[vc_row css=".vc_custom_1470767044080{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470767053433{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1470909287488{padding-bottom: 15px !important;}"]Gli antichi e i moderni, giganti e nani, una storia infinita[/vc_column_text][vc_separator css=".vc_custom_1470767563136{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Giuseppe Baiocchi del 24/06/2016[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1470934612100{padding-top: 15px !important;}" el_class="titolos6"]Così come noi lo conosciamo oggi, il medioevo è un epoca lunghissima disseminata di molteplici eventi. Il medioevo delle invasioni barbariche non è simile al medioevo della Firenze di Dante, non vi può essere confronto, ma il rischio di morire di peste, che ci fosse una guerra devastatrice, soprusi e abusi, ingiustizie, morire giovani e molto altro: tutto ciò era certamente vero al tempo di Giulio Cesare, di Pericle, nel medioevo, nel Re sole, nei Savoia e fino ad oggi, come si evince dal contesto ucraino, o nel medio oriente.

[vc_row][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1470838954100{padding-bottom: 15px !important;}"]John Ruskin: una lampada per la conservazione della memoria[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Giuseppe Baiocchi del 17/07/2016[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1470839441456{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
John Ruskin non è storico dell’arte, poeta, economista, scrittore, naturalista, architetto, ecologo, filosofo, sociologo, economista, ma forse una loro fusione, poiché riuscì nel lontano 1848 a comprendere le autentiche motivazioni culturali e sociali della conservazione del patrimonio architettonico a vantaggio della vita umana enunciando una vera e propria idea di culto per le rovine romantiche. Il londinese Ruskin, di ricca famiglia borghese, trascorre una infanzia ovattata dalle cure materne che lo renderanno geniale nelle intuizioni ma anche dubbioso e spesso depresso.

[vc_row][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1470839251401{padding-bottom: 15px !important;}"]I paesaggi e i percorsi di Dimitris Pikionis[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Giuseppe Baiocchi del 16/07/2016[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1470839392661{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Per noi, che stiamo vivendo dentro gli effetti di un processo di globalizzazione più complesso e contraddittorio di quanto ci si sarebbe potuto aspettare, il tema che questo architetto porta con se è di particolare interesse.
Dimitris Pikionis (1887/1968) opera e indaga il fenomeno urbano nelle sue più profonde dinamiche, in anni in cui si afferma il primato della sociologia, del funzionalismo e della standardizzazione. Per questo è inizialmente considerato anacronistico.

[vc_row][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1470863047533{padding-bottom: 15px !important;}"]Arnold Gehlen. La tecnica come fonte del riscatto umano[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text]di Danilo Serra del 15/07/2016[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1470931787326{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Il “progetto antropologico elementare” su cui ha lavorato Arnold Gehlen fin dal 1935 vuole riflettere non solo sulle differenze biologico/adattive che intercorrono tra l’uomo e l’animale ma, a partire da esse, condurci verso ciò che identifica la specie umana e che dona forma al suo abitare il mondo. Il tema dell’azione umana sul mondo naturale diviene così la chiave di volta per comprendere il compito dell’uomo ed il suo esserci.
Der Mensch , pubblicato nel 1940, è stato il testo su cui Gehlen ha fondato la propria antropologia filosofica, interpretando l’uomo come “progetto particolare” della natura. Egli rappresenta un “essere manchevole” (Mängelwesen), carente sotto l’aspetto morfologico di organi specializzati propri della specie e monco di quegli istinti naturali presenti invece in tutti gli altri animali. La naturale carenza umana, tesi già sviluppata dall’antropologia di Johann Gottfried Herder , spinge l’uomo a ricercare nuove alternative che possano consentirgli di reagire in modo sempre diverso e adeguato alle situazioni circostanti. Gehlen, definendo l’uomo come “progetto complessivo della natura”, tende a designare un essere unico nel suo genere, occupante un posto particolare nel mondo, diverso da tutti gli altri viventi, in grado di adattarsi ovunque e, per tale ragione, riprendendo Max Scheler, “aperto al mondo” (Weltoffen).

