[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1472303125474{padding-bottom: 15px !important;}"]Intravedere l’essenza dell’uomo dell’essere in relazione[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Federico Nicolaci del 28/08/2016[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1472417375328{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Non è facile rispondere a una domanda che chiede cosa sia l’essenza dell’uomo. Dobbiamo anzitutto cercare di capire che non è possibile pensare uomo ed essere come due cose separate, da una parte l’essere come una specie di oggetto, dall’altra l’uomo come qualcosa di isolato, come un essere animato a sé stante. È il loro essere insieme, il loro essere consegnati l’uno all'altro nel modo più radicale ad essere fondamentale per intravvedere l’essenza dell’uomo nell’essere in relazione. Ad esempio, l’uomo è aperto all’altro nel dialogo, ma solo perché è originariamente aperto a quell’Altro da sé che è il divino, e cioè solo perché egli stesso è essenzialmente dialogo.
[caption id="" align="aligncenter" width="1000"] Lawrence Alma-Tadema, Under the Roof of Blue Ionian Weather (1903)[/caption]

Chiedi cosa sia il divino. Il divino è tutto ciò che ti circonda, è tutto ciò che è già davanti a te, che ti precede e ti sorprende. L’uomo è certamente quell’ente che è aperto all’ente nel suo insieme: ma come è possibile questa apertura dell’uomo al mondo? Per mondo s’intende qui non la terra o un pianeta, ma la Physis (Φύσις), la natura: ciò che sorge da sé, ciò che è l’eterno sorgere, il divenire da sé: ciò che mai tramonta. Non è un caso che la radice di physis risuoni in fui e futurum: ciò che era e ciò che sarà. Il movimento della Physis è lo stesso movimento in cui consiste il dispiegarsi dell’Assoluto, del Principio, in greco dell’Arché. E cos’è il Principio? Un abisso, proprio perché ciò che sempre era e sempre sarà (Physis). Un abisso che si lascia intuire, si lascia ‘vedere’ senza tuttavia lasciarsi mai comprendere, rinchiudere nel nostro concepire, nel nostro concetto: si lascia ‘vedere’ perché appunto in questo momento noi lo stiamo pensando, è obiectum mentis. Ma non si lascia mai de-finire, cioè racchiudere in un concetto che lo esaurisca. Possiamo dire qualcosa di più? Forse sì: Arché è Principio non solo e non tanto nel senso cronologico di ciò che sta all’inizio, come per esempio nella parola “archeologia”: lo studio di ciò che è prima, di ciò che è remoto. L’Arché è il Principio nel senso, ben più radicale, di ciò che comanda, di ciò che domina: l’arché era infatti anche il generale, il capo dell’esercito. Quando infatti diciamo “anarchia” facciamo riferimento all’assenza di potere, poiché manca l’Archè, nel senso di ciò che comanda, domina, di ciò che è principio perché sovrintende in senso essenziale allo sviluppo di tutto ciò che si sviluppa.
Il punto decisivo, la vera maturazione di un giovane uomo, sta nell’arrivare a comprendere come tutto non sia che un unico sviluppo, come tutto sia uno. Platone ed altri filosofi parlavano dell’uno (non a caso dell’uno, e non del duo o del tre) perché avevano capito che tutto ciò che è, è Uno (uni-verso!): per capirci, qualsiasi scoperta in campo astronomico, vuoi anche la scoperta di un universo parallelo, non sconvolgerebbe nulla, l’universo rimane uno, poiché si tratterebbe semplicemente di un’altra dimensione in un unico universo. Dall’Uno, dall’unità del tutto, non si esce, perché l’altro è altro solo in quanto, in realtà, non è affatto altro dall’Uno, ma è solo un altro uno – e cioè voce, espressione dell’Uno a cui appartiene.
In un senso più profondo, che tutto sia Uno significa che anche noi siamo parte di questo Uno. Anzitutto, noi siamo interni a questo sviluppo: non siamo stati infatti calati nel mondo come un attore sul palcoscenico, come invece una certa interpretazione del Cristianesimo (fondata su una certa interpretazione dell’ebraismo) ha portato a pensare. Così la cosa sembrerebbe prefigurare un rapporto a tre: ci sarebbe Dio, l’uomo e poi natura. È l’idea che prima ci sarebbe Dio che crea la natura e successivamente l’uomo, che viene calato nel Giardino. È in fondo l’idea da cui anche noi oggi spesso prendiamo le mosse: l’idea per cui da una parte c’è l’uomo e dall’altra c’è la natura. Invece non è così! L’uomo non è altro dalla natura, nel senso che non è altro che una espressione, una manifestazione sublime e straordinaria (“deinotaton”, terribile e meravigliosa) della natura. Come diceva Sofocle nella tragedia Antigone: “molto vi è di inquietante, nulla tuttavia si erge più inquietante dell’uomo”.
Ma cosa significa che siamo espressione della Physis, e perché ciò sarebbe in qualche modo inquietante? Perché a rendersi conto, a vedere che in realtà siamo parte ed espressione della natura è proprio quell’ente (l’uomo) che è una fioritura della natura: l’abisso che così si apre è inquietante perché misterioso. Senza dubbio la natura ha in sé il logos (la parola e la coscienza) come sua determinazione più alta e qui entrano in gioco problemi enormi. Arrivati al momento di intuire di essere parte di un’unica cosa (di un unico Essere Vivente che l’uomo ha variamente indicato come Uno, Physis, Dio etc.), è come se il Principio, la “natura” entrasse in rapporto con sé.
Se l’uomo è Physis ed è al contempo aperto sulla Physis, significa che questa si apre su se stessa, che la natura vede se stessa, il proprio abisso: ma ciò significa che l’assoluto si è dovuto scindere in sé, si è ritmato in sé, si è mediato. Che cosa ne discende? L’assoluto si mostra in questo modo non come qualcosa di immediato, ma come qualcosa che è andato oltre la propria muta immediatezza, si è mediato in sé ‘creando’ in sé un altro da sé – l’uomo - in cui si specchia e si sa. Ovvero l’assoluto è autocoscienza, ha coscienza di sé, diventa consapevole di sé. L’uomo, che lo sappia o no, in quanto è essenzialmente aperto al mondo (alla dimensione che ci sovrasta, ci domina e alla quale siamo consegnati) è momento essenziale dell’autocoscienza dell’assoluto (dell’Uno).
In qualsiasi istante della nostra esistenza, in qualsiasi luogo, noi e-sistiamo: siamo aperti al mondo. Tutti gli uomini hanno una distanza tra sé e il mondo (infatti ci sentiamo “altro” dal mondo), sentiamo uno scarto tra la natura e ciò ci è dato dalla riflessione: l’animale vede, si muove, corre dietro gli istinti; l’uomo, invece, sa di sentire, vede il suo vedere, sente il tuo sentire e questa è la coscienza; ed è questo che produce il distacco. Ma questo distacco deve essere anche sanato, deve essere riportato sotto l’abbraccio infinito dell’Uno, a cui la coscienza dell’uomo appartiene. L’uomo sa che esiste e ha davanti a sé l’oggetto che sta vedendo entrando in relazione con esso, l’animale no. Ma l’oggetto che gli appare fuori come altro da sé deve essere compreso in modo più profondo.
Infatti la coscienza di sentire e vedere è la coscienza naturale, quella che tutti abbiamo senza sforzo, perché è immediata: ma questa autocoscienza non è il punto più alto a cui può giungere l’autocoscienza dell’umano. Stiamo parlano di un’autocoscienza più alta a cui dobbiamo pervenire, che non è il sapere finalmente tutto su noi stessi, è bene chiarirlo subito! Per quanti sforzi infatti noi facciamo e per quanto cerchiamo di conoscere noi stessi, siamo destinare a rimanere un abisso per noi stessi, così come abisso rimane per noi l’altro, perfino la persona amata, che pure crediamo illusoriamente di conoscere molto bene: ma anche la persona amata, per fortuna, è sempre incatturabile, la sua anima non si lascia mai definire ed esaurire nel nostro conoscerla. D’altronde, solo perché l’uomo è abisso (“mai troverai i confini dell’anima”, diceva Eraclito), solo per questo non è mai riducibile a cosa. Possiamo anzi dire che solo perché siamo abisso possiamo davvero dire di essere “a immagine di Dio”: come Dio, anche noi non siamo riducibili a un oggetto determinato e quindi comprensibile. Come non possiamo comprendere (prendere-con) il divino, così non possiamo mai ridurre l’altra persona in nostro potere: ciò che possiamo comprendere è infatti ciò che dominiamo, ciò che per il fatto stesso di esaurire nel nostro sapere riduciamo in nostro potere: comprendere in tedesco si dice Verstehen non a caso, perché comprendere è distruggere lo stare (stehen) autonomo di ciò che ci sta davanti (il prefisso ver porta al limite estremo - all’estremo possibile, l’im-possibile - l’azione, in questo caso lo stare). Ciò che ho tutto risolto nel mio sapere, l’ho anche in pugno.
Chiarito questo, l’autocoscienza “vera” a cui l’uomo è chiamato ad avvicinarsi è una consapevolezza ben diversa dalla prima (naturale) citata sopra. Poiché io posso benissimo – come sempre avviene - vedere di vedere, essere cosciente di sentire etc., e ciononostante non aver affatto raggiunto l’autocoscienza umana, anzi vivere nella forma dell’isolamento e della solitudine: vivere cioè le forme astratte dell’autocoscienza, nelle quali l’uomo non è arrivato alla suprema autocoscienza di sé in quanto, in termini teologici, “figlio di Dio”. Quando in teologia ascoltiamo la formula “figlio di Dio”, a cosa pensiamo?
Il linguaggio metaforico deve essere scavato, disseppellito dalla sabbia che l’ha coperto e ritornare all’idea originale, alla sorgente vivente spirituale da cui quelle parole sono scaturite. Allora la sorgente spirituale di questa idea si rivela la stessa indicata dai greci: “l’uomo è un fiore della natura” di cui è parte, di cui è momento, ma soprattutto “di cui è momento essenziale” perché è il momento in cui la natura vede se stessa.
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Da un punto di vista speculativo, come dicevamo, la Physis si rivela immediatamente non come un “uno” chiuso in sé: il Principio non è un unum-assoluto, come pensa invece l’Islam, ed ecco perché il cristianesimo diventa essenziale per comprendere tutta la nostra cultura. Non si può pensare l’assoluto come un qualcosa di “chiuso in sé” come un “totalmente altro” perché se così fosse innanzi tutto non se ne potrebbe parlare: come si può parlare di qualcosa che è veramente assoluto, cioè senza alcuna mediazione? Non è vero che è assoluto, se già se ne parla. Si è già assolto dalla sua assolutezza. Ma cosa significa ab-solvere l’Uno dall’immediatezza? Significa che l’Uno si fa molteplice e il Cristianesimo (in questo senso) è superiore all’Islam. Non è un caso che Hegel parlasse del Cristianesimo come la religione assoluta, ma su questo tema c’è poco da discutere. Bisogna, invece, pensare a come questa unità sia qualcosa che è scissa in sé: cioè si è mediata, ha creato in sé la coscienza di sé. Se non avesse adempito a questo compito non si potrebbe parlare di assoluto: l’assoluto senza l’autocoscienza non è pensabile. Come potrebbe esserci l’assoluto se non ci fosse nessun punto di vista che lo testimoniasse, che lo “vedesse”? Non sarebbe l’assoluto. Io sono questo punto di vista aperto dall’assoluto sull’assoluto stesso, sono l’essersi totalmente donato dell’assoluto. Per questo poi l’assoluto non è qualcosa che si lasci totalmente comprendere da me: io sono infatti colui che ha ricevuto il dono, non colui che l’ha fatto. Se sono compreso da questa Physis che mi abbraccia, come potrei comprendere ciò da cui io stesso sono compreso? Comprendere è l’idea che io possa stringere in abbraccio (l’assoluto), ma ciò è impossibile: l’assoluto è ciò da cui io stesso sono abbracciato. Tutti i tentativi di riportare al centro la soggettività, spacciandosi per rivoluzionari, dimenticano proprio questo: dimenticano questa relazione in nome della quale non è affatto vero che il soggetto, cioè la coscienza, è il fondamento ultimo dell’essere. Che sia così (che l’uomo sia il fondamento) è certamente falso nella misura in cui tale idea viene assolutizzata, perché per certi versi è anche vero che l’uomo è colui che porta alla presenza l’essere. Ma ciò non può essere vero nel senso per cui l’io sarebbe fondamento ultimo del reale, dal momento che questa stessa coscienza, che in effetti è il fondamento del presentarsi dell’ente, è essa stessa dono che proviene dal Principio, è già espressione della Physis. Qui dovremmo fare un cenno a Kant.
La “Critica della Ragion Pura” di Kant è un momento di svolta: un grande momento di autoriflessione, che però è come camminare lungo un pauroso crinale, dove se si sbaglia a mettere il piede di un solo millimetro si può cadere nel burrone dell’errore: il senso della critica era la famosa rivoluzione copernicana di Kant: attenzione, non esiste l’uomo qui e poi la natura fuori, esiste piuttosto la coscienza e le forme a priori con cui io schematizzo la natura. In precedenza, invece, vi era il mondo e l’uomo che si adeguava ad esso, il famoso rispecchiamento della natura.
Kant prende le distanze da questa linea perché non esiste una divisione fra le parti, è tutto per così dire dal lato della coscienza: la natura non è altro che il prodotto delle mie forme a priori (spazio, tempo, che sono le forme a priori della sensibilità, e le categorie con cui io predico – cioè dico e percepisco - l’ente). Se si osserva un paesaggio, questo non esiste indipendentemente dalla mia “mente”, dalle mie facoltà schematizzanti, ma è nella coscienza il fondamento del suo apparire. Oggi uno scienziato direbbe più o meno lo stesso osservando che i colori sono creati dai “neuroni” dell’uomo e quindi non esiste qualcosa fuori dalla mente: la natura come prodotto delle forme a priori dell’uomo.
Dunque, se la coscienza è il fondamento della natura (dove questa non esiste se non attraverso la coscienza che la schematizza e la rende formalmente visibile), allora l’uomo è il fondamento del reale. Peccato che la questione insoluta e insolubile di Kant fosse come queste forme a priori, con cui l’uomo crede di aver liquidato la questione della natura, siano esse stesse un prodotto della natura. Kant aveva presente che c’era questo abisso: di questa dimensione non ha voluto parlare fino in fondo, perché Kant era più interessato a indicare i limiti del conoscere, ma così facendo questo abisso l’ha indicato in più luoghi della sua opera, soprattutto attraverso l’evocativa e celeberrima espressione della “cosa in sé”. Cos’è la “cosa in sé”? I manuali alla buona di filosofia spiegano: la cosa prima dell’attività schematizzante della mente, la cosa prima di venire fenomenizzata. È una definizione fuorviante e superficiale, che fa perdere di vista la questione fondamentale, una banalizzazione che alimenta la disputa da bar tra nuovi realisti e nuovi idealisti: entrambi non colgono i termini della questione. In realtà Kant, con l’idea di “cosa in sé” voleva indicare come ciò che noi possiamo conoscere sia solo ciò che appare (i fenomeni, appunto): ma i fenomeni stessi fanno segno a qualcosa che pur apparendo in essi e grazie ad essi non si lascia comunque mai esaurire nel e dal fenomenico. Pensiamo a ciò abbiamo davanti, al manifestarsi di ciò che chiamiamo natura: essa appare sempre, ora in questo fiore, ora in questo frutto, ora come giorno, ora come notte. Ma la natura, che in questo momento si manifesta ‘perfettamente’ davanti a noi, al contempo si nasconde e si cela, e proprio mentre si manifesta: quando si mostra come frutto, ad esempio, si assenta come fiore, e quando si mostra come notte si assenta come giorno, senza con ciò venire mai meno a se stessa. Si manifesta perfettamente, ma non si lascia mai esaurire nell’ente che appare (nel fenomeno).
Ciò che si nasconde nell’atto stesso di manifestarsi è precisamente la “cosa in sé”: la cosa in sé non la puoi conoscere non perché sei limitato o non hai capito che l’oggetto è sempre oggetto per un soggetto, ma perché la cosa in sé è l’ombra che appare là dove appare l’oggetto che tieni nella coscienza. La cosa in sé è cioè il fenomeno stesso, non qualcosa prima o sotto il fenomeno. È proprio l’oggetto che hai davanti, che tieni nella tua coscienza e credi di aver compreso (nel senso letterale di essere tu, soggetto, il fondamento del suo apparire) a sfuggirti di mano: l’oggetto non si esaurisce nel tuo possederlo, nel tuo essere condizione del suo apparire. Il tuo tenere ora quell’oggetto specifico nella tua coscienza (questo suono, questa luce) non esaurisce “l’oggettità” dell’oggetto, non esaurisce l’essenza dell’oggetto, che è con tutta evidenza irriducibile a ciò che di volta in volta appare attraverso la tua coscienza: e infatti l’oggetto che tieni lo perdi subito. Non è un caso che i “nuovi idealisti” non sappiano fare altro che limitarsi a ripetere in indefinitum la tautologia con cui credono di aver svelato l’arcano: l’oggetto (ma di quale oggetto parlano? Non esiste infatti l’oggetto in generale, esiste la sensazione di questo tavolo, il suono di questa campana, il ricordo di questo profumo) è sempre il risultato del porre di un soggetto, un prodotto della coscienza! Tutto chiaro? Assolutamente no. È strano infatti che questa tautologia, trionfalmente sventolata come la Formula definitiva della Verità, non dica poi nulla del perché al soggetto l’oggetto sfugga sempre dalla coscienza, nell’attimo stesso in cui lo possiede: il soggetto non riesce a tenersi l’oggetto, evidentemente perché l’essenza dell’oggetto non è quella di essere proprietà del soggetto, a cui quindi non appartiene nel senso del pieno possesso. D’altronde un bene che è in mio pieno possesso posso decidere se tenerlo o darlo via, mentre non sembra che sia così con gli “oggetti” della coscienza. La stessa coscienza non è un bene che mi appartiene, non me la sono data io, e d’altronde con il morire la perdo. Ma se anche stessimo sul piano dell’avere ora nella coscienza, devo riconoscere che mentre posseggo l’oggetto come frutto, mi è gia sfuggito come fiore. L’oggetto non lo posseggo mai, anche se io sono momento essenziale del suo essere presente ed apparire. Vi è qui il principio, l’indicazione di una relazione essenziale, che ogni soggettivismo ingenuo e triviale cancella d’un colpo.
Kant era perfettamente consapevole di questa relazione, tutta problematica e da pensare, relazione che si annuncia già nel fatto che io posso schematizzare il dato empirico, ed essere effettivamente condizione dell’apparire dell’ente, solo perché sono affetto da una datità che non sono io a darmi, ma che al contrario ricevo. Ed è chiaro che ciò che ricevo non mi appartiene: mi è dato, e così pure tolto.
Ma questa impostazione di Kant è stata tradita dalla traduzione che della sua filosofia avrebbe fatto l’idealismo di Fichte, che asseriva come non ci fosse alcuna “cosa in sé”, ma solo l’Io: è il momento in cui l’uomo capisce che c’è una relazione, nell’Uno, dell’Uno con sé, ma poi pensa di potersi collocare dal punto di vista dell’Uno, come se fosse lui a scindersi, e non l’Uno: è il tentativo impossibile e perfino ridicolo dell’uomo di porsi nel punto di vista dell’Inzio. Così Fichte, figlio di contadini, finisce per pensare, ridicolizzandola, la cosa in sé come un ente separato dalle forme a priori (un oggetto separato dal soggetto): ma questo è impossibile, dunque nulla esiste fuori dell’Io. Ma così ha ridotto l’essere a un ente, e di questo ha ribadito il suo essere solo un fenomeno, cioè un prodotto dell’Io. Perché certo non c’è oggetto che non sia senza un soggetto, senza una coscienza. Ma Kant non voleva dire questo quando pensava alla cosa in sé, ma qualcosa di più raffinato: l’assoluto è un “oggetto” che nessun soggetto può catturare nel “fenomeno”, anche se si manifesta in ogni fenomeno. Questo il paradosso!
[caption id="" align="aligncenter" width="1000"] Caspar David Friedrich Wanderer, Il viandante sul mare di nebbia - 1818[/caption]

