la sponda esterna del fossato - talvolta nella piazza d’armi del castello - dotata di aperture fuciliere il cui fuoco potesse prendere alle spalle il nemico avventurandosi nella fortificazione. La caponiera si rilevò un eccellente mezzo di protezione dei fossati e delle altre zone “morte” scarsamente difese dall’artiglieria principale della fortezza.
Costruita durante un periodo di transizione dell'architettura militare, la fortezza di Sassocorvaro presenta alcuni aspetti unici nel panorama dell'architettura coeva. La planimetria con il suo compenetrarsi di linee curve, sembra essere stata concepita in funzione della massima resistenza ai colpi delle artiglierie avversarie; ma lo stesso effetto potrebbe anche in gran parte essere casuale, dovuto alla complicata necessità di dar vita a un nuovo complesso sulle basi di strutture già esistenti. Sembra indubbio che, almeno incosciamente, il progetto si sia ispirato alla sagoma di una tartaruga, di cui il puntone cuneiforme costituisce la testa e la piccola torretta, all'estremità opposta la coda: una concezione in linea con il simbolismo dell'epoca, e con l'apparato araldico corrente che faceva della tartaruga un simbolo di potenza e di forza. Purtroppo non esiste alcuna prova documentaria che suffraghi sufficientemente una simile ingegnosa teoria. La torre cuneiforme a facce tondeggianti è tipica del periodo, così come è caratteristica dell'epoca la sua posizione tra due rondelle: una concezione che per qualche verso anticipa la successiva architettura bastionata. Del tutto atipica è la curvatura del proto-bastione centrale impiegata nell'evidente intento di dare maggiore resistenza alle murature contro le palle dei cannoni. Altro elemento che fa di Sassocorvaro un'architettura di transizione è la sua concezione di singolo, isolato punto forte, in un'epoca che stava andando invece verso la concezione di serie di elementi fortificati e di cinte mutuamente integrantisi e rafforzantisi, basati sull'impiego dei bastioni: punto determinante sia del sistema difensivo nel suo complesso, sia della sua potenza di fuoco.
In tale epoca appaiono sulla scena ancora tre trattatisti di forte rilievo europeo: Roberto Valturio (1405 - 1475), Albrecht Dürer (1471 - 1528) e Leonardo di ser Piero da Vinci (1452 - 1519). I loro disegni rivelano, tuttavia, pur nella loro innegabile genialità, la scarsa conoscenza che della realtà pratica avevano gli estensori. Nessuno dei tre, infatti, era un architetto militare o un uomo di guerra; anzi, ognuno di loro era la perfetta incarnazione dell’uomo poliedrico del Rinascimento: scienziato, artista, umanista. Anche in campo architettonico-militare, i loro interessi divergevano. Il Valturio era interessato alle macchine, spesso irrealizzabili, come il suo incredibile carro da battaglia con propulsione a vento: un esempio perfetto di impraticabilità. Albracht Dürer era un pittore, anche se abbastanza atipico per l’epoca, tanto da essere definito più un designer che un pittore. Oltre ai dipinti, cui è affidata la sua eterna fama, scrisse un interessante trattato sulle fortificazioni “Alune annotazioni sulla fortificazione di città, castelli e territori”, che vide la luce nel 1527. Egli aveva manie di gigantismo: alcune sue proposte per torrioni di 130 metri di diametro, con mura alte 40 metri e fossati profondi 35 metri furono uno dei motivi per cui le sue architetture, rimasero sul trattato. Le sue torri – chiamate “bastei” – erano previste per garantire la difesa a distanza della fortificazione, mediante il fuoco dei cannoni; la difesa ravvicinata era invece affidata a caponiere dotate da armi da fuoco più piccole. Nelle torri erano previste camere interne dotate di sfiati che permettessero l’espulsione dei fumi e delle esalazioni della polvere da sparo, così che gli artiglieri potessero avere sempre una visione abbastanza chiara del campo di tiro e potessero non essere intossicati durante l’azione – con conseguente maggiore precisione e durata dell’azione stessa.
Stralcio del codice atlantico di Leonardo da Vinci.
Quanto a Leonardo da Vinci, i suoi taccuini traboccano di annotazioni e di progetti riguardanti le fortificazioni. Egli attribuiva al settore tanta importanza da non esitare a qualificarsi come architetto e ingegnere militare, e da proporsi proprio in questa veste a quello che doveva diventare il suo protettore, il duca di Milano Ludovico Maria Sforza detto il Moro (1452 - 1508). Le sue ricerche in questo campo vanno dai ponti portatili ai ritrovati pirotecnici, dallo studio delle artiglierie a un altro carro da guerra propulso dal vento, sul tipo di quello di Valturnio. Nel 1502, quando divenne sovraintendente delle opere architettoniche di Cesare Borgia, produsse una serie di progetti che mostrano con chiarezza la sua intenzione di fare architettura e armi da fuoco, un complesso militare integrato. La strada scelta da Leonardo per la protezione delle architetture dai colpi di artiglieria era la sagomatura balistica, ottenuta mediante l’accurata curvatura di ogni superficie esterna, ma non si limitò a questo: fu un tenace propugnatore dei rivellini, cioè delle opere di difesa avanzate poste a protezione delle porte d’accesso alle fortezze.
Il codice atlantico riporta poi disegni ancora più evoluti, basati su idee di difesa multiple costituite da casematte concentriche separate tra loro da fossati, e ognuna leggermente sopraelevata rispetto alla precedente, in modo che il loro fuoco si potesse sommare. Anche queste casematte presentano superfici integralmente curve e sono provviste di camini di sfiato per i gas e i fumi. Nonostante tutto questo proliferare di idee, l’attività costruttiva reale procedette assai cautamente, assimilando lentamente ogni novità e mettendo alla prova la validità di una, prima di avventurarsi a provare la successiva.
 
Per approfondimenti:
_Ian Hogg, Storia delle fortificazioni - De Agostini, Novara;
_Fiori e Tafuri, Francesco di Giorgio - Mondadori, Milano, 1993;
_Francesco di Giorgio Martini, Architettura civile e militare - 1480.
 
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

[vc_row css_animation="" row_type="row" use_row_as_full_screen_section="no" type="full_width" angled_section="no" text_align="left" background_image_as_pattern="without_pattern" css=".vc_custom_1470767044080{padding-right: 8px !important;}"][vc_column css=".vc_custom_1470767053433{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_separator type="normal" css=".vc_custom_1470767563136{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos6" css=".vc_custom_1579814625217{padding-top: 45px !important;}"]
a cura di Stefano Scalella
18 gennaio 2020 – Bottefa del Terzo Settore, Corso Trento e Trieste n.18 - 63100 AP
Introduce: Francesca Angelini
Modera: arch.Giuseppe Baioccchi
Interviene: dott. Giorgio Enrico Cavallo
 
Sabato 18 gennaio 2020, presso la Bottega del Terzo Settore è andato in scena il 55°incontro dell'associazione culturale onlus Das Andere. L'evento ha visto la presenza dei consiglieri comunali Emidio Premici ed Alessio Rosa, avendo come ospite il giornalista Giorgio Enrico Cavallo il quale ha presentato al pubblico la figura poco conosciuta del filosofo e giurista sabaudo Joseph de Maistre. L'appuntamento presentato dalla vice-presidente Francesca Angelini, è stato moderato dall'architetto e presidente Giuseppe Baiocchi.
Solo recentemente il mito rivoluzionario in Francia ha cominciato a incrinarsi: nel 1989, alle stanche celebrazioni ufficiali del secondo bicentenario del 1789, si opposero vivaci e moderne anti-celebrazioni che riaprirono la diatriba dialettica, mai sopita, su antiche questioni considerate risolte e vetuste divisioni credute superate. Giorgio Enrico Cavallo prosegue la sua lectio magistralis parlando della damnatio memoriae di De Maistre. Oggi, di contro, appare come un vero e proprio storico dell’avvenire: non solo seppe valutare le negatività rivoluzionarie, prevedendone i tragici postumi che ancor oggi tormentano la società odierna, ma riuscì mirabilmente ad intuire le condizioni basilari della sua terapia. Non meraviglia dunque che, fin dal contestato bicentenario del 1789, per riprendere il celebre storico Jacques Solé (1932 – 2016) «molti ritrovano […] gli accenti di un Joseph de Maistre che si erge contro Satana», riaffermando con forza, l’inconciliabilità tra due civiltà e culture in opposizione polare: quella antropocentrica della Rivoluzione e quella teocentrica della Tradizione. La lezione è apparsa come un'importante riflessione sulla nostra società e sulla straordinaria vita di uomo e diplomatico del Regno dei Savoia; quel De Maistre che ancora oggi ha molto da insegnarci e molto su cui far riflettere l'opinione pubblica. L'Anti-cattolicità rivoluzionaria degli illuministi traspare sempre marginalmente in secondo piano, di contro è essenziale per capirne il vero significato estrinseco di un nuovo mondo che si affermava in cui "Dio è morto", perché ucciso dall'uomo stesso.

[vc_row css_animation="" row_type="row" use_row_as_full_screen_section="no" type="full_width" angled_section="no" text_align="left" background_image_as_pattern="without_pattern" css=".vc_custom_1470767044080{padding-right: 8px !important;}"][vc_column css=".vc_custom_1470767053433{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_separator type="normal" css=".vc_custom_1470767563136{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos6" css=".vc_custom_1579787281495{padding-top: 45px !important;}"]
a cura di Stefano Scalella
07 dicembre 2019 – Chiesa di San Cristoforo, Via d'Argillano n.21 - 63100 AP
Introduce: arch.Giuseppe Baioccchi
Si esibisce: Maestro Gabriele Pezone
 
Sabato 07-12-2019 dicembre, presso la Chiesa di San Cristoforo (Via d'Argillano n.21, 63100 Ascoli Piceno) è andato in scena il 54°incontro dell'associazione culturale onlus Das Andere alle ore 18:30. L'evento ha avuto come ospite il direttore d'orchestra Gabriele Pezone, il quale si è esibito nel Concerto d'organo dedicato al Regno di Napoli tra tradizione e rinnovamento. L'appuntamento è stato introdotto dall'architetto e presidente Giuseppe Baiocchi. Napoli è stata una delle grandi capitali delle cultura europea. Ogni compositore coinvolto ha avuto un profondo legame con l'Italia del Sud. Musica e storia si sono intrecciate per un programma che ha sfiorato i grandi episodi storici legati all’Unità d’Italia, le cui cronache ufficiali sono a tratti lacunose. Le musiche hanno dato voce a chi - storicamente -, è riuscito a parlar meno. Tra i compositori che sono stati trattati, spicca il belga Jacques- Alexandre de Saint Luc: Maestro di Cappella e liutista di corte del Principe Imperiale Eugenio di Savoia, gran maresciallo e condottiero dell’esercito asburgico. Una delle sue più grandi vittorie fu appunto la presa di Gaeta del 1707, quando entrò trionfalmente in città strappando il regno di Napoli dal dominio spagnolo. Proprio per questa occasione, De Sain Luc dedicò al Principe Eugenio una bellissima suite di 8 brevi brani dal titolo Pour la prise de Gaeta, completata dal sottotitolo italiano “agli eroi dell’assedio”. Per quel che riguarda Attwood, il suo brano è legato alla figura dell’ammiraglio inglese Horatio Nelson, grande trionfatore a Trafalgar a discapito della flotta napoleonica (battaglia a cui prese parte anche il Sud Italia). Nelson, seppur ferito a morte durante il combattimento, diede ordine di farsi ritagliare la propria bara usando il legno dell’albero maestro della nave ammiraglia francese, come un voler ricordare a se stesso che, nonostante l’immensa gloria militare ricevuta, rimaneva un comune mortale. Davvero un bell’esempio di valori rispetto a una società come la nostra. La musica coesiste con una forte componente religiosa: si è riportata anche la marcia trionfale di Pio IX, il Pontefice che promulgò il dogma dell'Immacolata Concezione alla Vergine Maria. Crediamo che il ruolo di un musicista deve anche essere quello di divulgatore.

