[vc_row css=".vc_custom_1470767044080{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470767053433{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1609677911263{padding-bottom: 15px !important;}"]Stilemaschile: etica ed estetica dell’uomo elegante. Alfredo De Giglio[/vc_column_text][vc_separator css=".vc_custom_1470767563136{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos6" css=".vc_custom_1609677990583{padding-top: 45px !important;}"]
a cura di Stefano Scalella
17 ottobre 2020 – Bottega del Terzo Settore, Corso Trento e Trieste n.18 - 63100 AP
Introduce: Arch. Giuseppe Baiocchi
Modera: Diego Della Valle
Interviene: Dott. Alfredo De Giglio
 
Sabato 17 ottobre 2020, presso la Bottega del Terzo Settore è andato in scena il 57°incontro dell'associazione culturale onlus Das Andere. L'evento ha visto la presenza del Dott. Alfredo De Giglio- sarto, giornalista e editore dal 2010 di Stilemaschile, il primo progetto editoriale cross-mediale dedicato al vivere elegante. La tematica introdotta dall’architetto e presidente Giuseppe Baiocchi e moderata dal consigliere Diego Della Valle, ha trattato l’eleganza maschile: una guida per i gentlemen e per chi vuol avvicinarsi al mondo della sartorialità, del “su misura”, del concetto di Classico maschile. L’eleganza è stata raccontata attraverso le voci, il pensiero, le parole di grandi arbiter elegantiarum in un viaggio che spiega quanto sia importante conoscere e apprendere le regole dello stile.

[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1609676657752{padding-bottom: 15px !important;}"]57°incontro DAS ANDERE[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]Stilemaschile: etica ed estetica dell'uomo elegante. Alfredo De Giglio[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1609677646035{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Sabato 17 ottobre 2020, presso la Bottega del Terzo Settore è andato in scena il 57°incontro dell'associazione culturale onlus Das Andere. L'evento ha visto la presenza del Dott. Alfredo De Giglio- sarto, giornalista e editore dal 2010 di Stilemaschile, il primo progetto editoriale cross-mediale dedicato al vivere elegante.
La tematica introdotta dall’architetto e presidente Giuseppe Baiocchi e moderata dal consigliere Diego Della Valle, ha trattato l’eleganza maschile: una guida per i gentlemen e per chi vuol avvicinarsi al mondo della sartorialità, del “su misura”, del concetto di Classico maschile. L’eleganza è stata raccontata attraverso le voci, il pensiero, le parole di grandi arbiter elegantiarum in un viaggio che spiega quanto sia importante conoscere e apprendere le regole dello stile.
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

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Giuro di essere fedele a sua maestà il Re ed ai suoi reali successori, di osservare fedelmente lo Statuto e le altre leggi dello Stato, ad adempiere a tutti i doveri del mio Stato col solo scopo del bene indivisibile del Re e della Patria”. Tale giuramento, adottato in tutte le scuole italiane, deve averlo pronunciato anche il conte Carlo Fecia di Cossato classe 1908 nato a Roma, quarto di sei figli dal matrimonio tra il padre Carlo Fecia di Cossato e Maria Luisa Gené.

La famiglia di colui che oggi è considerato un vero e proprio asso della storia della marina italiana con il conferimento della medaglia d’oro, si presentava di stampo fortemente monarchico, come molte famiglie della nobiltà militare, le quali mettevano a disposizione la propria esperienza al servizio del regio esercito.

[caption id="attachment_6758" align="aligncenter" width="1024"] Conte Carlo Fecia di Cossato (Roma, 25 settembre 1908 – Napoli, 27 agosto 1944) è stato un militare italiano.[/caption]
Il legame tra casa Savoia e la Marina italiana risale ancor prima dell’Unità di Italia: nel basso medioevo con Amedeo V il Grande, fino ad arrivare al Regno sabaudo di Sardegna e Piemonte dove si identificò l’appellativo “regia-nave” corrispondente al “regio legno”, nome usato per indicare le imbarcazioni sotto il Regno di Sardegna e Piemonte. Nel 1861 il neonato regno d’Italia riusciva ad unire le marine dello stato Pontificio (con solo Roma, rimasta ancora autonoma), il naviglio toscano e la potente flotta napoletana, imponendosi in poco tempo come una delle flotte più importanti del Mediterraneo e d’Europa.
Per non far nascere rivalità tra settentrionali e meridionali, il 6 novembre del 1881 decretò la creazione di un’unica Accademia navale: quella di Livorno, esistente ancora oggi, la quale è una delle migliori scuole navali del mondo. L’educazione civica di tale scuola è fondamentale per capire appieno il comportamento di Fecia di Cossato, profondamente fedele alla casa reale di predominanza piemontese.
[caption id="attachment_6760" align="aligncenter" width="1000"] Constantine Volanakis, la battaglia di Lissa - 1867, olio su tela cm 283 x 169, museo di belle arti di Budapest.[/caption]
Il continuo scambio, fra prestazioni pubbliche richieste e fedeltà concessa, di questi servitori dello Stato era caratteristica di tutti gli ufficiali di marina, che seguivano rigidi giudizi: “sappia che un militare ha doveri, e non ha niun diritto. Neppure la paga s’ha diritto; essa è un dono di sua maestà il Re, nient’altro” asserivano spesso i comandanti di marina alle giovani generazioni, che potevano ambire ad un cambio di mentalità.
Il conte Fecia di Cossato cresce sotto questa istruzione secolare, amando praticare sport fin dalla primissima età. Il nuoto e l’equitazione sono le sue due discipline più amate, venendo da una famiglia di forte tradizioni militari. A vent’anni nel 1928 dopo aver superato brillantemente gli esami, si imbarca l’undici luglio sull’incrociatore Ancona con il grado di guardiamarina.
Siamo in piena epoca fascista: gli anni del consenso. Carlo non solo non è fascista, ma ha una forma di ostilità velata per la politica di corruzione dell’ormai ex-rivoluzione, essendo di elevata rettitudine e incapace a compromessi. Dopo la modifica dello Statuto Albertino nel 1925, Mussolini con un abile mossa mise la monarchia in secondo piano. Questa operazione non sfuggì al conte, che si rifiutò di avere la tessera e per due anni non avanzò di grado, rimanendo come tenente di vascello. Solo il padre, riuscì con l’inganno a far iscrivere il figlio a sua stessa insaputa: inutile l’ira del giovane che rimase esterrefatto, ma iniziò l'avanzamento di carriera militare.
La marina italiana rappresentava nel mediterraneo una forza poderosa: 6 corazzate (2 in allestimento), 7 incrociatori pesanti e 26 leggeri, 15 esploratori, 130 cacciatorpediniere e torpediniere, 115 sommergibili da media e grande crociera e un numero imponente di unità minori. Non possedeva portaerei perché non erano ritenute necessarie nel mediterraneo: uno degli errori fatali della sconfitta della regia-marina, insieme al mancato sviluppo del Radar (inventato in Italia, ma mai sviluppato. Sarà utilizzato dai britannici e farà la differenza). Sarà l’unica forza armata che arriverà preparata al conflitto che vedrà coinvolta l’Italia quel fatidico 11 giugno 1940.
Il romano dopo un breve periodo sull’incrociatore pesante "Trento" veniva destinato al sommergibile "Bausan" (dal dicembre del 1929 all’agosto del 1930), iniziando la sua esperienza sui battelli subaquei. Dal 17 aprile 1932 al maggio del 1933 navigò con l’incrociatore "Libia" e fu stanziato nelle acque dell’estremo oriente, in Cina. Successivamente dal 1934 al 1936, comandò le difese portuali in Africa Orientale, diventando a ventisei anni comandante delle difese portuali di Massaua, capitale nella colonia italiana eritrea.
La lunga successione di imbarchi e di destinazioni esotiche faranno scoprire al conte Fecia di Cossato nuove culture e nuove mentalità, arricchendo già il suo nutrito bagaglio culturale. Il 20 giugno del 1938 viene nominato comandante della torpediniera "San Martino" e successivamente comandante della "Polluce".
La leggenda di Fecia di Cossato entra nel vivo quando il 25 febbraio del 1940, dopo un breve trascorso nel sommergibile "Colonna" (in preparazione alla scuola comando sommergibili) e imbarcato in brevi lasso-temporali sui sommergibili "Menotti", "Bragadin" e "Settimo", fu poi imbarcato del "Tazzoli" come comandante in seconda per fare il tirocinante nella guerra in atlantico: compie a Bordeaux un apprendistato magistrale.
[caption id="attachment_6761" align="aligncenter" width="1000"]betasom Betasom (Bordeaux Sommergibile) è ottenuto dall'unione della prima lettera della parola "Bordeaux", espressa con il nome della lettera dell'alfabeto greco equivalente dal punto di vista fonetico "beta" e la prima sillaba della parola "sommergibile", la base navale dei sottomarini della regia marina a Bordeaux (costa atlantica meridionale francese) durante la seconda guerra mondiale.[/caption]
Nel settembre del 1939 l’Inghilterra dichiarò il blocco totale alle forze tedesche, forte della sua supremazia marittima: era considerata indiscussa padrona del Mare del Nord. I tedeschi come risposta dichiararono un contro-blocco, inserendo anche la guerra sottomarina totale. In pochi giorni il mare del Nord e la Manica vengono disseminate di mine. Il naviglio britannico fu gravemente danneggiato.
Alla fine di agosto iniziava la guerra dell’atlantico, la quale portò grandi successi ai famosi U-Boote tedeschi contro il traffico mercantile britannico (i due terzi del fabbisogno inglese deve essere importato). Sul continente, invece, la Francia era già invasa dalla wermacht tedesca.
Saranno queste e molte altre le condizioni favorevoli a spingere Benito Mussolini ad entrare in guerra a fianco dell’alleato tedesco e giapponese l’undici giugno del 1940. Nonostante i suoi malumori Carlo esegue gli ordini del Re asserendo: “Possibile che, nel mazzo, vadano a scegliere proprio i due più antipatici!”.
Intanto il 24 giugno la Francia firma l’armistizio con l’Italia. L’evento aumenta l’influenza sul mediterraneo della regia-marina, la quale diventa un avversario ancora più ostico alla royal marine britannica. In tal senso grave fu il diniego di Hitler riguardante l’uso della marina francese in chiave italiana, per il timore che Mussolini successivamente, potesse prendere ancor più slancio in politica estera di quella che già deteneva. Inoltre il führer voleva tenere un equilibrio con il governo filo-nazista di Vichy.
Il 9 luglio mentre la regia marina, comandata dall’ammiraglio Campioni riporta un’importante vittoria morale contro gli inglesi, che per la prima volta battono in ritirata contro gli italiani, perdendo un caccia, un piroscafo e 18 aerei, Carlo Fecia di Cossato si trova in operazioni di protezione, nel Mediterraneo (tra Grecia, Nord Africa e Italia), a bordo del sommergibile "Ciro Menotti".
Dopo queste operazioni il conte lascia il mediterraneo per essere nominato al bordo del "Tazzoli" di base a Betasom, ufficiale in seconda. Fecia di Cossato è profondamente avverso a questo conflitto che ritiene inutile: “(…) ma tutto quello che ti ho detto circa la inevitabile sconfitta che ci aspetta, non può avere e non avrà mai nessuna conseguenza sull’impegno che io metterò a combattere questa guerra in cui tutti siamo impegnati. Una mia opinione personale, che a me purtroppo sembra inconfutabile, potrebbe anche essere errata, e, in ogni caso, si vinca o si perda, il mio dovere di ufficiale e di comandante è quello di tener duro, di pestare il nemico finché avrò mezzi ed ordini per farlo, e di infondere nel mio equipaggio la sicurezza di lottare per una giusta causa verso la vittoria”. Anche da queste, poche, parole si evince il forte spirito di serietà e professionalità che accompagnerà il romano per tutta la sua breve vita.
In Atlantico sono presenti 26 sommergibili italiani, i quali hanno superato lo stretto di Gibilterra (britannico) senza perdite. Sono di base a Bordeaux, che prese l’appellativo di “Betasom”. I marinai italiani sono stimati dai tedeschi per il loro coraggio e la loro perizia tecnica e riportano importanti successi con affondamenti eccellenti: il bollettino di guerra n°71 del 18 agosto del 1940 riguarda, addirittura, l’affondamento di una petroliera di 9000 tonnellate. Con questo episodio comincia per la regia marina una lunga avventura di gloria e di sacrificio. Fecia di Cossato si trova nel bel mezzo di questa situazione ed è uno dei migliori. Scriveranno di lui: “il comandante perlustra instancabile l’orizzonte. Per lui la notte e il riposo non esistono. Sono parecchie “lune” come dice il signor Gazzana, che non tocca la sua cuccetta e non riusciamo proprio a capire come faccia a stare in piedi”. Dunque un uomo di notevole resistenza che dimostra spesso una aggressività, verso il nemico, esasperata che gli fa avere tutta la stima dell’equipaggio, anche quando diviene comandante del "Tazzoli", avendo in seconda l’altro formidabile asso Gianfranco Gazzana Priaroggia che successivamente al comando del “Da Vinci” divenne il comandante con più tonnellaggio di navi affondate.
[caption id="attachment_6762" align="aligncenter" width="926"] Anno 1942 - il conte Carlo Fecia di Cossato, comandante del regio stato maggiore generale "Tazzoli" e il tenente di vascello Gazzana Priaroggia, comandante in seconda del "Tazzoli", in coperta in occasione dell'incontro in Atlantico con altro sommergibile italiano.[/caption]
I siluratori atlantici italiani sono molti: Longobardo, Tosoni-Pittoni, Grossi, Gazzana, Leoni, Todaro, Pollina, Giovannini, Longanesi, Prini, Piomarta – tutti gentiluomini che hanno vissuto in un clima infernale dovuto al calore tremendo che vi era a bordo dei sommergibili, del fetore insopportabile e dello stress della morte, che poteva essere in agguato in qualsiasi momento.
Nel frattempo la Gran Bretagna, trovatasi dopo Dunkerque, in una situazione disperata capisce che i convogli devono avere l’adeguata protezione da parte del naviglio sottile (impegnato nel mediterraneo) e stipula con gli Stati Uniti uno scambio: 50 cacciatorbediniere di vecchio tipo “Flush Deck” per la concessione (99 anni) di cinque basi navali ed aeree britanniche nelle Antille e nell’America centrale. La situazione si riequilibra.
Nel novembre del 1940 nel mediterraneo avvenne il famoso “disastro di Taranto” dove sei navi italiane, nella base portuale, furono distrutte nella notte: un grave colpo. Un anno dopo nel 1941 nei giorni del 26-27-28-29 marzo avvenne la tragedia di "Capo Matapan" nel mediterraneo orientale: in un offensiva poderosa della regia-marina, il nemico grazie all’intelligence (che conosceva gli ordini cifrati italiani) e all'uso del radar era informato sulle mosse delle navi da guerra italiane. La sconfitta di Gaudo e Matapan si concluse con la perdita di tre incrociatori, il siluramento della Vittorio Veneto e la morte di tremila uomini. La marina italiana non si riprese più del tutto da questa sconfitta. Sempre nel 1941 la marina tedesca entrava con 21 sommergibili nel Mediterraneo con base a Salamina, nella Grecia occupata. Continuano gli insuccessi strategici, come quello del 20 marzo del 1942, quando un convoglio britannico salpato da Alessandra arriva a Malta, rifornendo l’isola (luogo strategico fondamentale per la vittoria nello scacchiere mediterraneo). Il 16 giugno del 1942 la regia-marina riporta, una vittoria in inferiorità numerica nella battaglia di Pantelleria affondando ai britannici 1 incrociatore (Kenya), 5 caccia di squadra (Bedouin, Hasty, Nestor, Grove, Aredale), 1 nave di scorta (Kujavak) e 4 piroscafi, tra cui la petroliera Kentucky. Per parte italiana solo il Vivaldi subì gravi danni.
Traslandoci di nuovo in Atlantico, Cossato appare sempre più un uomo di ferro, ma inizia ad avere un forte travaglio psicologico e fisico.
Il 15 luglio 1941 il conte guidò il "Tazzoli" in una nuova missione: il dodici agosto, affonda il piroscafo inglese "Sangara" e il diciannove la petroliera norvegese "Sildra" per rientrare in base l'undici settembre. In questa seconda missione Fecia di Cossato fu decorato con la medaglia di bronzo al valor militare e da parte dei tedeschi con la croce di ferro di seconda classe. Successivamente nel dicembre del 1941 partecipò, partendo da Bordeaux, al salvataggio di oltre 400 naufraghi tedeschi, che gli valsero l'importante decorazione tedesca della croce di ferro di 1ª Classe conferitagli dall'ammiraglio Dönitz.
Il marinaio Dilda il 5 settembre del 1942 annota sul suo diario: “E’ sceso a cambiarsi per il rientro (alla base). Gli tiro fuori dallo stipetto una camicia e lo osservo mentre si toglie il maglione di navigazione. Rimango di stucco: le costole sporgono esageratamente dal torace sul quale non c’è altro che bruna pelle tesa come quella di un tamburo; la spina dorsale e le scapole stanno per saltargli fuori! Gli arti sono fasci secchi di nervi e di muscoli: il ventre e lo stomaco non ci sono più”.
Carlo riesce ad ottenere risultati straordinari: l'11 febbraio 1942 partito per una nuova missione presso le coste americane (gli Stati Uniti erano nel frattempo entrati in guerra) affonda il sei marzo il piroscafo olandese "Astrea" e il giorno successivo la motonave norvegese "Torsbergfjord". Il nove marzo colpisce e affonda il piroscafo uruguayano "Montevideo", l'undici fu invece il turno del piroscafo panamense "Cygney". Il tredici marzo fu la volta dell'inglese "Daytoian" e il quindici della petroliera inglese "Athelqueen". L'asso Fecia di Cossato è oramai famoso e temuto da tutti gli avversari.
L’incarico del "Tazzoli" è molto lungo: dal 5 aprile del 1941 al 28 febbraio del 1943 (22 mesi). Appena torna in patria per le licenze, riposa continuamente, conducendo una vita spartana. I reparti tedeschi raramente in atlantico ebbero incarichi così prolungati, spiegando forse in parte l’esaurimento fisico e il logoramento nervoso di questo incredibile ufficiale di marina sempre lucido, preciso, pieno di carica e capacità umane.
Fecia di Cossato continua a mietere vittime eccellenti: Il diciotto giugno del 1942 è diretto ai Caraibi dove il due agosto affonda la greca "Castor" e il sei la petroliera norvegese "Havsten".  L'italiano in atlantico è un vero e proprio incubo per i convogli alleati: Il dodici dicembre del 1942 furono intercettati ed affondati il piroscafo inglese "Empire Hawk" e l'olandese "Ombilin". Il ventuno è il turno dell'inglese "Queen City" e il venticinque della motonave americana "Dona Aurora".
Queste importanti missioni gli varranno una medaglia di bronzo al valor militare, oltre ad una fama eccezionale.
A tutto questo bisogna aggiungere alcuni difetti dei sommergibili italiani, inferiori tecnologicamente a quelli tedeschi. I sommergibili avevano una età media di dieci anni, possedevano scafi robusti e autonomia sufficiente, così come l’abitabilità. Le qualità nautiche erano più che buone, così come gli apparati motore e energia elettrica. Di contro mancava una centralina di tiro (notevole imprecisione nel lancio dei siluri), le false torri erano troppo voluminose (aumentando la visibilità al nemico), i limiti nello scafo ritardavano l’immediata immersione, rendendoli vulnerabili all’offensiva aerea nemica. Ultima, ma non meno importante, una tattica attendista obsoleta, in una guerra (anche marina) di movimento dove la stessa kriegsmarine tedesca e royal navy andavano spesso ad attaccare le basi nemiche.
Il conte Carlo Fecia di Cossato, conclusa l’esperienza nell’atlantico, come tutti i reparti della regia-marina risente fortemente delle sconfitte terrestri dell’esercito che fanno tendere la bilancia sempre più verso la disfatta, che arriva il 25 luglio del 1943 con l’arresto di Mussolini. Il romano si trova a bordo del torpediniere "Aliseo" in Corsica a Bastia. Dopo il maggio del 1943 con la conquista alleata della Tunisia, la guerra si avvicina alla penisola e nel luglio avviene lo sbarco alleato in Sicilia.
Il ministro della marina Raffaele De Courten convoca a Roma tutti gli ufficiali superiori allertandoli di future operazioni contro i tedeschi. Si arriva all’otto settembre e per Carlo Fecia di Cossato è un duro colpo al suo spirito già fortemente provato: tradire l’alleato tedesco, con il quale aveva condiviso gli anni francesi. Costante, però, era l’opinione in marina, che questo sacrificio di onore militare era richiesto dal Re, per cui l'ambiente si compattò ed eseguì alla lettera gli ordini. La sera dell’otto settembre il comando tedesco cerca di impadronirsi dei comandi italiani in Corsica, sfruttando lo sbandamento delle truppe italiane rimaste senza ordini.
[caption id="attachment_6765" align="aligncenter" width="1754"] L'Aliseo è stata una torpediniera di scorta della Regia Marina. Dopo il termine del conflitto, il trattato di pace assegnò l’Aliseo alla Jugoslavia, in conto riparazione danni di guerra. Con la sigla provvisoria Y9 la torpediniera venne consegnata il 3 maggio 1949[/caption]
Avviene la battaglia di Bastia e qui viene fuori l’uomo. Qui Carlo Fecia di Cossato non ebbe tentennamenti e la sua reazione davanti al nemico fu decisa, senza dubbi. Toltosi i nastrini delle croci di ferro tedesche (si narra come fossero state gettate in mare) alle 7,15 di mattina aprì il fuoco a distanza ravvicinata: i tedeschi dello "Uj2203", si auto-affondano per le lesioni allo scafo appena un’ora dopo. Fecia di Cossato dirige successivamente le sue bocche da fuoco sul sottomarino tedesco "Uj2219" che dopo trenta minuti viene affondato. Stessa sorte il conte decide di farla fare alla motozattera tedesca "F612". Nella confusione della nottata e della mattinata successiva il colpo di mano tedesco in Corsica fallisce. Carlo Fecia di Cossato giunge per ordine di Nomis di Pollone (su ordine dell’ammiraglio Somigli) prima a Portoferraio (provincia di Livorno) e successivamente, insieme a Aimone Savoia duca di Spoleto, a Palermo. La città ospita tutta la regia-marina fedele a Vittorio Emanuele III, il quale in accordo con gli anglo-americani aveva creato il governo Badoglio a Brindisi. Alcuni reparti di marina confluiranno a Nord dove aderiranno alla repubblica sociale italiana con gli ammiragli Legnani e Ferrini.
Dopo essersi fermate una settimana a Palermo, le unità sottili fra cui "l’Eliseo", raggiunsero Malta, dopo una sosta ad Augusta. Lasciata l'isola, ai primi di ottobre, Carlo giunge a Taranto dove inizia la cobelligeranza, la quale prevede scorte ai convogli degli Alleati.
Nel frattempo nell’aprile 1944 Vittorio Emanuele III nominava Umberto Savoia principe di Piemonte “luogotenente generale del regno” asserendo come: “questa mia decisione che, ho ferma fiducia, faciliterà l’unità della nazione è definitiva e irrevocabile”. Una volta presa Roma il 4 giugno 1944, colui che successivamente sarà il “Re di Maggio” Umberto II, per volontà degli Alleati scioglie il governo Badoglio e forma un comitato di liberazione nazionale (CLN) formato dai vari Croce, Rodinò, Togliatti, Mancini, Sforza solo per citare le persone più di rilievo. Questo comitato non giura, come lo Statuto Albertino richiede, la fedeltà al Re e sarà solo l’intervento del diplomatico Alberto Tarchiani a giustificare l’imposizione, decretando un governo civile. Così il Governo Bonomi si obbligava a rispettare tutti gli impegni assunti dal precedente governo Badoglio e stabilì con Umberto Savoia che i ministri non giurassero con la formula rituale, bensì con una formula che li impegnava soltanto ad esercitare la loro funzione “nell’interesse supremo della nazione”. Inutile dire che questa azione, rispecchia il colpo di mano avvenuto nella notte del 13 giugno 1946 da Alcide De Gasperi.
Questa soluzione viene adottata anche nella regia-marina del Ministro De Courten. Il giuramento del nuovo governo poneva quindi un problema istituzionale che ebbe un impatto tremendo sulla realtà della marina italiana fortemente monarchica. Chi avrebbe seguito De Courten combattendo con un governo non fedele al sovrano? Il 9 settembre si era chiesto alla regia-marina di cambiare schieramento per espresso ordine del Re e successivamente molti comandanti di marina che avevano compiuto il sacrificio di mettere l’onore e la lealtà da parte, si vedevano schierati con un governo non fedele al loro stesso giuramento.
Carlo è stanco, è tormentato dai dubbi, ma con i suoi occhi di ghiaccio emanava sempre un grande carisma tra i marinai. Quando il 22 giugno l’amico Nomis di Pollone lo convocò insieme ai comandanti delle torpediniere per tenere loro un discorso sulla calma e l’obbedienza, il conte esce dal coro e asserisce come non avrebbe eseguito gli ordini di un governo che non prestava fedeltà al Re e il giorno seguente l’Aliseo non sarebbe uscito. Convocato dal ministro in persona a Taranto, il romano rimane fermo nella sua decisione, che lo porterà agli arresti in fortezza. L’agitazione della regia-marina, che aveva preso come un tradimento la questione del giuramento del governo Bonomi, vedevano in Fecia di Cossato un alfiere della loro battaglia etica. Il ministro è costretto il giorno dopo a scarcerarlo per calmare gli animi e invitarlo ad una “licenza” lunga tre mesi a Napoli. La città partenopea è allo sbando: affamata e distrutta, vige la corruzione in tutti i settori. Per un uomo tormentato e sfiduciato Napoli non era sicuramente la città migliore.
Qui si consuma il dramma, l’ufficiale che più di tutti era stato ligio al dovere, l’ufficiale che viene disonorato per non essersi piegato al “politicamente corretto” crolla.
[caption id="attachment_6766" align="aligncenter" width="1243"] Il conte Carlo Fecia di Cossato in plancia durante la navigazione.[/caption]
Riporto la lettera alla madre Luisa Gené:
Mamma carissima, quando riceverai questa mia lettera saranno successi fatti gravissimi che ti addoloreranno molto e di cui sarò il diretto responsabile.
Non pensare che io abbia commesso quel che ho commesso in un momento di pazzia, senza pensare al dolore che ti procuravo. Da nove mesi ho soltanto pensato alla tristissima posizione morale in cui mi trovo, in seguito alla resa ignominiosa della Marina, resa a cui mi sono rassegnato solo perché ci è stata presentata come ordine del Re, che ci chiedeva di fare l’enorme sacrificio del nostro onore militare per poter rimanere il baluardo della monarchia al momento della pace. Tu conosci che cosa succede ora in Italia e capisci come siamo stati indegnamente traditi e ci troviamo ad aver commesso un gesto ignobile senza alcun risultato. Da questa triste constatazione me ne è venuta una profonda amarezza, un disgusto per chi mi circonda e, quello che più conta, un profondo disprezzo per me stesso. Da mesi, mamma, rimugino su questi fatti e non riesco a trovare una via d’uscita, uno scopo alla vita. Da mesi penso ai miei marinai del Tazzoli che sono onorevolmente in fondo al mare e penso che il mio posto è più con loro che con i traditori e i ladruncoli che ci circondano. Spero, mamma, che tu mi capirai e che, anche nell’immenso dolore che ti darà la notizia della mia fine ingloriosa, saprai sempre capire la nobiltà dei motivi che la guida. Tu credi in Dio, ma se c’è un Dio, non è possibile che non apprezzi i miei sentimenti che sono sempre stati puri e la mia rivolta contro la bassezza dell’ora. Per questo, mamma, credo che ci rivedremo un giorno. Abbraccia papà e le sorelle e a te, mamma, tutto il mio affetto profondo e immutato. In questo momento mi sento molto vicino a tutti voi e sono certo che non mi condannerete”.
Il conte si toglie la vita il 28 agosto verso l’una di notte, sparandosi un colpo di pistola alla tempia. Nel 1946 nell’immediato dopoguerra la marina italiana lo dimentica per molti anni con l’Italia repubblicana che gli assegna una medaglia d’argento per l’ultima missione del Tazzoli e una di bronzo per l’azione di Bastia. Solo il 27 gennaio del 1949 gli viene assegnata, con giusto merito, la medaglia d’oro al valor militare che fu appuntata al padre in Piazza S.Marco a Venezia. La marina militare ha quasi totalmente riparato alle sue dimenticanze mettendo in servizio nel 1979 il sottomarino “Fecia di Cossato” appartenente alla classe Sauro.
Il conte Carlo Fecia di Cossato è stato un fedele suddito del Re, tradito dalle circostanze storiche, ha ricevuto spesso una mistificazione totale del suo dramma. Il suo è stato un gesto estremo fuori dal comune che lo rende eroico alla posterità proprio perché rappresenta il più grande degli sconfitti che non si piega agli eventi che gli impongono nella storia. Il sommergibilista è stato l’esempio di quella unità d’Italia voluta dai Savoia, dove il concetto storico della dichiarazione di guerra era ancora un concetto personale fra sovrani e non fra stati. Il fascismo cercò di creare un’identità nazionale scavalcando la monarchia, ma la metodologia del totalitarismo a medio-lungo termine si rilevò fallimentare e cercò di trascinare nel suo crollo anche la dinastia sabauda che aveva cercato di emarginare. Con il crollo della monarchia italiana nel 1946, si concluse "un’idea italiana", che il fascismo -  nonostante tutto -  non aveva eliminato e che la repubblica, sorta dalle ceneri di questa idea, ha cercato per anni di trovare una legittimità storica di “sangue” come ogni rivoluzione creativa nella resistenza partigiana, ma era un concetto debolissimo che si sbriciolò con l’onestà intellettuale di una guerra fraticida di tre schieramenti distinti: fascisti, monarchici, partigiani.
Il nostro eroe cresciuto con questa idea esistenziale non poteva capire i problemi di fondo che un governo Bonomi esprimeva, giocando sul sentimento di metà della nazione italiana, ed è proprio in questo senso che Carlo Fecia di Cossato rimane il vincitore morale di questa grande sconfitta nazionale.
 