[vc_row][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1470909661526{padding-bottom: 15px !important;}"]La Turchia: dalla caduta dell’Impero ottomano a Erdoğan (2)[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text]di Gabriele Rèpaci del 13/07/2016[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1471599775951{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Il kemalismo è un fenomeno storicamente legittimo, e la sua legittimità è data dalla volontà annientatrice delle potenze occidentali dopo il 1918, che intendevano dissolvere oltre al’Impero ottomano anche la nazione turca.
È bene che questa ammissione venga fatta, prima di condannare (per altro giustamente) le modalità dispotiche con cui il kemalismo fu realizzato.
La violenza kemalista fu all’inizio una violenza difensiva contro una violenza maggiore, il banditismo spartitorio delle potenze vincitrici di Versailes e Sèvres.
La modernizzazione dispotica kemalista trova la sua legittimità storica originaria in una situazione di emergenza, di cui sono colpevoli al 100% le potenze occidentali vincitrici (Inghilterra, Francia, Italia, eccetera), cioè per l’appunto i peggiori fra i due contendenti della Prima Guerra Mondiale.

[vc_row css=".vc_custom_1470767044080{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470767053433{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1470909988240{padding-bottom: 15px !important;}"]La Turchia: dalla caduta dell’Impero ottomano a Erdoğan (1)[/vc_column_text][vc_separator css=".vc_custom_1470767563136{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Gabriele Rèpaci del 12/07/2016[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1470934676859{padding-top: 15px !important;}" el_class="titolos6"]Il breve saggio che segue si propone di analizzare - senza pretesa di completezza né esaustività - come la dissoluzione dello spazio politico e culturale dell’Impero ottomano debba essere conosciuta e correttamente valutata per comprendere una serie di fenomeni storico-politici novecenteschi. In particolare la storia della Turchia moderna è una miniera di insegnamenti per comprendere molti degli avvenimenti che ci coinvolgono in prima persona. La storia dell’Impero Ottomano, dopo la presa di Costantinopoli, può essere divisa in tre periodi: espansionistico, fino alla morte di Solimano il Magnifico, nel 1566; di equilibrio, fino al fallimento della seconda spedizione contro Vienna, nel 1683; di decadenza, dal 1683 alla deposizione dell’ultimo Sultano Mehmet VI, nel 1922.

[vc_row][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1470863297082{padding-bottom: 15px !important;}"]L’apertura al mondo: un concetto umano. Tra Scheler e Plessner[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text]di Danilo Serra del 11/07/2016[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1470864624145{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Il concetto di “apertura al mondo” è un concetto derivato dal pensiero di Max Scheler, il quale, in un’opera conosciuta in italiano con il titolo La posizione dell’uomo nel cosmo, risponde alla domanda riguardante l’essere dell’uomo (Che cos’è l’uomo?) affermando: [egli è] «un essere spirituale non più legato alla tendenza e all’ambiente, ne è libero, e perciò aperto al mondo» .

[vc_row css=".vc_custom_1470767044080{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470767053433{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1470840065671{padding-bottom: 15px !important;}"]Pensiero, tecnica, linguaggio: speranze dell’architettura post-moderna[/vc_column_text][vc_separator css=".vc_custom_1470767563136{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Giuseppe Baiocchi del 10/07/2016[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1470934122185{padding-top: 15px !important;}" el_class="titolos6"]

Da una esclamazione del grande Louis Kahn si può capire o per lo meno percepire l’essenza della professione di architetto: “La cosa fondamentale dell'architetto non è rispondere alle domande, ma farsi delle domande” e di conseguenza per capirla appieno dobbiamo immergerci nella sua profondità.

[vc_row][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1470951112658{padding-bottom: 15px !important;}"]Montanelli, la prosa della provocazione[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Davide Bartoccini del 10/06/2016[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1471001797873{padding-top: 45px !important;}" el_class="titolos6"]
Ci sono uomini che, per carisma e fortuna, per puntualità e coraggio, segnano con le proprie vite i loro tempi; e vi sopravvivo in eterno, nella memoria dei posteri e dei posteri che verranno.