Non è vero, sta dicendo Kant, che tutto è nella mia coscienza ed è riducibile alla mia coscienza, che l’oggetto si risolve completamente nel suo essere oggetto-per-un-soggetto. Shakespeare giustamente canzonava questa ingenua credenza dei filosofi di poter comprendere e possedere tutta la realtà, ricordando al borioso di turno che ci sono molte più cose in cielo e in terra di quanto la sua filosofia possa sognare!

Ma superata questa dialettica tra l’oggetto e il soggetto nel senso di un definitivo risolvimento di ogni esitazione presente invece in Kant (punto di svolta della modernità), possiamo capire cos’è l’idealismo e la contemporaneità.
Detto questo, torniamo ora all’uno che non possiamo comprendere ma solo immaginare, intuire: a questa Physis che si auto-ritma in sé, si auto scinde: un uno che non può quindi essere assoluto, come crede invece l’Islam, perché l’uno si auto-media in sé, crea in sé un altro da sé, che è l’uomo, cioe è il logos. Nel Cristianesimo è Dio che si è mediato (si è fatto uomo), l’uno cioè si scinde, è in sé molteplice.
Noi siamo la relazione aperta, dall’uno, nell’uno, siamo un momento di Dio. Ecco perché il Dio cristiano è uno e trino. Il divino ripiega su di sé, cioè è aperto a se stesso e instaura questa relazione bellissima, perché l’uomo, anche quando non ne è pienamente cosciente, è in relazione costante con il divino a cui appartiene, e per questo dipinge, costruisce chiese e templi, scrive poesie etc. L’animale, che non ha la parola, non è aperto in questo modo al divino (è “povero di mondo”, diceva Heidegger), non ha autocoscienza: non vede di vedere, non sente di sentire, sente, vede e vive nell’immediato, è una coincidenza immediata con la natura. È l’essere in atto della Physis. Noi siamo qualcosa di più, anche se siamo da cima a fondo “naturali” (i processi di digestione corporea, per esempio, o tutti questi processi interni, avvengono indipendentemente e prima di ogni nostra coscienza: non dominiamo neanche quelli, figuriamoci la realtà!).
Ecco perché si parla del Dio uno e trino: Dio non è solo Padre, chiuso in sé, ma è un Dio che crea l’altro da sé, il Figlio: l’uomo, a cui dona lo Spirito, che è la relazione fra il Padre e il Figlio. Lo spirito è la parola. L’uomo è aperto al divino, che gli è davanti e può essere aperto al mondo, solo perché dotato di parola. Ma cosa è la parola (logos)? È quel raccogliere (legein) che porta alla presenza ciò che già è presente davanti. È davvero un raccogliere: un collaborare con l’essere, quasi come se l’assoluto avesse bisogno di noi per essere per sé. Ad esempio se si percorre un sentiero lungo e in salita, l’uomo inizia a pensare che questo sentiero è lungo! Dunque dicendo “il sentiero è lungo” raccoglie e porta alla presenza ciò che è già presente davanti (il sentiero).
In conclusione, si giunge sulla soglia di un abisso, che è terribile e meraviglioso allo stesso tempo: perché nel momento in cui io prendo consapevolezza del mio essere aperto, del mio essere trascendente, cioè rivolto costantemente verso l’ente nella sua totalità, di essere l’essere in atto del dispiegarsi del divino, tutto il nostro mondo dovrebbe modificarsi, poiché ci si rende conto che tutti i discorsi sulla morte di Dio, i discorsi sulla fine degli assoluti, sulla fine delle verità… sono solo parole, perché non hanno compreso neanche qual è il punto: non esiste un uomo potente che ci bacchetta, ci punisce, che ci premia.
Non è affatto di questo, invece, di cui si deve parlare, ma del nostro essere costantemente aperti ad una dimensione che è il divino, che non è una dimensione che abbiamo fatto noi, anzi è una dimensione di cui facciamo parte e alla cui relazione noi siamo stati consegnati: ci è stato donato, perché questo essere aperti è anche un prendersi cura. L’uomo in quanto con la parola porta alla luce l’ente, è anche colui a cui l’ente viene affidato. D’altronde a livello empirico noi vediamo come sia l’uomo a dominare il mondo, ma in senso più profondo questo mondo è letteralmente donato e dato in mano all’uomo. L’uomo è quell’ente a cui l’essere si è consegnato per poter essere cosciente di sé.

[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1471796588874{padding-bottom: 15px !important;}"]Art-Bonus. La critica situazione dei Beni Culturali in Italia[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Giuseppe Baiocchi del 23/08/2016[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1474800444673{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]

Vorrei iniziare questo articolo rivolgendo una domanda al ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini chiedendogli se oggi sappiamo valorizzare il nostro patrimonio artistico.

L’italiano standard non si sente “cittadino” poiché dalla sua fondazione l’Italia ha un rapporto difficile con il concetto di cittadinanza. Forse per la mancanza di rivoluzioni non possediamo l’idea di una appartenenza biunivoca del territorio (noi apparteniamo al territorio e il territorio appartiene a noi). Non c’è l’idea di essere custodi, ovvero l’agire per chi verrà dopo di noi, come dicevano i nativi americani, oggi quasi del tutto annientati: “tutto questo non l’abbiamo ereditato dai nonni, ma l’abbiamo in prestito dai nipoti”.