Per approfondimenti:
_Achille Rastelli, Carlo Fecia di Cossato. L'uomo, il mito e il marinaio - Edizioni Mursia 2009
_Antonio Maronari, Un sommergibile non è tornato a casa - Edizioni Rizzoli
_Gianni Oliva, I Savoia - Edizioni Mondadori 1999
 
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Ulisse e Faust: padri del modernismo e della tracotanza
[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Daniele Paolanti del 12-11-2020[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1612393148293{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]

Il Novecento ha rivelato una verità incontestabile, ovvero il desiderio dell’uomo moderno di valicare i confini del sacro, scostandosi dai paradigmi del fas e del nefas, al solo scopo di assecondare un insaziabile desiderio di conoscenza. Un desio fomentato dal dubbio – tante volte esteriorizzato finanche nello Zibaldone leopardiano – che, alimentato dalla crescente hỳbris, ha condotto alla teoria del relativismo, nella quale la Verità universale non esiste o, in talune declinazioni, non esiste soltanto una verità.

[caption id="attachment_12329" align="aligncenter" width="1000"] Particolare del bassorilievo del peccato originale presso il Duomo di Orvieto, Cattedrale dell'Assunta, Umbria.[/caption]
Ebbene, le prime tracce di avversione al volere divino mosse a causa della c.d. empia tracotanza forse sono presenti finanche nelle Sacre Scritture: nel libro della Genesi Adamo ed Eva potevano mangiare di qualunque frutto fuorché dell’albero dal quale Dio li aveva diffidati dall’attingere. Il Serpente, che lo stesso Eterno porrà come inimico alla Donna, convinse Eva a commettere l’empio atto di insolenza, portando seco nel peccato Adamo. Dal libro della Genesi leggiamo infatti che il colloquio con l’Ingannatore fu del seguente tenore: «Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell'albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete». Ma il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male».
Ecco il primo desiderio di conoscenza, la prima sfrenata pulsione di avversare la Verità ed il Sacro Ordine che Dio ha imposto all’Uomo: «Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture». La pulsione scaturente dal desiderio di cercare una sapienza loro preclusa, dubitando e ipotizzando callidamente che la medesima fosse stata loro sottratta per gelosia o invidia, è la prima forma di dubbio. Ma il risultato conseguito è l’inverso: i progenitori della specie umana si rendono conto di essere nudi (la pochezza della loro esistenza e l’ontologica fragilità delle loro vite) e, di converso, intrecciano foglie di fico per coprirsi, forse perché consci di non essere in grado di interagire e trattenere quel sapere così ardimentosamente anelato.
Qual è la natura del Diavolo, infatti, nella tradizione cristiana? La teologia insegna che questi altri non sia se non un puro spirito, presente sin dai primi momenti della creazione, quando l’Eterno Padre creò le creature celesti e le divise in nove cori. Egli, brillante e di magnificenza tale da non poter essere equiparato ad altre creature angeliche, si ribellò a Dio rifiutandosi di essere equiparato al resto del creato, desiderando egli stesso di ergersi al livello di Dio, per poi venir ricacciato, dopo la sua caduta, negli abissi della terra dal Principe delle Milizie Celesti, San Michele Arcangelo, al grido di Mîkhā'ēl, ovvero “Chi è come Dio?”.
Ne L’Esorcista, film del 1973 diretto da William Friedkin e tratto dall'omonimo romanzo di William Peter Blatty, Padre Merrin, il sacerdote che tenta di liberare la giovane protagonista posseduta da uno spirito demoniaco, si riferisce al Diavolo dicendo «Credo che voglia portarci alla disperazione... perché vedendoci ridotti a bestie mostruose... noi escludiamo la possibilità dell'amore di Dio».
[caption id="attachment_12330" align="aligncenter" width="1000"] L'esorcista (The Exorcist) è un film del 1973 diretto da William Friedkin e tratto dall'omonimo romanzo di William Peter Blatty, che scrisse anche la sceneggiatura del film. La pellicola ebbe molto successo malgrado i problemi di censura e, negli anni seguenti, generò due sequel: L'esorcista II - L'eretico (1977), L'esorcista III (1990), e una riedizione in versione integrale del 2000, con circa undici minuti di scene inedite. Nel 1974 ne fu anche realizzata una versione cinematografica turca intitolata Şeytan, mentre nel 2016 è servita da ispirazione per l'omonima serie televisiva The Exorcist, che si pone come sequel. Ben accolto dalla critica, il film divenne presto un punto di riferimento del cinema moderno, acquisendo una notevole popolarità e esercitando un forte impatto culturale[2][3][4]. Nel 2010 entrò a far parte del National Film Registry della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti.[/caption]
La malizia, l’inganno surrettizio della conoscenza suprema, la brama di valicare i confini del sacro per spingersi oltre sino a dubitare di tutto, arrivando ad ipotizzare il precetto, ontologicamente privo di logicità, in virtù del quale “l’unica verità è che non esistono verità”, è stato sovente attenzionato dalla letteratura. Il caso più emblematico è quello di Ulisse Re di Itaca, che Dante incontra nell’Inferno tra i consiglieri fraudolenti mentre sconta la sua dannazione per aver peccato di empia tracotanza. Leggiamo nel XXVI Canto dell’Inferno (vv. 45-48) «E ’l duca che mi vide tanto atteso, disse: «Dentro dai fuochi son li spirti; catun si fascia di quel ch’elli è inceso». Ma ogni ulteriore parola sottrarrebbe spazio alla delizia del verseggiar del Sommo, donde di lui si riportano le parole: «Lo maggior corno de la fiamma antica cominciò a crollarsi mormorando pur come quella cui vento affatica».
Ulisse racconta in questa sede a Dante e Virgilio come avvenne la sua dipartita. Vecchio e stanco, non più l’eroe che tanto atterriva i troiani sotto le mura di Ilo, non più il duri miles Ulixi dell’inganno del cavallo, ma un uomo le cui glorie non sono più cantate, dimenticato persino nella sua patria, ma con un forte desiderio di vedere il mare, di esplorare nuovi porti prima ancora che la sua vita giungesse all’ultimo lido.
Io e ’ compagni eravam vecchi e tardi/quando venimmo a quella foce stretta/dov’Ercule segnò li suoi riguardi,/acciò che l’uom più oltre non si metta:/da la man destra mi lasciai Sibilia,/da l’altra già m’avea lasciata Setta./“O frati”, dissi “che per cento milia/perigli siete giunti a l’occidente, /a questa tanto picciola vigilia /d’i nostri sensi ch’è del rimanente, /non vogliate negar l’esperienza,/di retro al sol, del mondo sanza gente. /Considerate la vostra semenza:/fatti non foste a viver come bruti, /ma per seguir virtute e canoscenza”.
Fermo immagine: cerchiamo di comprendere cosa sta accadendo ad Ulisse. Con un manipolo di compagni vecchi e stanchi si rimette in mare, sino a raggiungere il confine invalicabile per gli uomini, lo stretto delle Colonne d’Ercole (lo stretto di Gibilterra, nella letteratura occidentale e in primis nel mito greco, era un tempo chiamato col nome di Colonne d'Ercole). Un’esitazione coglie la compagnia, ma non pervade il Re itacese: varcare la soglia delle colonne d’Ercole sarebbe stato un atto empio, ben più ardimentoso di quello di Prometeo, la punizione divina li avrebbe afflitti senza pietà alcuna. Il cuore di Ulisse però non si dà pace, deve vedere, deve scoprire, deve andare oltre, dubita della reale volontà divina. Si erge così ad “uomo nuovo” e sprona i suoi compagni al folle volo, ricordando quale fosse l’indole dell’umana stirpe, ovvero “per seguir virtute e canoscenza”.
Così la nave prosegue, oltrepassa il limes invalicabile, s’addentra là dove non avrebbe dovuto, pronta per incontrare la sua rovinosa fine: quando n’apparve una montagna, bruna /per la distanza, e parvemi alta tanto /quanto veduta non avea alcuna. /Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto,/ché de la nova terra un turbo nacque,/e percosse del legno il primo canto. /Tre volte il fé girar con tutte l’acque;/a la quarta levar la poppa in suso/e la prora ire in giù, com’altrui piacque,/infin che ’l mar fu sovra noi richiuso».
Cosa è accaduto all’astuto Ulisse? La nave giunge alle pendici di una montagna altissima, di un’altitudine tale che nessun uomo ne aveva mai vista una altrettanto imponente (la montagna del Purgatorio della visione dantesca?) e la compagnia prontamente si rallegra. Senonché il loro giubilar diventa presto pianto, nel momento in cui apprendono che la nave si trovava al centro di un turbine che la costrinse ad un triplice giro vorticoso: la prua s’inabissa e la poppa si solleva ed il mare si chiuse sopra di loro, inghiottendoli per l’insolenza contro il volere divino.
Singolare è l’impiego dell’espressione “com’altrui piacque”. Queste parole precedono infatti l’annunciazione della morte di Ulisse e dei suoi compagni, che infatti chiudono il XXVI canto. Quasi che Dante volesse lasciarci intendere che, poco prima di morire, Ulisse si fosse reso conto del peccato di cui fu portatore, della hỳbris con cui sfidò gli dei: del dubbio, del fatto che una verità, o una sola verità…Non esistesse…”. Ed il mare si chiuse sopra di loro.
La narrazione di Dante lascia incredulo l’uomo moderno, non perfettamente consapevole di quale possa essere il peccato imputato ad Ulisse. La società contemporanea, afflitta da un materialismo convulso e da un consumismo irrefrenabile, che sembra sia ontologicamente sprovvisto di confini, non vuole per sua natura incontrare “riguardi”, trovando maggior conforto nella negazione di una Verità e nell’esaltazione del dubbio e del relativo, ovvero dell’assenza del vero assoluto e dell’unico vero. Da qui trovano scaturigine i limiti etici e deontici, che avviluppano il sapere e le scoperte.
E proprio di desiderio di sapere e di assenza di etica parleremo cennando al personaggio del Dottor Faust. Francesco De Sanctis, nella sua Storia della letteratura italiana, scrive «[La] lotta tra Dio e il demonio è la battaglia dei vizi e delle virtudi [...].
[caption id="attachment_12331" align="aligncenter" width="1000"] Faust, Il laboratorio, stampa del 1872.[/caption]
Questa [...] è la base della leggenda del Dottore Fausto che vendé l'anima al diavolo, leggenda così popolare al medio evo, e resa immortale da Goethe». Il dottor Faust era un eminente sapiente, il quale spese la sua vita studiando Filosofia, Giurisprudenza, Teologia e Medicina, ma non era mai soddisfatto di quel sapere che, a suo dire, non gli era sufficiente per ritenersi sapiente, potendo al limite soltanto fingersi tale, dacchè «nulla ci è dato sapere». Inizia così a studiare la magia sino al momento in cui, insoddisfatto, tenta il suicidio, ricredendosi solo all’ultimo minuto e quindi desistendo dal proposito. L’incontro con Mefistofele avviene in questo contesto: il diavolo promette a Faust di offrirgli ogni supremo godimento e piacere della vita in cambio della sua anima. Il contratto tra Faust e Mefistofele viene così firmato con il sangue del Dottore, non troppo angustiato da quanto possa accadergli nell’al di là.
La storia narrata da Goethe è costellata di amori (per Margherita), rimpianti, dolori e depressione, tant’è che lo stesso Mefistofele si fa persuaso di non essere in grado di vincere la scommessa: il contratto avrebbe avuto effetto solo se Faust godrà al punto tale da dire all'attimo: «sei così bello! fermati!».
La storia, dopo le innumeri peripezie, si conclude con la quasi sconfitta di Faust, divenuto ormai cieco, ma ancora non abbattuto, semmai convinto di voler vedere una civiltà felice, prospera e laboriosa e solo in quell’istante, pieno di godimento, avrebbe detto all’attimo «sei così bello! fermati!».
«All'attimo direi:/sei così bello, fermati!/Gli evi non potranno cancellare/l'orma dei miei giorni terreni./Presentendo una gioia tanto grande,/io godo ora l'attimo supremo».
Mefistofele crede di aver vinto la scommessa, poiché Faust ha pronunziato le parole oggetto di contratto e così lo fa morire. Il diavolo tenta di reclamarne l’anima ma, in quel momento, la stessa gli viene sottratta da Dio, che giustifica la redenzione del Dottore per il suo impegno per una civiltà felice e laboriosa e per la sua costante ricerca dell’Eterno e dell’Infinito. Numquam, cosa ha voluto raccontarci Goethe? Faust stringe un patto con Mefistofele perché mai sazio e vittima della sua stessa hỳbris, desideroso di sapere e di godimento. La redenzione giungerà solo quando egli incontrerà il desiderio dell’Infinito e dell’Eterno, la Verità, la sola. L’unica.
Vale la pena chiudere questo scritto con un’ulteriore citazione, che rimane però una domanda aperta per l’uomo moderno: «Quid est veritas?» (che cos’è la verità?). Questa frase la troviamo nel Vangelo secondo Giovanni, ed è attribuita a Ponzio Pilato mentre questi interroga Gesù. Pilato chiede dunque a Gesù spiegazioni circa la sua affermazione consistente nel «rendere testimonianza alla verità». Dopo di ciò, Pilato proclama alle masse di non riscontrare in Gesù nessuna colpa.
 