È questo il caso di Indro Montanelli, il principe del giornalismo italiano, che per destino o per condanna - proprio lui amava dipingersi come "un condannato al giornalismo", poiché, "non avrebbe saputo fare niente altro" - ci ha raccontato attraverso la sua penna quel mondo così indaffarato nei suoi più imponenti cambiamenti.
Dalle cariche al comando degli àscari nei deserti dell'Abissinia, alla resistenza nel rigido inverno finlandese passato sotto le bombe dell'Armata rossa, dagli amori ampezzani con la principessa Maria Josè, alla condanna a morte per diretto volere delle SS; Montanelli, nato allo scadere della prima decade del XX secolo, si spense nell'estate del primo anno del nostro avveniristico XXI secolo.
Egli è stato testimone invidiabile e narratore puntuale di quel '900: così pieno di conflitti e di cambiamenti, così colmo di ideologie e divisioni, che tutti noi abbiamo studiato nei libri di storia, e che lui, sempre in prima linea, ha abitato con indomabile passione.

[vc_row][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1470930565733{padding-bottom: 15px !important;}"]Per non dimenticare Adua[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Giuseppe Baiocchi del 10/07/2016[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1479406725561{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
"Si dice che gli italiani non sanno mai quello che vogliono, ma su certi punti sono irremovibili: vogliono la grandezza senza spese, l'economia senza sacrifici e le guerre senza morti. Il disegno è stupendo, forse è difficile da effettuare."
Con la frase di Ferdinando Martini vorrei iniziare a parlare della più grande sconfitta coloniale non italiana, ma Europea, una disfatta che spesso nelle scuole non si insegna per mancanza di tempo, di passione, di attenzione verso un evento che, più della disfatta della 2°guerra mondiale, ci segna profondamente e ci dà un insegnamento inequivocabile. Sto parlando della Battaglia di Adua del 1 Marzo 1896.
Dopo secoli di dominio straniero, l’Italia appena unificata (1861) povera, travagliata da scioperi e repressioni poliziesche, decise di rivaleggiare con le altre potenze Europee nella spartizione dell’Africa.
Nel XIX secolo, tutto il continente nero era stato spartito tra inglesi, francesi, portoghesi, turchi, tranne l’area dell'attuale Etiopia ed Eritrea in Africa orientale, ed è proprio qui che gli italiani giocarono la loro carta colonialista.
Il colonialismo italiano si identifica in Francesco Crispi, l'unico vero grande statista della storia di questo paese, l’unico uomo che pensava in grande, che aveva un concetto dello stato "europeo" e non solo "italiano". Un uomo del Risorgimento.
Siamo soliti ricordarlo per i suoi meriti, ma Crispi aveva anche un'altra faccia: quella del primo ministro autoritario, invischiato in scandali bancari e affari illeciti.
Da un discorso del parlamento di Andrea Costa: “Crispi non è per niente un rappresentante della borghesia, bensì di quella razza di avventurieri i quali per sbarcare il lunario si appigliarono alla vita politica e presero a trescare con le banche, è rappresentante cioè di una schiuma sociale”.
I grandi colonialisti italiani erano stati garibaldini: appartenevano alla sinistra radicale dell’epoca, convinta di andare in Africa per finire il lavoro che il risorgimento aveva iniziato. L'idea del tempo consisteva nell'utopia di aver liberato gli "altri italiani" in Italia, l'opera doveva proseguire con la liberazione degli altri "popoli Europei" e infine con la "vera libertà" concessa ai “negri”.
Siamo negli anni ottanta del XIX secolo, mentre il paese organizza i primi tentativi di penetrazione (1885) nella costa dell’attuale Eritrea, in tutta l’area avveniva uno straordinario fenomeno di unificazione guidato dall’imperatore Yohannes IV. Gli Etiopi erano faticosamente riusciti a preservare unità ed indipendenza difendendosi sia dai dervisci islamici, sia dagli inglesi che dai riottosi signorotti locali sempre pronti a contendersi il potere.