[vc_row css_animation="" row_type="row" use_row_as_full_screen_section="no" type="full_width" angled_section="no" text_align="left" background_image_as_pattern="without_pattern" css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_separator type="normal" color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]

di Giuseppe Baiocchi del 02-01-2020

[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1701188549802{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Nelle memorie di Sant’Elena, Napoleone Bonaparte (1769 - 1821) dettava alcuni suoi ricordi sull’oggi dimenticato esercito di Condé: «Dipendevano dai nostri nemici, è vero; ma combattevano per la causa del loro Re. La Francia ha dato la morte alla loro azione e le lacrime al loro coraggio; ogni dedizione è eroica»1. La rivoluzione francese ha reciso l’equilibrio sociale e politico non solo dell’antico Regno di Francia, ma successivamente di tutta l’Europa. Per tale motivazione la rivoluzione riscuote da sempre grande attenzione. Tale approfondimento si estende meno per i numerosi oppositori al regime dei giacobini.
Jean-Baptiste-Jacques Augustin, Bildnis Louis Joseph de Bourbon, Prince de Condé, 1790 - tempera e acquerello su avorio. Louis Joseph de Bourbon (9 agosto 1736 - 13 maggio 1818) fu Principe di Condé dal 1740 alla sua morte. Membro della Casa di Borbone, ricoprì il prestigioso grado di principe di sangue.
Tra questi, gli eserciti degli emigrati sono di particolare interesse, come giustamente afferma lo storico francese Jean Tulard (1983): «La controrivoluzione non era solo ideologica [...], ma [...] era anche – e forse soprattutto – militare»2. Ma da chi era composto questo esercito di emigrati? Nato in seguito alla Rivoluzione francese e composto da nobili e truppe rimaste fedeli alla precedente istituzione monarchica, erano coloro che letteralmente emigrarono fuori dalla Francia, a partire dalla presa della Bastiglia, sfuggendo a morte certa: si stimano 140.000 persone fuggite dal suolo francese.
Così ci ricorda la magiara Emma M. R. M. J. B. Orczy (1865 - 1947) sulla questione, nella sua opera celebre “La primula rossa”: «Quegli aristocratici erano così stupidi! Erano tutti traditori del popolo, naturalmente, uomini, donne e bambini discendenti dai grandi uomini che dal tempo delle Crociate avevano fatto la gloria della Francia: la sua antica noblesse. [...] Ogni aristocratico era un traditore, come i suoi antenati prima di lui: per duecento anni il popolo aveva sudato e faticato e patito la fame per mantenere una corte libidinosa nel lusso e nell'abbondanza; ora i discendenti di coloro che avevano contribuito allo sfolgorio di quella corte dovevano nascondersi o fuggire per evitare la tardiva vendetta dei loro sudditi. E infatti tentavano di nascondersi e di fuggire: tutto il divertimento stava proprio lì. [...] ce n’erano di tutti i generi: ci-devant conti, marchesi, persino duchi, che volevano fuggire dalla Francia, raggiungere l’Inghilterra o qualche altro paese altrettanto maledetto, e lì tentare di radunare un esercito per liberare gli sventurati prigionieri del Tempio, che un tempo si chiamavano sovrani di Francia»3.
L’esercito reclutava privatamente i soldati, spesso tra i realisti delle truppe repubblicane francesi, per rimpolpare e costituire i reparti. A livello storico parteciparono alle “guerre rivoluzionarie francesi” (1792 – 1802), suddivise in guerra della prima coalizione (1792 - 97), che terminò con il trattato di Campoformio e dei conflitti della seconda coalizione (1798 - 1802). Le ostilità cessarono ufficialmente col Trattato di Amiens (1802). Gli eventi militari successivi vengono storicamente indicati come guerre napoleoniche.
L’esercito degli emigrati fu sostenuto e finanziato dalle potenze Trono e Altare coalizzate contro l’auto-costituitasi nazione di Francia, e da fondi privati recuperati dagli stessi prìncipi dell’esercito, provenienti dai loro patrimoni in patria. Esisteva difatti un’eterogenesi dei fini con le potenze monarchiche europee, le quali erano interessate non solo a contenere la rivoluzione, ma a distruggerla e ripristinare il legittimo regnante: Luigi XVI, imprigionato nella Torre del Tempio il 13-08-1792 a Parigi. Tale veduta era quantomeno allineata con le quinte colonne nobiliari interne al paese francese, come quelle che combatterono la Guerra di Vandea (1793 e seguenti) dell’Esercito cattolico e reale del generalissimo Jacques Cathelineau (1759 - 1793).
Difatti il 10 marzo 1793 la Convenzione, per contrastare le Monarchie Europee a cui aveva dichiarato guerra, aveva approvato la legge sul reclutamento di 300.000 uomini che, applicata in modo arbitrario con un sistema di designazione iniquo e confuso e con la requisizione diretta con premio di arruolamento, fu la causa scatenante dell’estesa insurrezione cattolica e realista in Vandea che mise in ulteriore grave pericolo la Rivoluzione. Provocata soprattutto dalla catastrofe economica e dalle misure anticattoliche adottate, la rivolta vandeana si diffuse tra la popolazione umile clericale e realista e fu guidata da leader popolari e da nobili. Lo stesso Jules Verne, ce ne fornisce un ricordo: «I contadini dell’Ovest non si erano commossi né per la proscrizione dei nobili, né per la morte di Luigi XVI; tuttavia la dispersione dei loro preti, la violazione delle loro chiese, l’insediamento dei parroci giurati nelle parrocchie e, finalmente, quest’ultima misura della coscrizione, li spinsero all'estremo. “Visto che dobbiamo morire, moriamo a casa nostra”! esclamarono. Si avventarono contro i commissari della Convenzione e, armati di soli bastoni, misero in rotta la milizia di posta, al fine di evitare che dei disordini potessero turbare le operazioni di sorteggio. Quel giorno incominciava la guerra di Vandea; il nucleo dell'esercito cattolico e realista si formava sotto la direzione del carrettiere Cathelineau e del guardacaccia Stofflet»4.
La nobiltà francese era già divisa prima della rivoluzione, grazie all’ala dei nobili che desideravano una monarchia costituzionale. Tali linee divisorie non si spensero subito: da un lato vi furono così gli “eserciti dei prìncipi”, formati dai fratelli e parenti più prossimi a Luigi XVI e dai loro cortigiani; dall’altro “l’esercito dei prìncipi di Condé”, membri della casa reale francese, che però erano al di fuori dalla cerchia interna del Re Luigi XVI.
Il primo esercito, formato di nobili della corte, non era un esercito di militari ed era abituato ad ottenere i gradi in base al rango nobiliare. Carlo Ferdinando d’Artois, Duca di Berry (1778 - 1820) era uno dei leader del movimento, così come il clan del duca Jules François Armand de Polignac (1746 - 1817). Ciò portò all’incapacità di svolgere un ruolo autonomo durante la breve campagna campale che vide questo esercito protagonista.
Henri-Pierre Danloux, Charles Ferdinand d'Artois (1778 - 1820), duca di Berry (particolare del dipinto ad olio). Uno dei comandanti dell'armata dei prìncipi che si sciolse nel 1792.
I prìncipi francesi dovevano essere divisi in tre corpi d’armata: un primo sotto il comando del principe di Condé, destinato a entrare in Francia attraverso l’Alsazia e ad attaccare Strasburgo; un secondo denominato “dei prìncipi”, sarebbe stato al seguito del re di Prussia, per fare il suo ingresso in Francia passando dalla Lorena, ed entrare direttamente su Parigi; e il terzo corpo d’armata, quello del principe di Borbone, figlio di Condé, che sarebbe dovuto penetrare attraverso i Paesi Bassi e attaccare Lille dalle Fiandre.
Con appena 10.000 uomini, alle spalle dell’esercito di Brunswick, contribuiranno passivamente al tentativo di invasione prussiana dello Champagne. A guidare le operazioni militari vi fu il marchese Charles Eugène Gabriel de La Croix de Castries (1727 - 1801) insieme al maresciallo Victor-François de Broglie (1718 – 1804). Questo corpo sarà licenziato il 24 novembre del 1792, due mesi dopo la vittoria francese a Valmy (20-09-1792) che contribuì allo smantellamento dell’esercito, il quale non brillò per operatività, né per capacità militare.
Il secondo esercito, quello del principe di Condé, che attrasse meno uomini e non tutti di antica nobiltà, possedeva diversamente militari di carriera, fedeli all’ideale monarchico. Efficiente e temerario ebbe una vita molto più lunga ed autonoma, diventando una forza professionale mercenaria al soldo delle potenze più ostili al nuovo regime, pur con una sua propria agenda politica reazionaria. Così lo ricorda François-René de Chateaubriand (1768 – 1848): «ero ansioso di incontrarmi con i miei pari, degli emigrati come me, con seicento lire di rendita. Eravamo proprio stupidi, senza dubbio, ma almeno la nostra vecchia spada la tenevamo sguainata, e se avessimo ottenuto dei successi, non è a noi che la vittoria avrebbe portato profitto. [...] Andavo a raggiungere quegli uomini di guerra che mettono la loro gloria in simili imprese, per diventare uno di loro»5.
Dopo il Trattato di Campoformio (1797), l’Austria sospese le ostilità con la Francia: l’armata del principe Condé riuscì a non smobilitare, passando al servizio di varie nazioni fino al trattato di Lunéville (1801), scioltasi solo l’anno successivo con la pace tra Francia e Gran Bretagna. Molti membri di questo esercito militarono poi negli schieramenti prussiano e russo, diventando parte delle rispettive nobiltà. Altro indimenticabile episodio narratoci nelle monumentali Memorie D’Oltretomba del visconte Chateaubriand: «Fra Coblenza e Treviri, m’imbattei nell’esercito prussiano: tiravo diritto lungo la colonna quando, giunto all’altezza delle guardie imperiali, mi accorsi che marciavano in ordine di battaglia, con tanto di artiglieria in linea; il re e il duca di Brunswick occupavano il centro del quadrato, composto dai vecchi granatieri di Federico. La mia uniforme bianca attirò lo sguardo del re; mi fece chiamare: sia lui che il duca di Brunswick si tolsero il cappello, e salutarono in me l’antico esercito francese. Mi chiesero il mio nome, quello del mio reggimento, dove andassi a raggiungere i prìncipi. Quest’accoglienza militare mi commosse: risposi emozionato che, essendo venuto a conoscere in America la sventura del mio re, ero tornato per versare il mio sangue al suo servizio. Gli ufficiali e i generali che circondavano Federico Guglielmo fecero un cenno di approvazione e il monarca prussiano mi disse: “Signore, i sentimenti della nobiltà francese si riconoscono sempre”. Si tolse di nuovo il cappello, e rimase a capo scoperto, immobile, finché non fui scomparso dietro alla massa di granatieri. Oggi si inveisce contro gli emigrati: sono tigri che straziavano il seno della loro madre; nell’epoca di cui parlo, ci si atteneva ai vecchi esempi, e la patria contava quanto l’onore. Nel 1792, la fedeltà al giuramento passava ancora per un dovere; oggi è divenuta così rara che la si considera una virtù»6.
Incisione di François-René de Chateaubriand (1768 – 1848) scrive le sue memorie sul campo militare dell'armata dei prìncipi nel 1792. Sarà congedato con onore per alcune ferite riportate dopo l'assedio di Thionville.
Grazie a questa sua maggiore durata, quasi tutti i reparti di maggiore successo degli eserciti dei prìncipi, oltre a diversi esponenti delle rivolte legittimiste in Francia, continuarono a combattere nell’esercito dei Condé (1792-1801), che fu il vero erede di tutte le armate degli emigrati francesi. Fu anche l’unico reparto che riuscì ad autofinanziarsi - grazie alle ricchezze dei nobili -, dove i comandanti si decurtarono la paga per favorire i subordinati e i soldati semplici7.
La nazione francese come vendetta verso gli emigrati, privava loro dei diritti civili e delle loro terre, le quali venivano vendute come beni nazionali. Sono decretati fuorilegge con decreti che prevedono la loro condanna a morte se tornano a mettere piede su suolo francese: parallelamente le loro famiglie vengono ricercate e perseguitate. Nel 1802 Napoleone, da Primo Console, decretò un’amnistia generale, dalla quale furono esclusi solo pochi generali dall’esercito di Condé.
Come per l’armata dei prìncipi, l’esercito di Condé conta tra i suoi ranghi alcuni aristocratici come suo figlio, Luigi VI Henri de Bourbon-Condé (1756 - 1830); Louis Antoine Henri duca d’Enghien (1772 - 1804); Armand-Emmanuel-Sophie-Septimanie de Vignerot du Plessis - duca di Richelieu (1766 - 1822); Pierre Louis Jean Casimir de Blacas d’Aulps - principe di Blacas (1771 - 1839); Claude-Antoine-Gabriel duca di Choiseul (1760 - 1838); Andrault Alexandre Louis - conte di Langeron (1763 - 1831); Cesare Carlo, duca di Damas-Antigny (1758 - 1829); François Dominique de Reynaud, conte di Montlosier (1755 - 1838); Louis-Gabriel-Ambroise, visconte di Bonald (1754 - 1840) e molti gentiluomini come il già citato Chateaubriand.
Inizialmente vi sono quasi più ufficiali che soldati: i primi diventano improvvisamente militari per devozione alla monarchia, ma è una truppa armata male: «Avevamo delle tende; quanto al resto, ci mancava tutto. I nostri fucili, di fabbricazione tedesca, erano armi di scarto spaventosamente pesanti che ci rompevano le spalle e spesso non erano in grado di sparare. Ho fatto tutta la campagna con uno di quei moschetti, e il cane non scattava»8.
Contrariamente l’elemento del coraggio e della devozione all’ideale non mancava affatto. Philippe-Jacques de Bengy de Puyvallée (1743 - 1823), ex deputato della nobiltà del baliato di Bourges, fuggito dalle prigioni rivoluzionarie, osservava nel novembre 1791: «Non c’è né lo schema di un vasto piano abilmente concepito, né un insieme dei dettagli, né connessione tra i rapporti, tutto è coperto dal velo della nudità totale… Comunque organizziamo la legione tutti i giorni e ho sentito che saremo in Francia al più tardi di gennaio a capo di 80.000 uomini»9.