 
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Augustus W. Pugin: la questione del gotico ottocentesca
[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Giuseppe Baiocchi del 08-11-2020[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1604802517396{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Ebbene se i greci e i romani hanno plasmato lo stile classico, massima di perfezione, per il genio nella riuscita trasfigurativa dell’elemento naturale (quindi divino) nell’architettura, il romanico e il gotico rappresentano nella storia dell’uomo una rottura stilistica e figurativa che non avrà precedenti. Difatti già lo stile rinascimentale è da considerarsi il primo neo-classico, proprio per la ripresa di elementi di spiccata sensibilità antica, come la cupola o il cassettone. L’architettura nella storia umana ha sempre rappresentato un elemento di identità, ed è per questo che l’individuo nei secoli, non avendo trovato nuove vie si è sempre rifatto ideologicamente, come matrice archetipa, allo stile classico: tutti i secoli, tranne il medioevo, epoca lunghissima che va dal 900 d.C. al XV secolo. Eppure nel Seicento e nel Settecento, lo stile gotico e romanico attraversano – per paradosso – un’epoca di abbandono e disinteresse, poiché veniva considerato uno stile oramai passato di moda e fuori metrica.
[caption id="attachment_12314" align="aligncenter" width="1000"] Augustus Welby Pugin Northmore (1812 - 52) è stato un architetto inglese, designer, artista e critico che è principalmente ricordato per il suo ruolo pionieristico nello stile neogotico di architettura. Il suo lavoro è culminato nella progettazione degli interni del Palazzo di Westminster a Westminster, Londra, Inghilterra, e della sua iconica torre dell'orologio, in seguito ribattezzata Elizabeth Tower, che ospita la campana nota come Big Ben. Pugin progettò molte chiese in Inghilterra e alcune in Irlanda e Australia. Creò anche il castello di Alton ad Alton, nello Staffordshire.[/caption]
Ebbene la grandezza dello stile architettonico medievale che ha posto un’architettura stilisticamente unica nella storia – se si esclude l’epoca contemporanea dove vige una architettura decostruttivista minimalista, che si conforma al nichilismo odierno –, che noi riconosciamo con il romanico e il gotico, nasce dalla fede. Il barbaro che ha conquistato l’Impero romano è stato l’uomo scelto da Cristo per la sua salvezza: dunque vige nella mente umana quel meccanismo di distacco dall’epoca antica pagana.
Il poeta tedesco Christian Johann Heinrich Heine (1797 - 1856) meglio di chiunque altro identifica la forza del medioevo con tutta l’essenza di questa frase: «un amico mi chiese perché non si costruivano più cattedrali come le gotiche famose, e gli dissi: gli uomini di quei tempi avevano convinzioni; noi moderni, non abbiamo altro che opinioni, e per elevare una cattedrale gotica ci vuole qualcosa di più che un'opinione».
Pioniere del neo-gotico l’architetto inglese Augustus Welby Pugin Northmore (1812 - 52) è stato il primo intellettuale che abbia rivalutato il gotico nella coscienza pubblica, dopo secoli di indifferenza.
Contrasts è considerato uno dei libri manifesto che ha segnato una svolta nella storia dell’architettura, per il suo atteggiamento moralistico nei riguardi di quest’ultima. Il saggio, fu un gesto di provocazione per creare una svolta nella storia del gotico, che da problema di “gusto” passa a problema etico. La fortuna di questa architettura medievale, ha tre filoni principali: il primo si può identificare nel fenomeno edonistico, in cui gioca un ruolo accessorio, presto sentimentale; il secondo prende l’aspetto di un richiamo alla razionalità di fondo illuministico (il gotico inteso come “storia della ragione”); infine vi è un ritorno alla fonte storicistica che coincide in Gran Bretagna con una forma di ricerca archeologica autoctona, la quale si indirizza ai monumenti medievali.
Questo libro è importante perché contribuisce a dare al gotico la carica di stile cattolico che entra in polemica con la religione inglese protestante e Pugin crea un’opera singolare, poiché costituisce una anticipazione di metodi propri dell’operare dell’architetto moderno.
L’architetto inglese, rende riduttivo il modello classico e neoclassico ed enfatizza il modello del gotico. L’opera architettonica di Pugin, infatti, tende sostanzialmente a introdurre in questo stile un’austerità che porta l’uomo alla suggestione; la tendenza va all’indietro, risalendo alle fonti della tradizione sassone-romanica nel suo innestarsi con il gotico.
L’autore brucerà queste esperienze nell’arco di una formidabile attività di due decenni, fino alla soglia della follia che lo colpisce poco più che quarantenne. Contrasts, oggi rinominato anche Contrasti Architettonici o la questione del gotico, rappresenta il momento più felice e positivo del pensiero dell’architetto britannico.
Un tema introdotto è quello della morale ed ecco l’etichetta di “manifesto”: servire o guidare è il compito dell’architetto, il quale dovrà farlo in modo giusto. Nelle pagine del piccolo volume, serpeggia l’odio per quella Londra che presto si sarebbe detta Vittoriana, caratterizzata per le ciminiere fumose, per le banche pretenziose e per le chiese monotone e spoglie, costruiti secondo i criteri della più severa economia: produci e avrai l’anima salva. Pugin scrisse l’opera nel 1835, nel cuore delle campagne violentate dalle ferrovie, nelle città sfigurate e dai ritmi di vita mutati. Come conseguenza di questo disorientato sgomento per molti ci fu il riaffermarsi e la riscoperta dell’età medievale: modello di unità civile e religiosa, l’arte appariva al servizio di esigenze collettive pure e disinteressate e si esprimeva non nel linguaggio “universale del classicismo”, ma nelle forme molteplici e fortemente accentuate in senso locale del gotico. Dunque il ritorno al Medioevo in Inghilterra prese varie strade. Nel tardo Settecento vi fu un primissimo revival gotico, nei primi decenni dell’800 vi fu un’indagine estesa e sistematica degli archeologi che indagarono sulla conoscenza scientifica dello stile nelle cattedrali. Il gotico è dunque stimato da Pugin, proprio per l’unità della fede cattolica medievale non ancora incrinata dagli scismi, né inquinata dalle istanze umanistiche che diede una stabilità sociale e dell’eccellenza artistica proprio in quel periodo. Il cattolicesimo di stampo medievale aveva permesso rapporti di lavoro più sereni ed umani ed il medioevo si identificava come uno strumento di concreta partecipazione alla vita sociale.
D’altronde la sua avversità per il mondo umanistico e rivoluzionario è di antica origine, poiché era figlio di un trattatista e disegnatore architettonico francese Auguste Pugin (1762 - 1832), che come molti altri era immigrato in Inghilterra a seguito della Rivoluzione francese e aveva sposato Catherine Welby della famiglia Welby di Denton, nello Lincolnshire.
[caption id="attachment_12315" align="aligncenter" width="1000"] L‘ampio frontespizio è dedicato, come annuncia la scritta entro il fastigio, all’ipotetico concorso per costruire una nuova chiesa: “per la gioventù disoccupata e per aspiranti architetti”. Numerose altre scritte, nell’ironica forma di avvisi pubblicitari e offerte di lavoro, esprimono il sarcasmo di Pugin per la mercificazione del linguaggio architettonico.[/caption]
L'autore, nel trasferire in campo architettonico i temi di un dibattito religioso e sociale, si mostrò agguerrito oppositore del protestantesimo conoscendo appieno le interpretazioni negative della riforma anglicana con le sue iniquità. Per l’architetto dunque la realtà disgregata che aveva seguito lo Scisma di Enrico VIII (1491 - 1547) poteva recuperare la compattezza spirituale perduta solo attraverso la via della restaurazione.
Rinnovamento e restaurazione auspicati da Pugin non investono il solo campo politico, ma coincidono con un semplice riuso dello stile gotico, il quale ricompone lo spirito del passato e imprime quel carattere medievale (quindi pre-riformistico) che informava della sola vita, le opere delle antiche devote generazioni. L'architetto, difatti, si convertirà al cattolicesimo intorno al 1835, ma il messaggio di Contrasts non è solo quello che riguarda il ripristino della vera architettura cattolica. Da questi pochi concetti, decisivi non possiamo non osservare la straordinaria contemporaneità del suo messaggio. Attuando una brevissima regressione, oggi le chiese non si sono forse protestantizzate? Non hanno perso forse la loro sacralità e addirittura la loro forma tipologica? Esempi lampanti certamente ce lo dimostrano e ci indicano gli errori che si sono succeduti dal Concilio Vaticano II.
L’oggetto deve essere fatto bene e bisogna immettere nel lavoro la qualità per il dettaglio. L’architetto inglese criticò anche la produzione in serie, la quale alienava l’uomo e contestò anche i nuovi materiali, quali il cristallo e il ferro.
Uno dei limiti dell’autore sarà sempre l’aver pensato grandi idee e progetti, finalizzati poi con realizzazioni mediocri per una mancanza perenne di fondi.
In Contrasts, però, non parla l’architetto deluso, bensì il teorizzatore ancora convinto della possibilità di ricreare la purezza e l’onestà dell’artigianato antico, tutto ciò condizione indispensabile per un buon risultato: la presenza sincera e costante dello spirito cattolico.
Pugin si opponeva al revival indiscriminato dello stile gotico – detestava soprattutto la contraffazione volgarmente goticheggiante di qualunque oggetto di uso comune, ma avrebbe apprezzato un’edilizia gotica sorta sotto l’egida della fede cattolica. Questo volume contribuì a diffondere il già vivo interesse per lo stile gotico. Un altro tema affrontato nel libro è il restauro; Pugin rimane profondamente offeso dai restauri arbitrari che mutilavano gli antichi organismi reintegrandoli poi con interventi anacronistici, stiticamente incoerenti e peggio malamente eseguiti, addirittura a questi interventi scellerati, preferisce la pace dell’abbandono. Non è forse un altro suo pensiero attualissimo? Anche in concomitanza con molti restauri contemporanei alquanto discutibili, all’interno dei quali la corrente accademica del contrasto “vecchio/nuovo” si è oramai imposta da anni, con l’antica scusante del “falso storico”.
Secondo Pugin nell’Inghilterra Ottocentesca non vi era una consapevolezza di come conservare e mantenere in buono stato i monumenti: così la città diventa la prima illustre vittima del vandalismo e dell’industria e tutti si muovono nella profana vitalità della metropoli. Infine la città moderna, clamorosa e sgradevole, aveva definitivamente travolto anche il ricordo della quiete comunità medievale. Agli intellettuali non restava che ricostruirla nel pensiero nostalgico e commosso per commemorarne la scomparsa. L’aspirazione a ritmi e ambienti di vita più umani, collocano Pugin tra gli iniziatori di un nuovo e non ancor decaduto modo di sentire.
Nel suo capitolo sullo stato di decadenza degli edifici ecclesiastici, in questo capitolo cruciale del testo dell'autore, quest’ultimo esamina con attenzione forte critica - spesso con il classico sarcasmo britannico -, lo stato degli edifici ecclesiastici, dopo che su di loro sono passati tre secoli di devastazioni di ogni genere, di abbandono, di restauri orribili. Come punto iniziale, parla delle cattedrali a suo dire i monumenti più splendidi che restano del passato e che meritano perciò più di ogni altro la massima considerazione.
In un’epoca dove c’era scarsa sensibilità verso l’antico, Pugin fu il primo intellettuale che pose l’attenzione sulle fabbriche che superavano tutte le altre strutture per altezza e per splendore: sintomo di una mancanza di rispetto verso Dio e verso la storia. Il suo rimpianto e disgusto nel constatare che larghe parti di queste costruzioni sono state inutilmente sfigurate, e che gli attuali proprietari di tali edifici, non meritano di occuparli per la loro grande superficialità ed ignoranza. L’architetto continua la sua trattazione, parlando della funzionalità delle chiese, le quali venivano edificate destinando ad ogni singola parte un uso ben specifico. Così il coro era destinato ai soli ecclesiastici, ognuno dei quali sedeva nel proprio stallo, la navata centrale era progettata per ospitare l’immensa congregazione di fedeli, i quali erano uniti gli uni agli altri, senza considerare il proprio grado sociale; mentre i bracci del transetto offrivano ampio spazio per le processioni solenni del coro; i chiostri formavano un deambulatorio quieto e riparato per la meditazione degli ecclesiastici e infine la sala capitolare era un nobile ambiente dove essi si incontravano sovente e risolvevano questioni di tipo spirituale. Ora, denuncia, le chiese hanno perso la loro funzione, partendo dalla loro apertura, che a differenza del passato, sono aperte solo poche ore ogni giorno, questo per evitare, già nell’Ottocento, deturpazioni e profanazioni da parte del popolo ignorante che ha perso la fede. Secondo l’inglese, il suo popolo ha perso la moralità e la religiosità, un tempo caratteristiche inscindibili di un popolo forte come quello inglese. Pugin, inizia ad elencare le varie categorie di persone che frequentano oggi le chiese: dalla persona che vi entra solo perché vi abita vicino, a quella che vi accede solo per sentire le melodie, sempre più scadenti, a quelle che entrano solo per vedere la chiesa perché turista. In sostanza non si entra più in chiesa con il giusto spirito, ma con superficialità e proprio quest’ultima viene presa d’esempio dalla gente, che guardando il parroco agisce di conseguenza. Questi sono i principali tipi di visitatori di questi mirabili edifici, nessuno dei quali avverte minimamente la santità del luogo o la maestosità del progetto.
Pugin sposta il suo argomento, proprio sulla figura citata pocanzi, ovvero quella del prete il quale ha smarrito la propria funzione d’esempio. Ancora grandi scintille di contemporaneità che oggi possiamo ritrovare nel clero europeo, sempre meno pastore e sempre più “impiegato statale”.
[caption id="attachment_12317" align="aligncenter" width="1000"] Alcuni esempi dei "Contrasti" presenti del volume.[/caption]
Il prete moderno, ben curato, appare nella sincerità dell’autore come meschino e qui Pugin si pone un quesito: che ruolo e che legame spirituale possiede ancora rispetto agli ecclesiastici del mondo antico? Nessuno, questa è la risposta al quesito.
Un sacerdote che entra in chiesa solo quando vi è costretto da un dovere, ne esce appena può, considerando l’edificio nient’altro che la fonte del suo reddito, vive dunque come un parassita della religione, senza un minimo di gratitudine verso i padri fondatori delle grandiose strutture. Il pretestantesimo anglicano, apriva la via a quel problema – tutto contemporaneo – che la Chiesa di Roma sta vivendo drammaticamente oggi con la crisi del sacerdozio: una vocazione alleggerita dalle idee relativiste di una Chiesa che vuol sempre più adeguarsi al mondo e “stare al passo con i tempi”.
Qui si avverte certamente una nota quasi “apocalittica” del britannico, il quale afferma che finché questi personaggi sono in tali costruzioni non vi è possibilità di conseguenze positive. Seguono nel testo una serie di colpe, come la spesa in denaro per il restauro o il mantenimento delle strutture che avviene senza una giusta progettualità e con l’assurda incoerenza delle loro modifiche catastrofiche; oppure – e qui cita un esempio concreto –, l’abbellimento della chiesa di Salisbury condotta dal vescovo Barrington, il quale demolì il campanile che si ergeva sul alto Nord-Ovest con la vendita di materiale e campane; continua denunciando l’abbattimento delle cappelle di Hungerford e Beauchamp, con la discutibile sistemazione delle tombe – separate le une dalle altre – tra i pilastri della navata e una quantità di barbarie e alterazioni troppo numerose da aggiungere.
Sempre per riaprire il parallelismo con la contemporaneità: dopo il Concilio Vaticano II non è avvenuto uno dei più grandi mercati neri, per la svendita degli oggetti liturgici appartenenti alle celebrazioni in Vetus Ordo? La domanda è emblematica, poiché la storia pare essersi ripetuta.
Pugin afferma con fermezza altri risultati disastrosi che la Chiesa Protestante Anglicana avrebbe compiuto senza il ben che minimo rispetto dei luoghi di culto, come lo sventramento dei cori e degli altari. Il discorso si sposta ora sulle modifiche apportate al coro: uno degli elementi più importanti di una Chiesa. I nuovi cori del clero hanno iniziato con l’immettere dei banchi, uno stravolgimento di effetto tra i più meschini che le cattedrali abbiano mai subito, poiché lo stravolgimento dell’aspetto canoro non solo è irrispettoso, ma riduce lo spazio aperto e grandioso ad una piccola corsia che conduce ai banchi.
Altra denuncia dell’architetto viene ricondotta al pessimo stato di conservazione delle Chiese in cui l’acqua penetra dalle aperture della copertura del tetto e porta rovina nel cuore dell’edificio, le cui crepe (delle grandi torri e delle sale capitolari) già presenti rischiano il collasso.
Come già affermato precedentemente dall’amministrazione del tempo non ci si può aspettare nulla di positivo, con le cattedrali che sono divenute luoghi di spettacolo per la gente e son considerate soltanto una fonte di reddito per gli ecclesiastici.
A questo punto della trattazione il discorso si sposta sulla nostalgia di Pugin verso i tempi passati, quel gotico che riunificava gli spiriti e che era simbolo di unità nazionale, difatti, se uno possedesse anche solo una scintilla di quell’amore per il suo paese e di quell’orgoglio nazionale che dovrebbe alloggiare nel cuore di ogni uomo, si considererebbe un religioso rispetto per ogni pietra delle nobili strutture ecclesiastiche.
Non manca di criticare anche la nobiltà inglese, in specificato modo i reali britannici, i quali avrebbero un’apatia deprimente verso il sacro, prendendosi poco cura del luogo ove riposano i loro antenati, rifiutandosi così di contribuire ad un restauro di piccole somme, ma non sottraendosi così alle piccole spese quotidiane. Ad ogni modo denota un lieve miglioramento delle sculture e dei dettagli ornamentali. L’aspetto tecnico dell’architettura gotica è stato ben compreso, ma sono deplorevolmente assenti quei prìncipi cardine che determinarono le antiche costruzioni, e lo spirito che si manifestava in tutte le opere del passato: bisogna in sostanza, restaurare prima gli antichi sentimenti, poiché le antiche opere dipendevano da questi e senza di essi l’architettura gotica non potrà mai sollevarsi al di sopra della mera copia dell’aspetto tecnico di questa arte.
Non vi è affinità tra questi vasti edifici di culto protestante. La nuova religione può adattarsi alle conventicole e alle sale di riunione, ma non ha niente a che vedere con la gloria dei tempi antichi, la moderna chiesa Anglicana è l’unica, tra tante che si sono create dall’eresia – afferma – ad aver mantenuto il principio delle cattedrali e della giurisdizione episcopale. Questi resti dell’antica struttura della chiesa sono accozzati così male con le opinioni moderne e con la giurisdizione temporale, che essi si sono sempre rivelati un argomento del clamore popolare, e che potrebbero essere soppressi in qualunque momento da un atto legislativo.
Per Pugin un solo raggio di speranza splende nel fosco quadro: prima che giunga il momento fatale, siano tornati all’unità cattolica tanti uomini devoti e ragionevoli, capaci di proteggere queste fabbriche illustri, da ulteriori profanazioni e riportarle all’antica gloria e al culto primevo.
[caption id="attachment_12318" align="aligncenter" width="1000"] John Birnie Philip, Complesso scultoreo del lato ovest e nord: scultori e architetti sul fregio del parnaso dell'Albert Memorial presso Londra. Sulla sinistra è presente Augustus Welby Pugin Northmore.[/caption]
Il discorso, si sposta ora alle cattedrali, le quali hanno perso il loro progetto originario. Difatti tutte le antiche caratteristiche sono radicalmente mutate. Il cambiamento di stile di vita ecclesiastico, porta il mutamento in peggio delle strutture religiose. Guardando i palazzi vescovili, i quali sono stati demoliti e ricostruiti in scala ridotta e modesta o le loro parti più grandi sono state lasciate in abbandono, come porzioni inutili di edificio con le parti abitate restaurate con il peggior gusto possibile; o le rettorie e le canoniche le quali non sono sfuggite a un trattamento anche peggiore, molti degli antichi edifici sono stati interamente distrutti e tutti hanno subito miserande alterazioni: le cappelle private sono state distrutte e intorno alle cattedrali sono stati edificati edifici dalla massa inqualificabile. Nelle biblioteche si perdono molti manoscritti. Pugin torna nel finale a parlare dei sacerdoti, i quali facevano spesso doppi lavori che non gli permettevano di adempiere alle loro funzioni con tutte le categorie di edifici e di dignitari ecclesiastici siano stati spaventosamente rovinate e declassate dall’introduzione del sistema attuale. Il discorso prosegue parlando dei protestanti un po’ in tutta Europa, a partire dalla Francia, in cui gli Ugonotti in un breve spazio di un anno, commisero tali distruzioni che i più importanti tesori delle chiese, e molte delle più belle opere d’arte, furono saccheggiate e demolite. In Scozia i fanatici della chiesa presbiteriana di John Knox (1514 – 72) commisero grandi atrocità sulle cattedrali e in generale pur essendo divisi su vari punti delle loro dottrine (come tutte le eresie) erano uniti nella rapina e nella distruzione, nella sfrenata sete d’oro e nel selvaggio fanatismo che li indussero a commettere atrocità verso le belle arti in generale.

In conclusione Pugin tratta della nuova metodologia, secondo lui assurda, di costruire le moderne cattedrali: l’autore lo definisce un sistema abbietto e mercenario lontano dall’onore del culto divino da meritare la più severa censura. Si cerca infatti di costruire i luoghi di culto cercando di calcolare la somma minima necessaria per costruire e la percentuale che può rendere il denaro avanzato dalla costruzione se lo impiega per acquistare e affittare banchi. Dunque la costruzione delle chiese è degenerata in commercio puro e semplice con gli ornamenti (che per Pugin sono uno degli elementi più importanti), che debbono rientrare nelle modestissime cifre messe a disposizione. Comunque con la pochezza del culto attuale è impossibile creare un progetto grandioso, poiché la mancanza di zelo religioso, unito ad un’indifferenza verso la gloria del culto divino, sono ritenute dall’autore vergognose per la nazione, così come debbono essere offensive per l’Onnipotente.

 Augustus Welby Pugin Northmore, dall’immensa potenza del suo scritto, a due secoli di distanza si dimostra un trattatista non solo lucido e conoscitore del bello, ma fortemente attuale ancora oggi e per questo considerato un classico della trattatistica che ogni facoltà di architettura che si rispetti dovrebbe mettere a disposizione degli studenti. La sua scomparsa, chiamiamola polemicamente damnatio memorie, dai piani di studi universitari di architettura, ci fa piombare nuovamente nella cruda e modesta realtà delle facoltà italiane di architettura.

Per approfondimenti: _Augustus W. Pugin, Contrasti Architettonici o la questione del gotico, casa editrice Uniedit Biblioteca di Architettura.
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La parola chiave dell’ultimo anno del regno di Papa Francesco, apparentemente privo di grandi documenti dottrinali, è stata pronunciata dal Pontefice durante un evento che, nell’economia di questo pontificato, si potrebbe giudicare “minore”. Si tratta della 68ma Settimana liturgica nazionale, organizzata dal “Centro di azione liturgica”, presieduto dal noto Mons. Claudio Maniago (1959). Uno di quei movimenti nati poco prima del Concilio (1947) per diffondere le idee nuove del movimento liturgico in Italia.
[caption id="attachment_12277" align="aligncenter" width="1000"] Don Mauro Tranquillo, è sacerdote, della Fraternità Sacerdotale di San Pio X, ordinato dal vescovo Bernard Fellay nel 2002 a 24 anni. È un catechista con formazione tomista e risiede a Montalenghe (TO), dove svolge lezioni di catechismo.[/caption]
In questa occasione (il 24 agosto 2017 nell’aula Paolo VI) Papa Francesco ha pronunciato un discorso piuttosto banale nel contenuto, dove ribadisce le linee ormai classiche della nuova concezione della liturgia. Ne riassumiamo il contenuto perché rivelatore, prima di arrivare alla questione che ci interessa. Papa Bergoglio in primo luogo ci ricorda che i cambiamenti del rito conciliare sono “sostanziali” e non “superficiali”, esattamente come diceva Mons. Marcel François Marie Joseph Lefebvre (1905 - 91), e contrariamente alla vulgata “ratzingeriana” che parlava di “due forme dello stesso rito”. Poco oltre il Papa affermerà che non si è trattato solo di riformare i riti liturgici, ma di “rinnovare la mentalità”. Educare il popolo a sentire il soffio dello spirito, che i “profeti” hanno percepito prima del popolo stesso, è sempre stata una delle missioni del pedagogo modernista, populista per eccellenza.
Il discorso procede con uno dei concetti chiave del modernismo: i cambiamenti conciliari sono stati frutto del «bisogno», dovuto «ai disagi percepiti nella preghiera ecclesiale», che ha creato la «necessità di mettersi in moto». Come abbiamo visto e vedremo, fonte della rivelazione e voce dello Spirito Santo è sempre comunque il “bisogno” del popolo, nel quale risiede il divino, non certo dei princìpi rivelati da Dio a cui fare riferimento oggettivo. Che poi tali bisogni siano in realtà indotti da organi di influenza, dei quali il “Centro di azione liturgica” è un tipico esempio, è discorso che svela a chi giovi il modernismo nella Chiesa. Il Papa dice anche che Concilio e riforma liturgica sono «direttamente legati»: in questo senso dovrebbero restare “direttamente legati” anche il rifiuto della nuova messa e del Concilio, mentre le diaboliche operazioni del 1984 (indulto di Giovanni Paolo II) e del 2007 (motu proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI) sono riuscite a separare le due cose con un’operazione che solo dei modernisti potevano concepire. In effetti è solo vuotando di senso il rito tradizionale che lo si può far celebrare a chi accetta anche il nuovo: poiché gesti e parole dei due riti sono evidentemente in opposizione di contraddizione tra loro, una mente umana li può accettare entrambi solo se li vuota di qualsiasi significato reale, se diventano solo simboli di emozioni o di esperienze interiori, e non significativi di realtà oggettive. Con queste parole Papa Francesco ci fa capire che accettare il nuovo rito e celebrare (od assistere) al vecchio significa necessariamente accettare la dottrina del Concilio, essendo le due cose “direttamente legate”. Il vecchio rito può sussistere solo se senza significato dottrinale proprio (ecco perché è “straordinario” rispetto a un “ordinario”: è l’ordinario che detta il significato allo “straordinario”).
Il Papa prosegue ricordando i princìpi ispiratori della riforma liturgica: in primo luogo la «partecipazione del popolo». La liturgia, dice, è «per sua natura popolare, non clericale»; è azione non solo per il popolo ma del popolo, l’assemblea del quale (seguendo il Messale di Paolo VI) rende presente il sacerdozio del Cristo al pari della presenza del ministro consacrato.
Concetti chiaramente protestanti, visto che per la dottrina cattolica la liturgia è azione del Cristo tramite il sacerdote ordinato, certo in favore del popolo battezzato, che però non è attore ma unicamente passivo ricettore dei beni del culto ecclesiastico. Sappiamo come il mito della “partecipazione del popolo”, usato in un primo tempo in modo ambiguo, sia poi diventato uno dei fattori determinanti del nuovo rito, per espressa dichiarazione di Paolo VI, che riteneva tale criterio molto più importante della conservazione del patrimonio di Fede e Tradizione rappresentato dall’antica liturgia (cfr. i discorsi delle udienze del 19 e 26 novembre 1969). A questo concetto si ricollega l’idea più volte ribadita nel discorso di Papa Bergoglio per cui la liturgia è “vita”, esperienza, ha per agenti Dio e noi. Il sapore tipicamente modernista di tali affermazioni è chiaro a chiunque abbia anche solo sfogliato l’enciclica Pascendi.
Fin qui questo discorso non sarebbe stato molto diverso ai tempi di Paolo VI o di Ratzinger; quello che però ci preme sottolineare è l’uso dell’espressione che ha dato titolo e unità al nostro intervento: «possiamo affermare con sicurezza e con autorità magisteriale che la riforma liturgica è irreversibile». Di primo acchito ci viene da pensare che tali parole servano a chiudere autorevolmente la discussione sulla “riforma della riforma”, uno dei mitologici cavalli di battaglia del ratzingeriano medio, riesumata poco tempo prima di questo discorso del Papa dall’immaginazione del Card. Robert Sarah (1945), nel suo intervento al Convegno del Summorum Pontificum tenutosi a Roma il 14 settembre 2017. Lo stesso cardinale, come Prefetto della Congregazione per il Culto Divino, aveva tentato di dare un’interpretazione conservatrice al motu proprio Magnum principium del 3 settembre, con il quale il Papa aveva demandato totalmente alle conferenze episcopali la traduzione dei testi liturgici; interpretazione prontamente e pubblicamente smentita dal Papa con una lettera allo stesso Cardinale datata 22 ottobre.
[caption id="attachment_12301" align="aligncenter" width="1000"] Potere temporale: il 28-01-2017, Fra Matthew Festing (1949), già Gran Maestro dell’Ordine di Malta ha presentato le sue dimissioni al Sovrano Consiglio dell’Ordine di Malta, dopo che il Papa gli ha chiesto chiaramente di abbandonare il suo incarico. Le dimissioni di Festing sono arrivate dopo che nel dicembre dell'anno precedente l’Ordine aveva licenziato Albrecht Freiherr von Boeselager (1949), il Gran Cancelliere, con l’accusa di avere permesso la distribuzione di preservativi in paesi in via di sviluppo in Africa e in Asia da parte di una Ong che collaborava con l’Ordine. A quel punto, forse prendendo in esame la questione dei preservativi, Festing, in accordo col cardinale tradizionalista Raymond Leo Burke (1948), patrono dell’Ordine di Malta, avevano voluto l’allontanamento di Freiherr von Boeselager. Ma Papa Francesco non era mai stato d’accordo con questa decisione, anzi, pare non fosse proprio convinto della politica autorevole di Festing nell’affrontare le questioni interne all’Ordine. Per questo il Papa è intervenuto. Il Vaticano ha vinto la sua battaglia dentro l’Ordine di Malta. Ottenendo quanto voleva: le dimissioni del Gran maestro, Matthew Festing (in foto), e il reintegro del barone von Boeselager estromesso il 6 dicembre 2016.[/caption]
Sarebbe bello se effettivamente l’espressione “irreversibile” di Papa Francesco cancellasse il mito conservatore della riforma della riforma; d’altro canto non dobbiamo pensare che l’espressione preannunci una qualche ulteriore riforma del rito della messa, spauracchio agitato da quel mondo anti-bergogliano che però accetta tutte le riforme conciliari, e ha bisogno di legittimare la messa di Paolo VI creando una “nuovissima messa” da rifiutare, per ora solo nella propria immaginazione, onde distinguersi nel culto dall’attuale pontefice (del quale però condividono le premesse dottrinali).
In realtà l’aggettivo “irreversibile”, pronunciato con insolita solennità “magisteriale” (le virgolette sono d’obbligo), è la chiave di questa fase storica del modernismo, e non solo a riguardo della questione liturgica. Abbiamo attraversato diverse fasi del modernismo e del suo metodo dialettico, delle quali è stato indiscusso protagonista Joseph Ratzinger. Alla fase di rottura con la dottrina cattolica, al momento del Concilio, è succeduta una fase di sintesi, indicativamente tra la fine del pontificato di Giovanni Paolo II e quello di Benedetto XVI stesso, durante la quale è stata ricomposta (secondo la logica dei novatori) la contraddizione tra “Tradizione” e “Vaticano II”. Con un’operazione eminentemente dialettica, già più volte esaminata, si è arrivati a diffondere lo slogan della cosiddetta “ermeneutica della continuità” o delle “due forme dell’unico rito romano”. Parole che non intaccavano in nulla la vita reale della comunità ecclesiale, saldamente mossa dalle istanze più progressiste, ma che erano utili a fornire una sorta di “neo-ortodossia conciliare” alle forze refrattarie ad ulteriori cambiamenti, distogliendole dal ritorno a un paradigma veramente cattolico e tradizionale. Tale indimostrata e indimostrabile “ortodossia intermedia della continuità” sarebbe stata utile come punto di raccolta dei conservatori al momento dello scoppio della nuova fase di rottura, iniziata non con l’elezione di Papa Bergoglio, ma con quell’evento eminentemente rivoluzionario (per il modo in cui avvenne) che fu l’abdicazione di Benedetto XVI. In questa successiva ed attuale fase, il dibattito “Tradizione/Concilio” (usiamo questi termini semplificatori per pura convenzione) appare ormai chiuso, sostanzialmente evacuato, irrilevante per la vita e l’esperienza ecclesiale odierna. Chi ha problemi con il nuovo corso può rivolgersi alla rassicurante ortodossia ratzingeriana, cosa che in effetti fanno gran parte degli oppositori di Papa Francesco, dai cardinali dei dubia fino ai Socci e ai don Minutella, con tutte le sfumature intermedie. Sul discorso precedente invece non si torna più, perché i risultati di quella fase dialettica sono ormai assorbiti da tutti (nessuno infatti di questi discute le dottrine conciliari) e considerati appunto irreversibili.
Di Amoris laetitia si può discutere, il Papa ci ha già assicurati che si tratta di un testo “tomista”. Nell’operazione “continuità”, affermarla è già crearla. Probabilmente agli oppositori una decina d’anni basterà a scomparire nell’isolamento, mentre tutta la Chiesa pacificamente se non entusiasticamente ha accettato e già da decenni pratica la comunione dei divorziati conviventi. Un’operazione molto simile a quella avvenuta nella prima fase di rottura, quella del Concilio. “Irreversibile” non è una novità perché detto della dottrina o della liturgia conciliare: nessun Papa modernista, da Paolo VI a Benedetto XVI, si è mai sognato di progettare un “ritorno indietro”. Irreversibile è parola che vuole autorevolmente chiudere una fase dialettica, indica che il tempo di vita di quel precedente dibattito è semplicemente scaduto. Alla “Tradizione” si possono anche fare concessioni, proprio perché è ormai fuori tempo e quindi innocua. Adesso bisogna impegnarsi sul fronte aperto da Amoris laetitia, naturalmente tagliando fuori dal discorso ogni contatto con la dottrina preconciliare. Si potrebbe esaminare la strategia di nomine episcopali, particolarmente in Italia, atta a eliminare ogni rappresentante dell’“ortodossia conciliare” da posti importanti, del tutto simile a quella operata da Paolo VI nell’immediato post-concilio: ma finiremmo per parlare di pura politica ecclesiale, mentre vogliamo focalizzarci sul processo di mutamento dottrinale in corso.
[caption id="attachment_12296" align="aligncenter" width="1000"] Interreligiosità: Nel testo del discorso di Papa Francesco I alla comunità ebraica nella Sinagoga di Roma, andato in scena il 18-01-2016, il Pontefice Massimo afferma come "Voi siete i nostri fratelli e le nostre sorelle maggiori, nella fede", riprendendo le storiche parole pronunciate da Giovanni Paolo II, primo Papa a visitare la Sinagoga di Roma.[/caption] Per continuare il nostro esame con uno dei temi-chiave del pontificato bergogliano, da noi ampiamente commentato negli ultimi convegni, esamineremo ora il messaggio che il Papa ha rivolto ai partecipanti del XVI Congresso internazionale della Consociatio internationalis studio Iuris canonici promovendo, del 6 ottobre 2017, in occasione del centenario della promulgazione del codice piano-benedettino (1917). Per Papa Bergoglio, il lavoro di Papa Sarto sul diritto «segnò, all’indomani ormai della fine del potere temporale dei Papi, il passaggio da un diritto canonico contaminato da elementi di temporalità a un diritto canonico più conforme alla missione spirituale della Chiesa». Non c’è nemmeno da commentare l’inesattezza storica di questa affermazione; ma appare chiaramente il disprezzo per l’aspetto visibile e giuridico della Chiesa, aspetto che è la forma stessa, filosoficamente intesa, che definisce la Chiesa (non è, come sembra sempre dire Papa Francesco, una sorta di accessorio che è meglio perdere che conservare); la natura “spirituale” della missione della Chiesa viene, nella migliore tradizione gnostica, messa in contrapposizione con la sua essenza di società giuridicamente perfetta. Ma il discorso del Pontefice è molto esplicito nel seguito: il codice viene elogiato (nella visione bergogliana) per aver svolto un ruolo fondamentale “«nella emancipazione dell’istituzione ecclesiastica dal potere secolare, in coerenza col principio evangelico che impone di “dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” (cfr. Mt 22,15-22). Sotto questo profilo, il Codice ha avuto un doppio effetto: incrementare e garantire l’autonomia che della Chiesa è propria, e al tempo stesso – indirettamente – contribuire all’affermarsi di una sana laicità negli ordinamenti statali». Al di là della falsità dell’asserto, è chiaro che il Papa vuol presentare la laicità dello Stato in termini positivi, secondo il concetto tipico di Dignitatis humanae e di tutti i Papi post-conciliari, concetto condannato dal Magistero in numerosissime occasioni, e definito “manicheo” da Bonifacio VIII in Unam Sanctam, quasi che le due società non avessero un medesimo Principio da cui derivano, e l’inferiore non dovesse rispondere alla superiore. C’è un’insistenza particolare sulla revisione del ruolo del diritto nella Chiesa, «dove il dominio è della Parola e dei Sacramenti, mentre la norma giuridica ha un ruolo necessario, sì, ma di servizio».  Revisione che è legata direttamente alla dottrina del Vaticano II: Francesco parla infatti del codice del 1983, ricordando come Giovanni Paolo II lo abbia presentato come la traduzione dell’ecclesiologia conciliare in linguaggio canonistico: «L’affermazione esprime il capovolgimento che, dopo il Concilio Vaticano II, ha segnato il passaggio da un’ecclesiologia modellata sul diritto canonico a un diritto canonico conformato all’ecclesiologia. Ma la stessa affermazione indica anche l’esigenza che il diritto canonico sia sempre conforme all’ecclesiologia conciliare e si faccia strumento docile ed efficace di traduzione degli insegnamenti del Concilio Vaticano II nella vita quotidiana del popolo di Dio. Penso, ad esempio, ai due recenti Motu proprio che hanno riformato il processo canonico per le cause di nullità del matrimonio». Se da un lato si ammette che il ruolo del diritto, da costitutivo della società, è diventato accessorio (e che l’ecclesiologia conciliare non corrisponde alla precedente, anzi ne è il capovolgimento), dall’altro si ricorda che, anche in questo caso, il processo è lungi dall’essere concluso. Il richiamo alla nuova legislazione matrimoniale ci fa capire che non si può congelare nemmeno il diritto in una forma conchiusa, ma che la «traduzione degli insegnamenti del Vaticano II nella vita quotidiana del popolo di Dio» è un processo in infinito divenire, anche a livello canonico: l’influenza che deve esercitare il Concilio è «lunga nel tempo». La natura di tali insegnamenti è esplicitata dal pontefice nella conclusione del messaggio: «collegialità, sinodalità nel governo della Chiesa, valorizzazione della Chiesa particolare, responsabilità di tutti i christifideles nella missione della Chiesa, ecumenismo, misericordia e prossimità come principio pastorale primario, libertà religiosa personale, collettiva e istituzionale, laicità aperta e positiva, sana collaborazione fra la comunità ecclesiale e quella civile nelle sue diverse espressioni». Il diritto canonico è visto quindi come strumento di irreversibilità e stabilizzazione della rifondazione della Chiesa. L’ecclesiologia conciliare, con il tocco di “profetismo” bergogliano, garantisce che lo spirito “pastorale” possa continuare il suo corso riaprendo la dialettica su nuovi temi.
A questa visione va collegato il cambiamento della dottrina sulla liceità della pena di morte. Nel Discorso dell’11 ottobre 2017 ai partecipanti all’incontro promosso dal Pontificio Consiglio per la Promozione della nuova Evangelizzazione, Papa Francesco aveva annunciato la revisione del catechismo su questo punto, poi effettivamente realizzata con un rescritto della Congregazione per la dottrina della Fede ex audientia Sanctissimi del 2 agosto 2018. Il Catechismo pubblicato da Giovanni Paolo II (di cui si festeggiava il venticinquennale), pur contenendo già le innovazioni conciliari, ammetteva ancora (seppur in maniera piuttosto teorica) che l’autorità civile potesse comminare la pena capitale in casi gravissimi. Invece, la modifica al numero 2267 del citato catechismo ci informa che, contrariamente a quanto affermato in passato, «la Chiesa insegna, alla luce del Vangelo, che “la pena di morte è inammissibile perché attenta all’inviolabilità e dignità della persona”, e si impegna con determinazione per la sua abolizione in tutto il mondo». Si specifica, seguendo la dottrina conciliare e wojtyliana, che la dignità umana non si può mai perdere, nemmeno per crimini gravissimi (san Tommaso d’Aquino faceva un discorso opposto).
Per quanto gravissima sia un’alterazione della dottrina cattolica su un ennesimo punto, ci preme sottolineare da quali princìpi provenga una tale possibilità, princìpi specialmente sottolineati da Papa Francesco nel discorso qui menzionato. Da dove può venire la conoscenza di una dottrina diversa da quella tramandata? forse si sono lette le fonti della Rivelazione in modo più accurato? forse finora l’infallibilità sonnecchiava? Papa Francesco risponde enunciando la tipica dottrina modernista sull’evoluzione del dogma, pur facendo anche un appello del tutto retorico al “Vangelo”. Vediamo cosa dice il discorso citato.
[caption id="attachment_12293" align="aligncenter" width="1000"] Interreligiosità: Viaggio apostolico di Sua Santità Francesco I negli Emirati Arabi Uniti dello 03-02-2019. Nella foto il Pontefice firma il "Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune" con Imam di Al-Azhar Ahmad Al-Tayyeb (sulla destra).[/caption]  
Papa Bergoglio precisa chiaramente, a proposito del catechismo, che «non è sufficiente, [quindi,] trovare un linguaggio nuovo per dire la fede di sempre; è necessario e urgente che, dinanzi alle nuove sfide e prospettive che si aprono per l’umanità, la Chiesa possa esprimere le novità del Vangelo di Cristo che, pur racchiuse nella Parola di Dio, non sono ancora venute alla luce». Non si illuda chi vede nel nuovo corso ecclesiale un semplice mutamento di linguaggio: la fede di sempre non basta, né basta trovare un modo di esprimerla adatto all’uomo di oggi: si deve attuare un vero e proprio processo profetico, che guardi alle necessità (“sfide”) dell’uomo moderno come a una vera fonte della rivelazione divina. Francesco si fa più esplicito: «conoscere Dio, come ben sappiamo, non è in primo luogo un esercizio teorico della ragione umana, ma un desiderio inestinguibile impresso nel cuore di ogni persona. È la conoscenza che proviene dall’amore, perché si è incontrato il Figlio di Dio sulla nostra strada (cfr Lett. enc. Lumen fidei, 28)». Parole apparentemente affascinanti, ma che rivelano il pensiero modernista sulla fede: non ci sono delle verità rivelate da accettare, ma un “desiderio” del divino che è dentro l’uomo. Ovviamente tale desiderio non è legato alla rivelazione di verità esterne all’uomo (da accettare con la ragione illuminata dalla fede - e per ciò stesso immutabili), ma può essere esplicitato in tanti modi, secondo le circostanze di tempi o luoghi: così nascono le varie religioni e così sono possibili infiniti mutamenti delle dottrine, a seconda delle necessità e delle sensibilità dei tempi. Una società religiosa organizzata come la Chiesa cattolica non potrà ovviamente ignorare la mutata sensibilità, e a tempo debito dovrà fare propria l’esperienza del suo momento storico che rileggendo il Vangelo scopre “cose nuove”. Chi non lo facesse, indubbiamente resisterebbe allo “Spirito santo”, che altro non sarebbe che lo spirito del mondo e della storia. L’operazione, felicemente portata a termine per la libertà religiosa e l’ecumenismo al concilio, e per la “famiglia” al sinodo di Papa Bergoglio, è ora estesa al tema sensibile della pena di morte.
Il Papa infatti prosegue in modo anche più esplicito: «Questa problematica [della pena di morte] non può essere ridotta a un mero ricordo di insegnamento storico senza far emergere non solo il progresso nella dottrina ad opera degli ultimi Pontefici, ma anche la mutata consapevolezza del popolo cristiano, che rifiuta un atteggiamento consenziente nei confronti di una pena che lede pesantemente la dignità umana. Si deve affermare con forza che la condanna alla pena di morte è una misura disumana che umilia, in qualsiasi modo venga perseguita, la dignità personale». Qui la “mutata consapevolezza del popolo” è chiaramente presentata come una “fonte” della dottrina cattolica. E continua: «La Tradizione è una realtà viva e solo una visione parziale può pensare al “deposito della fede” come qualcosa di statico. La Parola di Dio non può essere conservata in naftalina come se si trattasse di una vecchia coperta da proteggere contro i parassiti! No. La Parola di Dio è una realtà dinamica, sempre viva, che progredisce e cresce perché è tesa verso un compimento che gli uomini non possono fermare». Chiaro il richiamo a una permanente rivelazione: non si deve trasmettere (sarebbe “conservare in naftalina”) ma progredire verso un “compimento”, in modo inarrestabile, pena il peccato contro lo Spirito santo, esplicitamente evocato poco sotto: «Non si può conservare la dottrina senza farla progredire né la si può legare a una lettura rigida e immutabile, senza umiliare l’azione dello Spirito Santo. “Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri” (Eb 1,1), “non cessa di parlare con la Sposa del suo Figlio” (Dei Verbum, 8). Questa voce siamo chiamati a fare nostra con un atteggiamento di “religioso ascolto” (ibid., 1), per permettere alla nostra esistenza ecclesiale di progredire con lo stesso entusiasmo degli inizi, verso i nuovi orizzonti che il Signore intende farci raggiungere».
Difficilmente si potrebbe sperare in un’esposizione più chiara della dottrina modernista sull’evoluzione del dogma, benché Papa Francesco ripeta più volte che «non si tratta di un cambiamento di dottrina». Chi ragiona da cattolico e pensa che la dottrina della Chiesa corrisponda a una rivelazione conclusa che va trasmessa, non potrà non vedere una contraddizione insanabile, e si dovrà chiedere se la Chiesa abbia sbagliato finora o se sbagli Papa Francesco, in ultima analisi se Cristo abbia detto che la pena di morte è lecita oppure il contrario. Il modernista invece non vedrà contraddizioni: Dio non ha rivelato una dottrina, ma sta dentro di noi, e lo spunto datoci dal “Cristo storico” (che chissà poi che ha detto: non c’erano i registratori…) ci fa vivere un’esperienza religiosa che mettiamo in comune nella Chiesa, con formule concordate tra noi. Questa è l’azione “profetica” dello “Spirito santo”, che non cessa mai, specie quando cerchiamo di rivivere “l’entusiasmo degli inizi”. Così armonizzeremo in nuove formule i nostri rinnovati bisogni e desideri, suggeritici da quello spirito della storia che è Dio stesso, e al quale non bisogna resistere (e che comunque “non si può fermare”). Esattamente la dottrina che san Pio X condannò nell’enciclica Pascendi.
Il monumento del conservatorismo, che doveva congelare la famosa ortodossia conciliare, cioè il nuovo catechismo, ha resistito circa venticinque anni. Chi ha fatto propria la dottrina conciliare e wojtyliana sulla dignità umana, difficilmente troverà dei dubia da esporre su questo punto.
Il tema dell’irreversibilità è in realtà sotteso a un altro tema chiave del pontificato bergogliano, divenuto in molti momenti l’unico tema, quello dell’accoglienza dei migranti. Innanzitutto per Papa Francesco ad essere irreversibile è il fenomeno stesso: Scalfari ci ha ricordato, in un articolo su La Repubblica del 9 luglio 2017, che per Papa Francesco il meticciato (sic) è inevitabile e deve essere favorito, perché ringiovanisce la popolazione e favorisce l’accoglienza delle razze, delle religioni, delle culture. Il 22 settembre 2017, nell’incontro con i Direttori nazionali delle Migrazioni nella Sala Clementina, il Papa ha condannato qualsiasi resistenza, anche morale, all’apporto dei migranti: «Mi preoccupa […] che le nostre comunità cattoliche in Europa non sono esenti da queste reazioni di difesa e di rigetto, giustificate da un non meglio specificato dovere morale di conservare l’integrità culturale e religiosa originaria» (quindi l’integrità religiosa non sarebbe un valore, a differenza del meticciato: questo discorso ufficialissimo è la prova che Scalfari non si è inventato nulla, visto che i concetti sono i medesimi). Non per niente Famiglia Cristiana dell’11 ottobre 2017 sottolineava il silenzio dei media vaticani sul Rosario di difesa delle frontiere organizzato in Polonia, e riportava il fastidio di Papa Francesco davanti a tale iniziativa; il 19 ottobre seguente si faceva anche eco della minaccia del Primate polacco, Mons. Polack, di sospendere il clero che avrebbe preso parte all’iniziativa (fake news poi smentita, ma che fa sempre effetto). Sempre quel 9 ottobre il quotidiano Avvenire rendeva noto al pubblico italiano che il quotidiano di Soros in Polonia, Gazeta Wyborcza, era stata una delle poche voci critiche sull’evento.
[caption id="attachment_12292" align="aligncenter" width="1000"] Il 4 ottobre 2019 Papa Francesco ha partecipato ad un atto di adorazione idolatrica della dea pagana Pachamama. Ha permesso che questo culto avesse luogo nei Giardini Vaticani, profanando così la vicinanza delle tombe dei martiri e della chiesa dell'Apostolo Pietro. Ha partecipato a questo atto di adorazione idolatrica benedicendo un’immagine lignea della Pachamama. Il 7 Ottobre, l’idolo della Pachamama è stato posto di fronte all’altare maggiore di San Pietro e poi portato in processione nella Sala del Sinodo. Papa Francesco ha recitato preghiere durante una cerimonia che ha coinvolto questa immagine e poi si è unito a questa processione. Quando le immagini in legno di questa divinità pagana sono state rimosse dalla chiesa di Santa Maria in Traspontina dove erano state collocate e successivamente furono gettate nel Tevere da alcuni cattolici oltraggiati da questa profanazione della chiesa, Papa Francesco, il 25 ottobre, si è scusato per la loro rimozione, e una nuova immagine di legno della Pachamama è stata restituita alla chiesa. In tal modo è incominciata un’ulteriore profanazione. Il 27 ottobre, nella Messa conclusiva del Sinodo, ha ricevuto una ciotola usata nel culto idolatrico della Pachamama e l’ha collocata sull’altare. Lo stesso Papa Francesco ha confermato che queste immagini in legno sono idoli pagani. Nelle sue scuse per la rimozione di questi idoli da una chiesa Cattolica, li ha chiamati specificamente Pachamama, nome di una dea della madre terra secondo una credenza religiosa pagana del Sud America. Svariate caratteristiche di queste cerimonie sono state condannate come idolatriche o sacrileghe dal cardinale Walter Brandmüller, dal cardinale Gerhard Müller, dal cardinale Jorge Urosa Savino, dall’Arcivescovo Carlo Maria Viganò, dal vescovo Athanasius Schneider, dal vescovo José Luis Azcona Hermoso, dal vescovo Rudolf Voderholzer e dal vescovo Marian Eleganti. Infine, anche il cardinale Raymond Burke ha dato la stessa interpretazione in un’intervista.[/caption]
Del resto numerosissime sarebbero le citazioni del Papa e dei vescovi sull’apporto dell’immigrazione, sull’eccellenza della società pluralista, dove è garantita l’imprescindibile libertà religiosa. Nel discorso ai partecipanti al convegno internazionale sulla libertà religiosa del 20 giugno 2014, Papa Francesco già diceva: «La libertà religiosa, recepita nelle costituzioni e nelle leggi e tradotta in comportamenti coerenti, favorisce lo sviluppo di rapporti di mutuo rispetto tra le diverse Confessioni e una loro sana collaborazione con lo Stato e la società politica, senza confusione di ruoli e senza antagonismi. Al posto del conflitto globale dei valori si rende possibile in tal modo, a partire da un nucleo di valori universalmente condivisi, una globale collaborazione in vista del bene comune». L’immigrato è per il Papa il “segno del tempo” in cui viviamo. In Evangelii gaudium esortava «i paesi a una generosa apertura, che invece di temere la distruzione dell’identità locale sia capace di creare nuove sintesi culturali». Nel discorso a Filadelfia del 26 settembre 2015 il Papa metteva in risalto il legame tra società multiculturale creata dall’immigrazione con la necessità della libertà religiosa.
Di fronte a quel massiccio segno del tempo che sono le migrazioni (inarrestabili, ovviamente), appare palese che la società cristiana non può più tornare. Masse di persone di altre fedi non possono restare soggette a uno Stato cattolico, quindi è il segno che la libertà religiosa è voluta da Dio e che il processo di fine della Christianitas è irreversibile. I fatti creano i nuovi dogmi. Non è un mero discorso di inevitabili opportunità politiche in circostanze nuove, è davvero un messaggio di quello spirito divino che si rivela nella Storia e nelle vicende dell’uomo. La società pluralista e liberale è frutto di nuove esigenze; l’ecumenismo e il diverso rapporto con le altre fedi è inevitabile; voler preservare un patrimonio religioso o culturale è resistere allo Spirito. Il fine dell’immigrazione di massa, il bene che deve portare, non è l’islamizzazione dell’Europa, ma la costruzione di una società in cui vige l’irreversibilità del laicismo. Tale inevitabilità di processi è più volte ricordata nel documento preparatorio per il Sinodo dei giovani del 2018: l’«elevata complessità» del fenomeno migratorio e il «rapido mutamento» che ne consegue sono semplicemente un «dato di fatto» (ineluttabile), non è possibile dire a priori se si tratti di un problema o di un’opportunità. Così «non va trascurato poi il fatto che molte società sono sempre più multiculturali e multireligiose. In particolare la compresenza di più tradizioni religiose rappresenta una sfida e un’opportunità: può crescere il disorientamento e la tentazione del relativismo, ma insieme aumentano le possibilità di confronto fecondo e arricchimento reciproco. Agli occhi della fede questo appare come un segno del nostro tempo, che richiede una crescita nella cultura dell’ascolto, del rispetto e del dialogo». Agli occhi della fede: le vicende umane diventano segno di ciò che ora si deve credere, di una nuova rivelazione modernisticamente intesa. La fede infatti è per il documento «dilatazione della vita»: non ci si riferisce mai a princìpi per il discernimento (che dovrebbe essere il tema del Sinodo), ma solo e sempre a fatti o ad intime esigneze. La fede così intesa sarà «luce per illuminare i rapporti sociali» e «costruire la fraternità universale» (sic). Si è già fatto notare come tutto questo coincida in modo impressionante con il piano di Soros, denunciato tra l’altro dal premier ungherese Viktor Orban all’università estiva di Tusnádfürdő il 24 luglio 2017.
Si è capito che l’irreversibilità di cui parla Francesco non è tanto quella di una situazione irreversibile, quanto di una marcia irreversibile. Tale marcia deve sfociare necessariamente verso qualcosa di ultimo. Per l’appunto, i novissimi. Ora proprio il 9 ottobre 2017 usciva su La Repubblica un nuovo resoconto dei colloqui tra Eugenio Scalfari e Bergoglio, nel quale il vecchio giornalista sosteneva quanto segue: «Papa Francesco ha abolito i luoghi dove dopo la morte le anime dovrebbero andare: inferno, purgatorio, paradiso. La tesi da lui sostenuta è che le anime dominate dal male e non pentite cessino di esistere, mentre quelle che si sono riscattate dal male saranno assunte nella beatitudine contemplando Dio». Non pare probabile che il Pontefice abbia espresso il suo pensiero esattamente nei termini indicati da Scalfari (che comunque non è mai stato smentito). Tuttavia… tuttavia moltissimi elementi ci fanno dedurre che Francesco condivida sostanzialmente il pensiero teilhardiano del Cristo cosmico, per cui tutto il mondo sarà alla fine divinizzato. Il panteismo è l’essenza del modernismo, diceva san Pio X, e l’enciclica Laudato si’ lascia ben poco adito a dubbi su questo punto (si veda la nostra conferenza a questo stesso convegno di Rimini nel 2015). Il mondo marcia dunque in modo irreversibile verso la divinizzazione, e la religione non può non evolvere in funzione di questo.
[caption id="attachment_12298" align="aligncenter" width="1000"] La Chiesa Evangelica Luterana in Italia (ELCI) esprime la sua gioia per la visita di Papa Francesco alla Christ Church della Congregazione Evangelica Luterana Roma. Qui con Jens-Martin Kruse (1969), pastore della Congregazione del Cristo romano nel suo caloroso benvenuto il 15-11-2015.[/caption]
Ma Papa Francesco ha in molte altre occasioni espresso queste sue tesi, seppure non nei termini brutali indicati da Scalfari. Nel discorso per l’udienza generale di mercoledì 11 ottobre, Papa Francesco ricordava che «al termine della nostra storia c’è Gesù misericordioso», e quindi «tutto verrà salvato. Tutto.» Sandro Magister fa notare nel suo blog che quest'ultima parola, “tutto”, nel testo distribuito ai giornalisti accreditati presso la sala stampa vaticana era evidenziata in grassetto. Anche nell’udienza del precedente 23 agosto il Papa aveva ricordato, citando a modo suo il capitolo 21 dell’Apocalisse, che Dio alla fine avrebbe accolto nella sua tenda «tutti gli uomini», omettendo però il resto del brano nel quale si parla dello stagno ardente di fuoco e zolfo destinato agli increduli e ai peccatori. Simili omissioni si ritrovano in vari commenti ai brani della Scrittura, da quello nell’Angelus del 15 ottobre sulla parabola del convito nuziale, all’Angelus dll’8 ottobre sulla parabola dei vignaioli omicidi, fino all’omelia della Pentecoste del 4 giugno, dove Francesco ha troncato le parole del Salvatore risorto sul potere di rimettere i peccati (omissione già operata al Regina coeli del 23 aprile precedente). Alcuni esempi fra mille.
Sembra dunque che la creazione di un’unica indeterminata religione, dove non contano più i dogmi e il diritto, ma lo spirito che risiede nell’insieme dell’umanità che vive la storia, senza più barriere (“muri”) di credenze religiose, sia una tappa del movimento irreversibile verso la cristificazione (o divinizzazione) del mondo materiale, che arriverà alla fine di un inevitabile processo di purificazione storica, secondo la migliore tradizione gnostica. Ridurre il problema della situazione attuale della Chiesa a qualche dibattito di punti dottrinali sarebbe miope, specie se ci si focalizza sui mutamenti formali di una sola fase dell’evoluzione dottrinale dimenticando gli altri. Prendere posizione nettamente e in modo completo è sempre più una necessità.
 