L’Italia dunque, inconsapevolmente, andava a “cozzare” contro l’unico stato organizzato che esisteva in tutto il continente nero. L’Etiopia era un paese indipendente, con dei francobolli, con una moneta, l’unico stato africano con un esercito regolare, una propria tradizione nazionale e una religione a cui era legata strettamente la fede popolare. Aveva una dinastia che risaliva addirittura ai tempi di Salomone. La regina di Saba era più antica dei nostri Savoia. Ci scontrammo con l’unico vero gigante dell’ Africa. La coraggiosa Italia di Crispi si inserì proprio qui, persuasa di dovere riportare gli ideali garibaldini di libertà e progresso, guadagnandosi solo una meritata fama di crudeltà. Davanti ai segni di leggera rivolta, gli italiani usarono maniere repressive e crearono, in una delle isole davanti a Massaua, il penitenziario di Nocra, dove i carcerati venivano impiegati per spaccare pietre, le quali erano successivamente imbarcate per essere impiegate nei lavori pubblici. Era una colonia diretta da pochi funzionari e da molti militari: quando si trattava di dare delle lezioni, si eseguivano nella maniera più violenta.
Dopo i primi sbarchi ad Assab e Massaua ci si rese conto della povertà della costa rispetto all’interno e si tentò di guadagnare il fertile altopiano. Immediatamente l’imperatore Yohannes rispose inviando il proprio vassallo Ras Alula: efficiente amministratore e non solo. Quello che gli italiani ignoravano (la leggerezza di non conoscere l’avversario) era che Alula era anche un capo militare di primissimo ordine. Al primo scontro a Dongali (1887), l’Italia subì una sconfitta violenta, totale. La colonna che stava portando dei rifornimenti venne bloccata dal capo militare Etiope e sterminata.
All’epoca si disponeva di un “arma segreta” la famosa mitragliatrice, ma neppure questa arma moderna, si riuscì ad usare in maniera efficace.
La disfatta di Dogali del 1887 umiliò profondamente il giovane stato unitario, il quale, invece di riflettere sulle ragioni della sconfitta, rinforzò immediatamente la colonia.
[caption id="attachment_2500" align="aligncenter" width="1100"] Ascari - Mitraglieri dello squadrone Penne di falco, armati mitragliatrici Fiat-Revelli[/caption]
Nel 1889 Yohannes IV, intanto, era andato a fronteggiare un’altra minaccia: dal vicino Sudan, i dervisci avevano attaccato l’Etiopia. Nella battaglia di Metemma dell’undici marzo del 1889, morì l’imperatore Yohannes IV lasciando un pericoloso vuoto di potere. Si fece avanti Menelik Re dello Shoah, uomo ambizioso e di notevole scaltrezza politica che aveva ottenuto dagli italiani ingenti quantità di oro, fucili e munizioni. Aiutandolo a prendere il potere, gli italiani avevano creduto di garantirsi in Etiopia un debole e remissivo Re fantoccio. Questo fu il nostro più grande errore.
[caption id="attachment_2501" align="aligncenter" width="1100"] Yohannes IV (a sinistra) e Menelik II (a destra)[/caption]
Menelik riuscì, grazie ad abili mosse politiche, ad allargare i suoi confini fino a quella regione che sarà poi conosciuta come Somalia Italiana.
Con la mediazione del Conte Antonelli, ambasciatore italiano presso Menelik, venne stilato un trattato tra il futuro imperatore e il regno d’Italia: un patto che avrebbe dovuto sancire il protettorato italiano sull’Etiopia. Le cose non andarono come previsto.
Il grande imbroglio etiopico (che poi porterà ad Adua) avrà un nome e un cognome: quello del Conte Antonelli, dilettante con poco talento.
Menelik fu più astuto di Antonelli e stando al gioco fino a convenienza finita: fece si che gli italiani gli fornissero i mezzi, le armi, l’appoggio politico per diventare imperatore, firmando il famoso trattato detto “degli uccialli”. Redatto come doppio testo (con interpretazioni chiaramente diverse a seconda della traduzione) si presentò in versione etiopica - corretta - e in versione italiana, non corretta. In particolare dovremmo prestare attenzione all’articolo 17.