L’esercito del principe Condé possedeva diversi ceppi linguistici francesi: quello normanno, il bretone, il picardo, l’alvernia, il guascone, il provenzale, e la linguadoca. Essi sognarono di riportare gli emigranti verso una patria in cui non avevano più il diritto di vivere, perché considerati “nemici di classe”. Tra le varie correnti interne all’esercito, dagli aristocratici Trono e Altare, a quelli più moderati semi-costituzionali vi erano molti “aristos” che credevano che qualsiasi cambiamento politico alla Francia rivoluzionaria giacobina andasse perpetrato. Difatti i principî del diritto naturale, appoggiati da numerosi esempi storici, ci portano alla riflessione che ogni governo quando non offre più garanzie alle leggi fondamentali della società, diventa il primo a trasgredire le leggi dell’equità e della giustizia, cessando di esistere e facendo tornare l’uomo al suo stato di natura: questo è quello che era accaduto in Francia. Dunque diveniva lecito difendersi come si poteva, ricorrendo ai mezzi che sembravano più adatti a rovesciare la tirannia e ristabilire i diritti di ognuno e un ordine sociale verticale.
L’esercito di Condé all’inizio combatte a fianco degli austriaci: gli 80.000 uomini promessi a Puyvallée sono in definitiva solo 20.000. Ansiosi di controllare strettamente i movimenti degli emigrati francesi, gli austriaci e i prussiani subordinano l’armata di Condé sotto il comando austriaco nel 1793.
Dopo questa quasi forzata inazione del 1792, l’esercito di Condé sfugge alla dissoluzione generale delle forze: di stanza a Baden, e successivamente a Villingen, i condeani rimangono per tutto l’inverno in attesa del loro destino. Il 25 gennaio 1793, l’armata partecipa al funerale in memoria del re Luigi XVI, nel frattempo giustiziato – con un processo farsa - quattro giorni prima a Parigi.
Tale funesto evento è significativo nel corpo armato: dopo la morte del Borbone, l’esercito adotterà una nuova fascia di seta al braccio sinistro, all’interno della quale venivano rappresentati tre fleur-de-lis neri al posto dell’unico giglio borbonico rappresentato nel 1792, di colore blu.
Alla fine, l’emissario del principe, il marchese di Ecquevilly Armand François Hennequin (1747- 1830), riuscì a convincere l’Imperatore austriaco a mantenere questo corpo nella sua paga dal marzo del 1793, senza fornire però l’assistenza dell’artiglieria e degli ospedali da campo. Condé diventa Generalfeldmarschall, suo figlio, Luigi VI Henri de Bourbon-Condé, Generalmajor. La maggior parte degli altri gradi militari interni all’esercito non viene riconosciuta. I soldati ricevono sette sous (francesi) al giorno. Condé riunisce la massa di stipendi (compresa la sua) e la distribuisce equamente tra tutti indipendentemente dal grado: una bella misura democratica per questo esercito di aristocratici.
Mostriamo tre miniature di ufficiali dell'armata di Condé (da sinistra a destra): François-Joseph Desvernois (pittore), Colonnello del reggimento dei Cavalieri della Corona Félix-Jean-Baptiste-Basile, visconte di Borne d'Altier (1752 - 1828) - 1797-98. Diametro 5,3×4 cm, in avorio, acquerello, guazzo; Maresciallo delle case del nobile reggimento a cavallo del duca di Berry, Charles-Michel-Elisabeth, Marchese di Borne d'Altier (1770 - 1812) -1797-98. Diametro 5,3×4 cm, in avorio, acquerello, guazzo; Charles Henard (pittore), ritratto del Conte di Baschi du Cayla (1747-1826) in abito del suo reggimento con spalline del colonnello, circa 1794. Diametro 85 mm, avorio, acquerello, tempera.
Il corpo posto sotto l’autorità del maresciallo alsaziano conte Dagobert Sigmund von Wurmser (1724 – 97), si riorganizza in aprile sul modello militare austriaco. Si concorda che la divisione Condé non può superare i 6.000 uomini, e gli eventuali esuberi - come le 400 unità eccedenti, il giorno dell’accordo - saranno a carico personalmente del principe Condé. Gli eserciti Alleati della Prima Coalizione vedono nell’esercito del Sacro Romano Impero, in quello prussiano e britannico gli elementi principali del blocco.
Una delle prime battaglie campali è quella di Neerwinden il 18 marzo del 1793 che vide l’esercito repubblicano francese di Charles François Dumouriez attaccare un esercito della coalizione comandato dal principe Giosia di Sassonia-Coburgo-Saalfeld. Dopo aspri combattimenti i francesi concessero la sconfitta, ritirandosi dal campo: la posizione francese nei Paesi Bassi austriaci crollò rapidamente, ponendo fine alla minaccia per la Repubblica olandese e permettendo all’Austria di riprendere il controllo della sua provincia perduta. Segue il conflitto di Raismes che ebbe luogo l’otto maggio 1793: il marchese rinnegato de Dampierre riceve una sconfitta decisiva dal principe di Sassonia-Coburgo. Il 23 maggio 1793 per gli eserciti della Coalizione anti-francese arriva anche la vittoria nella battaglia di Famars; il 20 luglio, 23 e 28 dello stesso mese avviene la presa di Condé-sur-l’Escaut, Magonza e Valenciennes: la situazione per la Repubblica francese è critica.
Così all’inizio delle ostilità, il 19 agosto 1793, l’esercito di Condé cattura le cittadine tedesche Jockgrim, Wörth e Pfotz, lungo il Reno. Il contrattacco dei repubblicani avviene di notte, ma è respinto consentendo all’armata di Condé di impadronirsi dell’attuale cittadina francese di Hagenbach e di quella tedesca di Büchelberg: le perdite repubblicane dei “blue” sono pesanti, 3000 uomini e 18 cannoni lasciati sul campo. L’esercito degli aristocratici ha bagnato il campo con il primo sangue, tornando al compito originario dell’aristocrazia, ovvero quello dell’auto-affermazione sul campo di battaglia, elemento che grazie a Luigi XIV si era perso, poiché il Re Sole ambiva ad un controllo dei suoi “pari di sangue”, che andavano indeboliti con l’allontanamento subdolo dalla terra, dal popolo e dall’esercito. Come amava asserire Charette de la Contrie: «La nostra patria sono i nostri villaggi, i nostri altari, le nostre tombe, tutto ciò che i nostri padri hanno amato prima di noi. La nostra patria è la nostra Fede, la nostra terra. Ma la loro patria, che cos’è? Lo capite voi? Vogliono distruggere i costumi, l’ordine, la Tradizione. Allora, che cos’è questa patria che sfida il passato, senza fedeltà, senz’amore? Questa patria di disonore e irreligione? Per loro, sembra che la patria non sia che un’idea; per noi, è una terra. Loro, ce l’hanno nel cervello: noi la sentiamo sotto i nostri piedi, è più solida. È vecchio come il diavolo il loro mondo che dicono nuovo e vogliono fondare sull’assenza di Dio. Si dice che siamo i fautori delle vecchie superstizioni… Fanno ridere! Ma di fronte a questi demoni che rinascono di secolo in secolo, noi siamo la gioventù, signori! Siamo la gioventù di Dio. La gioventù della fedeltà»!
In questi giorni cruenti, il maggiore del Reggimento di nobili cacciatori, Jean-Baptiste Symon de Solémy (1746 - 1834) con appena 80 emigrati sequestra una ridotta, difesa da 300 repubblicani. Quest’ultimi si aspettano una terribile rappresaglia dei vincitori, ma de Solémy disse loro: «Ci avete tagliato la gola quando siamo stati abbastanza sfortunati da cadere nelle vostre mani; ma essendo noi fedeli ai principî di religione ed umanità di cui siamo veri osservanti; il principe Condé che ci comanda, mi ha ordinato di darvi tutto l’aiuto di cui avete bisogno».
Jean-Marie Evrare, Ippolito d'Espinchal dell'Ordine della Corona di Malta alla battaglia di Biberach - Olio su tela; 57×43 cm. Va da sé che questo lavoro deve essere visto con estrema cautela. D'Espinchal, ha in mostra delle spalline e una sciabola. È dipinto nella forma di un ufficiale minore del reggimento dei Cavalieri della Corona, sebbene durante il suo servizio nell'esercito di Condé non raggiunse il grado di ufficiale o ufficiale di basso rango. L'acconciatura corta dell'inizio del XIX secolo (dal maggio 1800), gli ornamenti d'oro delle rivolte e la croce di cavaliere maltese (ricevuta il 16 aprile 1807) testimoniano che questo ritratto è stato dipinto negli anni 1807-1809, prendendo anche in considerazione lo stile arcaico di lavoro provinciale caratteristico di quel tempo. Ma, prendendo in considerazione un attento studio dei dettagli, possiamo supporre che d'Espinchal durante questo periodo abbia ancora mantenuto oggetti dal suo reggimento.
A favore dei francesi repubblicani arrivano solamente le vittoria nella battaglia di Hondshoote l’otto settembre e quella di Wattignies il 16 ottobre del 1793, lo stesso giorno in cui veniva ghigliottinata la regina francese Maria Antonia Giuseppa Giovanna d’Asburgo-Lorena (1755 - 1793).
Nel mezzo di queste due vittorie francesi arriva però la vittoria della coalizione nella battaglia di Wissembourg del 13 ottobre, dove il generale Wurmser lanciò un attacco vincente sulle linee nemiche.
Il primo dicembre 1793, il generale dei “blue” Jean-Charles Pichegru (1761 -1804) compie un attacco senza successo al centro del villaggio alsaziano di Berstheim, di fronte alla cittadina di Haguenau, occupata dall’esercito di Condé. Il giorno successivo, dopo un bombardamento dell’artiglieria, la fanteria repubblicana è impegnata nello scontro fratricida con i corrispettivi della legione nera di Mirabeau e del reggimento Hohenlohe diretta Ludwig Aloysius Joachim, principe di Hohenlohe-Waldenburg-Bartenstein (1765 - 1829). L’entrata nel villaggio, su quattro colonne, dello stesso principe di Condé sbaraglia la cavalleria repubblicana, che viene sconfitta e costretta alla rotta: vengono sequestrati sette cannoni e messo fuori combattimento circa 200 uomini della nuova nazione francese. Così ricorda il conte Signier del reggimento appiedato di Condé: «Il principe fermò immediatamente la nostra colonna, esitò per un momento nel farci andare avanti, ma vide il desiderio che avevamo per la carica e la colonna iniziò a muoversi. Senza sparare un colpo, camminando con la baionetta montata, assorbendo il fuoco dei plotoni dei “blue” e senza dare loro il tempo di ricompaginarsi, li seppelliamo sotto le nostre grida “Lunga vita al re”. La confusione iniziale si trasforma in terrore. Nello stesso istante, in cui tutti i ranghi vengono scompaginati e mentre gridano “Lunga vita alla nazione”, alcuni repubblicani lanciano le loro borse, altri i loro fucili, l’artiglieria abbandona i suoi pezzi, una rotta totale avviene nei battaglioni e ciascuno nella debacle si salva come può. Nel mentre, il duca di Borbone alla testa della nobile cavalleria e il duca d’Enghien alla testa dei cavalieri della Corona caricarono la cavalleria patriottica dei “blue”, la quale per proteggere la loro fanteria, era venuta a schierarsi di fronte al villaggio di Batzendorf . All’inizio l’ala destra tiene bene il campo e combatte molto duramente, ma l’ala sinistra è in rotta prima ancora di venire ai colpi. Presto anche l’ala destra fugge e la fuga fu tale che la cavalleria e la fanteria si ritirarono senza far nulla fino al momento in cui, dopo aver riguadagnato la cresta della montagna, si trovarono protetti da numerose artiglierie».
Johann Jakob Schillinger (1750-1829), Gli ufficiali della Legione di Mirabeau - 45x67 cm. Da sinistra a destra, i nomi degli ufficiali sono i seguenti: 1) il Marchese d'Aubonne, primo luogotenente dei granatieri comandato dal Barone de Corsac.; 2) un volontario della compagnia "la Générale" comandata dal capitano di Blaire; 3) un capo maresciallo della compagnia degli ulani comandato dal capitano di Bellerose; 4) M. il visconte di Mirabeau nell'uniforme dei cacciatori a piedi; 5) il suo unico figlio, di tre anni, capitano del "Generale a cavallo"; 6) Conte Vitré, capitano cornetta, comandante del corpo cavalleria; 7) Mr. Bernard, capitano assistente maggiore di cavalleria; 8) M. le Marchese de Garigand, tenente colonnello, comandante del battaglione volontario; 9) Conte Alexandre d'Ollone, colonnello al comando della cavalleria; 10) un soldato della compagnia di Voltigeurs; 11) un maresciallo capo degli ussari; 12) Mr. Baron de Kruchy, capitano che comanda i cacciatori a piedi; 13) M. le Comte d'Eberstein, capitano al comando dei volontari a cavallo.
Da sinistra a destra alcuni dipinti della legione nera di Mirabeau dell'esercito del principe di Condé: Joseph Combette (artista 1770-1840) - coppia di ritratti di ufficiali - olio su tela con vista ovale firmata e datata sul retro del 1794. Il terzo ovale è un acquerello su avorio del 1792 e infine il quarto è di artista sconosciuto, Ritratto di un comandante del personale della cavalleria o di un aiutante di campo del conte di Olonne della legione nera del visconte Mirabeau, dell'esercito di Condé - Olio su tela, 1792-93 circa. Il capitano indossa una giacca nera con i risvolti di un blu chiaro, con sotto un gilet in panno nero con bottoni e trecce d'argento. Il colletto possiede risvolti anch'essi blu chiari, mente le spalline dorate hanno una fodera a frange argentate. I pantaloni militari hanno lo stile culotte e sono in panno blu chiaro con trecciatura d'argento. Il guanto in pelle è scamosciato e l'Imbracatura a sciabola in pelle bianca con placca rettangolare in bronzo dorata, porta l'acronimo "LM" (Legion de Mirabeau). Il capitano indossa anche il bracciale Armée de Condé in seta bianca con tre fleurs-de-lis sul braccio destro ed è armato con una sciabola con guardia d'acciaio multi-ramo. È decorato dall'onorificenza con la croce di San Luigi sul petto. L'elmo, decorato da una testa leonina, porta la scritta al "Rumford" sullo stemma in ottone dorato, dove una criniera di crine bianco completa l'assemblamento. Questo ritratto può essere datato tra l'estate 1792 e l'aprile del 1793, poiché successivamente la legione ha dovuto adottare la fascia condeana a tre fiori neri di gigli per ufficiali e gentiluomini al posto dell'unico giglio blu (presente nel dipinto). L'ufficiale raffigurato indossa una divisa simile a quella del colonnello Alexander d'Olonne, comandante della cavalleria di Mirabeau, con tre squadroni da circa 300 uomini: 1° squadrone: ussari e ulani; 2° squadrone: volontari del generale e volontari a cavallo; 3° squadrone: 2 compagnie di cacciatori a cavallo. Il taglio dell'uniforme è propriamente francese (alcuni ufficiali lo indossavano soprattutto al posto del mantello) e anche i segni di rango del tipo di cavalleria leggera (galloni d'argento sopra il binario di raccordo e in cima alle brache, ma anche il tipo di gilet ricamato). La legione nera di Mirabeau si distingueva per i suoi colori distintivi (nero e blu-cielo) e due marchi di cui se ne distingue uno soltanto: le lettere LM intorno a un fiore di giglio, al centro della fibbia dell'imbracatura e, dettaglio che qui non si vede, il motto del corpo portava i bottoni: "Onore al Preux". La sciabola a tre rami è del tipo palatino, o di un tipo francese fatto in Baviera, con la guardia in acciaio; d'altra parte, il cinturino d'oro è certamente francese. Altezza 62 cm e larghezza 47,50 cm. Presentato in una cornice in legno dorato più moderno.