Oggi nel nostro paese avviene la retorica “del petrolio d’Italia” inventata da Mario Pedini, ministro dei Beni Culturali divenuto noto per essere uscito sulle liste della P2. Se noi riflettiamo bene sul significato di petrolio, capiamo immediatamente che si tratta di un esempio inaccostabile con i nostri Beni Culturali. Il petrolio per dare energia deve bruciare, il petrolio è una sostanza nera che si trova sotto il terreno e che nessuno vede e soprattutto in genere nei paesi dove si cerca, sono presenti i concessionari che arricchiscono non i cittadini, ma un gruppo ristretto di persone. Tutto ciò può difatti rispecchiarsi con il patrimonio culturale in Italia. Sono, senza nasconderlo, molto critico verso l’attuale ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini.

[caption id="attachment_5690" align="aligncenter" width="1000"] Il Ministro dei beni e delle attività culturali e del Turismo Dario Franceschini[/caption]
La riforma del Mibact è un cambiamento profondo che supera la contrapposizione ideologica tra tutela e valorizzazione”. Parlava così l’attuale ministro dei Beni Culturali nel 2014 dopo l’approvazione del consiglio dei ministri per il cosìdetto Art Bonus, ossia il decreto Cultura e Turismo. Vediamo di cosa si tratta.
Una riorganizzazione del sistema culturale italiano nel quale il contributo dei privati nella gestione e nella valorizzazione di siti e musei diventa di grande rilievo e per incentivare investimenti a coloro che si propongono come mecenati dell’arte il loro credito di imposta viene alleggerito fino al 65%.
Gli scopi della riforma sono molteplici, dall’ammodernamento della struttura del ministero, l’integrazione tra cultura e turismo, valorizzazione delle arti contemporanee, taglio delle figure dirigenziali e distinzione tra tutela e valorizzazione. La gestione di alcuni musei, venti dei quali (i più grandi) dotati di super Manager, vengono sottratti al controllo delle soprintendenze. Tra le altre cose quella dei musei gratis la prima domenica del mese. “Siamo riusciti a riportare l’attenzione per la cultura al centro delle scelte del governo e del dibattito del paese. L’obiettivo è quello di riavvicinare gli italiani al patrimonio culturale e questa per me è una cosa veramente di sinistra”.
Secondo il mio modesto parere Dario Franceschini si sta rivelando uno dei peggior ministri dei Beni Culturali che l’Italia ricordi, poiché nella riforma ha inserito le Soprintendenze sotto le Prefetture. Il Ministro ha dato il via allo smantellamento delle soprintendenze come le avevamo conosciute fino a ieri, attraverso l’istituzione di nuove commissioni regionali per il patrimonio culturale (art. 39 del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri), commissioni che di fatto scavalcano la soprintendenze in molti compiti. Più recentemente, accettando passivamente il decreto Madia del 2015, che ha alterato i rapporti tra prefetture e soprintendenze, Franceschini ha avvallato che quest’ultime fossero poste sotto il controllo delle prime, affidando così alle prefetture la direzione della tutele del patrimonio paesaggistico, erodendo ulteriormente il ruolo delle soprintendenze.
Poco tempo fa il Capo del governo Matteo Renzi ha scritto in un libro che soprintendente è la parola più brutta del vocabolario e che l’Arte deve dare solo emozione, di contro,  quando diventa storia dell’Arte è solo noia.
Questa riforma attua quel programma mettendo tutto sul piano della mercificazione e togliendo invece le armi alla tutela. Il soprintendente è una figura che non può e non deve essere sotto il controllo della prefettura, proprio perché soprintende.
La prefettura è quell’organo che decide se si fanno o non si fanno le grandi opere. Un esempio concreto: si può fare un autostrada in questa valle incontaminata? Il prefetto, risponde al governo e le Soprintendenze erano una garanzia poiché erano un potere autonomo che rispondeva alla scienza e alla coscienza.
Se si legano le mani alle soprintendenze si potrà fare ciò che si vuole al territorio: nuove mani sul territorio, nuove mani sulla città. Scelta ancora più agghiacciante è quella per cui il governo ha deciso che i consigli scientifici vengono nominati dagli enti locali e dal ministro. A Napoli sarebbero De Luca e De Magistris a nominare i membri del consiglio scientifico di Capodimonte. In nessun paese occidentale la scienza viene lottizzata dal governo con il manuale Cencelli. “Io lo trovo non di sinistra, ma sinistro” per riusare le parole di un grande storico dell’arte come Tomaso Montanari.
Inoltre, concetto fondamentale è quello della valorizzazione che avanza e si differenzia rispetto alla tutela. Per fare chiarezza: in precedenza sotto la tutela del Bene vi era la sua valorizzazione. Oggi si tende più a valorizzare (con spostamenti e altre operazioni) che a tutelare l’integrità del bene stesso.
Se prendiamo Pompei la sua rinascita di oggi si deve senza alcun dubbio dal governo di Enrico Letta, poichè Massimo Osanna (soprintendente di Pompei) fu nominato da Massimo Bray. Matteo Renzi cerca ancora una volta di fare il “taglianastri” appropriandosi di lavori di governi passati.
[caption id="attachment_5694" align="aligncenter" width="1000"] E' stata 'fredda' e velocissima la stretta di mano tra Enrico Letta e Matteo Renzi nella cerimonia di passaggio delle consegne con la campanella Roma 22 febbraio 2014.[/caption]
In parlamento è presente una legge, la quale  prevede che le opere d’arte per uscire dall’Italia non passino più per gli uffici di esportazione delle soprintendenze, ma passino attraverso una autocertificazione di valore. Si autocertifica che un opera valga meno di un quantitativo. Una volta stabilito ciò si può portare all’estero, e solo successivamente la sua fuoriuscita si fanno dei controlli a campione.
Qualora la autocertificazione non fosse corretta, la sanzione è irrilevante: si tratta di una multa, ma una volta che l’opera si trova in un caveau di un paradiso fiscale, questa non si potrà più recuperare, come sanno bene i carabinieri del nucleo di tutela che cercano di salvare il salvabile.
Si rischia molto, anche qui, in nome del mercato. Si pensa che il mercato si autoregoli, ma in Italia si è detto ancora per tempo che la proprietà privata non è un diritto assoluto. Massimo Severo Giannini grande giurista e politico italiano asseriva: “la tela e i colori sono di proprietà privata, ma il fatto che sia un Caravaggio appartiene a tutti gli italiani” c’è una super proprietà collettiva di tutti gli italiani.
Un esempio che lascia perplessi è l’installazione inguardabile allo Spedale degli Innocenti a Firenze di Filippo Brunelleschi. Lo Spedale è il primo spazio urbano del Rinascimento, è il primo luogo dove la grammatica e i vocaboli architettonici vengono riusati in un modo che Brunelleschi ripensava l’antico riadattandolo in nuove forme originali, il germe della città moderna. Generazioni di architetti si sono idealmente “inginocchiati” di fronte a questo manufatto. Le nuove porte del museo degli innocenti lasciano basiti: due enormi porte in ottone con un carattere scultoreo che alterano una delle architetture più belle e più sacre del mondo. Bisogna, in questo paese, riavere il diritto di osservare le bellezze artistiche e architettoniche come sono nella loro naturale essenza. Allora la mia domanda viene spontanea: la generazione dei geometri che ha creato delle periferie orrende non dovrebbe piuttosto impegnarsi nel redimerle le periferie, invece che immettere ancora bruttezza in luoghi del cuore di tutti gli italiani?
[caption id="attachment_5693" align="aligncenter" width="1203"] Lo Spedale degli Innocenti - (spedale deriva dall'antico dialetto fiorentino) - ("ospedale dei bambini abbandonati", col nome che si ispira all'episodio biblico della Strage degli Innocenti) si trova in piazza Santissima Annunziata a Firenze.[/caption]
Come si può arrivare ad applicare una porta di ottone allo Spedale degli innocenti? Chi risponde? Questo studio architettonico di Firenze (che non citerò) con committenza al museo, ha avuto una soprintendenza che in questo caso non ha funzionato; riprendendo Montanelli “le soprintendenze le paghiamo per dire di NO, se ci dicono si che le paghiamo a fare?”.
L’architettura per inserire installazioni moderne forzate non può distruggere l’antico, ma deve dedicarsi (soprattutto ora) a rendere più belle le parti nuove delle città che sono diventate brutte.
Il no in questo momento è l’unica prospettiva più sicura del sì. Se si viaggia per le coste italiane, noi tutti vorremmo che le sovraintendenze e i cittadini direbbero più sì o più no al cemento? Questo paese è stato sfigurato più dai sì o più dai no? Questo è un paese di cortigiani, è un paese educato a dire sempre di sì ai poteri forti, a chi arrivava con il libretto degli assegni in mano.
Io credo sia importante, invece, dire di NO e passare giustamente da gufo. Perché chi è il gufo? Si sente dire impropriamente "gufo" o "gufi" con l'inerenza di essere disfattisti o portar male, ma i più forse non sanno che Gufo, è semplicemente: "colui che vede chiaro nella notte". Dunque semmai il contrario: gufo è colui che vede cose che possono esistere e sono nascoste, sono velate dall'apparenza. Finchè la partitocrazia continuerà ad usare sloagan come per gli ultimi tre governi non eletti dal popolo italiano, la strada è molto in salita. Bisogna, invece, riflettere su Sì a che cosa e sul NO a che cosa. La retorica sì/no è sempre sbagliata. Alla speculazione io direi di no, francamente.
Come sono stato contrario allo spostamento dei Bronzi di Riace ad Expò 2016. Molti asseriscono che questa, appunto, operazione sarebbe stata un’occasione per mostrare al “mondo” le splendide sculture bronzee, che di contro sono poco viste. Io rispondo che in un paese come questo non ha senso considerare il meridione come un corpo morto da cui estrarre organi pregiati per portarli altrove.
La sfida vera di questo paese è fare la Salerno/Reggio-Calabria non portare in giro i bronzi di Riace. Bisogna mettere i cittadini italiani (e non), in grado di arrivare a Reggio Calabria, ma non si può immaginare che la soluzione sia portare le opere fuori città o fuori Regione. Tutti li hanno visti una volta nella vita, sui propri libri scolastici, non hanno bisogno di marketing hanno bisogno di una strada per arrivarci, hanno bisogno di alberghi dove dormire. Hanno bisogno di strutture, ma l’idea semplicistica che tutto si risolva muovendo le opere è sbagliato. Sono i cittadini che si devono muovere. 
Nel caso liturgico, l’opera d’arte non deve essere esposta come un feticcio in un luogo che non gli appartiene. I quadri di altare, ad esempio, sono concepiti per l’uomo in preghiera, nasce per un contesto vivo, non per un museo astratto.
Bisogna, oggi, camminare il patrimonio, camminare le città e non andare negli ambienti scuri dei musei con un “faretto che ci illumina” un quadro fuori contesto.
Per concludere una facile base di partenza sarebbe quella di dare l’accesso gratuito a tutti i musei italiani. Dobbiamo capire che la gestione odierna dei musei non funziona poiché i più importanti sono in mano ai privati che ne prendono tutto o quasi il guadagno. I musei italiani statali rendono ogni anno 150000000 di euro. 50000000 di questi, sono destinati ai concessionari privati e 100000000 euro sono un po’ pochi, se ci pensiamo due soli giorni di spesa militare. Siamo sicuri che sia un affare? Se si facesse entrare le persone gratis nei musei – come avviene nel resto di Europa – ci sarebbe un economia dettata dal movimento delle persone: l’economia del patrimonio non è il biglietto.
Altro elemento per risollevare le sorti di questa disciplina sarebbe l’introduzione della storia dell’arte in tutte le scuole fin dalle elementari per imparare la storia dell’arte come una lingua viva e insegnare l’italiano ai nuovi italiani che arrivano sulle barche e sulle nostre coste tramite soprattutto i nostri monumenti. L’Italia si è costruita tramite la lingua delle parole e la lingua dei monumenti e entrambi oggi devono continuare a dialogare insieme: lì siamo diventati nazione e lì possiamo ridiventarlo.
 