 Per approfondimenti:
_La Tradizione Cattolica, La riforma irreversibile. Psicologia e strategia per una Chiesa in uscita che non rietri più, Rimini, 28-10-2017.
 
 
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Sándor Károly Henrik Groschenschmied de Mára, noto al pubblico italiano semplicemente come Sándor Márai, non viene considerato propriamente un autore della finis Austriae, ma se si vuole parlare di Mitteleuropa, non si può ignorare colui che fu uno dei più grandi autori magiari, anche lui – nonostante un nazionalismo mal celato – nostalgico dell’Impero dell'Austria-Ungheria. In questo scrittore vi è infatti tutta l’atmosfera mitteleuropea in un pulviscolo di attesa, dove tempo e psiche si intrecciano in un abbraccio meraviglioso.
[caption id="attachment_12245" align="aligncenter" width="1000"] La sua residenza in via Mikó a Buda era protetta da dodici castagni, di cui solo uno rimane oggi. Un'agenzia di viaggi ora opera nello stesso posto in cui nessuno dei venditori ha letto Márai, nonostante ci sia un busto solitario con il suo nome accanto. Nessuno dà informazioni su di lui negli uffici turistici, il suo nome non compare nelle guide di viaggio e i suoi libri scarseggiano negli antiquari. È come se Budapest insistesse per ignorarlo. Dai commenti sussurrati dei librai si scopre che Sándor Márai è ancora indesiderabile per i nostalgici del vecchio regime, anche se l'Ungheria si è sbarazzata del Cremlino più di due decenni fa. Tuttavia, in mezzo a tanta indifferenza, c'è un uomo che ha dedicato metà della sua vita a recuperare la memoria di Sándor Márai. Si chiama Tibor Mészaros, lavora al Museo di Letteratura Petöfi.[/caption]

Nato a Kassa nel 1900 – oggi Košice nell’attuale Slovacchia – Márai apparteneva ad un’antica famiglia sassone della piccola nobiltà ungherese (ricevente da Leopoldo II, il feudo di Mára nel 1790) anche se si considerò per tutta la vita e con orgoglio un borghese ungherese. Ma un piccolo-grande inganno che spesso si travisa del magiaro è la sua considerazione di borghesia, spesso confusa ad arte dallo stesso autore: Márai quando si riferisce alla sua "grande famiglia", intende propriamente la piccola nobiltà terriera dalla quale proveniva. Anche lui, come tutti gli autori dell'Europa danubiana, possiede una cultura a trazione austro-tedesca, indice di come l'Impero possedeva sì molte etnie e lingue al suo interno, ma la formazione della classe dominante era tedesca – non a caso prima lingua ufficiale dell'Impero –, nonostante l'Ungheria esercitò un importante ruolo di implosione politica con il processo della magiarizzazione: un fenomeno pari al sionismo di matrice ebraica, l'irredentismo italiano e altri piccoli focolai nazionalistici disgregatori.

Larga parte della sua produzione di successo arrivò alcuni decenni dopo la fine del secolare Impero della Monarchia Duale, dove i suoi scritti si presentano con atmosfere assorte e contenute. I protagonisti vengono coinvolti in un flusso emotivo che si dipana con gradualità. Nel famoso romanzo A gyertyák csonkig égnek (Le Braci del 1942) i due uomini che rimettono in gioco la propria personale esistenza e amicizia – dopo 41 anni –, verranno sapientemente divisi proprio dall’elemento temporale, il quale trascorre inesorabile e fa sì che entrambi abbiano amato in quel lontano passato la stessa donna, fra tradimenti, desiderio di vendetta e separazioni impossibili da rimarginare.Nel celebre romanzo Eszter hagyatéka (L’eredità di Eszter del 1939) stilato anch’esso alle porte della seconda guerra mondiale, continua la psicologia dell’attesa. Ogni parola viene «pesata» e il segreto della narrazione si espande, dilatandosi nell’attesa del ritorno dell’uomo follemente amato dalla donna che lo aspetta da vent’anni, ma dal quale non ha avuto che delusioni e opportunismi. È la psiche che accende il racconto, con accesi pensieri passionali da parte della protagonista – tutta femminile – e retropensieri, verso la vita passata. L’interlocutore, molto spesso, non è necessario; a Sándor Márai non interessa. In Az igazi (La donna giusta del 1941) i tre apparenti dialoghi sono in realtà riflessioni solitarie sull’amore inseguito e su quello vissuto, ma si percepisce l’instabilità dei rapporti che parallelamente viene unita alla fermezza della Vienna imperiale e regia in cui il romanzo è ambientato. Il magiaro penetra nei sentimenti di un’epoca ormai sull’orlo della conclusione, lo splendore della Mitteleuropa e la sua Austria felix. Particolari le descrizioni di austerità dell’alta borghesia austriaca, la quale parallelamente annuncia la sua imponenza nelle vibrazioni di una società che seguiva cadenze più private, più intimistiche rispetto agli stravolgimenti e alle nuove modalità di comunicazione che si sarebbero imposti di lì a poco. Leggere Márai, significa comprendere l’orgoglio ferito di tutta una classe sociale: quella della piccola nobiltà terriera mitteleuropea.

La dignità viene costantemente inserita in una situazione di pericolo e ancora una volta «il tempo» non funge da elemento positivo, ma da contraltare negativo delle vicende, poiché crea una presa di contatto con una sofferenza meditata a lungo, ma sopita spesso nel passato. Non assistiamo a romanzi d’azione, ma d’emozione e d’atmosfera. Il sentimento umano è al primo posto rendendo le opere letterarie «lontane» apparentemente, dalla sensibilità contemporanea di concepire l’esistenza e le relazioni, le quali mostrano nitidamente le trasformazioni che la soggettività dell’esperienza ha subito nell’ultimo secolo. Ne sono un esempio le opere che narrano la sua vita: Egy polgár vallomásai (Le confessioni di un borghese del 1934-35), Föld, föld...! (Terra, terra…! del 1972) e Csöndben akartam lenni (Volevo Tacere del 1943). Con tali autobiografie Sándor Márai si è rivelato poeta delle intermittenze del cuore e sismografo della catastrofe novecentesca, guadagnandosi un posto di prima fila nella psico-storiografia della Mitteleuropa, accanto ad altri grandi ungheresi, anch’essi esiliati, come Arthur Koestler (1905 - 83) e François Fejtö (1909 - 2008). Difatti per uno scherzo del destino, la sua vita sarà divisa in due «esistenze» di pari durata, ma vissute diversamente, quasi in opposizione. Abbiamo un «primo periodo» pieno di successo nazionale, viaggi alla scoperta del continente – di quell’Europa così diversa dalla sua Mitteleuropa –, di una vita spirituale piena e colma di socialità; di contro il «secondo periodo» – comprendente tutto il post 1939 – è caratterizzato dalla crisi del soggetto, dalla solitudine crescente, che porterà l’autore alla fuga in povertà, fino al suicidio americano di San Diego del 1989.

All’interno di questa cornice – come nei suoi racconti – vi è il sentimento umano che torna sempre verso l’ultimo bastione che non crolla: l’Impero Duale di Franz Joseph. Il grande letterato registra impassibile la fine della civiltà aristocratica – la quale segue quella borghese, entrambe anime della Mitteleuropa scomparsa, umiliata e ferita –, pur consapevole che quella tragica conclusione comporterà anche la sua dipartita. Un atteggiamento di sdegnosa fierezza, perfettamente ripreso nella statua che gli è dedicata nella sua città natale, ad opera dallo scultore (slovacco) Márian Gladis.

[caption id="attachment_12251" align="aligncenter" width="1000"] Statua dello scrittore magiaro Sandor Marai, presso Kosice in Slovacchia.[/caption]
Tale consapevolezza è presente nel già citato romanzo La Donna giusta, dove si descrive – con grande potenza – la fine del mondo mitteleuropeo: «Il vecchio sistema cominciava a barcollare... […] quella che mi raccontava era anche una favola, una storia dell’altro mondo. Di un mondo al quale sarebbe piaciuto anche a me dare una sbirciata, il paradiso dei ricchi... Ma io non ero mai riuscito ad andare oltre le camere da letto. Le gran dame non mi avevano mai invitato né in salotto né in sala da pranzo. […] oramai la lotta di classe è arrivata alla fine, e che stiamo vincendo noi proletari. I signori stanno solo cercando di prendere tempo, di tirare le cose per le lunghe. […] Davvero ho vinto io, il proletario? […] Ho una macchina, una bella vedova irlandese, la tivvù, il frigorifero... Ho perfino una carta di credito, insomma, sono un vero signore, un gentleman. Mi sono fatto appioppare tutta questa roba, a credito. E se un bel giorno mi venisse lo sghiribizzo della cultura, mi comprerei anche dei libri. Ma mi trattengo, perché nei tempi duri della mia vita ho imparato che è meglio non avere troppe pretese. Anche senza bisogno di libri ho l’impressione che ormai, al giorno d’oggi, la lotta di classe non infuria più per le strade. Il proletario è ancora proletario, e il signore continua ad essere signore. Ma adesso si affrontano in maniera diversa. Sa il diavolo com’è che siamo arrivati a questo punto, ma una volta succedeva che il proletario sgobbava fino a che riusciva a mettere insieme tutto quello che serviva al signore. Adesso è invece il signore che si scervella per trovare il modo di convincere me, il proletario, a consumare tutto quello che produce lui, il borghese. Mi vuole imbottire di ogni genere di roba, come l’oca per la festa di S.Martino, mi vuole fare ingrassare per bene, perché lui riesce a rimanere borghese solo se io il proletario, mi metto a comprare tutto quello che lui cerca di sbolognarmi. Che mondo pazzo chi ci si raccapezza più?... Perché qua mi si vuole appioppare ogni sorta di carabattole, a credito. To’, una macchina!... la tengo parcheggiata qui all'angolo, la mia macchina nuova. Quando ci salgo e la accendo, mi torna in mente che cosa voleva dire una macchina per me quando ero pischello!... Ero un ragazzetto scalzo e restavo come fulminato già soltanto se per la strada mi passava accanto un tiro a due, a cassetta ci stava il cocchiere, con il gilè con i bottoni dorati e una berretta con la frangia, che faceva schioccare la frusta come gli sbirri i ceffoni. La carrozza era tirata da due cavalli, era così che viaggiavano i signori! Ma adesso nel mio carro di cavalli ce ne stanno centocinquanta. […] Di sabato ogni tanto mi faccio un giro con la vedova, andiamo in riva al mare, lì ci mangiamo un hamburger, ma non scendiamo nemmeno, e per andare dove?... Poi di nuovo a casa. Però la macchina ci vuole, per lo status. […] Perché ormai è tutto mio, del proletariato […]. Quando sono arrivato in questo paese, in questa enorme America, non avevo il becco di un quattrino. E adesso invece? Guardami bene, dalla testa ai piedi, che tu ci creda o no, la sacrosanta verità è che oggi ho la bellezza di ottomila dollari di debiti! Provaci tu, bello mio! […] Perché io ho fatto carriera nel mio campo, sono un vincente, un vero signore!... E se aspetti ancora un po’ anche tu avrai un tosaerba, e pure uno di quei forni elettrici che cuociono il polpettone con una luce rossa, in maniera scientifica. E tutto quanto a credito, perché il borghese ha la lingua penzoloni dalla smania di farti diventare un vero signore, proprio te, il proletario. Te la beccherai pure tu la febbre del consumismo, come me la sono beccata io, come le pecore la rogna». Il lettore assaporerà così sprazzi di Impero, alcune frasi, un dialogo – senza un nitido contesto – a cui ci si possa aggrappare, per avere un rilievo narrativo: una scoperta individuale che non chiude mai a nuove interpretazioni.
[caption id="attachment_12252" align="aligncenter" width="1000"] Gli affetti personali di Sándor Márai in esilio: il cappello di feltro verde, la pipa inseparabile, il portafoglio di pelle, il coltellino svizzero e la penna che ha tradotto in parole il flusso immaginifico dei suoi romanzi.[/caption]

Sándor Márai fu anche un conservatore del "Bel Mondo", dal quale proveniva: una realtà a tinte nere-oro. Difatti l'aristocrazia e l'alta borghesia, prima dell’avvento dei totalitarismi, erano eredi dell’umanesimo occidentale, sospeso tra l’arroganza feudale, tipica della nobiltà, e le tendenze rivoluzionarie del proletariato. Si definirà «borghese» sempre con atteggiamento di sfida coraggiosa, verso una nuova terribile realtà, la quale fu portatrice di morte e disperazioni non solo al piccolo mondo agiato dello scrittore, ma – nel 1939 – si estese ben oltre ogni limite immaginabile. Pur rimpiangendo l’Impero, vissuto durante la placida infanzia, l’ungherese fu un patriota, dimostrando il suo attaccamento – nonostante le origini sassoni, con nome originario Grosschmid, mutato legalmente in Márai nel 1939 – nei duri anni quaranta. Fu con questo spirito che Márai, si impegnò nel rimanere fedele sempre alla sua lingua ungherese, la quale – durante le occupazioni tedesche e russe – lo condannò a quell’emarginazione che non conobbero i Nabokov e i Koestler, passati all’inglese, i Cioran, gli Ionesco, i Fejtö e i Kundera, divenuti scrittori francesi, il Canetti bulgaro-tedesco, l’italo-polacco Gustaw Herling e molti altri ancora. Lo scrittore iniziò a peregrinare attraverso l’Europa: prima in Germania, dove soggiornò a Lipsia, Francoforte, Weimar e Berlino, successivamente Parigi e Londra. Non si riscontrano lunghe permanenze a Vienna ed è forse per tale motivo che viene definito, da alcuni, uno «scrittore europeo». Di contro definirei tale interpretazione discutibile, proprio perché l’atmosfera della finis Austriae si ritrova in moltissimi dei suoi scritti, i quali hanno come ambientazione le due capitali imperiali, Vienna e Budapest. Lo stesso Márai, legato alla sua lingua e alla sua cultura propriamente mitteleuropea, si definirà sempre uno straniero in casa d’altri, anticipando lo stesso Albert Camus con il suo romanzo Lo straniero, dove appare il dramma del sentirsi sempre "fuori posto" e non far parte mai pienamente di una comunità e di un popolo. L’ambientazione dei Cafe, degli appartamenti, delle piazze, dei costumi non rivestono solo il ruolo di una mera comparsa sterile finalizzata ai personaggi, ma acquisiscono, all’interno dell’autore, una consapevolezza interiore del suo mondo scomparso per sempre: in tale veste Sándor Márai è da considerarsi, a livello letterario, pienamente mitteleuropeo.

Lo scrittore magiaro ci segnala anche la crisi della famiglia e dell'educazione che la nuova società impartiva. Nel suo piccolo capolavoro, Divorzio a Buda (1935), ci ricorda l'importanza dell'organicità che la Chiesa Cattolica riusciva a dare nei confronti dell'educazione dei ragazzi: «Padre Nobert gli aveva dato quello che il più delle volte nemmeno una madre è capace di dare, nemmeno la famiglia, nemmeno i fratelli: con tatto e oculatezza, il genio pedagogico di padre Norbert lo aveva posto sotto la protezione di una comunità umana. Lì ogni individuo sentiva di appartenere a qualcosa, a un luogo, ecco il semplice obiettivo da raggiungere. [...] A quei tempi era in voga l'educazione di matrice psicoanalitica, e i figli delle famiglie borghesi erano tenuti sotto costante controllo psicologico, protetti, avvezzati a nutrimenti spirituali - la pedagogia moderna proibiva ai genitori i castighi, i burberi divieti, la parola d'ordine era spiegare, permettere e informare. Kristóf Kőmíves era convinto di essere un padre buono e coscienzioso pur non tenendo conto di quei nuovi precetti educativi. Aveva compreso che era "tutto l'insieme" a risultare decisivo, il clima familiare, il fatto stesso di essere interiormente, profondamente, una vera famiglia nella quale il padre, madre e figlio si stringono l'uno all'altro. E se era questa concordia interna a tenere unita la famiglia, i genitori avrebbero anche potuto litigare, i bambini avrebbero anche potuto ricevere qualche castigo, la mamma distribuire qualche ceffone, il padre essere di cattivo umore, burbero o taccagno, la famiglia nel suo insieme sarebbe ugualmente rimasta unita, nessuno avrebbe tremato, e i bambini non avrebbero subito alcun trauma dagli scappellotti paterni».

[caption id="attachment_12259" align="aligncenter" width="1000"] Il passaporto dello scrittore.[/caption]

Ed ancora sul divorzio: «Dopo alcuni anni di pratica con le cause di divorzio sentiva che, fra tutti i compiti di un giudice, il suo era il più ingrato; con mani profane si doveva unire e sciogliere là dove in precedenza solo Dio univa e soltanto Egli poteva dividere. [...] anche lui chinava il capo quando pronunciava la sentenza, poiché sapeva che le sue parole rispecchiavano soltanto una legge umana, e quel che dichiarava era contrario allo spirito della legge divina. [...] E dopo, tanti anni, a volte gli pareva di aver già visto tutti i malanni di questa terra: dalle pratiche di divorzio, come da una goccia di sangue infetto, si rivelavano morbi segreti che affliggevano l'intero organismo, emergeva la sindrome della decomposizione della famiglia [...] dubitava che l'uomo potesse ancora essere capace di risanare: esistevano forse una speranza, una guarigione diverse da quelle che Dio manda agli uomini»?