Nelle immagini (le prime tre da sinistra a destra): reggimento della legione nera di Mirabeau, granatieri, ussari e ufficiali. Nell'ultima immagine unità di emigrati che sbarcano a Quiberon nel luglio del 1795. Indossano divise britanniche.
Dopo l’azione, il maresciallo de Wurmser è in visitata al principe Condé per rallegramenti. Il secondo chiede al primo: «Monsieur le Maréchal, come trovate la mia piccola fanteria»? E l’austriaco risponde: «Oh! Monsieur, è cresciuta sotto il fuoco».
Ancora, nonostante i successi, vi sono ancora delle perplessità sul corpo. Il principe Louis-Antoine-Auguste de Rohan-Chabot (1733 - 1807), comandante del Reggimento di Dresnay afferma: «Le legioni dei nobiluomini, ridotte al pagamento del servizio militare, sono state decimate dalle malattie; fatta eccezione per alcuni individui vigorosamente costituiti, tutti coloro che sono sfuggiti alla morte sono ora in uno stato di sfinimento e infermità che sperimenteranno per tutta la vita. Formare un corpo di gentiluomini significherebbe quindi completare la distruzione dei resti della nobiltà francese, la metà dei quali è già morta».
Nonostante il successo, con l’esercito francese in netta ripresa dopo alcuni cambi di comando, il 26 dicembre del 1793 con la vittoria di Geisberg il generale Louis Lazare Hoche (1768 - 1797) sconfigge l’esercito austro-prussiano del duo von Wurmser e Karl Wilhelm Ferdinand duca di Brunswick (1735 - 1806), conquistando Landau e penetrando nella regione del Palatinato.
Il 1794 non vede l’impiego diretto dell’armata del principe di Condé, che riceve il mantenimento dagli inglesi, grazie al fine lavoro diplomatico del britannico William Wickham (1761 - 1840).
Nel 1795, l’armata di Condé combatté insieme all’esercito austriaco, sotto il comando dell’arciduca Carlo, duca di Teschen. Nello stesso anno, l’esercito era composto dal “nobile reggimento a piedi di Condé” comandato da Gabriel-Auguste de Mazancourt (1725 - 1809), che comprendeva sei unità terrestri: la Legione nera di Mirabeau avente granatieri e ussari, il reggimento Hohenlohe-Schillingsfurts; il reggimento Roquefeuil-Blanquefort, il reggimento Alexandre de Damas e il Reggimento Montesson. Le unità di cavalleria si dividevano in due reggimenti nobili che comprendevano: il Reggimento di cavalleria dei delfini; gli Ussari della legione di Damasco, gli Ussari di Cayla Baschi, i Cacciatori di Noinville, i Dragoni di Fargues, i Cacciatori di Astorg, i Dragoni di Clermont-Tonnerre, i Corazzieri Furange e i Cavalieri della Corona.
Nelle due immagine, quella di sinistra è attribuita a Jean-François Alexandre Boudet, il conte Puymaigre (1778-1843), sottotenente del reggimento dei Cavalieri della Corona: disegno dell'uniforme dei Cavalieri della Corona dal 1795-1797. Prima metà del XIX° secolo, carta, inchiostro, 17,5×25 cm. Nell'immagine di destra, scuola francese del XIX secolo, viene raffigurato il disegno delle uniformi dei prìncipi dell'armata di Condé. Acquaforte di un cavaliere nobile dell'armata di Condé nel 1792.
Nel frattempo la Gran Bretagna decide di organizzare, sotto la direzione di Joseph de Puisaye (1755 – 1827) e con il consenso di William Windham (1750 – 1810), una grande spedizione di emigrati realisti per riattivare la sollevazione dell’Ovest, che nel frattempo era stata schiacciata con le battaglie decisive di Cholet ad opera del generale Jean-Baptiste Kléber (1753 – 1800) e di Le Mans e Savenay (facenti parte del ciclo bellico “Virée de Galerne”), tutte nel 1793.
Dopo otto mesi di sforzi attivi, Puisaye aveva ottenuto che la spedizione sarebbe stata resa possibile da reggimenti francesi, dalla retribuzione inglese, formati da quattro corpi d’armata, ognuno dei quali, dopo essere sbarcato sul continente, sarebbe diventato un regolare reggimento. I loro comandanti erano il Principe Leon de Rohan-Chabot, M. d’Oilliamson, il visconte di Chambray e il conte Armand Jean d’Allonville e l’organizzazione avvenne sull’isolotto atlantico di Guernsey delle isole del Canale.
Il reggimento di Allonville è un reggimento composto da signori bretoni, 186 ex ufficiali dell’esercito reale, i cui ranghi sono composti da ex sottufficiali, tenenti o ufficiali di marina.
Si costruirono alla fine due reparti di circa 12.000 uomini, vestiti con giubbe rosse, organizzate con emigrati e volontari tra i prigionieri francesi; era inoltre prevista una ripresa della guerriglia degli chouans in Vandea e Bretagna. Ma la spedizione fu organizzata male e, grazie all’intercettazione di alcuni dispacci, il Comitato di salute pubblica venne a conoscenza dei piani realisti: le truppe rivoluzionarie guidate dal generale Hoche intervennero duramente contro la guerriglia in Bretagna.
Nonostante questi contrattempi la spedizione, guidata da de Puisaye, proseguì; la squadra navale dell’ammiraglio Louis Thomas Villaret (1748 - 1812) fu battuta e respinta dalle navi britanniche dell’ammiraglio Alexander Bridport (1726 - 1814) il 23 giugno 1795, una divisione di emigrati sbarcò nella baia di Quiberon il 27 giugno dove fu accolta da un raggruppamento di contadini organizzati in precedenza da emissari realisti. Nonostante questo successo iniziale, le discordie tra i capi della spedizione intralciarono le operazioni che furono sospese in attesa dello sbarco di rinforzi. La problematica principale fu quella che i generali vandeani e degli chouans non gradivano le interferenze britanniche sui posti di comando: leadership che sarebbe dovuta passare in mano ai nobili emigrati. Il generale Hoche ebbe quindi il tempo di accorrere con l’armata rivoluzionaria; gli chouans furono dispersi poiché non ricevettero l’aiuto del reggimento Royal-Louis che prenderà il nome dal commodoro di marina dei migranti Louis Charles Le Cat, conte di Hervilly (1755 - 1795), che si rifiutò di combattere insieme ai contadini, perché non aveva fiducia delle loro capacità belliche: «il dipartimento del Morbihan, che Georges (Georges Cadoudal 1771 - 1804) tiene tra le mani, è più pronunciato che mai contro la nobiltà e contro gli emigrati: stanno facendo una guerra popolare, dicono, e non una guerra di restaurazione. In questo corpo militare, i signori sono senza credito, perché Georges ha saputo concentrare tutti i poteri e catturare tutta la fiducia. Dobbiamo aspettarci di vederlo fuggire da un giorno all’altro: non per vederlo sfilare nelle file repubblicane, poiché egli sarà sempre il nemico più implacabile della repubblica, ma per combattere a modo suo la Rivoluzione che odia. L’opposizione ai nostri progetti verrà sempre da questi realisti che vogliono stabilire l’uguaglianza sotto la bandiera bianca del re. [...] Ciò che apparentemente sta accadendo in questa regione è segretamente prefigurato in tutti gli altri della Bretagna»10.
Così il comandante repubblicano fece costruire in una settimana un solido sistema di trinceramenti che bloccò completamente le forze realiste nella penisola di Quiberon. Il generale Hoche sferrò l’attacco decisivo nella notte del 21 luglio; sotto un violento temporale, dove le colonne rivoluzionarie ebbero la meglio e l’armata realista venne dispersa o catturata: solo pochi scamparono sulle navi britanniche. L’armata repubblicana dell’Ovest catturò circa 7.000-8.000 uomini tra emigrati, chouans e prigionieri, di cui 718 vennero fucilati.
La spedizione termina così nei disastri, chiamati Plouharnel e Quiberon. La rabbia dei Chouan sarà insanabile contro gli emigrati, che furono accusati di aver causato il fallimento della spedizione. L’aristocratico Antoine-Henry d’Amphernet, visconte di Pontbellanger (1759 - 1796) viene arrestato e condannato a morte dagli Chouan ingiustamente con la scusa di aver abbandonato l’esercito, ma verrà graziato e bandito dal generale Georges Cadoudal. Quest’ultimo rifiuterà di dare il benvenuto a qualsiasi ufficiale emigrato nel dipartimento del Morbihan, e in una lettera a Vauban, il 7 settembre descrive gli emigrati come «mostri che avrebbero dovuto essere inghiottiti dal mare prima di arrivare a Quiberon».
Jean Sorieul, I Combattimenti di Quiberon nel 1795.
Nell’agosto del 1795, il conte di Artois tenta di unirsi ai vendeani con un esercito di emigrati e truppe inglesi. Anche questa seconda spedizione, sull’isola di Yeu, è un fallimento. Diversi emigrati sbarcano comunque in Vandea per arruolarsi nell’esercito del generale François Athanase de Charette de la Contrie (1763 - 1796). Sono comunque accolti freddamente dai vendeani, perché ancora una volta l’annuncio che un corpo di ufficiali emigrati era stato formato per comandare, dopo anni di guerra, i contadini diede nuova irritazioni si capi della rivolta popolare controrivoluzionaria. Il comportamento “orgoglioso e sdegnoso” della maggior parte degli emigrati ha attratto l’ostilità dei combattenti della Vandea, come ci descrive nelle sue memorie l’ufficiale della Vandea Pierre-Suzanne Lucas de la Championnière (1769 - 1828): «eravamo arrivati a odiarci come se non fossimo stati dalla stessa parte».
Alcuni emigranti tuttavia diventarono generali di alcuni eserciti Cattolici e Reali, come ad esempio; Louis Auguste Victor de Ghaisne, conte di Bourmont, (1773 -1846), Marie Pierre Louis de Frotté (1766 - 1800), Pierre Louis Godet conte di Châtillon (1740 - 1807), Louis-Marie-Antoine-Auguste d’Andigné de La Blanchaye (1765 -1857), Henri-René Bernard de la Frégeolière (1759 - 1835), Pierre Jean Baptiste Constant, conte di Suzannet (1772 - 1815).
Nel giugno del 1796 il contingente, sempre sotto il comando dell’arciduca Carlo duca di Teschen, combatté in Svevia, come parte della divisione di Karl Aloys von Fürstenberg (1760 - 99). Dopo che il contingente austriaco è congedato, il Corpo rimane in Baviera, partecipando ai combattimenti estivi. Il 24 ottobre del 1796, durante la Battaglia di Schliengen, i soldati di Condé attuarono un energico attacco contro il villaggio di Steinstadt, che conquistarono con una carica all’arma bianca con le baionette innestate sul fucile. Ancora una volta arrivano i complimenti e le felicitazioni, per l’impresa, da parte della Convenzione con una lettera formale inviata al principe Condé in persona.
Nel 1797, l’Austria firmò il Trattato di Campo-Formio con la Prima Repubblica francese, ponendo fine ufficialmente alle ostilità contro i francesi.
Con la fine della Prima coalizione, il Corpo stanziato sul Lago di Costanza, apprende della fine dell’accordo negoziato tra Condé e Wickham. L’esercito entra così sotto il servizio dello Zar di Russia di Paolo I: «Per magnanimità affine a noi, non potremmo fare a meno di dare ascolto alla petizione del Principe Condé per l’accettazione delle truppe sotto il suo comando nel nostro glorioso esercito, e di conseguenza abbiamo deciso di dare rifugio a quelle persone che si sono sacrificate in fedeltà al legittimo sovrano di Francia».
L’esercito di Condé, abbandonò così le uniformi alla francese, dopo un accordo franco-russo sull’inclusione dei migranti nel corpo armato russo, e indossarono uniformi militari russe identiche ai reggimenti della fanteria e della cavalleria zarista. Condé fu ospitato presso il palazzo di Tauride a San Pietroburgo e al corpo furono dati stendardi speciali, sui quali, secondo il Comando supremo, insieme ai simboli dell’Impero russo, c’erano i gigli d’oro del Regno Francia. Fino alla primavera del 1799, il corpo del Principe Condé prestò servizio nella provincia di Volyn, essendo di stanza sul territorio dei distretti di Vladimir, Lutsk e Kovel. In totale, il corpo consisteva di cinque reggimenti: la fanteria del principe Condé; i granatieri del duca di Borbone; la fanteria tedesca del duca di Hohenlohe; i nobili Dragoni Duca di Berry e i dragoni del Duca di Enghien.
Vessilli zaristi di tre dei cinque reggimenti dell'esercito del principe Condé in Russia: la fanteria del principe Condé, i granatieri del duca di Borbone, la fanteria tedesca del duca di Hohenlohe. Nella litografia di destra: uno degli ultimi comandanti dell'esercito, il giovane Louis-Antoine-Henri de Bourbon, il duca d'Enghien (1772–1804), il principe della casa reale francese e nipote del principe Condé. Fu successivamente assassinato al comando di Napoleone Bonaparte nel fossato del castello della prigione di Vincennes.]
In ottobre, l’intera armata, che contava circa 10.000 soldati, lasciò la regione del Bodensee e marciò verso la Polonia dove furono stanziati. Combattono nel 1799 in Renania con Alexander Vasilyevich Suvorov (1730 - 1800) e successivamente quando nel 1800, la Russia abbandona la Seconda Coalizione, tornarono al servizio degli eserciti inglesi e combatterono in Baviera fino al 1801.
In segno del massimo rispetto al servizio dei “condeani”, lo Zar lasciò al corpo tutti gli stendardi, le armi e le loro proprietà in Russia.
Dopo aver fatto meraviglie di valore a Wissembourg, Haguenau, Bentheim, il principe è costretto a licenziare il suo esercito e si ritirò nel 1800 in Gran Bretagna con suo figlio.
Dunque perché ricordare l’esercito di Condé dell’armata dei migranti realisti francesi? Sicuramente perché avevano un concetto di equilibrio europeo: non a caso combatterono sotto i comandi austriaci, prussiani, inglesi e russi, sempre contro i francesi. Avversari del nazionalismo giacobino che li aveva estromessi dalla loro patria, cercarono eroicamente attraverso il combattimento leale di riavere la loro terra indietro. Fallirono per diverse motivazioni, ma emerge quella della coesione, che spesso durante una guerra civile risulta decisiva: le molteplici forme di opposizione al regime repubblicano, hanno in conclusione fatto fallire il piano di ristabilire Luigi XVI sul suo Trono. Come ebbe a dire Joseph de Maistre: «Non c’è che violenza nell’universo; ma noi siamo corrotti dalla filosofia moderna, che ci ha detto che “tutto è bene”, mentre invece il male ha tutto insozzato, e in un senso verissimo si può dire che “tutto è male”, poiché nulla sta al proprio posto. [...] Ma stiamo attenti a non perdere coraggio: non esiste castigo che non purifichi, non esiste disordine che l’amore non ritorca contro l’origine del male. È dolce, in mezzo al generale sovvertimento, presentire i piani di Dio»11.
 