Bibliografia
_Tomaso Montanari, Patrimonio Culturale, ripartire dall’ABC – i corsivi del Corriere della Sera
_Tomaso Montanari, Privati del patrimonio – Edizioni Einaudi
_Tomaso Montanari, le pietre e il popolo – Edizioni Minimum fax
_Salvatore Settis, Se Venezia muore – Edizioni Einaudi
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

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Cesare Catà: "Riccardo II" di William Shakespeare

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Il 31 maggio del 1973 venne promulgata la nuova costituzione siriana, che suscitò immediate proteste, soprattutto nella città conservatrice di Hama, perché il documento, composto di 156 articoli, ometteva di specificare che il presidente della repubblica doveva essere musulmano. Era un fatto che colpiva profondamente l’opinione pubblica in quanto, fin dagli anni ʼ30, la costituzione siriana stabiliva che il capo dello stato doveva appartenere alla fede islamica. A causa delle pressioni da parte della maggioranza sunnita del paese, Assad dovette fare un passo indietro e ripristinare la clausola inerente l’appartenenza all’Islam del presidente. In compenso fu mantenuto l’articolo secondo il quale la sharīʿa (legge islamica) non era la fonte principale della legislazione, ma una delle fonti principali. Hāfiz al-Asad dovette dimostrare di essere un buon musulmano.
[caption id="attachment_5655" align="aligncenter" width="1319"] La Mecca, è una città dell'attuale Arabia Saudita occidentale, situata nella regione dell'Hegiaz. Capoluogo della provincia omonima, è la città santa per i musulmani.[/caption]
Partecipò alle preghiere pubbliche e si recò in pellegrinaggio alla Mecca. In più occasioni, numerosi ulama rilasciarono dichiarazione favorevoli ad Assad, ribadendo che gli alawiti erano musulmani e non eretici; diedero una connotazione religiosa alla guerra del 1973, sostenendo che era un conflitto religioso contro i nemici dell’Islam e Assad ne era il leader e condannarono i Fratelli Musulmani come una “banda”.
Uno degli obiettivi che si pose il nuovo presidente in politica estera era quello di recuperare i territori perduti nella Guerra dei Sei Giorni e riscattare l’immagine del proprio paese dopo vent’anni di continue umiliazioni da parte degli israeliani. Per fare questo aveva bisogno di accrescere enormemente il potenziale bellico siriano fino ad allora sempre nettamente inferiore a quello nemico. E non è un caso, quindi, che dal febbraio 1971, dopo appena dieci settimane dal cambio di potere, Assad si recò in visita a Mosca e lo farà ancora una dozzina di volte fino al 1973.
[caption id="attachment_5656" align="aligncenter" width="1024"]assad Nella foto il capo supremo dell'URSS, Leonid Breznev (al centro) e Andrei Gromyko, il suo ministro degli esteri (alla sua sinistra). Il presidente siriano Hafez el-Assad all'aeroporto di Mosca (a destra di Breznev).[/caption]
Dopo numerose trattative i dirigenti sovietici accordarono a Damasco ingenti forniture militari (300 caccia da combattimento, più un centinaio di batterie Sam con 500 lanciamissili e almeno 400 unità di artiglieria contraerea) a patto, però, che ogni manovra e decisione siriana venisse presa in diretta consultazione con Mosca. Mentre cercava le armi per combattere, Assad trovava nell’Egitto di Sadat, l’alleato naturale e privilegiato per sconfiggere Israele. Agli inizi del 1971 il presidente siriano e il suo omologo egiziano iniziarono così a elaborare una serie di piani per un attacco congiunto sino ad arrivare all’agosto del 1973, quando nel quartier generale della marina egiziana di Raʾs at-Tin, si tenne una riunione segreta del Consiglio supremo delle forze armate siro-egiziane.
In quell’occasione le più alte cariche dei due eserciti firmarono il documento formale in cui si impegnavano a muovere guerra nel prossimo autunno. Ulteriori consultazioni fissavano la data e l’ora: il 6 ottobre alle 14.00.
In realtà Siria ed Egitto avevano obiettivi assai divergenti: Assad voleva la guerra perché era convinto che ogni colloquio con Israele non avrebbe portato a nessuna restituzione dei territori occupati; Sadat invece voleva il conflitto per aver maggior potere negoziale al tavolo della trattativa separata che già conduceva (apertamente, ma anche segretamente) con Tel Aviv tramite la mediazione americana. Per Damasco si trattava di una guerra di liberazione, per il Cairo era una mossa essenzialmente politica per rilanciare la propria diplomazia. Entrambi avevano bisogno l’uno dell’altro, e Sadat sapeva bene che Assad si sarebbe rifiutato di combattere se lo scopo comune non fosse stato la liberazione del Sinai e del Golan.
Il presidente egiziano scelse così di non rivelare le sue vere intenzioni al collega siriano, mentre quest’ultimo, troppo preso dai suoi obiettivi di guerra, non si poneva nemmeno il problema di quel che sarebbe potuto accadere dopo la fase bellica, né si garantì una rete diplomatica di sicurezza in caso di insuccesso.
In questo contesto, il 6 ottobre 1973 ebbe inizio la Guerra d’Ottobre (anche detta del Ramadan o dello Yom Kippur perché iniziata in concomitanza con le omonime festività musulmana ed ebraica): il massiccio attacco congiunto siro-egiziano colse di sorpresa i militari e i dirigenti israeliani, e mentre da nord i siriani riuscirono ad avanzare fino a conquistare importanti posizioni (compresa la vetta del Monte Hermon/ash-Shaykh), da sud, gli egiziani, si arrestarono subito dopo attraversato il Canale di Suez.
Sadat infatti decise di non avanzare nel Sinai, come invece si aspettava la Siria, la quale si troverà a combattere da sola per un’intera settimana, soccombendo alla fine ad Israele. Quest’ultimo infatti non dovendo più preoccuparsi di difendere i suoi confini meridionali poté concentrarsi interamente su quelli settentrionali costringendo le truppe di Damasco alla ritirata fino alle linee del 1967 e, in seguito anche al di là di esse.
[caption id="attachment_5660" align="aligncenter" width="1280"] I comandanti delle Forze di difesa Israeliane (FDI): Ariel Sharon, Haim Bar-Lev e Moshe Dayan si riuniscono per un piano di contrattacco.[/caption]

Nonostante l’arrivo di alcuni reparti iracheni, seguiti il giorno dopo da quelli sauditi e giordani, le forze siriane erano ormai allo sbando e i militari israeliani arrivarono a solo 35 km da Damasco, oltre venti chilometri più avanti delle linee della tregua del ’67. Dopo numerosi appelli inascoltati alla tregua (il 22 ottobre la risoluzione 338 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu chiedeva l’applicazione in tutte le sue parti della 242 del 1967) e l’intervento diretto di Mosca e Washington (gli Usa dichiararono l’allarme generale atomico di terzo grado), il 25 ottobre venne firmato un primo cessate il fuoco. Dopo una lunga guerra d’usura che si protrasse sul Golan alla metà del 1974 (il 21 aprile gli israeliani riuscirono a conquistare nuovamente il monte Hermon/ash-Shaykh), Damasco e Tel Aviv firmarono il 31 maggio 1974 un delicato accordo in base al quale la Siria recuperò un quarto del territorio conquistato da Israele più alcune zone, di scarsa estensione geografica ma simbolicamente importanti come la città di Quneitra.

[caption id="attachment_5661" align="aligncenter" width="1848"] soldati dell'IDF conquistano posizioni strategiche negli ultimi atti del conflitto.[/caption]

Da quel momento fino ad oggi, non vi furono più scontri diretti tra israeliani e siriani sui loro rispettivi territori sebbene il conflitto diplomatico e militare continuò, ma su altri campi di battaglia (come il Libano).Da allora la posizione siriana rimarrà invariata negli anni: la pace con Tel Aviv si avrà solo quando Israele si ritirerà entro i confini pre-1967 restituendo i territori occupati. Questo dovrà essere inserito in un accordo globale che comprenda il pieno riconoscimento dei diritti dei palestinesi, tra cui quello a vivere in uno stato indipendente. La Guerra d’Ottobre causò alla Siria danni valutati a 1800 milioni di dollari. Gli sforzi per la ricostruzione furono immensi. Ma il governo agì celermente introducendo misure di liberalizzazione economica per incoraggiare gli investimenti. Il terzo piano di sviluppo (1971-1975) portò a una crescita inaspettata. Spronò quindi il governo a rafforzare gli incentivi e a dare il via a un ambizioso quarto piano di sviluppo (1976-1980), che si scontrò con le ripercussioni economiche dei problemi regionali. Assad fu in grado di dare stabilità interna, successo nazionale e crescita economica che gli conferirono popolarità e legittimità. Solo nella seconda metà degli anni settanta lo stato siriano dovette far fronte tensioni e a minacce interne, causate dal coinvolgimento militare nella guerra civile libanese nel 1976, dalla diffusione di corruzione e nepotismo, da abusi delle forze di sicurezza, dalla composizione su base confessionale del sistema e dall’aumento delle diseguaglianze economiche. Negli anni tra il 1976 e il 1982 la Siria si ritrovò in una situazione di pre-guerra civile quando le forze islamiste, in particolare i Fratelli Musulmani, diedero vita a una campagna di attentati terroristici su vasta scala volti a destabilizzare il paese.