Ma ben presto, come documentano con scansione degna di un thriller le pagine di Terra, terra…! fu chiaro che non restava altra via che l’esilio. Così ci descrive minuziosamente il regime comunista che si era installato con la forza in Ungheria: «Gli stalinisti volevano contrabbandare il comunismo nell’Occidente europeo per poi – quando e come fosse stato possibile – controllarne le risorse industriali e tecniche. [...] I russi, inoltre, erano spinti dall’ossessione messianica di portare il comunismo al di là dei confini dell’Unione Sovietica. [...] Stalin e gli stalinisti, che con l’imperialismo comunista avevano provocato dapprima la resistenza spirituale, morale e poi – in Polonia, nella Germania dell’Est, in Ungheria – quella fisica, si comportarono in modo incomprensibile per i contemporanei. Con una strategia non aggressiva, con la maschera del socialismo, avrebbero probabilmente ottenuto risultati migliori che col terrore attuato dalla costrizione comunista, sia nei paesi “satelliti” sia in Occidente e altrove. [...] In quel periodo in Occidente era già comparso qualche libro che faceva luce sulle purghe staliniane. I testimoni oculari sfuggiti ai finti processi, alle “autoaccuse” morbosamente pubblicate – tra cui c’erano anche molti comunisti che davano notizie di comportamenti disumani basandosi su esperienze personali dirette – scrivevano libri la cui pubblicazione aveva un’eco in Occidente. La propaganda ufficiale comunista, com’è ovvio, denigrava aspramente queste testimonianze, definendo gli autori dei fedifraghi patentati, rinnegati, prezzolati, scribacchini al soldo delle potenze imperialiste. Ma con il passare del tempo emerse il dubbio che gli stalinisti, si rallegrassero in segreto per quelle denunce, che non provocavano soltanto l’indignazione dei “compagni di strada” occidentali, ma anche la paura delle masse. E a parlare erano i testimoni oculari, con dimostrazioni convincenti, uomini turbati che una volta avevano creduto nel comunismo e poi si erano dovuti rendere conto di cosa fosse in realtà questo sistema. E sostenevano che il comunismo non tollera critiche, tentennamenti, revisionismi liberali. Non ha bisogno di adepti “idealisti ed entusiasti” che poi restano delusi perché la realtà li disinganna, ma colpisce spietatamente e sistematicamente tutti coloro che concepiscono il bolscevismo in maniera diversa da come esige l’ortodossia. Per i comunisti, che erano buoni strateghi e facevano progetti a lunga scadenza, simili libri erano utili, perché dimostravano all’uomo comune che opporsi era inutile, che non ci si poteva difendere dai metodi e dagli strumenti di sistema. I comunisti sapevano che tale sistema poteva funzionare solo in un clima di paura permanente e perciò disapprovavano a voce alta quei libri che segretamente approvavano, fregandosi le mani, poiché attestavano l’irresistibile forza del terrore. Non volevano e neanche potevano sperare nell’esistenza di un uomo pensante il quale, pur avendo conosciuto concretamente il comunismo, ne fosse ancora entusiasta: a loro bastava la paura che quelle testimonianze generavano nelle vittime. Non temevano di non essere amati. Temevano solo di non essere temuti. L’ossessione messianica slava era solo in parte all’origine della strategia di aggregazione bolscevica, fulminea e senza riguardi, che aveva provocato la guerra fredda. In realtà i comunisti non temevano l’Occidente, che ritenevano corrotto, fiacco e maniacalmente bisognoso di sicurezza (e in questo spesso avevano ragione), né paventavano i fascisti con i quali, al cambiar del vento, ci si poteva sempre accordare, ma temevano il proprio sistema, il comunismo. Sapevano che un sistema fondato sull’inganno e la prepotenza poteva essere mantenuto solo perpetuando inganno e prepotenza – e che il solo mezzo per ottenere ciò era la minaccia perenne del terrore. Temevano la situazione nazionale interna, che dopo la seconda guerra mondiale si era radicalmente modificata: dopo l’isolamento e l’ignoranza totali dei primi tre decenni era arrivata l’ora in cui frotte di soldati rientrati dall’Occidente riferivano che altri sistemi e altri metodi potevano produrre – velocemente e con risultati migliori – benessere per le masse e condizioni più degne per l’uomo. [...] Una simile spinta è irresistibile, al pari di una catastrofe naturale, un terremoto. E perciò si affrettarono dappertutto, anche in Ungheria, a realizzare il comunismo: sapevano che il tempo sarebbe rimasto loro alleato solo finché potevano incutere paura alle masse. Temevano che a un certo momento la gente potesse smettere di avere paura della paura (nella tabella oraria del terrore questo momento ha un tempo preciso) e cominciasse a protestare. Erano spietati e avevano fretta anche perché nella storia, fra tante altre cose, era comparsa la radio a batteria. Non avevano ancora valutato il ruolo della radio a pile – che invia informazioni nelle regioni più lontane di un impero su quello che sta succedendo nel mondo in quell’istante – nei processi storici. La radio è in grado di svelare in pochi secondi menzogne ben radicate: ad esempio quella secondo cui un’utopia concepita cento anni prima e completamente ammuffita e sorpassata possa ancora essere realizzata concretamente nell’interesse delle masse lavoratrici. I nazisti furono tradotti davanti ai tribunali speciali, detti popolari, e coloro che si difesero dichiarando di aver solo “eseguito degli ordini” vennero giustiziati. In casi particolari, quando c’era bisogno di uomini senza scrupoli, li si graziò e li si inquadrò nelle file del potere comunista. [...] Vissi un anno e mezzo in quest’atmosfera, che conobbi non per sentito dire o dai libri, ma attraverso l’esperienza quotidiana. [...] In quel periodo appariva ancora qualche giornale dell’opposizione. Le case editrici e i teatri non erano ancora stati nazionalizzati. I comunisti – muniti di cronometro – lavoravano con prudenza: facevano a pezzi il corpo della nazione articolazione dopo articolazione, come un sapiente professore quando seziona le membra del corpo umano nel corso di un esame di anatomia pubblico. Cercavano di risparmiare gli organi più nobili, i nervi più importanti, ma tagliuzzavano e sezionavano le viscere con pinze e forbici. Nessuno sapeva fino a quali profondità sarebbero arrivati, talvolta sembrava che nemmeno i comunisti sapessero fino a che punto avrebbero potuto affondare il bisturi nel corpo vivo. Avevano ricevuto l’ordine da Mosca; probabilmente avevano anche ricevuto le istruzioni per la messa in pratica, ma al tempo stesso avevano paura di indugiare in inutili scrupoli di coscienza, poiché la responsabilità finale era loro, dei tecnici mandati da Mosca. Se qualcosa fosse andato storto, se il malato fosse morto dissanguato o avesse cacciato un urlo, avrebbero dovuto risponderne loro. Per questo lavorarono un anno e mezzo con l’attenzione del ragno che tesse la tela. [...] Non lo si poteva percepire subito, ma tutti i giorni il Ragno produceva un filo. Ora i libri di testo, ora la scuola. Ora i lavori pubblici. [...] Oggi scompariva un uomo, domani una vecchia, solida istituzione. Oppure un’idea. [...] Quello che ancora ieri era la norma – partiti politici, libertà di stampa, vita senza paura, libertà di opinione – c’era anche il giorno dopo, era soltanto più esangue, come durante certe notti di angoscia, quando gli elementi della realtà quotidiana continuavano a vivere benché più pallidi. [...] Eppure vi era qualcosa di più importante del posto di lavoro e del pane. Una cosa che, pur nell’estremo bisogno, per la maggior parte degli uomini è più importante di tutte quelle che può perdere in una grave prova: la stima di sé.

[caption id="attachment_12269" align="aligncenter" width="1000"] La Rivoluzione ungherese del 1956 schiacciata dalle forze sovietiche.[/caption]

Dopo tante menzogne e logore parodie, le persone avevano riconosciuto la realtà: quanto pericolo ci fosse nell’essere costretti ad accettare quello in cui non credevano. Si voleva che accettassero sinceramente ciò che disprezzavano. E si voleva togliere loro l’unico bene rimasto, più importante del ruolo sociale, del benessere, della carriera: il diritto di essere uomini degni di questo nome, uomini che costruiscono e migliorano la società nella quale intendono vivere. Ed era proprio questo quel che voleva il Ragno: succhiare dalla vittima tutto ciò che somigliava alla consapevolezza umana. Come avevano fatto i nazisti nei campi di concentramento, dove le vittime, ridotte a livelli subumani, non solo venivano uccise e soffocate dal lavoro ma, attraverso umiliazioni e torture, avrebbero dovuto perdere il senso della coscienza e della dignità umana. I nazisti in definitiva, si accontentarono, “modestamente”, di annientare fisicamente le proprie vittime. I comunisti volevano qualcosa di più e di diverso: esigevano che la vittima restasse in vita e che celebrasse il sistema che annientava in lei la coscienza umana e la stima di sé».

Dopo il suo quarantottesimo compleanno, l’undici aprile del 1948, lo scrittore ungherese scelse la fuga dal suo Paese, ma per il periodo storico – degli anni cinquanta – coloro che «sceglievano la libertà» erano spesso visti come rinnegati e reietti. Basti pensare che i tre principali attori della politica filo-tedesca dell’Ungheria erano già usciti di scena: Bethlen, deportato a Mosca, vi morì in circostanze mai chiarite nell’ottobre 1945; Szalasi fu processato e impiccato a Budapest nel marzo 1946; Horthy, che era stato arrestato e deportato dai tedeschi nel 1944, fu brevemente imprigionato poi rilasciato dagli americani alla fine della guerra e si spense in esilio in Portogallo nel 1957. Molti loro seguaci si distinguevano per lo zelo con cui militavano nei ranghi del nuovo regime. Un dissidente come Márai diventava un testimone scomodo. Fu così che il giovane scrittore di successo, divenne un esule del destino. La sua trasformazione fisica lo testimonia ampiamente,  e anticipando lo scacco amaro di un cancro, abbracciò il suo tragico destino, che portò l’autore ad un amaro suicidio oltreoceano il 21 febbraio del 1989.

 
Per approfondimenti:
_Márai S., (1935 – 1939), Divorzio a Buda, Adelphi, Milano, 2002;
_Márai S., (1934 – 1935), Confessioni di un borghese, Adelphi, Milano, 2003;
_Márai S., (1941), La Donna giusta, Adelphi, Milano, 2004;
_Márai S., (1934 – 1935), Terra, terra!, Adelphi, Milano, 2005;
_Márai S., (1942), Le braci, Adelphi, Milano, 2008;
_Márai S., (1949 – 1950) Volevo tacere, Biblioteca Adelphi 666, Milano, 2017;
_Zweig S., (1942), Il mondo di ieri, Mondadori Libri S.p.A., Milano, 2016.
 
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a cura di Stefano Scalella
19 settembre 2020 – Bottega del Terzo Settore, Corso Trento e Trieste n.18 - 63100 AP
Introduce: Dott. Maurizio Seghetti
Modera: Arch.Giuseppe Baiocchi
Interviene: don Nicola Bux
 
Sabato 19 settembre 2020, presso la Bottega del Terzo Settore è andato in scena il 58°incontro dell'associazione culturale onlus Das Andere. L'evento ha visto la presenza del penitenziere del Duomo don Giuseppe Bachetti e il consigliere comunale avv. Emidio Premici per i saluti istituzionali. Ospite don Nicola Bux, fine teologo dell'Arcidiocesi di Bari, introdotto da dott. Maurizio Seghetti e moderato dall'arch. Giuseppe Baiocchi. Il presbitero don Nicola, spaziando inizialmente sulla diversità liturgica che separa il rito romano straordinario, da quello del Messale di Paolo VI, si è soffermato anche sullo status della fede nel mondo, la quale va via via spegnendosi. Ed ecco così che il rito romano antico rivela una potenza evangelizzatrice, come attesta il movimento internazionale di giovani, che sempre più numerosi si avvicinano alla Chiesa, a motivo del misticismo della Messa in forma straordinaria, simile alla liturgia. Lo stesso Papa Francesco I ha rilevato come: “Le Chiese ortodosse, hanno conservato quella pristina liturgia, tanto bella. Noi abbiamo perso un po’ il senso dell’adorazione” (Intervista ai giornalisti sul volo di ritorno dal Brasile, 28 luglio 2013). Si può dire a questo punto che il Motu proprio Summorum Pontificum sia la messa in prova dell’ermeneutica della continuità: la proposta di una ‘riforma della riforma liturgica’. Se si rifiuta vuol dire che non si è capito il Concilio Vaticano II. Il numero dei luoghi dove viene celebrata la liturgia tradizionale in Italia è passata nell'anno 2019, da 129 a 134, ossia 5 nuovi luoghi e quindi una crescita del 4% in 71 delle 222 diocesi latine d'Italie e le richieste di celebrazioni diventano sempre più numerose in Italia (ve ne sono almeno trenta domande in gran parte provenienti dalle diocesi dove attualmente non è ancora celebrata la liturgia tradizionale). Vi sono stati, da cinquant’anni, tentativi rivelatisi infruttuosi di soffocare questa liturgia. E lo saranno ancor più, col rischio di veder scoppiare una guerra liturgica ben più viva di quella degli anni ’70 in un organismo ecclesiastico oggi estremamente indebolito… Tutti questi sacerdoti e fedeli rappresentano un insieme nella Chiesa che potrà essere sempre meno ignorato a fronte del crollo numerico di sacerdoti e religiosi (in Occidente) e della dottrina (dovunque). A dieci anni dal Motu Proprio sono per lo più raddoppiati i luoghi dove si celebra la Messa tradizionale, e la crescita continua. Per non parlare delle comunità Ecclesia Dei che sono, in piena crescita quanto a preti e ad apostolato, ma il movimento Summorum Pontificum è ormai diffuso soprattutto nelle diocesi e nelle parrocchie, uno sviluppo rapido e pressoché illimitato.