Note:
1 Bossange, 2a  edizione, 1830, t. 8, p. 278.
2 Tulard J., “Emigrants and ultras”, Journal des savants, n ° 3-4, 1962, p. 245 - edizione De la Sabretache, 1957.
3 Orczy E. M. R. M. J. B., La Primula rossa, pp.15-16-17.
4 Verne J., Il conte di Chanteleine, Edizioni Gondolin, p.15.
5 Chateaubriand F.R.de, Memorie D’Oltretomba, Libro Nono, Einaudi, p.271.
6 Ivi, pp.272-73.
7 Dopo la svolta repubblicana della rivoluzione e l’esecuzione del Re anche i militari e i nobili monarchico-costituzionali (ed infine anche liberali, orleanisti e repubblicano-moderati), tra cui si annoveravano alcuni dei migliori o più famosi ufficiali francesi - come il conte Louis Marie Jacques Almaric de Narbonne-Lara (1755 – 1813), il duca di Lauzun Armand Louis de Gontaut-Biron (1747 - 1793) e Marie-Joseph Paul Yves Roch Gilbert du Motier, Marchese di La Fayette (1757 - 1834) -, furono costretti all’emigrazione o furono ghigliottinati; solo pochissimi di questi furono accolti negli eserciti degli emigranti: erano considerati comunque dei traditori della vecchia monarchia, e ai loro occhi poco diversi dai giacobini. Per questo molti di costoro emigrano in America, o in Gran Bretagna, oppure entrarono direttamente al servizio di potenze estere impiegate nella guerra contro la Francia, anche se non pochi di costoro reputarono, come il conte di Narbonne, disdicevole e disonorevole combattere contro la Francia quale che ne fosse il regime, fino a negare al primo ministro britannico William Pitt il Giovane (1759 - 1806) qualsiasi informazione sull’esercito francese.
8 Chateaubriand F.R.de, Memorie D’Oltretomba, Libro Nono, capitolo Decimo, Einaudi, pp.274-75.
9 Jean-Paul Bertaud, Il duca di Enghien, Librairie Arthème Fayard, 2001, p.123.
10 Crétineau-Joly J., Histoire de la Vendée militaire, Libro terzo, p.243.
11 Maistre J. de, Considerazioni sulla Francia, edizioni il Giglio, p.53.
 