I Fratelli Musulmani (al-Ikhwān al-Muslimūn) furono fondati nel 1928 da un insegnante di scuola elementare Ḥasan al-Bannā a Isma'iliyya, sulla riva occidentale del Canale di Suez, in Egitto. Secondo al-Bannā l’Islam era un sistema totalizzante che tendeva a dare ogni risposta alla società contemporanea. La soluzione per risolvere i problemi che affliggevano le società musulmane era, secondo i Fratelli Musulmani, quella di creare un governo che applicasse i principi dell’Islam, realizzare la giustizia sociale per tutti gli egiziani e liberare tutta la valle del Nilo ed inseguito tutto il dār al-Islām (Casa dell’Islam) da qualsiasi potenza straniera. Queste idee si diffusero in Siria soprattutto a Damasco e ad Aleppo e presero corpo dopo il 1945. Per partecipare alle elezioni legislative i Fratelli Musulmani formarono nel 1949 il Fronte socialista islamico, che fu dissolto dal governo nel 1952 quando furono chiusi anche gli uffici e le scuole.
Il primo scontro fra Baʿth e la Fratellanza Musulmana avvenne nel 1963, subito dopo che il Baʿth era giunto al potere in Siria. Nel 1964-65 si ebbero delle manifestazioni in diverse città della Siria, soprattutto ad Hama che furono represse. Dal 1976, molti ufficiali e funzionari, così come liberi professionisti, medici e insegnanti siriani furono assassinati. La maggior parte di loro erano alawiti fatti oggetto degli attentati delle organizzazioni armate della Fratellanza Musulmana, come il Kata'ib Muhammad (Falangi di Muhammad) creato ad Hama nel 1965 da Marwan Hadid.
Il 16 giugno 1979, la Fratellanza Musulmana effettuò un attacco contro la Scuola di Artiglieria di Aleppo, uccidendo 83 cadetti. Un membro del corpo insegnante il capitano Ibrahim Yusuf, fece adunare i cadetti nella mensa e poi fece entrare degli uomini armati che aprirono il fuoco. Questo attentato fu opera di Tali'a muqatila (Avanguardia Combattente), un gruppo di terroristi collegato alla Fratellanza Musulmana e guidato dal giovane ingegnere di Quneitra Adnan Oqla.
Gli attentati facevano parte della vita quotidiana in Siria fin dall’intervento in Libano, nell’estate del 1976, ma non avevano mai raggiunto le dimensioni del massacro di Aleppo. Tale carneficina segnò l’avvio di una campagna terroristica di vasta scala contro gli alawiti, i quadri e le sedi del partito Baʿth, le caserme dei militari e della polizia e le fabbriche. Nella sola città di Aleppo tra il 1979 e il 1981, i terroristi uccisero oltre 300 persone soprattutto bathisti e alawiti, ma anche una dozzina di chierici islamici che avevano denunciato gli omicidi. Di questi il più importante fu lo Shaykh Muhammad al-Shami, ucciso nella sua moschea di Suleimaniya il 2 febbraio del 1980. Non vennero risparmiati nemmeno gli esperti russi di stanza in Siria: nel corso di una serie di incidenti avvenuti tutti nel gennaio del 1980 tra di loro si contarono una decina di morti e feriti. Altre vittime di rilievo del terrorismo islamista negli anni precedenti la strage nella Scuola di Aleppo furono: il comandante della guarnigione di Hama, colonnello Ali Haidar, ucciso nell’ottobre del 1976; il rettore dell’Università di Damasco, Muhammad al Fadl, assassinato nel febbraio del 1977; il comandante del corpo missilistico, brigadiere Abd al Hamed al Ruzzuq, giugno del 1977; il professore Ali Ibn Abid al Ali, dell’Università di Aleppo, novembre del 1977; il decano dei dentisti siriani, dottor Ibrahim Naama, marzo del 1978; il direttore degli affari di polizia presso il Ministero dell’Interno, colonnello Ahmad Khalil, agosto 1978; il pubblico ministero Adel Mini della Suprema Corte per la Sicurezza dello Stato, aprile 1979 ed infine il medico personale di Asad, il neurologo Mohammad Shahada Khalib, che verrà ucciso nell’agosto del 1979. I migliori soldati e gli ingegni più brillanti della nuova società che Assad stava cercando di costruire, caddero così uno dopo l’altro.
Ai primi di marzo del 1980, si ebbero diversi scontri armati fra insorti islamisti e forze di sicurezza. Nei pressi di Aleppo, centinaia di insorti furono uccisi e 8.000 arrestati, debellando l’insurrezione. Il 26 giugno 1980 Assad stesso sfuggì alla morte per un soffio. I terroristi islamici lanciarono due bombe a mano e aprirono il fuoco a colpi di mitra sulla soglia del Palazzo degli Ospiti, dove il leader siriano attendeva l’arrivo di un ospite d’onore. Con un calcio Assad scagliò lontano una delle granate, mentre uno degli uomini della sua scorta si gettò sull’altra, rimanendo ucciso sul colpo; la sua guardia del corpo personale, Khaled al Hussein, gettò a terra il presidente e gli fece scudo con il proprio corpo. La risposta immediata del regime fu l’esecuzione a sangue freddo di circa 550 Fratelli Musulmani detenuti nel carcere di Palmira.
L’8 luglio l’appartenenza alla Fratellanza Musulmana diventò un reato capitale e venne concesso un mese di tempo per abiurare a coloro che volessero abbandonare l’organizzazione. In seguito a questa legge, oltre un migliaio di appartenenti ai Fratelli Musulmani si consegnarono. Tuttavia gli attacchi e le rappresaglie continuarono senza sosta.
Tra agosto e novembre 1981 i terroristi effettuarono tre attacchi con auto-bombe contro obiettivi governativi e militari a Damasco, uccidendo centinaia di persone. Il 2 febbraio 1982, la Fratellanza scatenò una grande insurrezione ad Hama, prendendo il controllo della città. L’esercito rispose con estremo vigore, eliminando migliaia di guerriglieri e sconfiggendo, emarginandolo, il movimento islamista.
[caption id="attachment_5663" align="aligncenter" width="1302"] La città siriana di Hama dopo il 1982. Assedio e massacro di Assad.[/caption]
L’attacco ad Hama iniziò la mattina del 2 febbraio 1982, quando un’unità dell’esercito siriano venne aggredita dai terroristi comandati da Umar Jawwad (Abu Bakr). Altre cellule terroristiche vennero allertate via radio e i loro cecchini, appostati sui tetti, iniziarono a sparare sui soldati siriani. Abu Bakr diede così l’ordine dell’insurrezione generale ad Hama. Gli altoparlanti delle moschee vennero utilizzati per invocare il jihad contro il Baʿth, e centinaia di insorti islamisti attaccarono le case dei funzionari governativi e del partito Baʿth, e le caserme di polizia. Il 3 febbraio circa 70 bathisti vennero uccisi e gli insorti islamisti e altri attivisti dell’opposizione proclamarono Hama una “città liberata”, invocando l’insurrezione generale contro gli “infedeli” in tutta la Siria. Secondo il giornalista Patrick Seale autore de Il leone di Damasco. Viaggio nel 'Pianeta Siria' attraverso la biografia del presidente Hafez al Assad: «Ogni lavoratore, ogni aderente al partito, ogni paracadutista inviato ad Hama sapeva che questa militanza islamista doveva essere eliminata dalla città, costi quel che costi […]». L’esercito venne quindi mobilitato, il presidente Hāfiz al-Asad inviò ad Hama anche le Compagnie per la difesa della rivoluzione guidate dal fratello Rifʿat al-Asad e reparti armati del Mukhābarāt, il servizio di sicurezza siriano; si trattavano in tutto di 12.000 effettivi. Prima dell’attacco, il governo siriano chiese la resa dei ribelli, avvertendo che chiunque fosse rimasto in città sarebbe stato considerato un ribelle. L’assedio e i combattimenti durarono circa tre settimane; la prima settimana venne dedicata al ripristino del controllo della città, e le altre due a liquidare il terrorismo. Dopo l’assalto iniziale, il personale militare e di sicurezza rastrellò le zone occupate dai terroristi, che erano state bombardate per quattro giorni, e distrusse le gallerie utilizzate dagli islamisti. Non si saprà mai con esattezza il tragico bilancio delle vittime: i simpatizzanti del regime parlano di “solo” 3.000 morti; l’opposizione arriva a 20.000 e più. Redigere un accurato bilancio è complicato anche per il fatto che molti, soprattutto donne e bambini, riusciti a mettersi in salvo passando il cordone militare che circondava la città, vennero in un primo momento conteggiati fra i dispersi. La cifra che pare più verosimile oscilla fra le 5.000 e le 10.000 vittime. Da allora fino al 2011 nel paese non comparirà più alcuna forma di opposizione islamica e il gruppo siriano dei Fratelli Musulmani dovrà riorganizzarsi in esilio. Secondo la storica Mirella Galletti: «L’operato di Asad fu sostanzialmente condiviso dalla popolazione, anche tra molti sunniti, che lapidariamente sentenziarono: “Meglio un mese di Hama che quattordici anni di guerra civile come in Libano”» (Galletti 2014, p. 108).
Secondo l’opinione del presidente Hāfiz al-Asad, confermata dal giornalista Robert Dreyfuss autore del best seller Devil's Game: How the United States Helped Unleash Fundamentalist Islam, la Fratellanza Musulmana in Siria è stata aiutata dal governo giordano e quello iracheno in collaborazione con i Falangisti Libanesi, l’Esercito del Sud del Libano, il governo israeliano di destra di Menachem Begin e quello americano, il quale avrebbe presumibilmente sostenuto, finanziato e armato i Fratelli Musulmani, nel tentativo di rovesciare il regime siriano.
Una delle prove più schiaccianti del coinvolgimento statunitense fu la scoperta di equipaggiamenti “made in Usa”, nelle mani dei terroristi, soprattutto un sistema di comunicazioni particolarmente sofisticato che poteva essere venduto a paesi terzi solo dietro esplicita autorizzazione degli Stati Uniti.
Alla fine del 1983, Assad ebbe gravi problemi cardiaci e il paese trattenne il sospiro fino alla sua dimissione dall’ospedale. La sua figura era centrale per la stabilità del paese, non era stata ancora preparata la successione e si potevano quindi temere l’emergere della conflittualità e l’intervento dell’esercito. Il fratello Rifʿat possibile successore, fece un uso disinvolto delle Compagnie per la difesa della rivoluzione che utilizzò ad Hama.
Corrotto amante del lusso, venne criticato per aver favorito gli Usa quando inviò, per compiere gli studi, i figli a Washington, dove fece costruire un grande palazzo che fu presto dato alle fiamme, si dice dagli israeliani.
Durante la degenza di Hāfiz, Rifʿat inondò la Siria di poster dove appariva sorridente e la polizia regolarmente li strappava. Rifʿat chiese mutamenti nel comando dell’esercito che gli vennero rifiutati. Portò allora le sue truppe vicino al palazzo presidenziale. Hāfiz ordinò al cognato di condurre le sue forze regolari dall’altro capo della strada e per alcuni giorni i due schieramenti rimasero contrapposti. Hāfiz fece arrestare uno dei comandanti in capo delle Compagnie per la difesa della rivoluzione e l’opposizione ben presto terminò. Per porre fine a questa situazione precaria il Baʿth nominò Rifʿat uno dei tre vicepresidenti. La promozione fu di fatto una rimozione. Il generale Mustafà Tlās rimase al ministero della difesa, dove risiedeva il potere effettivo.
Nel maggio 1984, Rifʿat fu inviato a Mosca con una delegazione e non poté rientrare in Siria, essendo stato dichiarato persona non grata. Durante la sua assenza Hāfiz smantellò i centri del potere riducendo le Compagnie per la difesa da 60-70.000 uomini a 15-18.000 unità, e integrandole nell’esercito. Furono bloccate le attività di contrabbando del fratello. Solo a novembre Rifʿat ottenne il permesso di rientrare a Damasco, ma ormai non aveva più poteri: mantenne il suo posto nel comitato centrale ma non aveva diritto di parola. Gli furono tolte tutte le sue funzioni nel febbraio del 1998, al che seguì l’esilio in Spagna e in Francia.
Con la fine degli anni ottanta si aprì una nuova stagione politica per il regime di Damasco. Già dal 1986 il presidente siriano, in seguito a una visita a Mosca, cominciò a percepire i primi segnali del profondo cambiamento impresso all’Urss dalla nuova politica di Gorbačëv: la guerra fredda si stava ormai concludendo e il ruolo di Mosca sullo scenario mediorientale andava via via ridimensionandosi.
Assad pare che se ne accorse in tempo e, confermando ancora una volta il suo pragmatismo, si preparò ai nuovi equilibri cercando migliori relazioni con gli Stati Uniti, sempre più unico incontrastato attore della regione.
Così, in uno scenario che sembrava cambiare in fretta, Assad intendeva capitalizzare al meglio la sua nuova alleanza con Washington: l’adesione alla coalizione occidentale anti-Saddam nella guerra del Golfo del 1991, da una parte garantì alla Siria di mantenere le proprie truppe in Libano e, dall’altra evitò che un Iraq troppo potente potesse imporsi sugli equilibri regionali; sul piano diplomatico invece, con la convocazione da parte degli Stati Uniti della Conferenza di pace di Madrid, nell’autunno del 1991, il presidente siriano sperava finalmente di poter ottenere, attraverso un negoziato multilaterale, quella «pace giusta e globale» necessaria per far uscire il paese dal suo isolamento economico e politico. Questa volta fu la stessa amministrazione di Bush padre a convincere il ra’īs siriano a partecipare ai negoziati sulla base del principio «terra in cambio di pace» (secondo le risoluzioni Onu 242 e 338 che invocavano il ritiro israeliano completo dai territori occupati durante il conflitto del 1967). Ma non fu così e ancora una volta Assad si sentì raggirato da un’amministrazione Usa che promette ma non mantiene. Nel 1993, a Oslo, Israele raggiungerà un accordo con i palestinesi e, un anno dopo, con la Giordania. In questo scenario Assad vide avverarsi uno dei suoi peggiori incubi con lo stato ebraico sempre più stabilmente egemone nella regione e ancora padrone del Golan. L’altro duro colpo che l’anziano presidente dovette poi affrontare fu l’improvvisa morte, in un oscuro incidente stradale, del suo primogenito Bāsil, ormai destinato a succedere al padre alla guida del paese.
Già alla fine degli anni ottanta Assad aveva iniziato a spianare la strada al figlio, brillante ufficiale dotato di carisma e sorretto da un crescente seguito negli ambienti militari. Scomparso Bāsil, Assad richiamò in patria il suo secondogenito Bashār.
All’epoca ventottenne, il giovane Assad venne prima avviato a un’accelerata carriera militare e, quindi lanciato sulla scena politica e diplomatica regionale. In quegli stessi anni, il ra’īs di Damasco iniziò una vasta campagna di epurazione di tutti quegli elementi che avrebbero potuto ostacolare l’ascesa del giovane figlio: con l’accusa di corruzione o, più semplicemente, per ragioni di età, molte personalità autorevoli del partito e dell’esercito vennero messe da parte per far posto a Bashār e alla nuova generazione di ufficiali e amministratori del paese. Intanto Assad, ormai malato (ufficialmente di patologie cardiache) e logorato da più di trent’anni di lotte politiche, impiegò gli ultimi anni della sua vita per raggiungere il tanto atteso accordo con Israele. I contatti tra Damasco e Tel Aviv, dopo essersi interrotti nel 1996, ripresero con la mediazione di Washington verso la fine del 1999, ma anche questa volta, seppur a un passo dalla storica stretta di mano, il difficile compromesso non venne raggiunto. Così, l’incontro di Ginevra del febbraio 2000 tra il presidente americano Clinton e quello siriano Assad, fu l’ultima occasione per il ra’īs di Damasco per spiegare, ancora una volta che l’unica pace possibile per la Siria deve prevedere il ritiro totale israeliano dai territori occupati nel 1967.
Pochi mesi dopo, il 10 giugno 2000, Assad morì colpito – secondo i rapporti ufficiali – da un’ennesima crisi cardiaca e lasciò il paese nelle mani del trentaquattrenne Bashār.
Bashār al-Asad nacque a Damasco l’11 settembre del 1965. Dopo aver terminato gli studi primari e secondari all’Istituto Hurriyya si laureò nel 1988 in medicina all’Università di Damasco per poi specializzarsi in oftalmologia all’ospedale militare di Tishrīn.
Nel 1992 all’età di ventisette anni si recò in Gran Bretagna per proseguire la specializzazione e qui conobbe la sua futura moglie Asmā ʾ Akhras, cittadina britannica proveniente da una famiglia sunnita originaria di Homs.
Dopo la morte del fratello Bāsil, deceduto in un tragico incidente automobilistico, Bashār decise di tornare in patria dove il padre lo aveva designato suo successore.
Hāfiz riservò al suo secondogenito una formazione “accelerata” alla pratica del potere. Dapprima entrò nei ranghi delle forze corazzate (17 novembre 1994), venne nominato maggiore della Guardia presidenziale (gennaio 1995), si formò alla scuola di stato maggiore (1998) e fu infine nominato colonnello (1999). Subentrò al fratello nella carica di presidente della Società siriana di computer e si impegnò altresì in una campagna contro la corruzione negli uffici pubblici, il contrabbando e il traffico di droga che servì per contrastare possibili rivali. Alla notizia della morte del padre fu promosso dal grado di colonnello a quello di luogotenente e nominato comandante in capo delle forze armate. Nell’incontro con il Ministro della Difesa Mustafà Tlās, il capo di stato maggiore ʿAlī Aslan e il capo dei servizi di sicurezza interna Bahjat Sulaymān, gli venne assicurata la fedeltà delle istituzioni militari e della sicurezza.
In una sessione straordinaria, il parlamento varò un emendamento costituzionale che abbassava l’età richiesta per accedere alla presidenza della repubblica da quaranta a trentaquattro anni (l’età di Bashār). Il comando regionale del Baʿth si riunì nella notte per avanzare la candidatura di Bashār. Il congresso regionale iniziò i lavori come programmato da tempo (17 giugno 2000); proclamò all’unanimità a mani alzate Bashār capo del partito e del popolo (18 giugno); lo elesse segretario generale del Baʿth e lo propose alla presidenza della repubblica (20 giugno). Con un referendum plebiscitario, con il 97,29% dei voti, Bashār, unico candidato, fu eletto presidente della repubblica.
[caption id="attachment_5664" align="aligncenter" width="1225"] Il presidente siriano Bashar Hafiz al-Asad e sua moglie AsmāʾAkhras[/caption]