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«Sì; la fede rende più nobile la vostra schiera, perché ogni nobiltà viene da Dio, Ente Nobilissimo e fonte di ogni perfezione. Tutto in Lui è nobiltà dell’essere. […] Dunque il modo della nobiltà di una cosa corrisponde al modo con cui possiede l’essere; giacché una cosa si dice che è più o meno nobile, secondo che il suo essere si restringe a qualche grado speciale maggiore o minore di nobiltà. […] Anche voi avete da Dio l’essere; Egli vi ha fatti, e non voi stessi. ‘Ipse fecit nos, et non ipsi nos’ (Ps. 99,3). Vi ha dato nobiltà di sangue, nobiltà di valore, nobiltà di virtù, nobiltà di fede e di grazia cristiana. La nobiltà di sangue voi la mettete al servigio della Chiesa e a guardia del Successore di Pietro; nobiltà di opere leggiadre dei vostri maggiori, che nobilita voi stessi, se voi di giorno in giorno avrete cura di aggiungervi la nobiltà della virtù […]. Tanto degna di lode riluce la nobiltà congiunta con la virtù che la luce della virtù spesso eclissa la chiarezza della nobiltà; e nei fasti e negli atri di grandi famiglie unica e sola nobiltà resta talora il nome della virtù, come non dubitò di affermare anche il pagano Giovenale (Satyr. VIII, 19-20): ‘Tota licet veteres exornent undique cerae atria, nobilitas sola est atque unica virtus’ (Benché le vecchie figure di cera ornino dappertutto i palazzi delle grandi famiglie, l’unica ed esclusiva loro nobiltà è la virtù)». Era il 26 dicembre del 1941, quando il Venerabile Pius PP. XII pronunciava queste parole alla sua Guardia Nobile.
[caption id="attachment_12217" align="aligncenter" width="1000"] Un giovane rampollo della Guardia Nobile del Corpo di Sua Santità.[/caption]
Oggi tale corpo militare è scomparso: San Paulus PP. VI il 14 settembre 1970 ne sopprime l’apparato. Fu così che gli antichi membri di quell’ultimo glorioso stendardo sopravvivono nell’associazione delle «Lance Spezzate», nella quale si mantiene l’osservanza del rito romano antico.
Il Corpo che ha origine nel 1485 con l’istituzione della «Guardia dei Cavalleggieri» da parte di Innocentius PP. VIII (1432 - 92), vanta tradizioni gloriose: dall’immolazione completa del 1527 per difendere la tomba di San Pietro dai lanzichenecchi di Carlo V (1500 - 58); passando per la reclusione presso Castel Sant’Angelo nell’aprile del 1808 da parte dell’usurpatore esercito francese per essere rimasto fedele al Sommo Pontefice; fino alla difesa della Salma del Beato Pius PP. IX (1792 - 1878), quella aggressione al corteo papalino, da parte dei alcuni gruppi anticlericali e massonici romani, il 13 luglio 1878.
La storia si fa più affascinante proprio per la composizione di tale corpo: alla «Guardia dei Cavalleggieri» l’undici dicembre del 1555 si uniscono i «Cavalieri di Guardia di Nostro Signore», che Paulus PP. IV (1476 - 1559) consacrò con il noto motto «Cavalieri della Fede» e che parallelamente la popolazione romana battezzò «Lance Spezzate».
Entrambi i raggruppamenti militari, con i rovesci del 16 febbraio del 1798, ad opera “dell’anti-Cristo Napoleone Bonaparte”, vengono sciolti e l’allora Pontefice Pius PP. VI (1719 - 99) incarcerato, morirà martire a Valenza in Francia.
Lo strapotere francese non tanto sullo Stato Pontificio, ma sul resto dell’Europa, sembra mettere la parola fine al corpo appena costituito, ma come ci ricorda il conte Monaldo Leopardi (1776 - 1847): «dopo ventisei anni di strepito e di trambusto era tempo di pigliare un poco di fiato. La rivoluzione è domata; la republica ha finito colla tirannia come era da aspettarsi; e quel bricconcello di Corso che mangiava i miei regni uno dopo l’altro, come confetti, ha dovuto metterli fuori, e se ne è andato a digerire la scomunica, e a trastullarsi con le ostriche, e coi gabbiani».
Dunque sconfitto Napoleone, Pius PP. VII (1742 - 1823) ripristina la rinnovata «Guardia Nobile del Corpo di Sua Santità», fondendo insieme – tramite Motu Proprio Pontificio dell’undici maggio del 1801 – i due corpi precedentemente creati. Inoltre confluiscono anche i Cavalieri della primaria nobiltà.
Successivamente fu Leo PP. XIII (1810 - 1903), il diciotto dicembre 1824, ad approvare un regolamento organico e disciplinare per il Corpo di Guardia. Poteva così essere ammesso al Corpo il giovane rampollo la cui nobiltà di nascita in «una città in tal rango considerata negli ordini Gerosolimitano e di Santo Stefano» da almeno 60 anni, successivamente 100, doveva possedere l’esercizio della Nobile Magistratura da parte della famiglia del candidato.
Lo Stendardo del Corpo era molto semplice: inizialmente vi erano le due chiavi incrociate su sfondo rosso, mentre successivamente le chiavi furono sostituite dallo stemma del pontefice regnante che la Guardia Nobile serviva. Parimenti rossi, con l’arme del Pontefice, erano infatti i due vessilli, per ogni compagnia, che la precedente Guardia dei Cavalleggeri aveva in assegnazione.
Successivamente al trentuno maggio del 1820 Pius PP. VII concesse alle sue Guardie lo stendardo bianco quadrato, bordato di ricami d’oro ed ai quattro angoli concesse l’utilizzo di fregi, armi e trombe ricamate; al centro del vessillo bianco si sono succeduti da allora gli stemmi di dodici Pontefici: Pius PP. VI (Braschi), Leo PP. XII (della Genga), Pius PP. VII (Chiaramonti), Gregorius PP. XVI (Cappellari), Pius PP. IX (Mastai-Ferretti), Leo PP. XIII (Pecci), Pius PP. X (Sarto), Benedictus PP. XV (della Chiesa), Pius PP. XI (Ratti), Pius PP. XII (Pacelli), Ioannes PP. XXIII (Roncalli), Paulus PP. VI (Montini).
Come ci racconta il marchese don Giulio Patrizi di Ripacandida, (1921 - 2020, duca di Castelgaragnone), uomo integerrimo e di specchiata condotta, autore del significativo tomo “Quell’ultimo glorioso stendardo”: «entrambe le insegne, quella più antica rossa, quella successiva bianca, sono ora custodite dal Museo Storico Lateranense insieme agli altri preziosi cimeli donati dalle Guardie Nobili».
[caption id="attachment_12219" align="aligncenter" width="1000"] Nelle tre immagini (da sinistra a destra): il marchese don Giulio Patrizi di Ripacandida, duca di Castelgaragnone, autore del saggio "Quell'ultimo glorioso stendardo. Le guardie nobili pontificie dall'11 Maggio 1801 al 15 settembre 1970". Sulla destra, la bandiera del corpo con stemma Papale corrente alla foto su fondo bianco.[/caption]
Certamente va ribadito come la totalità di quella che viene definita come “aristocrazia nera”, ovvero quella parte nutrita e numerosa della nobiltà romana che rimase sempre fedele al Papato anche dopo l’invasione dello Stato Pontificio, senza dichiarazione di guerra, da parte delle truppe sabaude. Piccola curiosità non meno significativa delle altre la riscontriamo nel colore di questi amministratori pontifici, i quali in segno di lutto per la già citata invasione e soppressione temporale del Regno papalino, indossavano abiti scuri: un’usanza interrotta unicamente con la Chiesa Conciliare di Paulus PP. VI che soppresse tutta la corte pontificia.
I comandanti della «Guardia Nobile del Corpo di Sua Santità» all’inizio furono ben due, uno per Compagnia, ognuno assistito da un Capitano Coadiutore. Dal 1814, diversamente, fu nominato un unico comandante, così come nel 1895, fu eliminata anche la figura del Capitano Coadiutore.
Il Comandante esercitava l’azione di comando tramite due ufficiali preposti: l’Esente Aiutante Maggiore ed il Cadetto Aiutante. Il primo di queste due figure, assumeva il comando effettivo del Corpo sul campo, quando si muoveva come unità; parallelamente il Cadetto Aiutante presiedeva l’organizzazione dei servizi di Guardia e curava le relazioni con gli altri apparati di servizio quali il Maggiordomo ed il Maestro di Camera. In ogni manifestazione protocollare e visita ufficiale queste due figure erano pressoché inseparabili. Di contro il servizio giornaliero del Corpo era invece comandato dall’Esente di settimana, che presiedeva a tutti i Corpi Militari presenti in Anticamera, e dal Cadetto di servizio che comandava specificatamente il Distaccamento di Servizio della Guardia.
Sempre del sistema di comando, facevano parte sia il Cadetto Tesoriere, che curava l’amministrazione economica e l’Archivista del Corpo, il quale custodiva e ordinava i fascicoli personali, i rapporti giornalieri degli Esenti ed ogni altro atto.
Le Guardie Nobili Pontificie hanno avuto ben undici Comandanti. Il primo, Don Giuseppe Mattei (1735 - 1809), duca di Giove, romano, rimasto celebre per gli eventi dell’aprile del 1808 attraverso i quali – insieme al secondo comandante, il duca Luigi Braschi Onesti e cinquanta Guardie Nobili –, subì la detenzione presso Castel Sant’Angelo da parte degli invasori francesi per essersi opposto al dominio straniero ed essere rimasto fedele al Sommo Pontefice indossando la coccarda bianco-gialla. Secondo leader del Corpo è il già citato Don Luigi Braschi Onesti (1746 - 1816), duca di Nemi, cesenate, divenuto primo Comandante dopo il ritorno del Pontefice, dalla cattività francese, nel 1814. Il Terzo Comandante della Guardia lo troviamo nella figura del principe romano Don Paluzzo Altieri (1760 - 1834): lasciò il comando nel 1819 per essere stato nominato Principe Assistente al Soglio e Senatore di Roma. Il Quarto è un altro principe romano: Don Francesco Barberini di Palestrina (1772 - 1853); egli fu il primo comandante insignito dell’Ordine di Cristo.
Don Carlo Berberini (1817 - 80), duca di Castelvecchio, romano, fu il quinto comandante.
In successione troviamo i romani Don Emilio Altieri (1814 - 78, principe di Oriolo); Don Paolo Altieri (1849 - 1901, principe di Viano); il fiorentino Don Camillo Rospigliosi (1850 - 1915, principe) che prima di divenire Comandante nel 1901, prese parte all’ultima resistenza delle truppe del generale Hermann Kanzler (1822 - 88) all’interno delle mura leonine nel settembre del 1870; Don Giuseppe Aldobrandini (1865 – 1939, principe romano) Comandante del Corpo dal 14 giugno del 1915; Don Francesco Chigi della Rovere (1881 - 1953, principe romano) Comandante del Corpo dal 14 dicembre del 1939; infine troviamo l’ultimo Comandante della Guardia Nobile: Don Mario del Drago (1899 – 1981, principe romano), il quale fu Comandante dal 1957 ed ebbe la forza di sciogliere il Corpo, dopo previo ordine pontificio del Cardinale Segretario di Stato.
Il ruolo di questo prestigioso Corpo Militare dopo l’undici maggio del 1801 fu quello di operare alcune “missioni” di scorta per il Pontefice – come accadde per l’elezione ad Imperatore di Napoleone I a Parigi, da parte di Pius PP. VII (1804), oppure scortare un Cardinal Legato che rappresentava il Pontefice in eventi particolari: congressi eucaristici, grandi celebrazioni religiose, incoronazioni, matrimoni o battesimi di prìncipi regnanti. Altra mansione erano propriamente le spedizioni, all’interno delle quali la Guardia Nobile fungeva da “corriere speciale del Pontefice” per consegnare lo zucchetto cardinalizio ad un Vescovo o Arcivescovo creato Cardinale, oppure la berretta ai Capi di Stato cattolici che godevano del privilegio della imposizione al neo Cardinale.
[caption id="attachment_12218" align="aligncenter" width="1000"] Giuseppe Capparoni, Guardie Nobile Pontificia (sotto Leo PP. XII), dalla "Raccolta della gerarchia ecclesiastica considerata nelle vesti sacre, e civili usate da quelli li quali la compongono", Roma 1827 - incisione all’acquaforte acquerellata 176 x 124 mm (matrice) 290 x 220 mm (foglio).[/caption]
La guardia nobile disponeva di due uniformi distinte a seconda delle diverse occasioni in cui il membro del corpo si trovava a dover operare. La prima era l’uniforme d’onore utilizzata per le occasioni più importanti e per le celebrazioni liturgiche in cui la guardia era presente. Essa era composta da un elmo da corazziere piumato di bianco e crinato di nero, una giubba rossa con bandoliera e spalline dorate, una cintura bianca in vita, pantaloni bianchi e stivali neri da cavallerizzo. In tutti questi particolari l’uniforme ricordava chiaramente quella dei corazzieri e tale rimase sino alla soppressione del corpo, in ricordo dell’originaria funzione svolta da questi uomini.
L’uniforme di servizio era invece utilizzata quotidianamente, ed era composta da un elmo da corazziere con impresso sul davanti lo stemma papale, una giacca color blu di Prussia bottonata a due file d’oro e bordata di rosso con una cintura nera a fibbia dorata con le armi pontificie e un paio di pantaloni azzurro-cupo rigati di rosso.
L’unico armamento della guardia nobile era costituito da una sciabola da cavalleria ed era l’unico, oltre alla Guardia Svizzera Pontificia, ad essere autorizzato a portare le armi anche in chiesa e alla presenza del Pontefice.
Prima di affrontare i vari ruoli all’interno della Guardia Nobile del Corpo di Sua Santità, bisogna necessariamente capire come era strutturata la nobiltà così detta romana, poi aristocrazia nera.
Il Patriziato Romano si divideva in due categorie: i Patrizi romani, che discendevano da coloro che, nel Medioevo, avevano occupato incarichi civili di governo nella Città Pontificia; e dai Patrizi romani coscritti, che appartenevano a una delle sessanta famiglie che il Sommo Pontefice aveva riconosciuto come tali in una Bolla Pontificia speciale, nella quale erano citati nominalmente; questi costituivano il fior fiore del patriziato romano.
La nobiltà romana si divideva anch’essa in due categorie: i nobili che discendevano dai feudatari, ossia dalle famiglie che avevano ricevuto un feudo dal Sommo Pontefice; ed i semplici nobili, la cui nobiltà proveniva dall’affidamento di un incarico a Corte oppure direttamente da una concessione pontificia.
Così l’ossatura del Corpo dall’undici maggio del 1801 era composta dai Tenenti (Brigadieri Generali): le due antiche Cornette della Guardia dei Cavalleggeri, poi chiamate definitivamente “Tenente in I” e “Tenente in II”; gli Esenti (Colonnelli): le sei Lance Spezzate di numero; i Cadetti (Tenenti Colonnello): le sette Lance Spezzate in soprannumero, i due cadetti Aiutanti dei Comandanti ed un decimo Cadetto; le Guardie Comuni (Capitano): composte da trenta elementi denominati cavalieri della prima nobiltà – solo dopo il venti dicembre del 1815 verranno denominati Sottotenenti per poi passare a “Guardia Tenente” e “Guardia Capitano”.
Diversamente, il congedo dal lavoro attivo per una Guardia, si concretizzava attraverso la formula del Giubilato, ovvero la conclusione per anzianità, con il conseguente passaggio in “giubilazione” con una pensione e diritto all’uso dell’uniforme nelle riunioni del corpo, in udienza e nei riti in San Pietro e il Pensionato, ovvero la Guardia che aveva interrotto il servizio prima della Giubilazione, per giustificato motivo, ed al quale era concessa talvolta la pensione e l’uso dell’uniforme.
Nella storia del corpo, spiccano sicuramente alcune Guardie sia per dei pregi, che per dei difetti. Sicuramente il male maggiore per un soldato è l’espulsione dal Corpo. Tralasciandone una per duello formale eseguito a disfida della Guardia maceratese Carlo Costa (1834 - 66), troviamo le espulsioni più rilevanti nel gravissimo reato di aver aderito alla Repubblica Romana (1849). La sorte della radiazione toccò così al ternano Giuseppe Nicoletti nato nel 1799, pensionato dal 1833, il quale schieratosi a favore del triunvirato mazziniano, fu condannato all’unanimità dal Consiglio di Guerra e conseguentemente radiato dal Corpo. Stessa sorte per Luigi Filippi; Alessandro Savini (1814 - 89); Domenico Silveri (1818 - 1900) divenuto celebre per la composizione musicale “Le trombe d’argento”, melodia eseguita al primo pontificale di Pius PP. IX; Antonio Stefanoni (dimissionario); Luigi Capranica (1820 - 91); Prospero Cansacchi (1817 - 90) il quale fu poi, per clemenza, reintegrato e ebbe il giubilato per anzianità; Giuseppe Caccialupi; Giacomo Frischiotti, Girolamo Zelli-Jacobuzzi ed infine altra espulsione avverrà per Giulio della Porta (1827 - 67) per aver commesso un assassinio.
Ovviamente nella storia delle 570 Guardie Nobili, di cui sono state predisposte solo 218 Ammissioni tali casistiche rimangono comunque casi isolati. Difatti molte guardie nobili spiccano per la loro fedeltà e il loro coraggio.
[caption id="attachment_12220" align="aligncenter" width="1000"] Uniforme di gala della Guardia Nobile del Corpo di Sua Santità. Il manichino dell'uniforme si trova presso il Museo del Palazzo Mastai-Ferretti presso la città di Senigallia.[/caption]
[caption id="attachment_12221" align="aligncenter" width="1000"] Uniforme di mezza gala della Guardia Nobile del Corpo di Sua Santità. Il manchino dell'uniforme si trova presso il Museo del Palazzo Mastai-Ferretti presso la città di Senigallia.[/caption]
Emblematico e singolare il percorso della Guardia Flavio Chigi (1810 - 85), romano, il quale dopo una spedizione a Lione presso l’Arcivescovo De Bonald, ottenne le dimissioni nel 1849 per ottenere lo stato ecclesiastico. Dopo aver compiuto gli stadi necessari per la sua formazione, fu ordinato sacerdote da Sua Santità e Suo personale Cameriere Segreto Partecipante; successivamente Nunzio Apostolico a Parigi, e nel Concistoro del 1873 fu infine creato Cardinale.
Onorificenze al merito, come quella del cavalierato di San Silvestro, furono donate dal Papa per la resistenza e la tenacia di alcune Guardie durante la sommossa del 16 novembre del 1848. Ricordiamo così Lodovico Bischi (1809 - 61), Francesco Pietramellara (1802 - 69), Pietro Dandini de Sylva; Paolo Del Bufalo della Valle (1822 - 97); Decio Bentivoglio (1822 - 71).
Per virtuosismo musicale la Guardia Giovanni Longhi (1811 - 98) ebbe incarico nel 1846 di comporre la marcia trionfale in occasione del primo pontificale celebrato da Sua Santità Pius PP. IX: marcia che da quell’epoca si è poi sempre eseguita all’ingresso del Sommo Pontefice nella Chiesa ove celebra il Pontificale.
Ed ancora Augusto Baviera (1828 - 1909) viene ricordato come la Guardia che ha fondato un noto giornale vaticano “L’Osservatore Romano”.
La Guardia Mario Filippo Carpegna (1856 - 1924) dopo varie missioni in Spagna e Russia, sarà spettatore, per conto della Santa Sede, dell’incoronazione Imperiale dello Zar di tutte le Russie Nikolaj II (1868 - 1918). Altra incoronazione di rilievo fu vissuta dalla Guardia Lelio Nicolò Orsini (1877 - 1952), il quale in missione a Londra assistette all’incoronazione di Re Edoardo VII e in missione presso Madrid al matrimonio di Re Alfonso XIII. Ignazio Honorati (1873 - 1959) in missione a Madrid nel 1907, presso il Nunzio Rondanini, fu nello stesso tempo latore, oltreché dello zucchetto cardinalizio, anche delle fasce benedette per il neonato Principe delle Asturie, figlioccio di Sua Santità. Giorgio Salimei (1889 - 1950), dopo una missione a Siviglia, ne ebbe una nella stessa città eterna per accompagnare il Pontefice Pius PP. XII nella storica visita ai Reali d’Italia. Elemento di spicco del Corpo, raggiunse il grado di Tenente, fu trattenuto oltre i limiti del servizio.
Come non ricordare Vincenzo di Napoli Rampolla (1898 - 1965) in missione prima a Parigi (1925), poi a Lourdes (1935) per il Giubileo straordinario. Seguì il Pontefice Pius PP. XII nella visita dei reali d’Italia a Roma (1939), fu giubilato nel 1956 con il grado di Tenente e ricoprì anche i ruoli di Cadetto Aiutante (1938-50) ed Esente Aiutante Maggiore (1951-58).
Anche il marchese Angiolo Pagani Planca Incoronati (1902 - 69) ebbe l’onore di essere in missione a Domrémy il 31-05-1939 con l’Arcivescovo Mgr. Villeneuve, legato Pontificio per le celebrazioni di Santa Giovanna D’Arco.
Oggi, che la Chiesa non festeggia più determinate ricorrenze, ricordiamo con importanza la missione della Guardia Pietro Aluffi (1905 - 58) a Vienna, dove nel 1933 era all’interno della Legazione Pontificia per il 250° anniversario della liberazione dall’assedio ottomano.
[caption id="attachment_12222" align="aligncenter" width="1000"] Rare foto di Guardie Nobili sotto il Pontificato di Pius PP. IX (Mastai-Ferretti).[/caption]
[caption id="attachment_12223" align="aligncenter" width="1000"] Rare foto di Guardie Nobili sotto il Pontificato di Pius PP. IX (Mastai-Ferretti).[/caption]
Spazio va dedicato anche alla Guardia Guido Avignone di San Teodoro (1909 - 90), presente a Fatima per la chiusura dell’Anno Santo, accompagna le sante spoglie di Pius PP. X nel 1959 da Venezia a Roma. Dal 1962 al 66 fu Esente Aiutante Maggiore, Giubilato nel 1967 con il grado di Tenente, fu richiamato in servizio quale archivista del Corpo e tale rimase fino allo scioglimento dello stesso, curando anche il Museo dell’Antico Esercito Pontificio.
Anche in paesi senza passato monarchico, le aristocrazie erano costituite dal corso naturale degli eventi, di fatto se non di diritto. Anche in questi paesi l’ondata di egualitarismo demagogico nata dalla Rivoluzione Francese del 1789 e portata al suo culmine dal comunismo, ha creato in certi ambienti un'atmosfera di risentimento e incomprensione nei confronti delle élite tradizionali.
Le allocuzioni riportate all’inizio di questo scritto di Sua Santità Pius PP. XII hanno quindi portata universale.
Queste “Guardie Nobili del Corpo di Sua Santità” servirono i dodici Pontefici che governarono la Chiesa dal 1801 al 1970. In tale lasso di tempo eroismo, fedeltà, obbedienza, dedizione, umana debolezza hanno contraddistinto i loro comportamenti e le loro gesta. 170 anni sotto lo “Stendardo Bianco” di cui le gloriose tradizioni furono della «Guardia di nostro Signore», dal 1485 al 1798.
 
Per approfondimenti:
_Giulio Patrizi di Ripacandida, Quell'ultimo glorioso stendardo. Le guardie nobili pontificie dall'11 Maggio 1801 al 15 settembre 1970, Città del Vaticano, 1994;
_Giulio Sacchetti, I due Stendardi della Guardia Nobile Pontificia, in Strenna dei Romanisti, 1990;
_Giuseppe Capparoni, Raccolta della Gerarchia ecclesiastica, Giacomo Antonelli editore, 1827.
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Sabato 19 settembre 2020, presso la Bottega del Terzo Settore è andato in scena il 58°incontro dell'associazione culturale onlus Das Andere. L'evento ha visto la presenza del penitenziere del Duomo don Giuseppe Bachetti e il consigliere comunale avv. Emidio Premici per i saluti istituzionali, rispettivamente per la Diocesi di Sua Eccellenza Mons. Giovanni D'Ercole e per il Comune di Ascoli Piceno.
Ospite don Nicola Bux, fine teologo dell'Arcidiocesi di Bari, introdotto da dott. Maurizio Seghetti e moderato dall'arch. Giuseppe Baiocchi.
Il presbitero don Nicola, spaziando inizialmente sulla diversità liturgica che separa il rito romano straordinario, da quello del Messale di Paolo VI, si è soffermato anche sullo status della fede nel mondo, la quale va via via spegnendosi. Ed ecco così che il rito romano antico rivela una potenza evangelizzatrice, come attesta il movimento internazionale di giovani, che sempre più numerosi si avvicinano alla Chiesa, a motivo del misticismo della Messa in forma straordinaria, simile alla liturgia.
Lo stesso Papa Francesco I ha rilevato come: “Le Chiese ortodosse, hanno conservato quella pristina liturgia, tanto bella. Noi abbiamo perso un po’ il senso dell’adorazione” (Intervista ai giornalisti sul volo di ritorno dal Brasile, 28 luglio 2013). Si può dire a questo punto che il Motu proprio Summorum Pontificum sia la messa in prova dell’ermeneutica della continuità: la proposta di una ‘riforma della riforma liturgica’. Se si rifiuta vuol dire che non si è capito il Concilio Vaticano II.
Il numero dei luoghi dove viene celebrata la liturgia tradizionale in Italia è passata nell'anno 2019, da 129 a 134, ossia 5 nuovi luoghi e quindi una crescita del 4% in 71 delle 222 diocesi latine d'Italia e le richieste di celebrazioni diventano sempre più numerose in Italia (ve ne sono almeno trenta domande in gran parte provenienti dalle diocesi dove attualmente non è ancora celebrata la liturgia tradizionale). Vi sono stati, da cinquant’anni, tentativi rivelatisi infruttuosi di soffocare questa liturgia. E lo saranno ancor più, col rischio di veder scoppiare una guerra liturgica ben più viva di quella degli anni ’70 in un organismo ecclesiastico oggi estremamente indebolito…
Tutti questi sacerdoti e fedeli rappresentano un insieme nella Chiesa che potrà essere sempre meno ignorato a fronte del crollo numerico di sacerdoti e religiosi (in Occidente) e della dottrina (dovunque). A dieci anni dal Motu Proprio sono per lo più raddoppiati i luoghi dove si celebra la Messa tradizionale, e la crescita continua. Per non parlare delle comunità Ecclesia Dei che sono, in piena crescita quanto a preti e ad apostolato, ma il movimento Summorum Pontificum è ormai diffuso soprattutto nelle diocesi e nelle parrocchie, uno sviluppo rapido e pressoché illimitato.
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