Per approfondimenti:
_René Bittard des Portes, Histoire de l'armée de Condé, edizioni Perrin, 2016;
_Dimitri Gorchkoff, Ritratti di ufficiali dell'esercito di Condé di François-Joseph Desvernois, 1797-1798: analisi e identificazione, in napoleonica. La Revue 2016/3 (N ° 27);
_Maistre J. de, Considerazioni sulla Francia, edizioni il Giglio;
_Chateaubriand F.R.de, Memorie D’Oltretomba, Einaudi;
_Crétineau-Joly J., Histoire de la Vendée militaire, Libro terzo;
_Vasiliev A.A. Il corpo reale emigrato del principe Conde nell'impero russo (1798-1799) -  1989;
_Jean-Paul Bertaud, Il duca di Enghien, Librairie Arthème Fayard, 2001;
_Orczy E. M. R. M. J. B., La Primula rossa, Fazi editore, 2018;
_Verne J., Il conte di Chanteleine, Edizioni Gondolin, 2019; _La vita di Suvorov da lui descritta o una raccolta di lettere e le sue opere pubblicate con appunti di Sergei Glinka - 1819; _La descrizione storica dell'abbigliamento e delle armi delle truppe russe, con disegni, compilata dal Comando supremo. San Pietroburgo - 1900; _Milyutin D.A., La storia della guerra tra Russia e Francia durante il regno dell'imperatore Paolo I nel 1799, San Pietroburgo; _Corrispondenza di Suvorov e Prince Conde, Bollettino storico militare, Parigi - 1972; _Trubetskoy N. Prince, Gli stendardi e le norme dell'esercito del principe Conde, concessogli dall'imperatore Paolo I, Bollettino storico militare, Parigi - 1957; _Schepkina E.M., L'esercito realista in Russia, Rivista del Ministero della Pubblica Istruzione - 1889.
_Tulard J., “Emigrants and ultras”, Journal des savants, n ° 3-4, 1962 - edizione De la Sabretache, 1957;
_Bossange, 2a  edizione, 1830.
 
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

[vc_row css_animation="" row_type="row" use_row_as_full_screen_section="no" type="full_width" angled_section="no" text_align="left" background_image_as_pattern="without_pattern" css=".vc_custom_1470767044080{padding-right: 8px !important;}"][vc_column css=".vc_custom_1470767053433{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_separator type="normal" css=".vc_custom_1470767563136{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos6" css=".vc_custom_1577539761296{padding-top: 45px !important;}"]
a cura di Stefano Scalella
30 novembre 2019 – Bottega del Terzo Settore, Corso Trento e Trieste n.18 - 63100 AP
Saluti: Notaio Francesca Filauri
Modera: arch. Giuseppe Baiocchi
Interviene: Avv. Daniele Paolanti
 
Sabato 30 novembre, presso la Bottega del Terzo Settore è andato in scena il 53°incontro dell'associazione culturale onlus Das Andere alle ore 18:00. L'evento ha visto la presenza dell'Assessore alla Pubblica Istruzione e al turismo Monica Acciarri ed ha avuto come ospite l'avvocato Daniele Paolanti, il quale ha presentato la sua seconda raccolta di canti poetici del Trittico "Le ombre", intitolata "Le ombre del dolore" (dopo le ombre del silenzio). L'appuntamento è stato moderato dall'architetto e presidente Giuseppe Baiocchi e ha visto la ospite il presidente dell'associazione Cultural-mente insieme il notaio Francesca Filauri. Daniele è un'umile e sapiente raccoglitore del kairos della vita e si sforza di annotare tutto sul suo taccuino, dal quale generare poi l'attività di spietata sintesi e di faticosa levigatura delle parole in versi. Oggi certamente fare poesia è difficile: è mestiere di coraggio in questa epoca secolarizzata, dove spesso la remunerazione poetica è ben lontana dalla realtà della vita concreta. Lo stesso scrivere per cristallizzare delle situazioni, catturare frammenti - parafrasando Peter Altenberg - è sempre più dileggiato in un' epoca che non comprende più lo spirito che ha sempre mosso l'uomo europeo e che lo ha sempre portato verso la sua grandezza nel mondo concreto. Nel nostro caso ci troviamo di fronte ad un delicato pensare, connotato da corposi approdi conditi da ricercata parola, quasi desueto favellare, nell'orbita di un piacevole esercizio musicale; infatti la poesia, quella per così dire più alta - viepiù complessa, nella misura in cui anche la metrica - non può trascendere da una sua intrinseca melodia, che va armonicamente a compendiarsi ed a risuonare nel momento decisivo in cui è recitata. Nelle poesie di Daniele vi è incentrata una forte matrice culturale: ogni verso richiama spesso all'insegnamento che i grandi classici della cultura europea ci hanno insegnato e continuano ad insegnare tutt'oggi. Un Rinnovamento attuale del saper comporre poesia in maniera tradizionale e quanto più ci occorre in quest'epoca dove il Dio è morto, perché ucciso da noi stessi.