Nel testo amaro che Antonelli - nella sua criminale passione per l’improvvisazione - non lesse, è scritto che il Negus aveva la facoltà di utilizzare l’Italia nei suoi rapporti internazionali, ma non aveva l’obbligo. La grande costruzione del protettorato italiano in realtà finì per dissolversi.
Quando Menelik si sentì abbastanza forte per fare a meno degli italiani tirò fuori il testo vero, l’unico da lui riconosciuto. L'ambasciatore italiano dopo aver accusato di "truffa" l'imperatore è costretto a riparare in patria. Questo fu il momento in cui iniziò la prima guerra etiopica italiana.
Come risposta al grande imbroglio etiopico si cercò l’alleanza di Ras Alula e di Yohannes Mangascià, notoriamente contrari a Menelik ma alcuni settori della politica italiana si opposero e fecero propendere per una risposta di tipo prettamente militare. I due militari etiopi sentendosi traditi, passarono dalla parte dell’imperatore.
Prese dunque il comando nel 1892, dando buona prova di sé nelle guerre risorgimentali, un altro garibaldino: Oreste Baratieri.
Uomo dei salotti romani che fece carriera nel sottobosco della politica, detestato dagli altri generali che lo consideravano a un “garibaldino venuto su dalla gavetta senza scuola militare”, che non conosceva l’ABC della guerra ed era “ammalato” di uno dei difetti che in quegli anni attanagliavano il nostro esercito, il garibaldinismo: ovvero la concezione che la preparazione di una campagna militare sia qualcosa di assolutamente inutile e l'utilizzo dell'arma bianca e del coraggio sia la vera arma per vincere.
[caption id="attachment_2503" align="aligncenter" width="1600"] Da sinistra a destra: Francesco Crispi, Oreste Baratieri, Antonio Baldassarri, Vittorio Dabormida, Giuseppe Ellena, Giuseppe Arimondi[/caption]
Baratieri organizzò una serie di incursioni militari in Etiopia che lo portarono nel Marzo 1895 ad entrare nella città di Adua, ma il governatore dovette ripiegare subito: in Italia erano tempi di elezioni e si paventavano tagli alle spese militari. Messo alle strette Baratieri tornò a Roma e ottenne di conservare le truppe minacciando le proprie dimissioni. Nel frattempo Menelik era passato all’offensiva e a seguito delle vittorie dell’Amba Alagi e di Makalle, l’imperatore di Etiopia si trovò in grado di minacciare direttamente Massaua. Correva l’anno 1896
 
L’Africa traumaticamente ritornò in cima ai pensieri di un'Italia quanto mai discorde, povera, sconvolta da scioperi ed autoritarismo. Crispi per riguadagnare consenso in patria decise di giocare la carta della vittoria africana, ma questo suo progetto non prevedeva più l’amico Baratieri, che fu sostituito dal generale Antonio Giovanni Baldissera.
Anche questa sostituzione venne fatta, come dicono i francesi, “all’italiana”: Crispi avendo paura che Baratieri, messo di fronte al licenziamento, compia un atto di follia decidendo di dare battaglia a tutti i costi, tiene nascosto l’avvicendamento spedendo Baldissera (travestito da civile sotto falso nome) a Massaua. Baratieri (non si ha la certezza) seppe in anticipo di essere sostituito e decise (probabilmente per questo) di giocarsi il tutto per tutto, trascinando 15000 uomini verso il disastro.
I calcoli fatti sul contingente nemico sia da Crispi, come da Baratieri erano sui 70000/80000 uomini etiopi da combattere, invece ad Adua Menelik arriva con 200.000 uomini, in battaglia ne ha portati solo 120.000 o 150.000, ma altri erano nei dintorni a saccheggiare tutti i villaggi per provvedere a sostentare un esercito di quelle dimensioni.
Con questa imponente massa di uomini, Menelik mosse verso la colonia italiana mentre sul fronte opposto, Baratieri arretrò per oltre 200 km nell’aspra regione del Tigrè, una zona difficile e insicura dove le linee di rifornimento italiane stentavano ad arrivare logorando l’esercito prima della battaglia.
Il problema, come sempre nelle guerre italiane, era per noi costituito dai così detti rifornimenti: Baratieri ad Adua per arrivare alle fonti di approvvigionamento doveva percorrere almeno 200 km, la ferrovia si fermava ad Asmara non prevedendo un avanzamento almeno fino al confine del Mareb. Tutto quello che arrivava, giugeva con i mezzi dell’epoca "a dorso di mulo". Con una linea così lunga e poco tranquilla. Arriveranno delle scarpe invernali quando i soldati avranno bisogno di scarponcini leggeri d’assalto, costringendo i soldati a procurarsi e costruirsi artigianalmente delle ciocie, dei sandali in pelle d’animale. Spesso il soldato poteva inoltre contare solo sui medicinali che era riuscito a portare dalla madre patria a livello privato.
Altro grave errore degli italiani fu la scelta del fucile: si utilizzò l’antiquato Vetterli del 1870, al posto del modernissimo fucile mod.1891. Le reclute, paradossalmente, conoscevano molto bene quest’ultimo modello - che aveva il serbatoio per inserire il caricatore a pacchetto, ed era un fucile che aveva caratteristiche balistiche profondamente migliorate, sparando pallottole con un calibro molto inferiore al 1870: polveri in fumi, tiro radente a 700 m di distanza, cosa che l’antico Vetterli non poteva assolutamente fare - ma non poterono sfruttarlo.
Quando partì il regio esercito per l’Africa, i soldati consegnarono il mod.1891 per avere in cambio il fucile Vetterli 1870.
Ovviamente il Vetterli risorgimentale fu modificato leggermente dalle guerre risorgimentali: venne aggiunto un caricatore metallico che permetteva di sparare più colpi, ma la balistica rimase immutata.
La ragione di questa scelta risiedeva nell' incapacità di gestire due tipi diversi di munizioni per due modelli diversi di fucile, ritornando al problema dei rifornimenti.
Alcune nazioni europee che ci detestavano, e tra queste la Francia, avevano provveduto ad armare le truppe del Negus e paradossalmente questi soldati finirono con il combattere, invece che con le loro “zagaglie”, addirittura con fucili più moderni degli italiani. Possedevano i Rolling block o i Gras Mle 1874 e infine anche i Winchester, che portavano con l’armamento più tradizionale. Armamento a parte, gli italiani avevano scarsa cognizione sia del territorio sia del popolo che stavano invadendo.
Le mappe possedute dal comando italiano erano carte pubblicitarie (con l’Abissinia che si confondeva con il Tigrè) e il comando italiano ignorava totalmente l’armamento del nemico considerandolo primitivo.
Da un discorso del parlamentare Robilant: “non conviene certamente dare tanta importanza a quattro predoni che siano tra i piedi in africa, e voi e i vostri mille, emuli di Marsala, mostrate a quei barbari che l’Italia è veramente civile. Lo scopo del governo è uno solo mostrare anche ai barbari la forza e la potenza d’Italia, i barbari non sentano anche solo la forza del cannone”. L’unica civiltà era ancora quella Europea, non esisteva niente altro e questo lo pensavano tutti, anche i filosofi dell’epoca.
La campagna militare italiana, nasceva così sotto pessimi auspici:
_un generale già licenziato che tentava l’azzardo dello scontro campale
_preparazione frettolosa
_le incalzanti pressioni del governo Crispi per ottenere una veloce quanto impossibile vittoria
_pessima conoscenza del territorio nemico e la convinzione razzista di avere a che fare con un avversario poco temibile per quanto numeroso
Dunque, 15000 italiani contro 100000 etiopi (anche un dilettante capisce che per delle semplici proporzioni numeriche è impossibile vincere) e il regio esercito coloniale, si scaglia diretto verso la morte.
I nemici sono così vicinissimi: Baratieri chiama a sé i generali Albertone, Dabormida, Arimondi, Ellena e chiede loro se attaccare oppure no, ma tutti sono per dare battaglia. Come disse Dabormina: “gli buttiamo due cannonate ed è fatta”. Ora le cannonate vengono sparate, ma anche dall’altra parte.
Così un esercito composto quasi interamente da italiani in quello sciagurato 1 marzo 1896 si mise in marcia tra le difficili montagne di Adua cercando lo scontro con le schiere di Menelik. Il piano prevedeva l’avanzamento parallelo delle tre brigate di Dabormida, Arimondi ed Ellena precedute dagli Ascari di Albertone, il quale avrebbe dovuto impattare per primo il nemico, dando al grosso dell’esercito il tempo di unirsi e sferrare l’attacco, ma fra fraintendimenti ed errori le cose andarono diversamente.
Si partì nella notte con delle carte molto approssimative e pur essendo inferiori si riuscì persino a compiere l'errore di combattere separati.
Le truppe indigene con il battaglione Ascari che erano sotto il comando di Albertone viaggiavano due volte più veloci degli italiani, per cui la colonna guadagnò un vantaggio enorme sulle truppe italiane, che invece erano lentissime, e il generale Albertone avanzò troppo in profondità e fu fagocitato dai nemici.
[caption id="attachment_2507" align="aligncenter" width="1100"] Disfatta di Adua[/caption]
Ci sono due località che hanno nomi simili e l’errore di Albertone fu quello di sbagliare il punto di attesa (dove doveva consolidare la posizione) andando oltre, per qualche chilometro, incuneandosi nell’esercito etiopico che intanto si era schierato su due fianchi.
Un altro dei generali, il Conte Dabormida sbagliò totalmente strada allontanandosi dal contingente militare; causa dell’errore fu la propria miopia ed il timore di sfigurare davanti ai propri uomini. Gli fu consegnato il piano di guerra e non riuscendo a vedere cosa c’era scritto nel foglio di comando (una ufficiale nell'eventualità avrebbe chiamato l'aiutante di campo e gli avrebbe chiesto di leggerlo) fece finta di aver capito cosa vi era scritto e invece di piegare a sinistra piegò a destra.
Menelik affrontò quindi le brigate italiane una alla volta e all’alba, accortosi che Albertone era già prigioniero e Dabormida si era perso, sfoderò l’arma della Cavalleria Galla, non molto amata (pochi fucili, spade o lance) ma che lanciata contro formazioni compatte, come quella Europea, creava all'epoca molto scompiglio. I generali davanti a queste cariche cominciarono ad arretrare e quando anche Ellena si ritirò, fu la fine.
Il bilancio fu di 5500 italiani caduti, 1000 Ascari Eritrei, migliaia i feriti, tra cui molti indigeni italiani a cui vennero mozzati la mano destra e il piede sinistro; infine furono fatti 2000 prigionieri che l’Italia dovette riscattare per l’incalcolabile cifra di 10.000.000 di lire in oro di allora. Come sempre nella storia italiana, ci fu ben poca comprensione per gli sconfitti.
I prigionieri italiani di Adua che furono poi “comprati” a peso d’oro dal Re d’Italia molto tempo dopo la battaglia, vennero fatti sbarcare a Napoli di notte perché la gente non li vedesse, incappucciati con uniformi prese a casaccio (pantaloni dei granatieri e la giubba del genio) e spediti a casa con una piccola somma, affinchè tacessero, non si facessero vedere. Allora ecco, la mancanza dell’identità nazionale, il senso dell’essere una comunità. Nella sola battaglia di Adua morirono più italiani che in tutte e tre le guerre di indipendenza. Con essi morì anche il primo tentativo dell’Italia unita di diventare una potenza coloniale.
Con Adua si concluse un' epoca. La sconfitta di Adua provocò in Italia un abbozzo di rivoluzione, ci furono dei moti popolari che furono repressi, dovettero caricare le folle di Pavia, Napoli e altre città italiane di provincia e non. La gente andava in piazza gridando “viva Menelik” : segno di quanto l’unità nazionale fosse ancora debole, di quanto il popolo e la classe dirigente fossero assolutamente separate. Rimase solo una questione in sospeso: trovare i colpevoli.
Il primo a pagare fu il governo Crispi con il Re Umberto I che chiese al primo ministro le dimissioni (nel giro di due/tre giorni).
La grande sfortuna di Baratieri fu quella di non morire e questo evento lo consegnò alla corte marziale. Qui siamo nel pieno dello “stile italiano” con la caccia al colpevole. Baratieri al processo tacque sulla responsabilità dei politici che lo costrinsero a combattere ad Adua. Non venne assolto ma nemmeno fucilato: radiato dalla storia nazionale, diventò il vinto per eccellenza. I grandi processi italiani finiscono sempre con un mezzo colpevole, mai con un colpevole definito (si guardi Andreotti, Craxi e molti altri). Baratieri dunque fu un “mezzo colpevole” e per qualche anno l’Italia pensò ad altro.
Adua chiuderà il risorgimento, l’italiano diventerà rancoroso, si sentirà sconfitto, si sentirà il parente povero degli altri europei, colui che deve comunque, sempre, dimostrar qualcosa.
Adua fece morire una classe politica, dell’impolitica, quella che aveva creato l’Italia nello stato nazionale: arrivò in politica gente nuova, diversa, che non aveva fatto le guerre risorgimentali, che non aveva le medaglie garibaldine..tra questi personaggi comopare Giolitti (un funzionario piemontese che non ha mai combattuto nessuna battaglia del risorgimento) e si insedia un nuovo Re, perché Umberto I pagò per Adua (anche per gli scandali della Banca romana), venendo ammazzato il 29 luglio 1900 per mano dell' anarchico Gaetano Bresci. Nasce un’altra Italia.
Oggi è trascorso più di un secolo dalla battaglia di Adua e mentre in Africa ancora si celebra la vittoria come esempio di riscatto continentale, in Italia quasi se ne è persa la memoria, fatto curioso per un evento capace di spazzare via il risorgimento, capace di spingere l’Italia di Mussolini a cercarne la vendetta ancora quaranta anni dopo.
Ma è ancora sepolto quel periodo della nostra storia? E cosa rimane di Adua oggi?
Sono rimasti sostanzialmente i difetti che la determinarono: l’impronta di questa approssimazione nazionale è sempre la stessa. L’Italia è un paese che non ha mai avuto, salvo brevissimi periodi come quello fascista, una politica estera (si guardi oggi al governi Monti/Letta/Renzi – dove si deve chiedere permessi o adeguarsi). Noi continuiamo a considerare l’Italia l’epicentro dell’universo e ahimè non lo siamo mai stati (ometteremo la grandezza che fu del lungo Impero romano) continuiamo a pensare che il movimento del mondo si organizzi intorno ai nostri talenti (non a caso vi sono questi beceri Talent Show) ammesso che ve ne siano.
Rimane in noi l’Idea che possiamo essere amici di tutti: amici di Gheddafi e di Obama contemporaneamente, dei Palestinesi e di Israele, che di fronte al nostro charme, alla nostra presunta capacità di arrangiarci, il mondo intero si inchini, come difronte “all’invenzione di Pulcinella” e questa è una cosa che purtroppo non è mai cambiata: la capacità di capire che il nostro ruolo in questo momento è totalmente secondario, nell’economia della politica mondiale.
Concludendo, riprenderei la frase iniziale di Ferdinando Martini che nei luoghi pubblici italiani, invece di mettere pompose frasi tratte dalla costituzione, calzerebbe a pennello e che ahimè, è un ritratto dei piccoli difetti nazionali ed è eterno.
 
Per approfondimenti:
_Ferdinando Martini, Nell'Africa italiana, Milano, Treves, 1891
_Angelo Del Boca, Adua – le ragioni di una sconfitta, Laterza 1998
 
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