Fin da subito il giovane presidente dovette confrontarsi con la bellicosa amministrazione di George W. Bush il quale, in occasione del suo discorso sullo stato dell'unione del 29 gennaio 2002, inserì la Siria insieme a Iraq, Iran e Corea del Nord nel famigerato “Asse del Male” (in inglese “axis of evil”) ossia quel gruppo di stati che secondo l’allora presidente degli Stati Uniti sarebbero impegnati nel sostenere il terrorismo internazionale e sviluppare armi di distruzione di massa.Il progetto di destabilizzazione della Siria risale a dopo l’invasione anglo-americana dell’Iraq (marzo 2003) ed è divenuto operativo con l’attentato all’ex premier libanese Rafīq al-Harīrī (febbraio 2005). Il piano antisiriano è nato e si è sviluppato sulla base del presupposto che fosse necessario sottrarre il Libano a quella che gli analisti hanno definito “Mezzaluna Sciita” ovvero l’alleanza, nata in seguito alla caduta di Saddam Hussein, fra Iran, Siria, Iraq ed Hezbollah che potrebbe porre lo Stato d’Israele in grave pericolo in caso di un attacco militare israelo-occidentale all’Iran. Tuttavia, l’assassinio di Harīrī, la guerra israeliana al Libano nel luglio del 2006, il Tribunale internazionale per il Libano, creato per piegare Beirut con il pretesto della caccia ai responsabili dell’attentato di Harīrī, non sono serviti a nulla. Il Libano è rimasto parte di un’alleanza che, nel febbraio 2010, è divenuta addirittura militare tra la Repubblica Islamica dell’Iran, la Siria e Hezbollah. L’intesa è stata sancita in occasione dello storico vertice di Damasco del 25 febbraio, a cui hanno preso parte il presidente siriano Bashār al-Asad, quello iraniano Mahmud Ahmadinejad e il segretario generale di Hezbollah Hassan Nasrallah. Da quel momento sono cambiati gli equilibri regionali e Tel Aviv si è trovata a dover fare i conti con un’eventuale azione militare congiunta nel caso avesse deciso di aggredire uno dei tre componenti dell’alleanza. Alcuni partecipanti a quel vertice, dopo l’incontro, hanno fatto dichiarazioni estremamente chiare. Hassan Nasrallah ha detto: «Se il Libano viene aggredito, non ci sarà angolo sicuro in Israele». Il vice di Nasrallah Naem Qassem ha affermato il 10 marzo 2010: «Chi aggredisce l’Iran non può illudersi che il giorno dopo possa continuare a vivere come se nulla fosse successo». Il presidente iraniano Ahmadinejad ha osservato laconicamente: «Se Israele aggredisce (senza specificare chi), la questione (israeliana) verrà risolta una volta per sempre».

Fu dopo quel vertice che si rese necessario accelerare i tempi per appiccare il fuoco alla Siria.
L’opposizione siriana – che secondo i file desecretati da Wikileaks avrebbe ricevuto a partire dal 2006 cospicui finanziamenti da parte degli Stati Uniti – organizzò nel marzo 2011 una serie di manifestazioni nel paese per protestare contro la corruzione del governo e per chiedere delle riforme. Sul modello già seguito durante il fallito golpe contro Chavez in Venezuela nel 2002 e poi messo di nuovo in pratica in Ucraina nel 2013 vennero infiltrati e pagati professionisti per sparare sulla folla in modo da causare morti. È il caos. I maggiori media internazionali, fra cui spicca la qatariota Al Jazeera, accusarono il presidente Bashār al-Asad di sparare sul proprio stesso popolo. Si tratta sempre dello stesso scenario utilizzato dagli Stati Uniti per liberarsi di un capo di Stato poco docile agli ordini di Washington. Come da copione una volta mobilitata l’opinione pubblica, in nome della democrazia e dei diritti umani, si inviano i bombardieri e si distrugge il paese. Soltanto che questa volta si è presentato un inatteso problema: l’intervento della Russia. Il piano occidentale fallì.
Non si poté più defenestrare Assad con la forza. Fu necessario trovare un’altra soluzione. Ed è qui che entra in gioco l’ISIS. Il sedicente Stato Islamico, che secondo le rivelazioni dell’ex impiegato della National Security Agency Edward Snowden sarebbe nato grazie alla collaborazione fra i servizi di informazione britannico e americano e il Mossad israeliano, occupando lo spazio territoriale che collega la Siria e l’Iraq spezzerebbe in tal modo quella “Mezzaluna Sciita”, che da Teheran passa per Damasco per arrivare fino a Beirut, e che costituisce il principale ostacolo alle mire egemoniche di Washington e del suo principale alleato lo Stato d’Israele in Medio Oriente.
 
Bibliografia:
_Mirella Galletti, Storia della Siria contemporanea, Bompiani, 2014
_Lorenzo Trombetta, Siria. Dagli Ottomani agli Asad. E oltre, Mondadori Education, 2014
_Patrick Seal, Il leone di Damasco. Viaggio nel 'Pianeta Siria' attraverso la biografia del presidente Hafez al Assad, Gamberetti, 1995
_Frédéric Pichon, Siria: perché l'Occidente sbaglia? Saggio sul conflitto che insanguina il Medio Oriente, Fuoco Edizioni, 2016

[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1470843755977{padding-bottom: 15px !important;}"]Breve storia della Siria moderna: dall’indipendenza alla guerra civile (1)[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Gabriele Répaci del 19/08/2016[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1471717000830{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
La Siria è ormai, da cinque anni a questa parte, argomento di interesse per i media internazionali a causa del sanguinoso conflitto che sta lacerando il paese. Nella terra dove circa 7000 anni fa l’uomo iniziò a scrivere, sono 273.520 le persone morte dall’inizio delle ostilità. Secondo le stime fornite dalle Nazioni Unite le vittime civili ammonterebbero a 79.585 unità di cui 13.694 sarebbero i bambini e 8.823 le donne senza contare i milioni di sfollati. Insomma una catastrofe umanitaria che ha pochi precedenti nella storia recente.
[caption id="attachment_4454" align="aligncenter" width="1920"] Palmyra (Παλμύρα), è la fedele traduzione dall'originale aramaico, Tadmor, che significa 'palma'[/caption]
Per comprendere come si sia giunti a tale carneficina è necessario ripercorrere brevemente la storia di questo paese degli ultimi settant’anni.
La Siria nacque, de facto, come una Repubblica parlamentare, democratica ed indipendente nel 1946 e negli anni subito successivi all’autonomia conobbe una dinamica politica notevole, dovuta non solo alla nascita di diversi partiti, ma anche, e soprattutto, allo sviluppo di un’opinione pubblica cosciente direttamente coinvolta nelle trasformazioni del paese.
È in questo clima di grande fermento culturale che il 7 aprile 1947 vide la sua nascita l’Ḥizb Al-Ba‘ath Al-‘Arabī (il Partito della Resurrezione Araba), meglio conosciuto come Baʿth, il quale svolgerà un ruolo importante nella storia del paese negli anni a seguire. Il partito, nato per volontà di due professori: Michel Aflaq, cristiano ortodosso appartenente alla classe media damascena, e Ṣalāḥ al-Dīn al-Bīṭār, sunnita di famiglia borghese, si proponeva sulla scena politica siriana guidato dal desiderio di creare un’unica “nazione araba” socialista e laica, che comprendesse al proprio interno, in tutt’uno omogeneo, tutti gli stati artificiali creati in Medio Oriente all’indomani del crollo dell’Impero Ottomano.
La base sociale del partito era rappresentata dalla piccola borghesia urbana sunnita e cristiana greco-ortodossa di Damasco e dai notabili delle campagne principalmente drusi e alawiti della pianura di Latakia. Nel 1953 in seguito alla fusione con il Partito socialista arabo (Psa) di Akram al-Hawrani prenderà il nome di Partito Socialista della Resurrezione Araba (Ḥizb Al-Ba‘ath Al-‘Arabī Al-Ishtirākī)
Nei tre anni successivi al conseguimento dell’indipendenza vi fu un mutamento repentino nella società tradizionale e nel sistema feudale rurale. Il governo parlamentare era soffocato da gruppi familistici, dal nepotismo e dalla corruzione. Le inefficienze governative e la debole struttura partitica non erano in grado di gestire il necessario periodo di transizione da una società tradizionale a una moderna.
Questi fattori, aggravati dalla guerra in Palestina, condussero alla destabilizzazione del paese. La modernizzazione dell’esercito ebbe un effetto dirompente nella società siriana e nel mondo arabo in generale. L’università era accessibile solo alle classi abbienti. Poiché un esercito moderno richiedeva l’addestramento di ufficiali con un certo livello di istruzione, le accademie e le scuole militari fornirono un’istruzione a un vasto numero di giovani che altrimenti sarebbero rimasti esclusi. Spesso gli istruttori erano francesi o russi, e quindi l’uso delle lingue straniere introdusse gli studenti ai valori, alle ideologie e alla moderna tecnologia occidentale. La carriera militare rappresentò il veicolo più accessibile di mobilità sociale. I militari divennero quindi la forza più coesiva della società siriana, contribuendo in maniera significativa alla formazione di una nuova classe media. Un altro fattore importante fu che venne impartita la medesima istruzione agli ufficiali, fatto che li contraddistinse dagli altri settori della società siriana, dove le differenze educative ponevano problemi di comunicazione.
La Siria si trovò subito coinvolta nel conflitto arabo-israeliano, che da allora influisce pesantemente sulla situazione interna, assorbendo enormi risorse umane ed economiche. La priorità data alla difesa ha inficiato e rallentato l’avvio alla soluzione dei problemi interni e lo sviluppo politico, sociale, economico del paese. Nelle prime elezioni generali del luglio 1947 ebbe la maggioranza il Blocco nazionalista, eroso dalle scissioni, il cui leader, Shukrī al-Quwwatlī, riottenne la carica nell’aprile 1948. Il Partito del popolo (Hizb al-shaʿb) e altre formazioni minori capeggiavano l’opposizione, sfruttando il malcontento causato dalla conduzione della guerra contro Israele. Il governo fu costretto a dimettersi nel dicembre 1948.
La Siria e l’intero mondo arabo vennero duramente scossi dagli avvenimenti in Palestina. La sconfitta araba del 1948 ha segnato l’inizio della fine dei vecchi regimi in Siria ed Egitto. I militari tornarono umiliati, accusando i politici e il vecchio sistema per la sconfitta. I giovani ufficiali siriani assunsero il ruolo di guardiani del prestigio del loro paese e si ritennero gli unici a incarnare la legittimità e l’onore dello stato.
La Siria è stato il primo stato arabo a subire i contraccolpi interni del conflitto arabo-israeliano del 1948. Dal 1949 al 1970 una serie di colpi di stato e tentativi di golpe destabilizzarono il paese. Si scontravano elementi nazionalisti e filooccidentali.
Il 30 marzo 1949, il colonnello di origine curda Husnī al-Zaʿīm capeggiò un colpo di stato, il primo di una serie di interventi militari che intendevano distruggere la legittimità del nuovo sistema politico formato sul modello europeo. Cercò di seguire una politica estera filo-occidentale, rinunciò al disegno della “Grande Siria” presente nelle aspirazioni del giovane stato, e allentò i rapporti con le monarchie hascemite di Giordania e Iraq. Il suo sistema autoritario e la strategia politica determinarono un colpo di stato (14 agosto 1949) guidato dal colonnello Samī Hinnāwī. Al-Zaʿīm e il primo ministro furono giustiziati.
Nel novembre del 1949 si tennero le nuove elezioni per un assemblea costituente. Il Partito del popolo conseguì la maggioranza relativa. Fu nominato presidente provvisorio Hāshim al-Ātasi, che si riavvicinò a Giordania e Iraq provocando l’opposizione dei militari che, sotto la guida del tenete colonnello Adīb al-Shīshaklī, deposero Hinnawī (2 dicembre).
Dalla fine del 1949 al 1951 il Partito del popolo governò il paese e in politica estera assunse una posizione di neutralismo isolazionista. Al-Shīshaklī compì un nuovo colpo di stato (29 novembre 1951) e, grazie alla costituzione approvata nel 1953, la dittatura fu trasformata in un sistema presidenziale, con al-Shīshaklī presidente. Furono adottate misure più liberali, ma l’esercito costrinse al-Shīshaklī alla fuga con un colpo di stato guidato dal capitano Mustafà Hamdun (25 febbraio 1954).
Nelle nuove elezioni del settembre 1954 si affermarono gli indipendenti e i populisti filo-occidentali che puntavano a far aderire la Siria al Patto di Baghdad sottoscritto da Turchia, Iran, Iraq e Pakistan (1955) in funzione antisovietica.
[caption id="attachment_4455" align="aligncenter" width="1671"] Nella foro Harold Macmillan, il primo ministro britannico, circondato da Feroz Khan, primo ministro del Pakistan, da Adnan Menderes primo ministro della Turchia e da John Foster Dulles, il ministro degli Esteri americano nel corso del Patto di Baghdad al Lancaster House il 28 luglio 1958 a Londra, Inghilterra.[/caption] Il nuovo governo intraprese il riavvicinamento a Iraq e Giordania; politica sconfessata dal governo nazionalista costituito il 12 febbraio 1955. Fu eletto presidente Shukrī al-Quwwatlī, che si era rifugiato in Egitto. Iniziò così il processo di integrazione della Siria con l’Egitto, dove erano saliti al potere i Liberi Ufficiali (23 luglio 1952) e si era imposto il colonnello Gamal Abd el-Nasser, il cui regime si fece portabandiera del panarabismo punto di riferimento di tutti i popoli arabi che rivendicavano la propria identità culturale e politica contro le potenze occidentali all'indomani della seconda guerra mondiale e che in Siria era incarnato dal Partito Baʿth. Fu stipulato un patto di mutua difesa con l’Egitto (20 ottobre 1955); fu costituito un comitato governativo per la federazione con l’Egitto (luglio 1956).  In occasione della crisi di Suez si creò un unico comando militare siro-giordano-egiziano (ottobre 1956) furono rotti i rapporti diplomatici con Francia e Gran Bretagna e l’esercito siriano fu posto sotto il comando egiziano (novembre 1956). L’anno seguente fu concluso un accordo di unità economica con l’Egitto (settembre 1957) e truppe egiziane sbarcarono in Siria (ottobre 1957). Il 1 febbraio 1958 fu annunciata ufficialmente l’unione tra Siria ed Egitto che prese il nome di Repubblica araba unita (RAU) presieduta da Nasser. Le condizioni che il presidente egiziano pose affinché la Siria entrasse nella neonata unione furono a dir poco umilianti: ritiro dell'esercito dalla vita politica e scioglimento di tutti i partiti Baʿth compreso.
[caption id="attachment_4456" align="aligncenter" width="1671"] Il leader egiziano Gamal Abd el-Nasser[/caption]

Da veri ingenui Ṣalāḥ al-Dīn al-Bīṭār e Michel Aflaq – il cui partito aveva voluto con insistenza tale unificazione - pensavano addirittura di poter diventare i consiglieri ideologici della RAU, fornendo a Nasser un corpus teorico e insegnando agli stessi egiziani il vero arabismo. Ma l’idea di panarabismo del leader egiziano era ben diversa da quella dei fondatori del Baʿth: mentre questi volevano abbattere le frontiere imposte dal colonialismo Nasser desiderava semplicemente controllare la politica estera siriana per tenere sotto scacco i suoi nemici sia arabi che occidentali. Il Ra’īs mise in piedi una struttura al contempo autoritaria e malferma. Tutte le decisioni venivano prese al Cairo, mentre a Damasco il potere venne lasciato nelle mani di un insulso colonnello della polizia, Abdel Hamed Sarraj, nominato ministro dell’Interno. La capitale siriana venne ridotta a un semplice capoluogo di provincia e le ambasciate estere presenti in città furono chiuse. Gli affari dell’unione, decretò Nasser, sarebbero stati gestiti da un gabinetto centrale del quale avrebbero fatto parte anche due siriani, mentre gli affari interni di Egitto e Siria, ribattezzati rispettivamente Regione Meridionale e Regione Settentrionale della RAU, sarebbero stati affidati a consigli esecutivi locali. Le due regioni avrebbero inviato a loro volta i propri delegati ad un’unica Assemblea generale, con sede al Cairo, composta da 400 egiziani e 200 siriani, ma non liberamente eletti bensì nominati da Nasser stesso. Quando il 28 settembre 1961 la Siria si separò dall’unione con un golpe di destra spalleggiato da Giordania e Arabia Saudita oltre che dalla grande borghesia siriana, spaventata dall'ondata di nazionalizzazioni decretata quell'anno da Nasser, nessuno in tutto il paese sparò un colpo in difesa della RAU. Dopo il colpo di stato che pose fine all’unione siro-egiziana assunse la carica di primo ministro Ma’mūn Kuzbarī e fu varata una costituzione provvisoria (15 novembre 1961). La Siria tornò ad essere uno stato sovrano con la stessa classe dirigente degli anni cinquanta, che reintrodusse norme favorevoli ai grandi proprietari terrieri. Questa situazione perdurò un anno e mezzo.

Nel febbraio 1963 la caduta in Iraq del regime di ʿAbd al-Karim Qāsem, e l’assunzione del potere da parte di un governo bathista, aprì la strada a un parallelo capovolgimento in Siria. L’8 marzo 1963 l’ancien régime fu rovesciato da un gruppo di giovani ufficiali impregnati di nazionalismo arabo e di idee socialiste, in gran parte bathisti.
Il Baʿth fu portato al potere dai militari, e da essi ricevette il sostegno per rimanervi. La ridotta classe operaia era in parte di tendenze pronasseriane, che dominavano nella popolazione rurale. La piccola borghesia era incerta e indebolita, mentre la media e alta borghesia e gli ambienti conservatori sunniti erano contrari alla dominazione bathista. I giovani ufficiali erano in buona parte reclutati fra le minoranze religiose, spesso erano sensibili alle dottrine marxiste e rappresentavano l’ala sinistra del partito. Il potere si concentrava sempre di più nelle mani dei militari. Fu intrapreso un percorso per uno sviluppo del cosiddetto socialismo arabo, tentando di liquidare le basi economiche della vecchia élite che era già stata eliminata politicamente. Fu applicata la riforma terriera. Dopo violenti scontri con le forze più conservatrici furono nazionalizzate le aziende commerciali e industriali.
Il 1963 è stato un anno decisivo nella storia moderna siriana. Con il colpo di stato bathista emerse una nuova composizione della classe politica siriana. Subirono un repentino mutamento le relazioni tra i sunniti e i non-sunniti, popolazione urbana e rurale, classi ricche e povere, gruppi politici conservatori e progressisti.
Dal 1942 le posizioni di potere erano concentrate nelle mani dei sunniti urbanizzati (soprattutto damasceni e, al secondo posto, aleppini), appartenenti alle classi agiate e ai partiti politici conservatori. I membri delle minoranze religiose (soprattutto quelle islamiche eterodosse) e gli abitanti delle aree rurali erano pesantemente sottorappresentati nelle istituzioni, ed erano discriminati sotto il profilo politico e socioeconomico.
Dopo l’8 marzo 1963, le relazioni tra questi gruppi cambiarono radicalmente, come è mostrato dal fatto che membri delle comunità islamiche eterodosse (soprattutto alawiti, seguiti da drusi e ismailiti) e provenienti dalle aree rurali povere (specialmente la regione di Latakia) si imposero e ottennero una sovrarappresentanza nelle principali istituzioni del potere. Dal 1963 la vita politica siriana fu dominata da persone della classe medio-bassa e da partiti politici progressisti. Fu dato impulso alla riforma agraria; furono nazionalizzate banche (1963), industria e commercio (1965).
Alla rivoluzione dell’8 marzo 1963, come viene chiamata dalla storiografia bathista, seguì un periodo di instabilità per il controllo dell’esercito e del Baʿth, diventato il partito dominante in un sistema politico quasi monolitico. Nacque una lotta, complicata da personalismi e polemiche, che portò alla frantumazione della direzione del partito. Nel novembre 1963 in Iraq i militari posero fine al regime bathista. In Siria continuò con alterne vicende una poco chiara lotta per il potere.
Dal maggio all’ottobre 1964 fu formato un governo moderato da al-Bīṭār, che riottenne la carica dal gennaio al febbraio 1966, ma si trattò di un episodio sporadico nella lotta fra due opposte fazioni militari.
La lotta intestina all’interno del partito venne risolta il 23 febbraio 1966, con l’ennesimo colpo di stato, che estromise l’ala moderata capeggiata Amin Al-Ḥāfiẓ nonché dai due fondatori del Baʿth Michel Aflaq e Ṣalāḥ al-Dīn al-Bīṭār a favore di quella radicale guidata da Salāh Jadid, Nūr al-Dīn al-Ātasī e Hāfiz al-Asad, che pur confermando gli ideali panarabi, dava la priorità alla creazione in Siria di uno stato forte retto dal partito e con un economia forgiata secondo le dottrine marxiste. Gli avversari vennero accusati di essere “agenti dell’imperialismo” e “traditori”; chi non riuscì ad abbandonare il paese venne arrestato, come al-Bīṭār. Aflaq invece trovò rifugio in Iraq dove la sua linea politica fu accettata dai dirigenti del partito a Baghdad che nel luglio del 1968 riconquistarono il potere. Da questo evento nacque la contrapposizione fra bathisti siriani e bathisti iracheni.
Salāh Jadid, divenuto nuovo segretario del Baʿth siriano, proseguì il riallineamento al blocco sovietico, e perseguì una politica intransigente nei confronti di Israele e Arabia Saudita, chiedendo la mobilitazione del popolo contro il sionismo, piuttosto che sostenere delle alleanze militari inter-arabe. Sul fronte interno, Jadid, alleatosi con l’ideologo Nūr al-Dīn al-Ātasī, nominato nuovo presidente della Repubblica di Siria nel febbraio 1966, tentò di far passare forzosamente la società siriana al socialismo, creando tensioni e difficoltà economiche. Fu avviato un programma di trasformazioni sociali e infrastrutturali, si realizzò l’alleanza governativa tra il Baʿth e il Partito comunista siriano, e praticamente venne nazionalizzata l’intera economia del paese.
Il sostegno popolare al regime subì un crollo in seguito alla sconfitta della Siria nella Guerra dei Sei Giorni del 1967, quando Israele conquistò le alture del Golan. Ciò contribuì ad acuire le tensioni all’interno delle nuove fazioni e si ebbero scontri e manifestazioni, tanto che molti membri del comando militare del Baʿth furono estromessi o espulsi, portando alla formazione di un’altra fazione principale, oltre a quella legata all’apparato del partito guidato da Salāh Jadid; una fazione panaraba essenzialmente legata agli ambienti militari. Essa propugnava un atteggiamento più moderato sul socialismo e sulle relazioni internazionali, ed era rappresentata da Hāfiz al-Asad, allora Ministro della Difesa. La fazione del gruppo di Asad, contrariata dall’avventurismo di Jadid, chiese anche la normalizzazione della situazione interna mediante l’adozione di una costituzione permanente, la liberalizzazione dell’economia e la ricucitura dei legami con i gruppi non-bathisti messi fuori legge, così come il riavvicinamento ai paesi arabi conservatori come la Giordania e l’Arabia Saudita.
Nel 1969, al-Asad aveva eliminato dalle forze armate parecchi sostenitori di Jadid, che da quel momento perse il controllo sullo Stato. Nel settembre 1970 Jadid fece inviare un’unità siriano-palestinese dell’Esercito della Liberazione della Palestina (Jaysh al-tahrīr al-filaṣṭīnī), dislocato in Siria, in sostegno ai palestinesi che allora erano in rivolta contro la monarchia hascemita di Giordania. Ma l’operazione dovette essere sospesa quando Israele minacciò di intervenire direttamente in difesa del monarca giordano Hussein. Tale politica avventurosa e irresponsabile non venne sostenuta dalla fazione del Baʿth guidata da Asad, e il suo fallimento provocò lo scontro tra i gruppi di Jadid e di Asad presenti nel partito e nel’esercito.
Il 16 novembre del 1970, Hāfiz al-Asad “spodestò” definitivamente Jadid, e compì quello che venne definito “movimento correttivo” (al-ḥarakah al- tasḥiḥiyyah), presentando al popolo siriano il suo golpe come un aggiustamento della politica impopolare di Jadid.
[caption id="attachment_4459" align="aligncenter" width="1014"] General-Hafez-Assaad[/caption] Il generale Hāfiz al-Asad nacque il 6 ottobre 1930 a Qardaha, nell’area di Latakia, da una famiglia appartenente alla minoranza religiosa degli alawiti. L’origine di questa minoranza, diffusa principalmente fra Siria e Turchia, è ancora discussa, tuttavia secondo l’ipotesi maggiormente accreditata dagli studiosi, essa discenderebbe dai Nusayriti che nel IX secolo si scissero dallo Sciismo duodecimano accordando un carattere quasi profetico a Ibn Nusayr in quanto bāb o porta (rappresentate) dell’XI Imām al-Ḥasan al-ʿAskarī (m. 873). Secondo la religione nusayrita, le anime degli uomini, dopo essere state beneficiate dalla presenza divina, le si sono ribellate finendo esiliate sulla terra e condannate alla metempsicosi, che è eterna per le anime dannate, ma che può essere interrotta nel caso delle anime elette. A causa del carattere fortemente eterodosso della loro dottrina i Nusayriti furono sempre guardati con sospetto se non con aperta ostilità dall’ortodossia sunnita, in particolare dal noto teologo siriano medievale Ibn Taymiya (1263 – 1328), il quale emise una fatwa (responso giuridico islamico) in cui sosteneva che costoro fossero più pericolosi dei cristiani ed esortava i musulmani alla guerra di santa contro di loro. A tale fatwa fanno ancora oggi riferimento gli estremisti islamici impegnati a combattere contro il governo di Damasco.
Allievo alla scuola militare di Homs, il giovane Asad ne uscì nel 1955 con il grado di luogotenente e un brevetto di pilota da caccia. A partire dalla presa del potere da parte del Partito Baʿth, egli fece un’abile e paziente carriera politica. Nominato generale e comandante delle forze aeree nel 1965, divenne Ministro della Difesa nell’anno successivo. Da quel momento la sua scalata al potere divenne più celere, in quanto egli utilizzò i due posti chiave da lui occupati, quello di capo dell’aviazione e di Ministro della Difesa, per la conquista metodica dell’esercito prima ancora di quella dello Stato. Contemporaneamente, suo fratello, Rifʿat al-Asad, ebbe il permesso di creare dei corpi speciali, le Compagnie per la difesa della rivoluzione (Sarāyā difāʿat al-thawrah), i cui effettivi vennero reclutati nel suo villaggio natale di Qardaha, fra la popolazione alawita, e costituirono di fatto una sorta di esercito personale, usato dalla famiglia al-Asad per il colpo di Stato del 1970, avvenuto senza spargimento di sangue.
Il programma di liberalizzazioni economiche (infitah) promosso da Hāfiz al-Asad all’indomani della presa di potere nel 1970 fu diretto alla raccolta e alla mobilitazione del capitale privato nazionale. In cambio del riconoscimento della propria legittimità politica, il regime offrì alla borghesia urbana e mercantile maggiori spazi di libertà economica, la ripresa delle relazioni con i capitali arabi e europei, nonché l’opportunità di costruire una nuova classe di imprenditori, anch’essi impegnati nell’intermediazione tra capitali esteri e settori produttivi nazionali. Esemplificative furono le concessioni delle licenze per l’import-export assegnate a ditte private di proprietà di grandi famiglie damascene, o la diretta cooptazione degli intermediari commerciali privati all’interno dei diversi ministeri economici.
Nel febbraio del 1971 fu approvato un emendamento alla costituzione provvisoria del 1969 che autorizzava l’elezione a suffragio universale del generale Asad alla presidenza della repubblica per un periodo di sette anni, elezione che ebbe luogo il 12 marzo 1971 e nella quale Asad ottenne il 99,2 per cento dei suffragi. Il mandato settennale fu poi via via rinnovato sino al suo decesso. Fu poi eletto segretario del Baʿth (maggio 1971).
Nel 1972 il presidente Hāfiz al-Asad fondò il Fronte Nazionale Progressista ( al-Jabha al-Wataniyyah at-Taqaddumiyyah), ovvero una coalizione di partiti politici di orientamento socialista e panarabo, che supportavano il governo e il “ruolo di primo piano nella società” del partito socialista arabo Baʿth. Oltre al Baʿth, che era ovviamente il gruppo dominante, ne facevano parte il Partito Comunista, l’Unione Socialista Araba (Asu, residuo nasseriano dei giorni della RAU), il Movimento Socialista Arabo (Asm, i superstiti del partito di Akram al-Hawrani) e l’Organizzazione degli Unionisti Socialisti (ovvero, i nasseriani ex-bathisti).
[caption id="attachment_4458" align="aligncenter" width="1671"] Federazione delle Repubbliche Arabe firma dell'accordo del 1971. A sinistra: il presidente egiziano Anwar Sadat , il presidente sudanese Jaafar Nimeiri , il Colonnello Muammar Gheddafi e il presidente siriano Hafez al-Assad.[/caption] Ai quattro partiti non era però concesso di fare proselitismo tra gli studenti e nell’esercito, che restavano riserva di caccia del Baʿth. Il Fronte tuttavia non era puramente formale in quanto rifletteva le diverse tendenze di tipo radicale sorte durante le sollevazioni degli anni precedenti. Di conseguenza anche la base del regime di Asad iniziò ad allargarsi e alcuni leader del Fronte ottennero poltrone al governo.
Bibliografia:
_Mirella Galletti, Storia della Siria contemporanea, Bompiani, 2014
_Lorenzo Trombetta, Siria. Dagli Ottomani agli Asad. E oltre, Mondadori Education, 2014
_Patrick Seal, Il leone di Damasco. Viaggio nel 'Pianeta Siria' attraverso la biografia del presidente Hafez al Assad, Gamberetti, 1995
_Frédéric Pichon, Siria: perché l'Occidente sbaglia? Saggio sul conflitto che insanguina il Medio Oriente, Fuoco Edizioni, 2016

[vc_row][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1470865382115{padding-bottom: 15px !important;}"]Nota su Lévinas. «Soggetto», «Io violento», «Altro»[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di  Francesco Di Turi del 04/08/2016[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1470932223359{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Cosa significa fare i conti con la crisi del Soggetto? Cosa significa «crisi del Soggetto» nel senso di dissoluzione della metafisica in quanto decentramento e smottamento del punto di appoggio fondamentale, del fondamento sul quale e intorno al quale è venuto a costituirsi il «discorso filosofico della modernità»? Quando la struttura stessa di ogni categorizzazione a partire dal principio inconcusso che, per strati archeologici, appare sotto le vesti di Idea o di energheia al culmine greco della filosofia, di Summum bonum, Summum ens teologico, quindi di Soggetto rappresentante al principio della modernità, di Sostanza, Causa Sui in Spinoza? Passando per l’Io penso di Kant; o ancora in forma di Spirito come Soggetto Assoluto in Hegel fino alla sua estrema propaggine, vale a dire nella forma della Volontà di Potenza in Nietzsche?
A partire dalle radici greche del fenomeno si fa risalire la nascita del Soggettomoderno a Cartesio. Il Soggetto, a partire da Cartesio e via via fino alla sua dissoluzione nietzscheana è il luogo in cui l’autocomprensione dell’uomo moderno si riduce innalzandosi fino alla persuasione di poter assoggettare a sé tutto il conoscibile, tutto il reale, tutta la verità.

[vc_row][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1470865719458{padding-bottom: 15px !important;}"]Immanuel Kant e il nichilismo Europeo[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Francesco di Turi del 03/08/2016[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1470932473485{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Cominciamo in via provvisoria con il localizzare il nichilismo nella storicità europea attraverso due nodi interni ad esso che determinano le sue tre direttrici di senso storiche.
Che cos’è «nichilismo»? Nichilismo è l’erosione del senso, l’impossibilità dello stesso domandarsi il «perché» delle cose. L’inutilità e l’illusione che la domanda sussista. Nichilismo non è semplicemente il fatto, già di per sé stesso inquietante, della mancanza di una possibile risposta al «perché» ma, più radicalmente, è la stessa insensatezza della domanda, la sua interna natura dialettica. Questa è un’accezione precisa di nichilismo e pur tuttavia non l’unica; più precisamente essa è la forma che il nichilismo europeo assume solo con Nietzsche e dopo Nietzsche ma non necessariamente in Nietzsche, è il luogo in cui il nichilismo precipita in se stesso facendosi assoluto nel senso rigoroso della nozione. La condizione della possibilità di un simile precipitare assoluto del nichilismo ha nome Immanuel Kant.

[vc_row css=".vc_custom_1470866407403{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1470866202378{padding-bottom: 15px !important;}"]La bio-psicologia del riflusso storico e il nichilismo europeo[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Francesco Di Turi del 02/08/2016[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1470932542705{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Tutti i movimenti della storia compreso quello in corso, e a maggior ragione le soglie che discriminano le epoche storiche, sono eventi che agiscono sulle strutture psichiche consce e subconsce dell’individuo e delle comunità a cui esso appartiene. Il riflusso storico attuale che caratterizza pressoché tutte le culture globali e che proviene da differenti situazioni storiche analogiche passate e dissolte, determina un rifluire, un riemergere carsico anche delle condizioni psichiche consce e subconsce delle situazioni storiche che ritornano.

[vc_row css=".vc_custom_1470767044080{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470767053433{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1470866724714{padding-bottom: 15px !important;}"]Il «caso Heidegger». Introduzione al nichilismo europeo[/vc_column_text][vc_separator css=".vc_custom_1470767563136{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Francesco Di Turi del 01/08/2016[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1470932978942{padding-top: 15px !important;}" el_class="titolos6"]

Diceva Hegel che l’ovvio, proprio perché tale, resta sempre non conosciuto poiché assunto come mero dato senza pensarlo. Se nelle cose della filosofia quasi sempre ciò che è ovvio è anche fragwürdig, ossia «degno di essere domandato»; nei suoiarcana, questo stesso ovvio diventa das Fragwürdigste, «la cosa fra tutte che è più degna di domanda». E cosa c’è di più ovvio sul piano storico di affermare che l’uscita da un conflitto qual è stato la Seconda Guerra Mondiale sia stata un’uscita con conseguenze profonde per tutta l’Europa e non certo solo per la Germania? Quindi, proprio perché cosa ovvia e proprio perché prendiamo sul serio Hegel, c’è da chiedersi se siamo davvero sicuri di aver già meditato a sufficienza cosa è stato per l’Europa lo scontro tra le tre ideologie più potenti della storia: il liberalismo-democratico, il comunismo e il fascismo-nazionalsocialismo. Tre ideologie legate a doppio filo al senso stesso della filosofia occidentale la quale si pone nei loro confronti come madre.

[vc_row css=".vc_custom_1470767044080{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470767053433{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1470933744666{padding-bottom: 15px !important;}"]Alberto da Giussano tra realtà e mito[/vc_column_text][vc_separator css=".vc_custom_1470767563136{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Alberto Peruffo del 27/07/2016[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1470935366439{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]La figura di Alberto da Giussano è ultimamente tornata d’attualità come simbolo identitario, tanto che in Lombardia è di recente la polemica che vuole la ricorrenza del giorno della battaglia di Legnano come data simbolo per celebrare la festa della Regione.