[vc_row css_animation="" row_type="row" use_row_as_full_screen_section="no" type="full_width" angled_section="no" text_align="left" background_image_as_pattern="without_pattern" css=".vc_custom_1470767044080{padding-right: 8px !important;}"][vc_column css=".vc_custom_1470767053433{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_separator type="normal" css=".vc_custom_1470767563136{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos6" css=".vc_custom_1574002131016{padding-top: 45px !important;}"]
a cura di Stefano Scalella
19 ottobre 2019 – Bottega del Terzo Settore, Corso Trento e Trieste n.18 - 63100 AP
Saluti: don Riccardo Patalano
Modera: arch. Giuseppe Baiocchi
Interviene: Maestro Giovanni Gasparro
Interviene: dott. Michele Lasala
 
Sabato 19 ottobre si è svolto il 52°incontro dell'associazione culturale onlus Das Andere presso la Bottega del Terzo Settore, che ha visto ospiti il Maestro Giovanni Gasparro e il critico d'arte Michele Lasala, insieme al Vice Cancelliere di Curia don Riccardo Patalano il quale ha portato i saluti del vescovo Mons.Giovanni D'Ercole. L'evento introdotto dal presidente arch.Giuseppe Baiocchi ha trattato la tematica dell'arte sacra tra tradizione e innovazione. Dopo l'intervento di don Patalano in ambito teologico e filosofico inerente il modo di vedere un'arte che rappresenti il bello e il buono, il dott.Lasala ha trattato l'evoluzione del sacro dal medioevo fino, alla cosidetta "morte dell'arte", all'età moderna e a quella postmoderna. Infine il Maestro Gasparro ha risposto alle domande inerenti il suo modo di vedere un'arte che sia figurativa, possegga alti riferimenti teologici e soprattutto mantenga vivo il fuoco della tradizione pittorica italiana in ambito barocco ma nel contempo dimostri di possedere quella contemporaneità che lo contraddistingue e che gli ha permesso di divenire in breve tempo uno dei pittori più importanti del panorama artistico italiano ed europeo.

[vc_row css_animation="" row_type="row" use_row_as_full_screen_section="no" type="full_width" angled_section="no" text_align="left" background_image_as_pattern="without_pattern" css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_separator type="normal" color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]

di Giuseppe Baiocchi del 17-11-2019

[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1701104445527{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
L’architettura militare, quale disciplina, nacque e si sviluppò in Italia intorno agli ultimi anni del XV secolo; più tardi, i suoi princìpi dovevano essere messi alla prova e perfezionati nei Paesi Bassi. Se si considera il periodo storico non può non sfuggire come si trattasse dei due teatri di guerra principali su suolo europeo. Gli architetti italiani dovendo fronteggiare il rapido incremento di mobilità e di potenza avuto dalla artiglieria, indagarono a fondo i rapporti esistenti tra il fuoco d’artiglieria e l’architettura.
Il fuoco d’infilata fu ora riconosciuto come la chiave per la difesa di un punto fortificato mediante il tiro d’artiglieria. Ciò condizionò molto la progettazione, poiché lo scopo principale dell’architettura militare dell’età moderna fu quella di posizionare le fortificazioni in modo tale che nessun loro elemento potesse essere battuto d’infilata da parte dell’artiglieria attaccante. Si sviluppò così un concetto difensivo di “sviluppo in profondità” posizionando sul percorso dell’attaccante una serie di ostacoli. Prima invenzione pregevole fu l’invenzione del bastione angolare verso la fine degli anni Venti del XVI secolo, ad opera di Michele Sanmicheli (1484 – 1559). Un altro italiano, questa volta un matematico, Niccolò Tartaglia (1499 – 1557) nel 1556 inventò quella che viene definita “la strada coperta”, un camminamento defilato dal fuoco degli attaccanti, che correva lungo il perimetro di una fortezza, al di là del fossato che ne difendeva le cortine e i bastioni.
Essa sostituisce il “cammino di ronda” effettuato sugli spalti nelle fortezze medievali. Tale sistema difensivo era efficace qualora si volesse lanciare improvvise sortite sul campo di battaglia. Protetti da un basso parapetto e sempre sotto il fuoco delle artiglierie della fortezza, i contingenti di truppe dei difensori potevano spostarsi lungo la strada coperta in qualsiasi punto delle difese esterne per opporsi ad un eventuale assalto nemico, per rintuzzarlo o per sfruttare una ritirata degli assalitori volgendola in rotta. La sponda esterna del fossato (da cui partiva il declivio dello spalto naturale) veniva sorretta da un muro di sostegno che prese il nome di “controscarpa”, poiché era opposto a quello di “scarpa” che sosteneva la cortina.
Ancora un terzo architetto italiano Galeazzo Alghisi (1523-73) creò l’innesto di un bastione più arretrato e più rialzato (sette metri) rispetto ai suoi corrispettivi, definito “il cavaliere”, che garantiva non solo il fuoco d’infilata dall’alto e concedeva al difensore grande visione campale, ma le colubrine posizionate sugli spalti e nelle feritoie potevano colpire anche all’interno del bastione, qualora questo veniva conquistato dal nemico.
Ma fu Antonio da Sangallo il Giovane (1484 - 1546) a far riconoscere la forma canonica dei bastioni dei tre secoli successivi. La realizzazione del Forte di Nettuno (1501-02) vantava i migliori bastioni dell’epoca: semplice fortificazione quadrangolare con un bastione ad ognuno dei quattro angoli che permette la “rasatura” perimetrale di ogni prospetto della fortezza.
Il Forte Sangallo, o Fortezza di Nettuno, è una fortezza posta sul litorale della città di Nettuno, in prossimità del suo borgo storico. Esso difendeva Nettuno, all'epoca considerata "granaio del Lazio", dagli attacchi da mare.
Tale sistema d’infilata fu perfezionata dal già citato Sanmicheli con il famoso “angolo di saliente”, ovvero l’avanzamento del bastione verso l’esterno – lungo la sua linea capitale (la bisettrice tra i due angoli che componevano il bastione) – con l’inclinazione delle due facciate più corte del complesso: ciò permise un miglior fuoco di infilata e un maggior numero di servienti sulle mura per le armi a polvere nera.
Sempre lo stesso architetto per la prima volta inventa un’altra aggiunta difensiva che sarà usata fino al XIX secolo: la controguardia. Nel 1535 nel Lido di Venezia progetta ed edifica il forte di Sant’Andrea che taglia il cordone ombelicale con il medioevo. Invece del solito quadrangolo con torri o bastioni agli angoli, crea uno stretto rettangolo allungato con le terminazioni inclinate e con uno stretto bastione curvo sulla facciata principale. L’ingresso posto nella parete posteriore della fortificazione, era protetto da un’altra opera sagomata a forma di bastione, una piattaforma, e da un fossato collegato da un canale marino. Da qui il termine di controguardia: un muro a V, con l’apice rivolto all’esterno così da riprendere con la sua sagoma la stessa forma puntuta della fortezza. Lo scopo rimaneva sempre quello di allontanare eventuali nemici dal mastio principale, vero centro nevralgico della difesa e parallelamente tenerlo a distanza con il fuoco delle batterie di cannoni.
Il Forte di Sant'Andrea a Venezia è una fortezza edificata alla metà del XVI secolo sui resti di precedenti opere difensive ormai in rovina, parte del sistema difensivo della laguna di Venezia.
Durante la guerra degli ottant’anni (1568 – 1648) su terra olandese tra calvinisti e cattolici spagnoli, un altro italiano Pietro Francesco Tagliapietra, detto Paciotto d’Urbino (1521-91), fu chiamato per progettare la cittadella di Anversa nel 1567. La cittadella di forma pentagonale aveva collaudato dei bastioni a punta di freccia, con le due facciate lunghe ben 110 m. Internamente vaste erano le riserve che garantivano le vettovaglie per una intera guarnigione di ben 5.000 uomini. Tale fortezza ha resistito per tre secoli, fino all’assedio del 1832. Quarantadue anni dopo, nel 1874-81, fu demolita.
Ingegnere alsaziano ispirato ai maestri italiani fu Daniel Speckle (1536-89) il quale inventò il “sistema tenagliato”: creare dei tracciati poligonali, con bastioni a freccia agli spigoli, come tracciato delle mura delle fortificazioni. Migliorò anche la funzionalità della via coperta fornendo agli spalti un’angolazione a “denti di sega” che avrebbe consentito ai difensori di colpire sempre di infilata gli attaccanti e tale sistema difensivo perdurava durante tutta l’eventuale avanzata d’avvicinamento degli assalitori. Speckle progettò anche una galleria all’interno della muratura di controscarpa per il posizionamento di fucilieri, i quali avrebbero potuto agevolmente colpire “a rovescio” i nemici scesi nel fossato. Propose anche il “sistema rinforzato”: ovvero la creazione di bastioni separati dalle mura dei fossati, doppiati da meno possenti bastioni angolari, posti al punto di confluenza delle cortine. Da questa idea in planimetria si noteranno in seguito moltissime fortezze similari in planimetria ad un aculeo, senza più nessuna linea retta antistante il nemico. Il bastione diveniva così molto rilevante per gli scopi di difesa, quasi decisivo.
Nelle tre immagini (da sinistra a destra): sistema tenagliato di Daniel Speckle tratto dalla sua opera Architectura von Vestungen; Statua di Daniel Specklin ad opera di Alfred Marzolff (1867-1936). Facente parte del portale principale dei macellai piccoli, rue de la Haute-Montée a Strasburgo (sul retro dell'Aubette); la cittadella di Anversa, costruita tra il 1567 e il 1569 da Paciotto da Urbino. Sia il rilievo che lo studio geometrico delle proporzioni della fortezza sono ad opera di Speckle che li pubblicò nel 1589.
Difatti con il progresso scientifico delle armi da fuoco si ebbe come conseguenza l’avvicinamento dei bastioni, entro i limiti della gittata delle armi difensive (140-180 m), i quali contrastavano efficacemente le nuove moderne armi da fuoco portatili. Difatti anche i cannoni venivano caricati molto più a mitraglia (180 m), con cocci di ferro e di vetro, che a palla: la distruzione che portava l’effetto a mitraglia sulla fanteria nemica era devastante.
Gli olandesi crearono alla fine del Seicento una vera e propria scuola delle fortificazioni con il suo interprete più celebre: Maurits conte di Nassau (1567-1625), dal 1618 principe van Oranje. In una regione piatta come quella dei Paesi Bassi non vi era ragione di costruire fortezze in altezza, ma in ampiezza con larghi baluardi e ampi spalti. L’acqua, da sempre elemento tipico della tradizione olandese, divenne uno degli elementi centrali della difesa poiché la falda freatica del terreno si trovava ad un metro di profondità. Fu del tutto naturale usare lo sbarramento acquifero per allagare le campagne e bloccare o rallentare gli invasori. La costruzione di dighe, che all’occorrenza potevano essere aperte in punti nevralgici del Paese, divenne prassi comune. Le fortezze basse e larghe olandesi possedevano quello che viene definito come un tiro teso effettuato radente al terreno, poiché erano armi poste quasi allo stesso livello del fossato inferiore: il colpo seguiva gran parte della propria traiettoria in mezzo alle schiere nemiche ad una potenza inimmaginabile, rispetto al tiro classico dall’alto chiamato “ficcante”, il quale possedeva margini di errore molto più alti. Si inventa così la “falsa braga” ovvero un camminamento protetto da parapetto sistemato ai piedi delle mura, così che la sua altezza fosse pari a quella del muro di controscarpa costituente la parete esterna del fossato. Ciò comportò un nuovo fuoco di sbarramento una volta che il nemico avesse raggiunto la strada coperta. Gli architetti e gli ingegneri che seguirono le progettazioni successive, cercarono, nel limite del caso, di non progettare più “a lume di naso”, ma “a sistema”, ovvero seguendo un rigido schema di progettazione difensiva, che spesso non si adattava più alla preesistenza, la quale veniva generalmente quasi completamente stravolta.
Ma un’altra scuola, dopo quella italiana e olandese doveva imporsi in Europa, plasmando un’architettura militare che dominò tutto il XVII secolo: il Regno di Francia della dinastia dei Borboni. Massimo esponente dell’arte militare del XVII secolo fu Sébastien Le Prestre de Vauban (1633-1707) capace di progettare ed edificare ben 160 fortificazioni bastionate definite in ambito accademico “fortificazioni alla Vauban”.
Quando nel 1665 possedeva già il grado di Ingénieur ordinaire du Roi, aveva avuto svariate esperienze importanti di carattere militare e soprattutto la protezione del Primo Ministro Cardinale Giulio Raimondo Mazzarino (1602-61). Nel 1703 diviene Maresciallo di Francia, la massima onorificenza della gerarchia militare. Un ingegnere militare Vauban, capace di far osservare le sue condotte militari fino al XIX secolo.
Prima di morire affermò: «l’arte della fortificazione non consiste nell’uso di regole o sistemi, bensì molto più semplicemente, nell’avvalersi del buon senso e dell’esperienza». Sono accreditati al francese tre sistemi difensivi. Il primo sistema consisteva in un tracciato poligonale bastionato: la lunghezza del complesso architettonico, poiché il numero di fronti bastionati dipendeva dalle dimensioni che si volevano dare al manufatto edilizio difensivo e nei riguardi della necessità del terreno. La lunghezza del fronte bastionato era di 330 m e tutti gli altri elementi della fortezza divenivano sottomultipli di tale misura fondamentale. Quando la situazione imponeva l’adozione forzata di un fronte più ampio o più ristretto, tutte le altre misure venivano aggiustate in proporzione, moltiplicando per lo stesso coefficiente che dava il rapporto tra la misura base e quella effettivamente adottata, così che ogni elemento risultasse perfettamente proporzionato.
Caratteristico in Vauban fu anche la ripresa del raccordo curvo, anziché piatto, per le facce del bastione: il così detto “orecchione”. Il sistema prevedeva anche l’impiego di “tenaglie” a forma di V ad angolo ottuso, cioè di bassi antemurali inseriti davanti il setto murario definito “cortina”. Tale aggiunta mirava a fornire un ulteriore fuoco radente il fossato. Il tutto veniva rafforzato dall’utilizzo di mezzelune e di controguardie situate a protezione delle “tenaglie” e dei bastioni.
A sinistra: Raccordo curvo del bastione definito "orecchione"; xilografia di Sébastien Le Prestre, poi marchese di Vauban; i tre sistemi di Vauban in assonometria.
Il secondo sistema si basa sul distacco dei bastioni dalla prima linea di difesa: qualora un bastione fosse caduto nelle mani degli assedianti, questi ultimi avevano conquistato unicamente una sacca isolata della fortezza. Il terzo sistema consisteva fondamentalmente in un perfezionamento del secondo con una serie di difese ancor più in profondità e parallelamente una variazione di combinazioni difensive, davanti la cortina principale: controguardia e lunetta, opera a corno e opera a corona. L’opera a corno consisteva in un piccolo bastione fuori dal complesso principale che aveva scopo quello di proteggere una testa di ponte e impedire al nemico di posizionarsi in una parte del terreno particolarmente favorevole per danneggiare le mura; aveva sempre un rivellino sul suo lato più ristretto. L’opera a corona, simile a quella “a corno”, possedeva dimensioni più maestose per una bastionatura più grande.
Suo omologo olandese, il barone e ingegnere Menno van Coehoorn (1641-1704), si rese inizialmente celebre per l’invenzione del mortaio da 112 mm, un pezzo leggero impiegato nelle guerre di posizione. Coehoorn nel suo “Nieuwe Vestingbouw (Nuove fortificazioni)”, espose i principi di tre nuove “sistemi”, i quali però non vennero applicati nelle sue stesse bastionature, ma i princìpi del trattato furono ripresi dopo la sua morte per la città fortificata di Mannheim.
I sistemi dell’olandese furono elaborati tenendo presenti alcuni princìpi fondamentali: provvedere a una poderosa difesa dei fianchi, impedire all’attaccante di installarsi all’interno delle difese eventualmente conquistate, concedere ai difensori ampie possibilità di effettuare sortite e, infine, evitare ogni inutile spesa. Riprendendo a piene mani la tradizione militare della nuova Repubblica delle Sette Province Unite (1648), l’acqua era sempre utilizzata come mezzo primario di difesa. Le controguardie del sistema bastionato avevano sempre metri quadri ridotti per non rendere il sito utilizzabile dall’artiglieria nemica. Una caratteristica delle fortificazioni del Coehoorn è l’impiego che egli fa delle caponiere: inserite nei rivellini. La caponiera è un’altra opera fortificata che serve per sbarrare il passaggio al nemico. Le terminazioni del camminamento erano chiuse da gallerie per il fuoco di fucileria, separate dal resto del camminamento per mezzo di piccoli fossati. Tale inviluppo difensivo continuo poneva al suo centro progettuale il manufatto militare del rivellino, il quale aumento di consistenza, fino ad essere bastionato: un bastione davanti alla cerchia primaria con ai fianchi piccoli rivellini interposti nello spazio del fossato.
Tra i due grandi Maestri Vauban e Coehoorn il secondo riuscì ad edificare bastionature 1/3 più economiche del primo. In Francia il secondo sistema di Vauban fu migliorato dall’ingegnere Louis de Cormontaigne (1697-1752), il quale rimosse le torri-bastione, adottò dei ridotti più efficaci all’interno del rivellino, la trasformazione delle piazzole rientranti della strada coperta in piccoli ridotti indipendenti, isolati dal resto della strada coperta per mezzo di diramazioni del fossato. La lunghezza delle faccio dei bastioni venne aumentata fino a portarla a circa un terzo del lato del poligono difensivo, mentre il rivellino anteposto alla cortina venne a sua volta ampliato in modo da mascherare meglio le estremità dei bastioni stessi. Purtroppo le sue idee non furono mai applicate nel concreto e oggi ci rimangono i suoi trattati: modelli di chiarezza e precisione su cui studiarono i futuri architetti e ingegneri militari di tutta Europa.
L’opera di Cormontaigne fu proseguita dal marchese Marc René de Montalembert (1714-1800), uomo militare di grande esperienza che poteva vantare nove assedi e quindici campagne di guerra. Montalembert pubblicò diversi saggi sull’architettura militare tra cui “La Fortification perpendiculaire” pubblicato nel 1776. Alla fine del suo personale percorso di saggista concluse i suoi undici tomi allegando il titolo “L’art défensif supérieur à l’offensif”. L’architetto francese fu il promo a comprendere l’importanza dello scontro tra l’artiglieria del difensore e quella dell’assediante: l’artiglieria dell’assediato non doveva essere posta “in barbetta” (sulla cima delle fortificazioni), ma all’interno di alcune casematte (opera fortificata, progettata strutturalmente per ricevere bombardamenti) ben riparate. I cannoni dovevano essere posizionati su ordini sovrapposti e il più serrati possibili, così da implementare il fuoco.
Augustin de Saint-Aubin, incisione su carta vergata del marchese Marc René de Montalembert (1714-1800); planimetria di caponiera con le quali l'architetto intendeva difendere i fossati delle proprie fortezze; immensa torre casamatta a più piani con 24 cannoni a livello.
Essendo un militare altamente addestrato, preferisce ai princìpi di Vauban una fortificazione concentrata, opponendo al nemico una grande potenza di fuoco, servita da molti cannoni, ora più precisi e più potenti grazie al miglioramento tecnologico. È quindi all’origine della creazione di numerose fonderie di cannoni in Francia, tra cui le forges de Ruelle, vicino alla sua città natale, Angoulême. Sarà lui a rompere la progettazione degli angoli salienti, divenendo il precursore, di fortezze spogliate di difese d’avanzamento. La disposizione architettonica proposta dal Marchese de Montalembert ha diversi forti che si affiancano l’un l’altro e si presentano faccia a faccia con il nemico. Fu tale trovata a contrapporsi alla collaudata fortificazione orizzontale: l’idea di Montalembert si incentrava su di una fortificazione verticale, la quale potesse – grazie all’ampia visuale – concentrare il fuoco dei cannoni, laddove il nemico si fosse riunito con le proprie forze. Nasceva dunque il “sistema perpendicolare del Montalembert”: torri casematte a più livelli fuori terra, ognuno dei quali era dotato di batterie di 24 cannoni pesanti. Le torri erano situate dietro ai salienti, alle tenaglie e alla linea di controguardie che costituivano le difese esterne. Anche in questo caso, l’attuazione di tali princìpi vide il costo economico compromettere la sua realizzazione. Tuttavia i suoi progetti diventarono la falsariga di molte architetture militari del XIX secolo.
 
Per approfondimenti:
_Bar-Le-Duc J.E. de-, La Fortification réduite en art et demonstrée, Francoforte sul Meno 1604;
_Belidor B.F. de-, Les Sciences des ingénieurs, Parigi 1729;
_Bisset C., The Theory and Construction of Fortification, Londra 1751;
_Borgatti M., La fortificazione permanente contemporanea, secondo volume, Torino 1898;
_Brialmont H., Manuel des fortifications de campagne, Bruxelles;
_Cassi Ramelli A., Castelli e fortificazioni, Milano 1974;
_Clausetti E., Storia della Tecnica militare dal Medioevo ai giorni nostri, Milano 1944;
_Corps Royal du Génie, Mémoires sur la fortification perpendiculaire, Parigi 1786;
_Maggiorotti L.A., Architetti militari, in Genio italiano all'estero, Roma 1933;
_Marchi F. de-, Della Architettura militare, Brescia 1599;
_Speckle D., Architectura von Vestungen, Strasburgo, 1589;
_Vauban S. Le Preste de-, De l'Attaque et de la défense des places, secondo volume, L'Aia, 1737-42;
_Hogg I., Storia delle fortificazioni, Istituto geografico De Agostini, Novara 1982.
 
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata