[vc_row css=".vc_custom_1470767044080{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470767053433{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1476447355903{padding-bottom: 15px !important;}"]

Costruire Abitare Pensare. Serra-Tancredi-Mennella

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23 settembre 2016 - Corso Mazzini 90, "Biblioteca Comunale Gabrielli" Ascoli Piceno
Introduce: Giuseppe Baiocchi - Alessandro Poli
Intervengono: Danilo Serra, Adelmo Tancredi, Raffaele Mennella
Si esibisce: L'ensemble di chitarre della associazione Chitarristica Picena
 

Il progetto annuale “Costruire Abitare Pensare” vuole esaminare la crisi contemporanea dell’abitare sia in termini teorici generali, ossia ricorrendo alle spiegazioni, alle categorie ermeneutiche e alla presenza dei maggiori pensatori contemporanei, sia focalizzandosi sulla condizione specifica riscontrabile ad Ascoli Piceno, entro un confronto tra patrimonio storico-architettonico cittadino, organizzazione e sviluppo urbano attuale e rispondenza alle esigenze dell’abitare contemporaneo. Tramite la realizzazione d’iniziative dal basso impatto economico (mostre, estemporanee d’arte, convegni, presentazioni di volumi, retrospettive cinematografiche, sonorizzazioni urbane) volte all’analisi delle cause e delle conseguenze che la crisi dell’abitare contemporaneo porta con sé, l’obiettivo di tale progetto culturale è quello di incentivare lo sviluppo del capitale umano riconoscendo il valore incondizionato della persona e il senso della sua crescita, quello di esercitare una funzione “segnaletica” anticipatrice dei problemi, nonché generare valori d’uso culturali, ricadute qualitative in grado di favorire la collaborazione ed il senso di appartenenza alla comunità, incuriosire e costruire una narrazione condivisa in cui ritrovarsi, una storia, un tessuto di idee in grado di unire e far abitare realmente la città.

[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1476357453293{padding-bottom: 15px !important;}"]Sorrentino: La Grande Bellezza e il culto dell’estetica[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Maurilio Ginex del 13/10/2016[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1476522091564{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Se oggi nello scenario cinematografico italiano c’è un film che è stato ingiustamente oggetto di critiche disgregatrici e al contempo lodevoli è proprio “La Grande Bellezza” di Sorrentino. Spesso Sorrentino viene inquisito per motivazioni dovute a una mancata trama lineare all’interno dei suoi film e a una forzatura nella rappresentazione dei concetti mediante l’immagine. E’ un regista che conoscendolo, attraverso le sue opere, devi dare per scontato che la tua personale interpretazione non sia il prodotto della tua percezione sensibile, ovvero, di quella forma di “verità” delle cose che acquisisci attraverso l’utilizzo dei tuoi sensi, senza attuare un ragionamento che decostruisce fino all’essenza ciò che hai davanti agli occhi, in questo caso il significato delle immagini. In questo stesso caso nella Grande Bellezza l’errore più comune che possa essere fatto è giudicarlo per quello che è e non per quello, che attraverso la sua essenza apparentemente celata, vuole far pervenire agli spettatori.
[caption id="attachment_6404" align="aligncenter" width="1000"] Il fotografo Gianni Fiorito fotografa un momento del Set. Nella foto Paolo Sorrentino dialoga con gli attori Toni Servillo e Sabrina Ferilli.[/caption]
Dunque prendere con razionalità sensibile ciò che un tema come quello del film in questione vuole far trapelare potrebbe creare un giudizio affrettato che potrebbe ostacolare una corretta interpretazione del significato del film.
La Grande Bellezza rappresenta un perfetto prodotto di un ragionato utilizzo del montaggio delle immagini, cosa che secondo Gilles Deleuze è ciò che di più importante vi è in un film, e della consapevolezza dell’autore di ciò che l’immagine deve produrre sul soggetto interpretante. Il montaggio è proprio così importante, come dice Deleuze, perché è da una corretta impostazione di esso che proviene l’idea rappresentata dell’autore.
[caption id="attachment_6402" align="aligncenter" width="1000"] Gilles Deleuze con William Burroughs[/caption]
Fu Hegel a spiegare come l’opera d’arte, in quanto prodotto dello spirito, ha bisogno di un’attività soggettiva producente, per l’intuizione ed il sentimento del pubblico.
Egli , espressamente dice che quest’attività è proprio la fantasia dell’artista. La fantasia rappresenta il leitmotiv del creatore che spinge l’artista a creare, a fare arte.
Sorrentino nel suo processo creativo rappresenta classicamente questa borghesia romana, tipicamente oggetto di indagine dai tempi de “Il boom” di De Sica, che sintetizza in Tony Servillo il personaggio raffinato, colto, con savoir faire da poeta maledetto.
Ma il tema affrontato non è tanto la borghesia in quanto classe sociale agiata, ma è la decadenza culturale di cui questa classe è portatrice. La rappresentazione della classe diventa una necessità per evidenziare un tratto peculiare che la caratterizza. Salta all’occhio il fatto che Sorrentino renda enorme consapevolezza al protagonista riguardo al fatto che in questa decadenza ci abita e non ne riesce ad uscire.
Jep non riesce più a scrivere un romanzo dall’età di 16 anni quando scrisse “L’apparato umano”, romanzo che rappresenta quello scorcio di vita dello stesso scrittore in cui scoppiò nel suo animo l’amore per una bellissima ragazza lasciando una ferita rimasta aperta per tutta la vita.
Sorrentino è davvero illuminante nell’affrontare con stile, forse l’unico aspetto per cui oggi troveremmo giustificata l’applicazione di una piccola parte del pensiero di Nietzsche. Quest’ultimo vedeva come prodotto della decadenza morale dei valori occidentali la capacità di creare e , di fare arte. Vedeva nel manierismo, dunque il rifarsi al passato per superare ostacoli presenti, il fallimento della società a lui contemporanea. Soggettivamente e a discapito delle varie interpretazioni nel film, Sorrentino riesce a far prendere forma cinematografica a questo concetto di decadenza e oscurantismo culturale. Oscurantismo che si sintetizza in uno scrittore che non riesce più a scrivere o in un cardinale che pecca continuamente di gola e che parla solo di cucina o in un’egocentrica radical chic senza chissà quali capacità che è il personaggio di Stefania. Non vi è più creazione da parte dell’individuo, non c’è più una struttura di valori che possano modellare la società in base ai soggettivi impieghi.
[caption id="attachment_6403" align="aligncenter" width="1000"] Il fotografo Gianni Fiorito, immortala Toni Servillo in una delle scene simbolo della decadenza mostrata ne "La Grande Bellezza".[/caption]
Ciò che è andato perduto è proprio la grande bellezza. Bellezza che funge da motore ispiratore per il mondo e che il mondo si è giocato a carte con la corruzione e il capitalismo più sfrenato che genera soltanto immagine lasciando soltanto le tracce di un nulla esasperato e magmatico. Una grande bellezza , di cui Sorrentino rappresenta in maniera perfetta la perdita. Quello stormo di fenicotteri che in un primo momento abita la terrazza di Jep e subito dopo la abbandona , in seguito al soffio di vento emanato dalla suora , "santa”.
Il film richiede, quasi per necessità, un’interpretazione che si spogli del metodo razionale dei sensi come dicevamo in principio. Vi è la necessità di andare oltre ciò che la retina oculare mostra alla mente, vi è la necessità dell’intelletto per giungere al significato di quest’opera. Come forse una piazza di De Chirico o il mondo surreale di Bunuel o ancora il fantastico mondo dell’8 e mezzo di Fellini , la Roma della Grande Bellezza ha bisogno di quel momento di realizzazione che nell’intenzionalità dell’autore non è quella di trovare significato a ciò che razionalmente è nulla ma anzi è quello di far scoprire un mondo interiore, qual è il suo.
Sta qui l’intuizione, sta qui il genio, l’originalità della fantasia che muove l’artista e la sua ispirazione.
La Grande Bellezza , dunque, rappresenta un capolavoro estetico che tra il “My Heart’s in the highlands” e la raffinatezza del Jep e dei luoghi in cui cammina e che vengono raffigurati , arriva sino alle corde interiori più profonde.
 
Per approfondimenti
_Paolo Sorrentino, La Grande Bellezza - Film uscito il 21 maggio 2013, genere drammatico
 
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

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Le responsabilità dell'abitare.
23 settembre 2016 - Corso Mazzini 90, "Biblioteca Comunale Gabrielli" Ascoli Piceno
Interviene: Danilo Serra

[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1476223966926{padding-bottom: 15px !important;}"]La musica nel mondo antico occidentale[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Giuseppe Baiocchi del 12/10/2016[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1476343088212{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Se poniamo il quesito sul dove proviene la musica classica, dobbiamo porci alcune importanti riflessioni.
La disciplina musicale ha avuto un destino storico profondamente diverso rispetto alle altre arti. Se si parte dalla grandezza della cultura greca, la disciplina musicale - anche se ben presente - possiede scarse fonti scritte, lasciando spesso fonti extramusicali dei grandi filosofi greci. Non si riteneva che la musica fosse un'arte da tramandare alla posterità e di conseguenza questa non è stata accompagnata da una precisa coscienza storica, rendendo precluso a tale disciplina un principio di dinamico sviluppo.
La tradizione classica della civiltà musicale occidentale può iniziare partendo dalla parola greca Musichè (μουσική). Questo termine non comprendeva solo la musica, ma altre discipline umanistiche quali: la poesia, la danza e la ginnastica.
[caption id="attachment_6382" align="aligncenter" width="1000"] Alma-Tadema, Sir Lawrence (1836-1912) - Saffo e Alceo, 1881 Olio su tela 66x122 cm[/caption]
Dunque gli antichi preferiscono portare per iscritto inizialmente solo la poesia e così viene spiegata la mancanza di testi prima del III secolo a.C.
La stessa Musichè greca ha avuto forti influenze dalla civiltà mesopotamica e ne risulta (nonostante una distinta via culturale/musicale) fortemente contaminata fra le varie etnie e culture presenti. Tutti gli strumenti musicali antichi come l’arpa, la cetra, il flauto, il sistro erano tutti già sviluppati in altre aree non elleniche.
Se per le civiltà egizie, ebraiche, fenicie e babilonesi la musica era strettamente legata al rito religioso, di contro nella civiltà greca la Musichè assume un carattere più laico/ricreativo e successivamente anche educativo.
Nel periodo del VII secolo a.C. la musica sembra abbia un potere medico-religioso per acquistare successivamente una dimensione edonistica (concezione filosofica secondo cui il piacere è il bene sommo dell'uomo e il suo conseguimento il fine esclusivo della vita).
Nel tardo-citaredo (epoca che prende il nome dall’uso del poeta, il quale cantava accompagnandosi sempre con la cetra) si abbandona la pratica magico/religiosa/curativa e la musica diviene elemento per le attività ricreative.
Si forma la figura del “cantore” che si accompagna sempre con la lira, il fhorminx o il kitharis, tutti elementi di derivazione greca che si alternano spesso ad elementi musicali di tipica derivazione asiatica, come l’aulos e la syrinx.
[caption id="attachment_6383" align="aligncenter" width="1000"] da sinistra a destra: Lira, Cedra, L'aulòs e il flauto, il Flauto di Pan, Sistri, Cembalo, Tamburelli, Lira Cretese.[/caption]
Nel VI secolo in Grecia con la scuola di Pitagora detta appunto “pitagorica”, la storia del pensiero musicale ha una svolta importante. La scuola che adempiva alle funzioni di setta religiosa-filosofico-politica apre alla musica il concetto di armonia. 
Filolao dal greco antico Φιλόλαος, è stato un filosofo, astronomo e matematico greco antico. Esponente della corrente pitagorica, asseriva come i rapporti musicali esprimono nel modo più tangibile ed evidente la natura dell’armonia universale e di conseguenza i rapporti tra i suoni, esprimibili in numeri, possono essere assunti come modello di armonia universale.
Di interesse, fu parallelamente, lo studio della musica prodotta dagli astri che ruotano nel cosmo secondo leggi numeriche e proporzioni armoniche.
Lo studio matematico degli intervalli musicali, così come la divisione della scala, fa nascere proprio il concetto di armonia e di numero.
I pitagorici asserivano che “l’animo è armonia”, avvicinando la musica per la prima volta all'essere dell'uomo. La musica può contribuire a ricostruire “l’armonia dell’anima”, turbata da qualche fattore esterno, poiché essa stessa è armonia.
Una sorta di purificazione interiore, una “catarsi” che si riallaccia fortemente alla musica e alla medicina, creando il sentimento della “musica, come medicina dell’anima”. Questa possiede così una carica etica e pedagogica che sino ad allora non era stata teorizzata.
[caption id="attachment_6381" align="aligncenter" width="1000"] Fëdor Bronnikov, Pitagorici celebrano il sorgere del sole 1869[/caption]
Il VI secolo è di grande rilievo anche per la creazione della Tragedia. Questa nasce da un antico canto orgiastico (di carattere rituale) che si riservava al Dio Dionisio e prendeva il nome di Ditirambo o Tragodia. Tragedia (τραγῳδία, trago(i)día o canto del capro che nasce, appunto, dai canti diritambici.
A grandi linee, la codificazione rituale dovette avvenire in questi termini: il coro, o meglio i due semicori (con a capo il Corifeo), celebrando le lodi del Dio, venendo ad agire intorno all'altare, (la timelè o Ara) in uno spazio semicircolare che assunse il nome di orchestra (dal greco orkeomai che significa "danzare").
La timelè conserva comunque il centro dello della rappresentazione scenica.
Aumentando progressivamente il numero dei personaggi (suddivisi in menadi, ovvero uomini con maschere da donna e da satiri, uomini mascherati da uomini-bestia)  si presenta di pari passo l'esigenza di un riparo cui l'attore possa celarsi durante i cambi d'abito. Questo luogo deputato, costituito agli inizi da un semplice siparietto, dal termine greco skené (che significa appunto tenda) assumerà la definizione teatrale di "scena" e verrà ad assumere un ruolo centralizzante nella rappresentazione teatrale, che successivamente verrà sopraelevata sfruttando, in un primo tempo, un rialzo naturale del terreno, o costruendo una pedana in legno.
Il rialzo della skené e dello spazio circostante, ancora oggi è definito col termine di proscenio. Questo assetto dello spazio scenico verrà corredato dalla presenza di due corridoi laterali aperti verso l'orchestra, che servivano per le entrate e le uscite dei semicori e che prendevano il nome di paradoi.
Trattandosi quindi di rendere partecipi migliaia di spettatori che dovevano, non solo vedere, ma anche ascoltare, il problema poteva essere risolto solo con una sopraelevazione del pubblico stesso. Da questa semplice considerazione nasce la struttura plateale ad anfiteatro chiamato oggi "teatro greco".
Il teatro greco si è sviluppato in forma compiuta solo dopo l'età periclea. Gli elementi suoi caratteristici sono la cavea, area semicircolare a gradoni, dove sedevano prima due scale laterali e infine, da una serie di scalinate radiali chiamate cunei.
[caption id="attachment_6385" align="aligncenter" width="1000"] Nella foto di destra: Odeon di Erode attico sul versante sud dell'Acropoli di Atene. Grecia 161 a.C.[/caption]
Nei primitivi teatri la cavea era formata in terra battuta (teatro di Siracusa, 470 a.C,), solo nel IV secolo a. C. viene realizzata interamente in pietra (Teatro di Epidauro, 370 a. C.). L'orchestra è la zona nella quale in origine e durante tutto il periodo classico agivano i danzatori e i coristi. Più tardi la rappresentazione si sposta in un piano sopraelevato. La sckené, in origine era un fondale di tela posto nell'orchestra, di fronte alla cavea, più tardi costruita in legno per accogliere gli attori durante il cambio dei costumi, fu posto dapprima a fianco dell'orchestra, poi costruita in muratura, fu posta di fronte alla cavea di modo che la parete sull'orchestra serviva da fondale.
Un'ultima modifica portò alla formazione del proskenion che consiste in una articolazione a forma di "U" della sckené.
Tornando alla storiografia musicale greca, non si può ignorare la scuola platonica. Il filosofo greco Platone (427-347 a.C.) darà un carattere (ethos) diverso alla musicalità.
Il filosofo condannando aspramente la musica dei teatri con il loro divertimento che porta: "l’animo umano verso la disgregazione e il caos", esalta l’ethos della musica che invece, appartiene alla tradizione. Nella, ormai prossima, rivoluzione musicale del V secolo a.C. il conservatore Platone afferma come la musica deve essere una scienza – non più dei sensi – ma della ragione.
Se questa operazione si compie e la musica si identifica con la filosofia, si può giungere sino alla massima rappresentazione filosofica in forma di sophia (sapienza).
Dunque “filosofare” – se si prende ad esempio il Fedro con il suo mito delle Cicale – significa rendere onore alla musica e la sua appropriazione umana può avvenire solo quando si arriva alla sophiaConservare la tradizione, dunque, sembra essere lo scopo platonico, poiché attraverso la tradizione si tutela il suo Nomos (valore di legge).
Platone basa le sue tesi sull’invenzione del VII secolo a.C. di Terpandro poeta e musicista, il quale genera secondo una rigida legge melodica i Nomoi – termine derivante dalla legge che Platone difende fin dalla prima ora.
I Nomoi sono degli schemi melodici composti, da quanto afferma lo Pseudo-Plutarco, per la cetra e la lira: due strumenti consoni alla tradizione dorica di ethos (carattere) pacato e saggio.
Aprendo una piccola parentesi, nel III secolo a.C. lo pseudo-Plutarco (per pseudo-Plutarco si intende una fonte attribuita a Plutarco, poi smentita) nel suo trattato del “De Musica” aggiungeva come la musica poteva anche essere fondamento dell'educazione aristocratica, aprendo la via per una musicalità non solo ricreativa, ma etico/conoscitiva.
Alla scuola Pitagorica-Platonica si affianca anche il commediografo Aristofane del III secolo a.C., ma è chiaro che siamo in piena lotta accademica per quanto concerne la cultura di riferimento musicale. Si deve a Platone la rottura tra una musica puramente pensata e perciò più apparentata alla matematica in quanto scienza armonica filosofica e dall’altra parte una musica realmente udita ed eseguita. La corrente platonica sarà legata all’etica musicale, ma con un’accentuazione più spiccatamente mistica e religiosa avvicinandosi per certi aspetti alla nuova cultura del neoplatonismo cristiano.
Allievo di Platone, Aristotele (384 a.C. – 322 a.C.) ritiene la musica uno strumento sociale ed educativo prendendo una posizione intermediaria tra le due correnti che si venivano formando e stabilizzando. Per Aristotele la musica ha come fine il piacere e come tale rappresenta l’ozio, cioè qualcosa che si oppone al lavoro e alla attività – da comprendere come il concetto di “ozio” non aveva i connotati negativi che possiede oggi, essendo considerato il modo più appropriato di passare il tempo per l’uomo libero e non schiavo. Dunque la musica veniva definita dal filosofo greco come “attività nobile e liberale”. Attività non manuale, quindi degna di un uomo libero.
Aristotele, rimane però nella storia musicale per alcune operazioni di grande rilievo. Innanzi tutto definisce meglio l’ethos suddividendo con precisione le categorie che rispecchiano i vari caratteri musicali:
_la dorica, equivale ad una armonia di carattere composto e moderato
_la frigia, di carattere melodico entusiasmante
_la misolidia, melodia caratteriale che induce al dolore e raccoglimento
_la lidia, equivale ad un carattere melodico di voluttuosità
Unisce la musica ancor più al sentimento umano, inserisce nella tragedia tre unità fondamentali per l’inquadramento teatrale:
_luogo: unico con la non ammissione del cambio/scena
_tempo: l’esistenza di un unico arco temporale
_azione: l’esistenza di un unico fatto
In conclusione Aristotele intendeva la pratica musicale come un arte nobile solo quando si fermava alla soglia del virtuosismo che porta fatiche eccessive, non degne di un uomo libero.
Nel IV secolo si sviluppa anche la notazione. La prima scrittura musicale greca aveva inizialmente solo una funzione privata per i musicisti e si suddivideva in vocale e strumentale. La prima impiegava i segni dell'alfabeto greco maiuscolo, la seconda segni derivati dall'alfabeto fenicio usati diritti, inclinati o capovolti.
Alla scuola pitagorico/platonica si oppone quella definita peripatetica, letteralmente di coloro che passeggiano ragionando e filosofando. Questa corrente accademica opposta, capitanata da Aristosseno (allievo di Aristotele), vedrà protagonisti molti commediografi e filosofi tra cui Democrito, Euripide (spaziamo intorno al IV e III secolo a.C.) e successivamente i suoi allievi Teofrasto e Cleonide (II e I secolo a.C.).
Euripide fu tra i tragediografi il più fervente sostenitore di questa riforma: trasfigura la tragedia da rito solenne civile-religioso a spettacolo. Inoltre ridimensiona fortemente il ruolo del Coro per far conquistare spazi di grande autonomia alla musica slegandosi dalla rigorosa corrispondenza tra sillaba e nota musicale. Introduce gli intervalli anarmonici (quarti di tono) e cromatici spezzando la concezione rigidamente razionale della musica e dando al musicista la libertà di variare l’armonia per tutta la durata della composizione rendendo il melodizzare più flessibile.
In pieno ellenismo nasce la figura del musicologo, il quale si occupa di musica non più all’interno di un percorso filosofico e pedagogico, ma specialista.
Si presta attenzione alla percezione uditiva e si osservano gli aspetti pratici dell’esperienza musicale.
Con Aristosseno si apre la strada verso una considerazione estetica della musica, che viene intesa oltre il suo carattere etico. Si definisce definitivamente il concetto di armonia: l’organizzazione ordinata di suoni denominati teleion (perfetto) i quali avevano per base l’estensione della voce umana e degli strumenti. Il teleion sostituisce i nomoi. Questo ingegnoso sistema consisteva in una serie di quattordici suoni disposti in successione discendente, con l’aggiunta al “grave” di un suono supplementare. L’Organizzazione delle ottave era suddivisa in frazioni di quattro suoni o “tetracordi” (quattro note insieme).
Oltrepassando la grecità ed arrivando nella penisola italiana, dobbiamo agli etruschi l'invenzione di alcuni strumenti a fiato (archetipi della tromba) come la Tuba, il Cornu e la Bucina. Anche gli Etruschi prima di essere influenzati nel III secolo a.C. dai Greci lo erano stati, sempre a livello musicale, dai popoli mediterranei di derivazione asiatica.
[caption id="attachment_6384" align="aligncenter" width="1021"] Alma-Tadema, Sir Lawrence (1836-1912) - Bacchanale, 1871[/caption]
La Repubblica romana e successivamente l'Impero ha acquisito totalmente la musicalità dai greci, essendo i romani una civiltà che si fonda sul diritto e non sulla filosofia. L'ideale classico con i suoi significati etici e pedagogici fu del tutto estraneo alla mentalità romana, che si limitò ad ereditare del mondo greco gli usi, le forme e la teoria della musicalità. I Romani prediligevano l'uso della musica sia come strumenti di raccordo-militare, sia come elementi di intrattenimento essenziali per feste e banchetti dove la predominanza di strumenti a fiato e a percussione,rispetto a quelli a corda, era evidente.
 
Per approfondimenti:
_Baroni, Fubini, Petazzi, Santi, Vinay - Storia della musica - edizioni Piccola biblioteca Einaudi
_Elvidio Surian - Manuale di storia della musica, vol.1 - edizioni Rugginenti (6°)
 
 © L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1476105056409{padding-bottom: 15px !important;}"]Le trasformazioni istituzionali e costituzionali dell'Unione[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Miriana Fazi del 10/10/2016[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1476108484223{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
L’Unione europea sta attraversando momenti difficili, ai quali reagisce con una serie di risposte che confondono la sua immagine agli occhi dei cittadini. Mentre il mercato unico è ancora governato dal metodo comunitario – che vede il Parlamento europeo codecidere con il Consiglio e attribuisce piena autorità di supervisione alla Corte europea di giustizia – l’unione economica e monetaria e la politica di sicurezza e difesa comune sono fondamentalmente delegate ad accordi fra Stati membri.
Fin qui, potrebbe sembrare che la consueta distinzione “politica bassa” (le questioni economiche e sociali che possono essere regolate congiuntamente) e “politica alta” (le questioni legate ai compiti fondamentali dello stato sovrano che sono regolate intergovernativamente) determini ancora questo diverso modo decisionale.
Tuttavia, anche nell’ambito della politica alta si assiste a una crescente differenziazione. L’intensificazione del metodo intergovernativo che ha caratterizzato la gestione delle crisi – al plurale, e cioè la crisi economica e finanziaria, le crisi libica, siriana e ucraina, e la crisi dei rifugiati – è stata accompagnata da significative innovazioni istituzionali specialmente nell’ambito della politica economica e monetaria (l’Eurogruppo all’interno del Consiglio, gli Euro Summit all’interno del Consiglio europeo), mentre le questioni estere sono ancora gestite esclusivamente dai ministri degli esteri nazionali e dai capi di Stato e di Governo con l’aiuto dell’alto rappresentante e del presidente della Commissione.
Queste innovazioni istituzionali hanno indotto alcuni studiosi a parlare di una “doppia costituzione” che sarebbe alla base dell’Unione; altri di un nuovo “intergovernativismo deliberativo”; altri ancora di una serie di decisioni intergovernative descritte come “fallimenti in avanti”, cioè , come decisioni emergenziali che hanno innovato istituzionalmente alcune aree di competenza dell’Ue, che hanno poi determinato altre emergenze e quindi sollecitato nuove decisioni in cicli ripetuti di risposte ad hoc e insufficienti. La domanda che anima il dibattito al momento è “In quale direzione evolverà, o dovrebbe evolvere, questa complessa architettura istituzionale”, anche in risposta alla crescente disaffezione e, ormai, aperta ostilità alle politiche europee in ambito di politica monetaria, di bilancio e dei rifugiati – per citarne solo tre questioni che hanno dominato le cronache recentemente – se non all’Unione europea nel suo complesso. Incombe su tutti questi argomenti l’interrogativo se l’Unione europea sia democratica o meno, domanda alla quale un numero crescente di cittadini europei sta rispondendo negativamente con conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti (vedi Brexit).
Che forma avrà l’Unione in futuro è ciò su cui tutti si interrogano in questi giorni. Le risposte, ovviamente, sono diverse. La posizione ufficiale delle istituzioni europee è criticata da alcuni per essere troppo simile a quanto già visto (integrazione compiuta “all’insaputa” dei cittadini e progressione verso uno Stato federale europeo) mentre è criticata da altri per essere del tutto in controtendenza con l’opinione pubblica che sembra invece reclamare la restituzione di quote crescenti di sovranità nazionale. Quanto inadeguate siano entrambe queste risposte è evidente a tutti. La questione più importante – con cui la presente generazione di studiosi deve misurarsi – è piuttosto come riformare l’Unione in modo da riconciliare il suo funzionamento con una nozione di democrazia adatta ai nostri tempi, ricordando che quello di democrazia non è un concetto statico ma che la sua forma e il suo funzionamento, e le aspettative che essa genera nei cittadini, sono cambiati nel corso del tempo in seguito a significative trasformazioni sociali, economiche e geopolitiche. La sfida attuale è ridefinire la democrazia per contesti altamente interconnessi come l’Unione europea nella quale la sovranità deve essere necessariamente condivisa e responsabile.
Dunque non discriminazione e cittadinanza dell'Unione: facciamo chiarezza, dissertando su alcuni articoli.
_Articolo 18 (ex articolo 12 del TCE)
Nel campo di applicazione dei trattati, e senza pregiudizio delle disposizioni particolari dagli stessi previste, è vietata ogni discriminazione effettuata in base alla nazionalità.
Il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria, possono stabilire regole volte a vietare tali discriminazioni.
_Articolo 19 (ex articolo 13 del TCE)
1. Fatte salve le altre disposizioni dei trattati e nell'ambito delle competenze da essi conferite all'Unione, il Consiglio, deliberando all'unanimità secondo una procedura legislativa speciale e previa approvazione del Parlamento europeo, può prendere i provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l'origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la disabilità, l'età o l'orientamento sessuale.
2. In deroga al paragrafo 1, il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria, possono adottare i principi di base delle misure di incentivazione dell'Unione, ad esclusione di qualsiasi armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri, destinate ad appoggiare le azioni degli Stati membri volte a contribuire alla realizzazione degli obiettivi di cui al paragrafo 1.
_Articolo 20 (ex articolo 17 del TCE)
1. È istituita una cittadinanza dell'Unione. È cittadino dell'Unione chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro. La cittadinanza dell'Unione si aggiunge alla cittadinanza nazionale e non la sostituisce.
2. I cittadini dell'Unione godono dei diritti e sono soggetti ai doveri previsti nei trattati. Essi hanno, tra l'altro:
a) il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri;
b) il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni del Parlamento europeo e alle elezioni comunali nello Stato membro in cui risiedono, alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato;
c) il diritto di godere, nel territorio di un paese terzo nel quale lo Stato membro di cui hanno la cittadinanza non è rappresentato, della tutela delle autorità diplomatiche e consolari di qualsiasi Stato membro, alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato;
d) il diritto di presentare petizioni al Parlamento europeo, di ricorrere al Mediatore europeo, di rivolgersi alle istituzioni e agli organi consultivi dell'Unione in una delle lingue dei trattati e di ricevere una risposta nella stessa lingua.
Tali diritti sono esercitati secondo le condizioni e i limiti definiti dai trattati e dalle misure adottate in applicazione degli stessi.
_Articolo 21 (ex articolo 18 del TCE)
1. Ogni cittadino dell'Unione ha il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, fatte salve le limitazioni e le condizioni previste dai trattati e dalle disposizioni adottate in applicazione degli stessi.
2. Quando un'azione dell'Unione risulti necessaria per raggiungere questo obiettivo e salvo che i trattati non abbiano previsto poteri di azione a tal fine, il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria, possono adottare disposizioni intese a facilitare l'esercizio dei diritti di cui al paragrafo 1.
3. Agli stessi fini enunciati al paragrafo 1 e salvo che i trattati non abbiano previsto poteri di azione a tale scopo, il Consiglio, deliberando secondo una procedura legislativa speciale, può adottare misure relative alla sicurezza sociale o alla protezione sociale. Il Consiglio delibera all'unanimità previa consultazione del Parlamento europeo.
_Articolo 22 (ex articolo 19 del TCE)
1. Ogni cittadino dell'Unione residente in uno Stato membro di cui non è cittadino ha il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali nello Stato membro in cui risiede, alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato. Tale diritto sarà esercitato con riserva delle modalità che il Consiglio adotta, deliberando all'unanimità secondo una procedura legislativa speciale e previa consultazione del Parlamento europeo; tali modalità possono comportare disposizioni derogatorie ove problemi specifici di uno Stato membro lo giustifichino.
2. Fatte salve le disposizioni dell'articolo 223, paragrafo 1, e le disposizioni adottate in applicazione di quest'ultimo, ogni cittadino dell'Unione residente in uno Stato membro di cui non è cittadino ha il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni del Parlamento europeo nello Stato membro in cui risiede, alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato. Tale diritto sarà esercitato con riserva delle modalità che il Consiglio adotta, deliberando all'unanimità secondo una procedura legislativa speciale e previa consultazione del Parlamento europeo; tali modalità possono comportare disposizioni derogatorie ove problemi specifici di uno Stato membro lo giustifichino.
_Articolo 23 (ex articolo 20 del TCE)
Ogni cittadino dell'Unione gode, nel territorio di un paese terzo nel quale lo Stato membro di cui ha la cittadinanza non è rappresentato, della tutela da parte delle autorità diplomatiche e consolari di qualsiasi Stato membro, alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato. Gli Stati membri adottano le disposizioni necessarie e avviano i negoziati internazionali richiesti per garantire detta tutela.
Il Consiglio, deliberando secondo una procedura legislativa speciale e previa consultazione del Parlamento europeo, può adottare direttive che stabiliscono le misure di coordinamento e cooperazione necessarie per facilitare tale tutela.
_Articolo 24 (ex articolo 21 del TCE)
Il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando mediante regolamenti secondo la procedura legislativa ordinaria, adottano le disposizioni relative alle procedure e alle condizioni necessarie per la presentazione di un'iniziativa dei cittadini ai sensi dell'articolo 11 del trattato sull'Unione europea, incluso il numero minimo di Stati membri da cui i cittadini che la presentano devono provenire.
Ogni cittadino dell'Unione ha il diritto di petizione dinanzi al Parlamento europeo conformemente all'articolo 227.
Ogni cittadino dell'Unione può rivolgersi al Mediatore istituito conformemente all'articolo 228.
Ogni cittadino dell'Unione può scrivere alle istituzioni o agli organi di cui al presente articolo o all'articolo 13 del trattato sull'Unione europea in una delle lingue menzionate all'articolo 55, paragrafo 1, di tale trattato e ricevere una risposta nella stessa lingua.
_Articolo 25 (ex articolo 22 del TCE)
La Commissione presenta una relazione al Parlamento europeo, al Consiglio e al Comitato economico e sociale, ogni tre anni, in merito all'applicazione delle disposizioni della presente parte. Tale relazione tiene conto dello sviluppo dell'Unione.
Su questa base, lasciando impregiudicate le altre disposizioni dei trattati, il Consiglio, deliberando all'unanimità secondo una procedura legislativa speciale e previa approvazione del Parlamento europeo, può adottare disposizioni intese a completare i diritti elencati all'articolo 20, paragrafo 2. Tali disposizioni entrano in vigore previa approvazione degli Stati membri, conformemente alle rispettive norme costituzionali.
 
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[vc_row css=".vc_custom_1470767044080{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470767053433{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1475757729577{padding-bottom: 15px !important;}"]Intervista a R9 - Rubrica "Il Pungiglione" 05/10/2016[/vc_column_text][vc_separator css=".vc_custom_1470767563136{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos6" css=".vc_custom_1475756611503{padding-top: 45px !important;}"]
05 ottobre 2016 - Radio9 - the New Radio, ore 12.30 - Porto D'Ascoli
Introduce: Corinna Di Matteo
Interviene: Giuseppe Baiocchi

[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1475594726933{padding-bottom: 15px !important;}"]"Le Confessioni"[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Maurilio Ginex del 05/10/2016[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1475596508872{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Roberto Andò racconta la storia di una vicenda che fa parte della vita di un monaco, Roberto Salus. Ci troviamo in un resort di lusso, dove riuniti per un summit vi sono i rappresentanti di tutte le superpotenze mondiali. L’esito della riunione determinerà le sorti del nuovo assetto politico-economico del mondo.
Colui che organizza il summit è Daniel Rochè, ovvero, il direttore del Fondo Monetario Internazionale.
[caption id="attachment_6262" align="aligncenter" width="1000"] L'attore Toni Servillo, interpreta il monaco Roberto Salus[/caption]
Tra gli invitati però non vi sono soltanto tali rappresentanti di queste super potenze, ma vi sono anche una scrittrice di best-seller per bambini , un musicista e Roberto Salus, il monaco testè citato. Il film è un’esatta rappresentazione del mondo ultra-capitalistico di oggi ,che sviluppa i propri interessi economici utilizzando come forma di legittimazione il concetto di riordinamento del sistema globale.
Andò sottolinea in maniera marcata come il mondo degli economisti, dell’economia, delle società segrete, delle banche e delle multinazionali, sia un mondo basato sull’interesse esclusivamente individuale in cui l’alterità perde il suo valore etico ed esistenziale.
Il denaro è il leitmotiv del mondo e intorno ad esso, in quanto bene materiale da cui si dirama l’obiettivo primario del singolo, gira la vita di questo mondo. Vita, che a detta di Andò, viene gestita dai singoli rappresentanti delle potenze mondiali, come se fossero degli Dèi e il mondo fosse costituito da entità inferiori. La vicenda trova il suo punto focale nel momento in cui il personaggio di Daniel Rochè fa chiamare nella sua stanza Roberto Salus.
[caption id="attachment_6263" align="aligncenter" width="1000"] Daniel Auteuil interpreta Daniel Rochè - direttore del Fondo Monetario Internazionale[/caption]
A quest’ultimo verrà chiesto da parte del Rochè di essere confessato. Ciò che determinerà l’unico sviluppo della storia sarà proprio il contenuto di tale confessione, la quale rimarrà nel silenzio più assoluto dell’anima del monaco, e il fatto che subito dopo Daniel Rochè verrà trovato morto all’interno della sua stanza. I problemi che subentrano in conseguenza dell’accaduto sono molteplici. I vari capi delle nazioni non riescono a capire se Daniel si sia suicidato o sia stato ucciso, si manifesterà il problema di come poter comunicare alla stampa l’accaduto e soprattutto ciò che interesserà maggiormente i capi sarà il contenuto della confessione. Tale contenuto potrebbe rappresentare un cataclisma al livello globale, un’apocalisse come lo stesso Rochè la definì. In questo scenario grottescamente strutturato da Andò, con espliciti richiami a ciò che ha potuto lasciare nelle coscienze degli individui il “Todo Modo” di Petri, la figura del monaco Salus rappresenta due cose: da un lato quel rifiuto dell’edonismo scaturito dall’eccesso, il quale eccesso in questo caso è il denaro, da un altro lato rappresenta quell’ultimo scorcio di luce in mondo magmatico e oscurato dall’interesse del possedere e non dell’essere.
[caption id="attachment_6264" align="aligncenter" width="1000"] G8 dei ministri dell'economia[/caption]
La pellicola di Roberto Andò sembra quasi un’onesta e fedele rappresentazione filmica di quel bellissimo testo di Erich Fromm , intitolato propriamente “Avere e essere” , in cui il filosofo delinea in maniera originale le varie differenze etiche, esistenziali, religiose che si interpongono tra il concetto di Avere ed Essere.
Ovviamente questa non è la sede adatta per attuare una dissertazione filosofica, però gli accenni che possono essere fatti a riguardo sono lampanti.
Fromm parla del fatto che la scelta tra l’avere e l’essere non sia una scelta che si possa imporre al buon senso e questa è una grande verità , poiché non è mai facile distinguere le priorità dato che noi ,in quanto uomini terreni, per la vita abbiamo comunque bisogno di possedere, dunque avere, oggetti.
[caption id="attachment_6265" align="aligncenter" width="1024"]erich_fromm_1 Erich Pinchas Fromm è stato uno psicoanalista e sociologo tedesco morto il 18 marzo del 1980.[/caption]
L’avere e l’essere sono due facce della stessa medaglia che costituiscono la personalità dell’individuo , questo e soltanto questo attraverso le leggi etiche saprà come agire nel modo più adatto. Andò , però prende in considerazione soltanto la degenerazione che può incombere all’interno dell’individuo nel momento in cui la sua intenzionalità sia volta unicamente verso l’avere e il possedere. Fromm spiega come il concetto di Avere derivi dalla natura della proprietà privata e in quanto ciò per l’individuo non conta nient’altro che l’acquisizione di tale proprietà e la sua conservazione. La società dell’oggi, che potrebbe liberamente essere definita come la società dell’anti-etico avere, viene delineata dal regista attraverso questa contrapposizione tra i precetti etici e divini di un monaco che vede nell’uomo il suo prossimo, attraverso il quale acquisire la propria autocoscienza, e i dettami di un sistema economico che invece del prossimo fa il proprio nemico a causa di una competitività che fa da protagonista al mondo dell’<<homo homini lupus>>. Emblematiche , conturbanti, imponenti, ecumeniche sono le parole che il regista fa pronunciare al personaggio di Salus, con un richiamo da maestro a Charlie Chaplin ne “Il Dittatore”, il quale guarda fisso negli occhi gli stessi pescecani che non avevano dimostrato nessun’umanità dei confronti della morte del Rochè. I quali non avevano nessun interesse nel comprendere le dinamiche del tragico accaduto, ma soltanto un interesse al contenuto di una conversazione che si pensasse fosse portatrice di verità determinanti per il destino del nuovo ordine mondiale, il quale ordine gestito dalla stessa elitè che solo e prepotentemente ha e possiede, ma mai vuole essere. Salus rappresenta quello schiaffo nel volto di questo mondo fatto sempre di individualismo e mai di collettività.
 
Per approfondimenti:
_Erich Fromm, Avere o essere? - Edizioni Mondadori 2013
_Roberto Andò, Le Confessioni - Film uscito il 21 aprile 2016, genere drammatico thriller
 
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1475509225535{padding-bottom: 15px !important;}"]Quello che amiamo non ci abbandonerà mai.[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Luca Steinmann del 04/10/2016[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1475567679798{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Oggi volevo farvi partecipi di una riflessione destinata a tutti coloro che stanno per concludere gli studi o che abbiano da poco iniziato il precorso lavorativo.
Lo farò ponendomi due domande distinte:
_Come si può salvaguardare l’obiettivo che ci si è dati nella vita senza che questo venga inquinato da fattori esterni?
_Come si può difendere la propria persona e la purezza (perlomeno presunta) dei propri ideali senza che questi vengano contaminati?
Queste sono domande che ogni giovane professionista, ogni ragazzo che passa dal percorso di studio a quello lavorativo si pone (o dovrebbe farlo). Ognuno di noi in gioventù ha avuto dei sogni, degli ideali, delle passioni che avrebbe voluto diventassero il proprio lavoro, oppure che il proprio lavoro diventasse il mezzo per realizzarle.
In molto pochi ci riescono. O peggio. In molto pochi, arrivati in quella fase della vita in cui si può tentare di determinare il proprio destino, provano a farlo.
La maggior parte getta la spugna senza neanche rendersene conto. Michel Houllebecq spiega magistralmente questa resa nel primo capitolo di ‘Sottomissione’, libro che come pochi riesce a mettere a nudo le contraddizioni a cui il tipo umano contemporaneo va incontro.
[caption id="attachment_6235" align="aligncenter" width="1000"] L'attimo fuggente è un film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams[/caption]
La laurea, secondo Houllebecq, segna per questo tipo umano il momento in cui una parte della propria vita, generalmente quella migliore, si conclude, e con essa anche la lotta per raggiungere i propri sogni.
Questi lasciano spazio alla brama di denaro per alcuni, altri rimangono invece ipnotizzati dal desiderio di mettersi alla prova, di ritagliarsi una posizione invidiabile e sicura in un mondo che si augurano essere competitivo. Così, senza accorgersene, la laurea e l’affermazione professionale conducono alla perdita di qualcosa di inestimabile: la libertà.
Che cos’è la libertà? Secondo Nietsche essere liberi non significa fare tutto ciò che si vuole senza avere confini, ma amare ciò che si fa. Essere liberi è dunque un impegno costante, una lotta quotidiana per rendere ciò che si ama la propria vita, pr trasformare le proprie passioni nel proprio mestiere. Chi rinuncia a ciò rinuncia ad essere libero. Chi rinuncia a sogni, passioni e ideali per una professione fine a se stessa potrà anche diventare ricco, ma rimarrà schiavo. In tanti rinunciano. Quasi nessuno, però, riconosce il proprio stato di schiavitù. E’ difficile e doloroso ammettere di avere abbandonato ciò che più si è amato, mettendo dunque in dubbio le scelte fatte e in gioco l’intero senso della propria esistenza. Per questo molti iniziano a trovare giustificazioni, a cercare scuse per la propria percepita mancanza di libertà.
Scuse che queste persone spesso trovano nella moneta con cui è stata pagata la rinuncia ad essere liberi: nei soldi e negli agi ad essi connessi. Così chi solo poco tempo prima sognava di cambiare il mondo quasi improvvisamente si trova a passare le proprie (poche) giornate libere entrando in negozi e spendendo cifre sproporzionate per prodotti inutili e costosi che spera (invano) possano colmare il proprio vuoto; senza rendersene conto si inizia a frequentare locali, a consumare cene e a trascorrere serate di lusso insieme soltanto ai “propri pari”, cioè a persone che abbiano fatto gli stessi tipi di scelte e abbiano il portafogli altrettanto gonfio, persone a cui solo fino a poco tempo prima non si avrebbe avuto nulla da dire, con cui adesso ci si trova a condividere lo sperpero della propria incompletezza.
[caption id="attachment_6233" align="aligncenter" width="1000"] Jean Béraud - Au Bistro (1891)[/caption]
In poco tempo ci si trova ad essere persone che non si voleva essere e che prima si disprezzava. Se non si vive come si pensa si inizia a pensare come si vive. E si diventa quel tipo umano di cui scrive Hoillebecq che mai si sarebbe voluti diventare. La rinuncia alla propria libertà è una scelta di comodo e di agio. E’ una fuga. Che in quanto tale non potrà durare per sempre, andrà invece a scontrarsi contro ciò da cui si fugge: insoddisfazione, tristezza, solitudine, incompletezza, nichilismo e assenza di un dovere superiore sono i principali motivi per cui le persone tra i 30 e i 55 anni si rivolgono agli psicologi o per cui queste intraprendono viaggi verso Oriente alla ricerca di un’esperienza interiore che colmi la propria insoddisfazione. “In Europa sento la mancanza di qualcosa che sono venuto a cercare qui” dicevano a Tiziano Terzani i pellegrini sulla via per il Tibet. Questa ricerca dell’indefinito non è altro che il tentativo di rimediare alla libertà perduta. Il cui ricordo e desiderio rimangono però per sempre dentro ognuno di noi. Se è vero che la natura dell’essere umano è una ed eterna – e il fallimento degli esperimenti totalitari volti alla creazione di nuovi tipi di uomini sembra confermarlo – allora rimarrà per sempre dentro di noi il desiderio per ciò che un tempo abbiamo amato, che abbiamo sognato e in cui abbiamo creduto. Non riusciremo mai a dimenticare ciò che un tempo ci faceva sentire liberi, ciò a cui le convenzioni sociali, l’affermazione professionale e il desiderio di ricchezza e sicurezza economica ci hanno spinto ad abbandonare. La letteratura è ricca di narrazioni che raccontano questo Streben: Gabriel Garcia Màrquez in ‘Cent’anni di solitudine’ descrive l’immutabilità della natura umana (venendo poi ripreso da Fabrizio d Andrè che gli dedicò la canzone di ‘Sally’); James Joyce nell’ultima storia dei racconti di ‘Gente di Dublino’ mostra come ciò che si ha amato e che ci ha dato la libertà rimanga sempre nascosto dentro di noi, per poi emergere con forza quando meno ce lo si aspetta e mettendo in crisi tutte le piccole sicurezze costruite per non doversi guardare dentro; Ezra Pound riprende Joyce scrivendo: "Ciò che ami davvero non ti verrà strappato. Quel che ami davvero è la tua eredità”.
Tentare di fare di ciò che si ama il proprio mestiere è molto difficile, ma è anche ciò che può evitare la solitudine della schiavitù. La vita professionale, ciò che da piccoli veniva chiamato “il mondo dei grandi” è piena di ostacoli, di influenze esterne, di pressioni che rendono complicato difendere la fedeltà a ciò che si ama. A questo si aggiungono le nostre debolezze, i nostri limiti e i nostri errori. Eppure riconoscere e determinate il proprio destino è possibile. Come? Per esempio avendo un grande ideale o l’esempio di una persona, magari un nonno o un maestro, i cui comportamenti siano un modello che funga da stella polare nella velocità e nel disordine della vita contemporanea. Nonostante si viva in un mondo in cui l’individualismo è sfrenato, in cui viene insegnato che la competitività tra individui è il massimo valore, in cui i rapporti umani sono amichevoli finché non diventano concorrenziali, rimangono forti ed eterni quegli ideali di amore e di identificazione disinteressata nel bene comune, nella comunità, nella patria. Rimane l’esempio di quelle persone che hanno anteposto il proprio piccolo interesse personale a qualcosa di più grande. Non importa che fine abbiano fatto o di che morte siano caduti, non importa che epilogo abbiano avuto le società ispirate ai nostri ideali, ciò che importa non è per cosa si combatte ma come lo si fa. L’esempio di chi ha avuto il coraggio di rinunciare alle proprie piccole sicurezze per impegnarsi in qualcosa di più grande e di altruista rimane eterno. “Aiuta gli altri e aiuterai anche te stesso” diceva Confucio ai suoi discepoli. Certo non è facile. Per rinunciare a se stessi a favore degli altri ci vuole coraggio, lo stesso che manca a coloro che rinunciano a sogni passione e ideali una volta finiti gli studi. Per Ernst Jünger coraggio significa “professare fede in quel che si pensa”, quindi rimanere fedeli a passioni, sogni e a quanto si sente essere un dovere. Chi riesce a farlo abbraccia valori eterni e indistruttibili e diventa lui stesso un esempio da ricordare. Le sue scelte diventano eterne, non scompariranno con la sua morte fisica ma vivono in coloro che ne colgono l’esempio.
[caption id="attachment_6234" align="aligncenter" width="1000"] Scena tratta dal film "Il Club degli imperatori" diretto da Michael Hoffman del 2002.[/caption]
Essere coraggiosi significa rendere immortale il proprio esempio e scacciare le paure. Finché l’uomo è solo vive esclusivamente di paura. Proviamo paura perché sappiamo di andare incontro all’ignoto, alla certezza della morte. Ma quando troviamo il coraggio di sciogliere noi stessi nel nostro ideale, nelle nostre passioni e nei nostri sogni allora diventiamo un esempio di cui andar fieri. Un esempio che non invecchierà con il decadimento fisico, ma che colmerà il vuoto che sentiranno invece coloro che per paura hanno scelto di perdere ciò che amano. Nonostante sia difficile, nonostante possa portare alla povertà economica è sempre meglio scegliere di lottare per ciò che si ama. E anche se si verrà sconfitti, anche se si farà la fame, anche se verremo spogliati di tutte le ricchezze materiali avremo sempre con noi l’eredità di chi ci ha preceduto e dato l’esempio. Avremo sempre con noi ciò che amiamo e che abbiamo scelto di difendere. Chi avrà preso un’altra strada, quella della rinuncia, potrà invece solo nascondere la solitudine sotto costosi vestiti , grosse automobili ed eventi mondani. Terminati i quali tamponerà la propria solitudine tornando a spiare noi, che viviamo davvero. E comunque non è detto che verremo sconfitti. Lo scopriremo solo vivendo.
 
Per approfondimenti:
_http://www.laconfederazioneitaliana.it/?p=4448
 
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1475417119882{padding-bottom: 15px !important;}"]La battaglia di Carcano[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Alberto Peruffo del 02/10/2016[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1475512972862{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
La battaglia di Legnano non fu l'unica seria sconfitta che l'imperatore Federico I Hohenstaufen detto Barbarossa ebbe a subire sul suolo lombardo per opera dei milanesi. Anni prima, quando la Lega Lombarda non esisteva ancora, l'imperatore venne coinvolto in una dura battaglia campale in alta Brianza, tra Como e Lecco nei pressi di Erba, in quel frangente dovette combattere per la vita in una situazione disperata, così come accadrà per la più famosa sconfitta degli imperiali del 1176. Questo accadde durante la seconda discesa del Barbarossa in Italia, quando, dopo la seconda dieta di Roncaglia (novembre del 1158), la città di Milano verrà dichiarata contumace e ribelle nell'aprile del 1159. Nel luglio dello stesso anno gli imperiali posero assedio alla città di Crema alleata di Milano, iniziando uno dei più lunghi e drammatici assedi della storia italiana, assedio che si concluse solo il 27 gennaio del 1160 senza che Milano potesse evitare questa disfatta. Se Milano, dal punto di vista militare, non era riuscita ad effettuare un soccorso alla città di Crema, dal punto di vista diplomatico aveva raggiunto diversi successi. Piacenza si era unità a Milano, ma, soprattutto, si era riusciti a creare un vasto fronte anti-imperiale con i normanni e il papato.
Il principale autore di questa azione diplomatica fu il papa inglese Adriano IV che per contrastare lo strapotere imperiale decise di sfruttare a suo vantaggio la guerra con i comuni. Il papa rimproverava all’imperatore la mancata eliminazione della repubblica costituita a Roma, la restituzione dei beni matildini al papato e il diritto ad esercitare direttamente le regalie. Adriano convocò, presso la sua sede di fuoriuscito, ad Anagni, i rappresentanti dei vari comuni in guerra con Federico. Qui nell’agosto del 1159 venne stipulata la prima alleanza tra comuni e chiesa, primo vero embrione della futura Lega Lombarda. Gli accordi furono tra i comuni di Milano, Brescia, Crema, Piacenza. Essi si impegnavano a non fare una pace separata. Pare che Adriano IV avrebbe promesso di scomunicare il Barbarossa. Adriano IV morì, però, il primo settembre dello stesso anno. Successivamente un difficile conclave si svolse in un clima di intimidazioni e di violenza, finendo poi in farsa quando vennero eletti due papi. Uno dei quali era quel Rolando Bandinelli, nemico giurato di Federico, che prese il nome di Alessandro III. Ad esso si oppose subito un papa filo-imperiale Vittore IV.
mappa
Alessandro III si pose sotto la protezione dei Normanni ad Anagni, mentre Vittore, protetto da Ottone Wittelsbach e da Guido di Biandrate si rifugiò a pochi chilometri dalla sede del suo avversario, a Segni. Entrambi erano stati scacciati da Roma. In quelle sedi si consumò lo scisma quando i due papi si scomunicarono a vicenda. Lo scisma sarebbe durato diversi anni e a Vittore successe Guido da Crema che prese il nome di Pasquale III e infine da Callisto III, tutti considerati antipapi.
In qualità di difensore della chiesa, Federico, indisse un concilio a Pavia nel febbraio del 1160, dove il Bandinelli non si presentò. E, nella Pasqua di quello stesso anno, dal Duomo di Anagni, scomunicò l’imperatore tedesco. Dopo la presa di Crema il Barbarossa si spostò su Pavia, dove congedò una parte del suo esercito che aveva completato il turno di servizio per la Romfahrt.le non favoriva ancora operazioni su larga scala, inoltre l’assedio alla piccola ma decisa Crema, non invogliava certo ad intraprendere un assedio maggiormente oneroso, contro la munita città nemica di Milano. Venne la primavera del 1160 e con essa si aprì la stagione della guerra. Federico da Pavia si mosse a molestare le terre dei piacentini, i quali risposero in forze costringendo le deboli forze imperiali a rinserrarsi nella munita e fedele Pavia, evitando una incerta battaglia campale. I milanesi galvanizzati dai loro successi diplomatici e vedendo l’imperatore sulla difensiva, presero il coraggio per lanciare un offensiva su Lodi. La città, appena ricostruita, era però troppo grande e guarnita per poter essere assediata, anche con l’aiuto dei piacentini. In quell’occasione, durante il mese di giugno, i cavalieri di Federico si scontrarono con i carri falcati realizzati di Guitelmo, nella campagna tra Rho e Legnano. A parte l’iniziale sorpresa, nel campo avversario, l’invenzione milanese non sembra abbia avuto un successo tale da usare i carri negli scontri successivi.
Falliti i tentativi di occupare Lodi con la forza, i milanesi decisero di rivolgere le loro attenzioni a nord di Milano. Nella campagna brianzola vi erano ancora diversi feudi fedeli all’imperatore. Vi era anche la possibilità di infliggere un colpo decisivo alla nemica città di Como che, in quel momento, si trovava in difficoltà, stretta tra i milanesi e i comuni lariani, da sempre inesorabili nemici dei comaschi. Non meno importante era la necessità di rendere sicure le vitali vie commerciali verso i passi alpini. Nell’estate del 1160 l’esercito milanese si mosse a distruggere i suoi nemici in terra di Brianza. Con il conflitto tra Torriani e Visconti di un secolo dopo, la campagna militare di quell’anno, fu la peggiore guerra che la regione dovette sopportare nel corso della sua storia. Nel luglio del 1160 gli uomini di tre Porte milanesi, Porta Vercellina, Porta Comacina e Porta Nuova, sferrarono la loro offensiva sulla Martesana e il Seprio, devastando le terre fedeli all’imperatore controllate dal conte Goswino. Assediarono e conquistarono velocemente i castelli di Parravicino, Corneno d’Eupilio, Cesana ed Erba. Castelli non troppo muniti, che vennero espugnati e distrutti con semplici mezzi d’assalto, come scale e arieti, non costituendo un serio problema militare per le agguerrite truppe di Milano. Nello stesso periodo venne realizzato un ponte a Groppello sull’Adda. A questo punto i milanesi decisero di attaccare il castello di Carcano, la fortezza più difesa di tutta la Brianza. Carcano era un possesso vescovile milanese e quindi di diritto appartenente alla città di Milano, cosa che ancor più giustificava la conquista della fortezza. L’interdetto comminato dall’arcivescovo Pirovano sulla Martesana così recitava, secondo lo storico Bernardo Coiro: "E’ certo che il castello di Carcano è feudo dell’arcivescovo: ora poiché uomini ribelli alla chiesa e fautori di Federico, scomunicati e condannati, vi sono raccolti, li priviamo di ogni nobiltà e di ogni feudo, e confischiamo il castello a vantaggio della chiesa milanese”.
Il turrito maniero si ergeva in posizione strategica, a metà strada tra Lecco e Como, sui primi contrafforti delle Prealpi, controllava le strade dell’alta Brianza. Con la sua mole sovrastava le paludi dei Pian d’Erba, spesso inondate dalle esondazioni dell’alto Lambro, acquitrini e stagni rimanevano in quell’area a testimoniare l’esistenza dell’antico lago Eupili, il cui prosciugamento in epoca romana aveva lasciato gli attuali laghi di Alserio e Pusiano. Eretto nel X secolo per contrastare le devastanti incursioni ungare era posto su una collina, in cui una profonda incisione valliva, detta vallone di Carcano, causata da un torrente che scorreva da nord, lo proteggeva sia a settentrione che ad occidente, mentre una pendenza molto ripida lo isolava anche da est. Solo da sud il castello era facilmente attaccabile, anche se qui un profondo fossato con un ponte levatoio, insieme a robuste fortificazioni, ne rendevano arduo l’assalto. Due grandi torrioni, fungenti da mastio, formavano l’impianto centrale del castello. A difesa del maniera vi era un pugno di nobili delle famiglie degli Herba, Parravicini e, naturalmente, dei Carcano. I milanesi posero il loro campo a sud davanti il castello l’ultima settimana di luglio. Diversamente dalle fortezze conquistate nei giorni precedenti la rocca di Carcano necessitava di un lungo assedio. Vennero quindi approntate le macchine da guerra, a partire da grossi mangani e una torre lignea. Nel frattempo l’imperatore svevo, rimasto a Pavia, aveva radunato a Lodi un esercito per soccorrere le truppe a lui fedeli nell’alta Brianza. Secondo Ottone di Morena l’armata di soccorso comprendeva diversi contingenti descrivendone così la composizione:"Perciò il santissimo sovrano con i suoi fedelissimi era andato in aiuto di quelli di Carcano, con pochi cavalieri di Pavia, con i cavalieri e fanti di Novara, coi vercellesi, i comaschi, parte di quelli del Seprio e della Martesana, col marchese del Monferrato, il conte di Biandrate (ora dalla parte del Barbarossa) ed anche con pochi tedeschi, tra i quali vi era Bertoldo duca di Zabringhen, che con pochi suoi cavalieri era venuto a lui dalla Germania per un certo suo affare, il duca di Boemia ed il conte Corrado di Balhausen”.
L’esercito imperiale attraversò velocemente la Brianza e già il giorno 6 agosto poteva porre il campo a Vighizzolo di Cantù. L’8 agosto si accampava con l’esercito tra Tassera, presso il villaggio di Orsenigo, e il lago d’Alserio. I milanesi avevano saputo dell’arrivo dell’esercito nemico ma non vollero desistere dall’assedio, abbandonando le macchine ossidionali appena realizzate. Decisero anzi di radunare il loro esercito, raggruppando i vari accampamenti sparsi attorno a Carcano, richiamando altre tre Porte, lasciandone sola una a guardia di Milano. E’ probabile che i milanesi, fino all’ultimo, non pensassero ad uno scontro campale ma solo ad una azione dimostrativa dell’esercito imperiale indebolito dalla smobilitazione dell’inverno passato. Solo all’arrivo del nemico essi si resero conto di essere stati presi in trappola da un esercito di dimensioni paragonabile al loro. All’arrivo dell’imperatore da sud, l’esercito milanese venne a trovarsi in una situazione precaria, con alle spalle il castello di Carcano e davanti l’armata nemica. I milanesi erano pressoché circondati e, malgrado la loro posizione dominante che poteva offrire qualche vantaggio in caso si fossero posizionati sulla difensiva trincerandosi, erano impossibilitati a ricevere qualsiasi sostegno logistico da Milano. Federico aveva provveduto a far bloccare le strade principali, posizionando dei posti di blocco e ostruendo il passaggio con grossi tronchi d’albero, più per impedire la fuga al nemico che per impedire l’arrivo di vettovaglie. Era intenzione dello Svevo di attaccare accettando uno scontro campale certo di vincere, anche se la superiorità numerica apparteneva ai milanesi, con alcune centinaia di soldati in più rispetto all’esercito di Federico.
Il 7 agosto i milanesi furono affiancati da 200 cavalieri bresciani ma, cosa più importante, nottetempo il Carroccio riuscì a raggiungere smontato il campo dell’esercito milanese. Il Carroccio venne presto montato e preparato per la battaglia che si stava profilando. Mai un esercito comunale sarebbe sceso in campo per una battaglia decisiva senza il suo Carroccio. La notte tra l’8 e il 9 agosto i milanesi non la trascorsero solo montando il loro carro di guerra, vi furono soprattutto discussioni su come affrontare la difficile situazione. Nel campo vi erano numerosi chierici, oltre all’arcivescovo di Milano, Umberto da Pirovano, vi era il futuro arcivescovo della città, l’allora diacono Galdino. Quest’ultimo sarà uno dei più convinti sostenitori nel dare battaglia campale all’imperatore, attaccando subito il nemico senza aspettare le sue mosse. Così il cronista Ottone descrisse la situazione: "L 'imperatore aveva circondato milanesi e bresciani cosicché non si poteva portare loro cibo in nessun modo. Per cui erano sommamente atterriti i milanesi che non potevano ritornare a Milano e, stando li, non avevano la possibilità di procurarsi cibo ne sapevano che dovessero fare: infine, tuttavia, come spesso suole accadere, necessità trovò consiglio e si proposero di tentare la fortuna della battaglia, piuttosto che morire di fame restando lì”.
In effetti nulla si sapeva sulle intenzioni di Federico. Se l’imperatore si fosse limitato a bloccare il campo nemico, magari costruendo delle opere di difesa, avrebbe posto i milanesi nella condizione peggiore. Alla fine si giunse alla decisione di attaccare gli imperiali. L’indomani ci sarebbe stata la battaglia campale che avrebbe potuto decidere le sorti della guerra. La battaglia di Carcano, detta anche di Tassera, non fu un evento singolo ma fu caratterizzato da scontri separati nel tempo e nello spazio. Le colline moreniche e lo schieramento degli eserciti su una vasta area contribuirono nello spezzettare la giornata di Carcano in due battaglie separate. Martedì nove agosto, l’esercito imperiale si schierò per assaltare le posizioni lombarde. Muovendo dal suo accampamento, posto nella località di Tassera, Federico si schierò, con la cavalleria tedesca e alcuni altri cavalieri italici suoi alleati, a formare il suo fianco destro. Mentre sul lato sinistro si posizionarono gli eserciti dei comuni lombardi alleati provenienti da Novara, Como, Vercelli e altri contingenti minori delle altre città di Lodi e Cremona. Questi contingenti erano composti quasi esclusivamente di fanteria con solo duecento cavalieri al seguito. Le due ali avanzanti erano piuttosto distanti tra loro ed erano divise dall’orografia del terreno, fatta di basse colline moreniche intersecate da profondi impluvi ricchi di vegetazione. La decisione di uno spiegamento tanto ampio era forse dovuta al fatto che non si volesse lasciare una via di fuga ad un nemico che si riteneva debole e posto sulla difensiva. Nel campo milanese, presso il Carroccio, venne celebrata le messa, dove l’arcivescovo spronò alla lotta ricordando le cause della guerra e i torti subiti, concludendo poi così: “Dio è con noi e per noi sarà la vittoria”.
Dopo aver assistito alla messa e ricevuto l’assoluzione anche l’esercito milanese si spiegò per attaccare il nemico. Sulla sinistra con il carroccio si schierarono quelli di Porta Romana e di Porta Orientale, affiancati, a destra, da quelli di Porta Comasina. Sul fianco destro si disposero quelli delle rimanenti due Porte con i cavalieri bresciani.
Un piccolo contingente di armati venne lasciato a guardia del castello di Carcano in modo da non essere presi alle spalle dai nobili lì assediati. Le prime a muoversi contro il nemico furono le truppe di Porta Comasina. Si scontrarono presso l’accampamento degli imperiali di Tassera, riuscendo ad occuparlo e a saccheggiarlo, fino a che non vennero scacciati dalla cavalleria di Federico.
[caption id="attachment_6220" align="aligncenter" width="1000"] Il carroccio (La battaglia di Legnano)[/caption]
Federico nella sua avanzata si stupì nel vedere i milanesi che invece di rimanere sulla difensiva sferravano loro stessi l’attacco. Lancia in resta l’imperatore e i suoi cavalieri caricarono i nemici formati in larga parte di fanteria, i milanesi vennero travolti e fatti a pezzi, tanto che gli imperiali raggiunsero presto il Carroccio senza che i milanesi riuscissero a fare quadrato intorno ad esso. Così Ottone di Morena descrive il combattimento:
Pertanto i milanesi, lo stesso martedì, vigilia del beato Lorenzo, iniziarono il combattimento con l'imperatore. Questi con i suoi tedeschi ed alcuni altri irruppe con forza contro i milanesi, respingendoli fin quasi al loro Carroccio, dov'era la moltitudine dei fanti, dei quali uccise un gran numero, soprattutto di Porta Romana e di Porta Orientale, che volgarmente si chiamava Porta Renza: uccise anche i buoi del Carroccio, intaccò il carroccio stesso e ne portò via la croce dorata che era sulla pertica ed il vessillo ivi posto e condusse prigionieri nelle tende molti di loro, cavalieri e fanti”.
L’ala sinistra lombarda aveva ceduto senza opporre una valida resistenza al nemico, forse colti di sorpresa dalla carica della cavalleria mentre avanzavano vennero travolti e, ritirandosi, travolsero anche i soldati che avrebbero dovuto difendere il Carroccio. In questo caos la cavalleria milanese dell’ala destra, presa alla sprovvista, non riuscì a contrattaccare finendo per subire l’azione della cavalleria avversaria lanciata alla carica. Una volta raggiunto il Carroccio i milanesi della loro ala sinistra rinunciarono a combattere dandosi alla fuga inseguiti dai cavalieri nemici. Federico stesso, che aveva caricato tra le prime file, uccise con la sua spada i buoi a cui era aggiogato il Carroccio, a cui venne strappato lo stendardo di guerra che venne gettato nel fango. Trenta cavalieri impegnati alla difesa del Carroccio vennero uccisi sul posto. Successivamente il Barbarossa con alcuni soldati spinsero il Carroccio dentro un fossato, posto in direzione del lago di Alserio, facendolo così a pezzi.
Proprio in quell’area, vicino a Tassera, in un piccolo corso d’acqua che porta al lago, vennero ritrovate, in tempi moderni, armi risalenti alla battaglia, ora al Museo Archeologico di Milano. Esausto per la battaglia Federico stava tornando al suo accampamento, sotto al suo padiglione per riprendersi, quando, sulla sua ala sinistra, irruppero i milanesi dell’ala destra provenienti da occidente. L’imperatore con la distruzione del Carroccio pensava di aver distrutto la parte principale dell’esercito lombardo, non si avvide, invece, che quella era solo una parte, valutando per difetto il numero dei nemici. Il combattere in prima linea gli aveva fatto perdere la visione d’insieme del campo di battaglia, trascurando i collegamenti con i suoi alleati italiani dell’ala sinistra la cui sorte in battaglia non era stata altrettanto benevola.
Mentre il Barbarossa sfogava la sua furia sul Carroccio nel settore occidentale del campo di battaglia lo scontro si svolgeva tra milizie italiane. Malgrado i soli 200 cavalieri le fanterie imperiali, anche se poste sulla difensiva dalla cavalleria milanese, tenevano bene le loro posizioni e lo scontro rimase a lungo incerto. A sbloccare la situazione ci pensarono gli armati dei villaggi di Erba e Orsenigo che attaccarono alle spalle gli imperiali, impegnati a combattere duramente i milanesi sulla loro fronte. Le truppe dei comuni alleati a Federico vennero così presi su due lati cedendo di schianto. Lo storico Ottone così descrive il fatto:
"Ma dall'altro lato della battaglia, dove la maggior parte dei cavalieri milanesi e bresciani si trovavano davanti a novaresi, comaschi e molti altri, che erano su quel fronte, i reparti bresciani e milanesi, irrompendo insieme fecero di essi, e soprattutto dei novaresi, una grandissima strage. Presero molti prigionieri, molti ne uccisero e ne misero in fuga più di duemila (grazie anche all'intervento dei popolani di Erba ed Orsenigo). Venuta frattanto una fortissima pioggia ritornarono agli accampamenti, ma poco dopo però i milanesi ed i bresciani, riprese le armi, corsero a combattere”.
Corsero infatti a combattere sul lato dove vi era l’imperatore i cui cavalieri non riuscirono ad organizzare un’azione compatta, essendosi in maggior parte dispersi lungo il campo della battaglia precedente, intenti a far bottino e a uccidere i superstiti dell’ala sinistra milanese. Vistosi in inferiorità numerica e attaccato da tutti i lati, l’imperatore ordinò la ritirata. Ottone così scrive:
"Dal lato opposto l'imperatore, vedendosi lasciato con pochi tedeschi e non molti altri, decise che era meglio ritirarsi dalla battaglia piuttosto che essere vinto in campo. E così partì verso Como con quelli che aveva ancora con se, abbandonando li molte tende e molti prigionieri di guerra. I milanesi e i bresciani, saccheggiato l'accampamento dell'imperatore e ripresi molti che erano stati fatti prigionieri, abbandonano loro il campo con grande gioia e, come suole avvenire in cose di tal genere, con grande clamore ritornano all'accampamento e raccolgono i cadaveri dei loro, mandandone a Milano molti carri carichi. Da quella battaglia venne somma letizia e somma mestizia per i milanesi. Penso tuttavia che la gioia superasse il dolore”.
Lo sganciamento delle truppe imperiali fu favorito dal terreno impervio e dalla tempesta che nel frattempo era sopraggiunta. Un vero diluvio con tuoni e lampi che fecero decidere molti soldati a mettersi al riparo, abbandonando l’inseguimento del nemico ormai in fuga. Ad ogni modo la maggior parte della fanteria imperiale, lenta nei movimenti, venne fatta a pezzi dai cavalieri di Milano. Più agevole fu la ritirata dei cavalieri, anche se per un momento lo stesso imperatore corse il rischio di venire agguantato dai nemici, mettendo rapidamente fine alla guerra in favore dei milanesi. Accadde che il cavallo del Barbarossa, durante la fuga, rimase impigliato con le zampe in un filare di viti. Federico venne anche centrato da un colpo di lancia non parato dallo scudo ma, comunque, il corpo venne protetto dall’armatura.
L’imperatore stava poi per cadere prigioniero se, il conte di Lomello, non lo avesse raccolto sul suo cavallo, ed entrambi riuscirono, così, a mettersi in salvo. Il Barbarossa e i suoi si ritirarono così verso Montorfano per poi raggiungere la fedele Como dove si rinserrarono nel castello del Baradello, ricostruito dal Barbarossa solo l’anno prima. La giornata si era conclusa con l’insperata vittoria dei milanesi e dei loro alleati.
Le perdite imperiali assommavano a 2.000 tra caduti e feriti, ma anche prigionieri. Per i milanesi le perdite furono altrettanto pesanti, circa 2.000 morti, tra cui il console milanese Anselmo Mandelli, conte di Maccagno e signore di Montorfano. Una vittoria sofferta dunque, ma il bottino e il prestigio di aver battuto l’imperatore in campo aperto erano immensi. La perdita del Carroccio poteva ben essere ripagata con il ricco padiglione di Federico, dono del re inglese. Il bottino fu così cospicuo che non bastarono i carri per trasportarlo a Milano. Agli abitanti di Orsenigo ed Erba furono tributati grandi onori. A loro si deve in parte il successo della battaglia contro l’imperatore. I Consoli milanesi concessero loro l'esenzione di ogni tributo e la cittadinanza ambrosiana, ascrivendone i nomi tra gli abitanti di Porta Orientale, come parrocchiani di San Babila, venendo così equiparati agli abitanti della città di Milano, con tutti i vantaggi fiscali, tanto che il territorio erbese divenne una zona franca.
A supplemento della battaglia il giorno seguente vi fu un altro scontro sanguinoso nella stessa zona. Il 10 agosto giunsero a Carcano 280 cavalieri di Cremona e Lodi che, il giorno prima, si erano attardati a conquistare e a distruggere il ponte a Groppello sull’Adda.
Ignari della sconfitta degli eserciti imperiali il giorno prima, i cavalieri finirono inconsapevolmente in bocca ai milanesi che, già esaltati della vittoria sul Barbarossa, li fecero a pezzi. Solo pochi riuscirono a salvarsi dandosi alla fuga, alcuni trovarono la morte affogando in una palude, detta di Acquanera. In tutte queste vicende grandi assenti furono i nobili assediati nel castello. Durante la battaglia non cercarono di approfittarne con una sortita che certo avrebbe messo in difficoltà i milanesi, che potevano essere attaccati anche alle spalle, mentre erano impegnati con l’esercito imperiale. Forse gli assediati ritenevano la battaglia una facile vittoria imperiale per cui non era necessario rischiare la vita in prima persona. Ad ogni modo l’assedio sarebbe durato ancora soli undici giorni in cui il castello venne bersagliato dai mangani e respinse una serie di assalti. Una sortita notturna dei nobili assediati riuscì a incendiare e distruggere tutte le macchine d’assedio degli assedianti, senza che i milanesi fossero in grado di opporre una valida resistenza all’incursione nemica. L’assedio a Carcano finì il 19 agosto, quando i milanesi, senza più equipaggiamento ossidionale, si resero conto di non poter conquistare il difeso maniero, inoltre nuove minacce incombevano a sud di Milano. In definitiva la battaglia di Carcano fu una grande e insperata vittoria tattica che la mancata conquista del castello vanificava. Dal punto di vista strategico nulla cambiava rispetto a prima con i milanesi costretti ancora sulla difensiva.
 
Per approfondimenti:
_Lega Lombarda 1158-1162  Edizioni Chillemi
 
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Uno dei periodi più tormentati e tesi della recente storia repubblicana del nostro paese: i famosissimi Anni di Piombo.  Videro l’emergere di un movimento terroristico di estrema sinistra dal nome Brigate Rosse. Loro compito era quello di scatenare e guidare la rivoluzione proletaria per scardinare completamente il “dominio” delle multinazionali, in particolare di quelle statunitensi, piantatesi in Italia nel dopoguerra e portare infine a compimento il processo di liberazione nazionale avviato, dal loro punto di vista,  durante la Seconda Guerra Mondiale dai partigiani e mai conclusosi definitivamente per molti esponenti della sinistra del periodo.
I primi fermenti rivoluzionari sorsero nei numerosi circoli intorno alle università e alle fabbriche italiane alla fine degli anni ’60. In quei luoghi si discuteva degli avvenimenti più importanti del periodo come la Rivoluzione Culturale di Mao in Cina o delle imprese di Guevara e Castro in Sud America (e anche dei loro esiti fallimentari). Il tutto alimentato da un pieno di illusioni, speranze e voglia di fare da parte di molti giovani che coincise poi con il ’68.
E’ veramente difficile muoversi nella miriade di movimenti, organizzazioni e associazioni che sorsero in quegli anni, ma, quasi con certezza, si possono ricondurre le radici delle BR ad uno di essi, il CPM (Collettivo Politico Metropolitano). Quest’ultimo, nel 1970, decise di dare una svolta a quelle che erano solo parole. Nei primi mesi dello stesso anno iniziarono a circolare a Milano, nel quartiere Lorenteggio, dei volantini con su scritto “Brigata Rossa”.
Ufficialmente la nascita delle Brigate Rosse (a seguito delle conferme di alcuni ex-militanti) risalirebbe all’agosto del ’70 quando alcuni esponenti dell’estremismo di sinistra provenienti dell’Università di Trento (tra i quali i più famosi Renato Curcio e Margherita Cagol) e alcuni operai e impiegati delle fabbriche milanesi Sit-Siemens e Pirelli, si riunirono a Pecorile, in provincia di Reggio Emilia, per decidere di passare oltre la semplice propaganda e gettarsi sulla lotta armata con la quale, poi, accelerare definitivamente la caduta dell’imperialismo straniero.
Sostanzialmente, tre sono le fasi che caratterizzarono l’attività delle brigate rosse:
• La prima va dal 1970 al 1974 e viene definita di “propaganda armata”, contraddistintasi per attentati dimostrativi e per qualche sequestro;
• La seconda, invece, può esser considerata la più “famosa” e terribile, in quanto gli attacchi vennero diretti proprio contro il “cuore dello Stato”, e va dal 1974 al 1980.
• Infine, abbiamo la fase di divisione e dissoluzione, tra il 1981 e il 1988.
Il vero e proprio momento di svolta può esser ricercato in un biennio, quello tra il 1974-76, in cui molti esponenti delle prime Brigate Rosse vennero arrestati o uccisi.
Fu un momento di importante transizione che vide passare la gestione dell’organizzazione a nuove figure, tra le quali spiccava Mario Moretti, molto più intransigenti e spietati. Da questo momento si inizieranno a notare cambiamenti importanti, in particolar modo riguardo le azioni svolte (il raggio d’azione si amplierà sensibilmente) e la loro strutturazione/esecuzione diventò molto cruenta e puntuale.
[caption id="attachment_6200" align="aligncenter" width="1000"] Maggio 1974, capi delle Brigate Rosse - da sinistra a destra: Piero Morlacchi, Mario Moretti. Renato Curcio e Alfredo Bonavita.[/caption]
Come ho sostenuto in precedenza, gli anni ’60 e ’70 furono due decenni molto intensi e ricchi di avvenimenti nella storia del ‘900, e le Brigate Rosse non furono le sole ad agire nel mondo. Difatti, esse amavano ispirarsi ad altri movimenti ed organizzazioni del periodo come i Black Panthers, Che Guevara a Cuba ed in Bolivia e, in modo particolare, ai guerriglieri uruguayani Tupamaros, da cui “presero in prestito” anche il loro simbolo, la stella asimmetrica a cinque punte. Da loro le BR ebbero molto da apprendere.
Si parlava di lotta armata, o di esercito proletario, ma i primi morti (accidentali per giunta) arrivarono solo nel ’74. A morire furono due esponenti di destra, Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola, freddati dai brigatisti della colonna veneta.
[caption id="attachment_6201" align="aligncenter" width="1000"] 06/11/2015. Scritte a vernice spray, con falce e martello, nella notte in via Zabarella, sul luogo che ricorda i due militanti del Msi Giuseppe Mazzola e Graziano Giralucci uccisi dalle Br. Questo atto dimostra, ancora una volta, la forte diatriba ancor oggi fortemente radicata tra "destra" e "sinistra".[/caption]
Questo evento è, a mio parere, fondamentale per comprendere meglio le dinamiche contrastanti all’interno del movimento brigatista poiché il comitato nazionale delle BR ammonì i propri militanti del Veneto ribadendo che colpire gli esponenti filo-fascisti non era la priorità. L’obiettivo più importante da perseguire era l’attacco al cuore dello Stato. Comprendere la differenza è fondamentale. Oramai siamo di fronte ad un movimento rivoluzionario e clandestino, molto ben organizzato a livello nazionale (con varie colonne sparse per il paese), in grado di assumersi la responsabilità anche di molti morti (ne rivendicheranno in tutto 86) pur di colpire alle fondamenta l’obiettivo principale, lo Stato. Stiamo entrando in pieno negli anni di piombo.
Il periodo successivo sarà ricco di eventi. L’8 settembre 1974 vennero arrestati Renato Curcio ed Alberto Franceschini, due tra i massimi esponenti del movimento. L’azione condotta dai carabinieri del generale Carlo Alberto dalla Chiesa inferse un colpo durissimo alle BR, ma allo stesso tempo consegnò, come ho già accennato in precedenza, la direzione dei brigatisti a Mario Moretti.
Moretti era fra gli esponenti più intransigenti; per lui la propaganda armata era solo una perdita di tempo. L’attacco al cuore dello Stato doveva essere effettuato immediatamente, ed in modo violento.
Nel ’75 Curcio fu liberato. Tra il ’75 ed il ’76 il numero delle vittime dei brigatisti crebbe sensibilmente. A cadere sotto i loro colpi furono tra gli altri il consigliere comunale della DC milanese Massimo De Carolis, il carabiniere Giovanni d'Alfonso, maresciallo Felice Maritano, l'appuntato di Polizia Antonio Niedda, il sostituto procuratore di Genova Francesco Coco (con lui furono uccisi anche i due agenti della scorta), il vice questore Francesco Cusano.
Abbiamo parlato del ruolo di Moretti. Nulla sarebbe stato possibile senza la morte di Margherita Cagol, compagna di Curcio, e il definitivo arresto di quest’ultimo nel 1976. Il “vertice storico” delle BR era oramai acqua passata, molti di coloro che avevano animato giovani studenti ed operai all’inizio degli anni ’70 erano morti o erano stati arrestati. La leadership di Mario Moretti era sempre più preponderante.
Dalle parole si doveva passare ai fatti. Le BR dovevano prendere una decisione nel breve termine. O si attaccava o si era attaccati. Lo Stato e tutti i suoi “servi” dovevano essere colpiti. Tra il ’78 e l’80 il numero di azioni, uccisioni, gambizzazioni e sequestri aumentò in modo esponenziale. I “vertici storici”, i veri teorici delle BR erano in carcere, e le nuove leve erano rappresentate da giovani che poco avevano a che fare con il primo movimento brigatista. Questo aspetto, sommato alla gestione Moretti e all’attività degli organi statali e di polizia sempre più tempestiva ci fa comprendere meglio il generale clima di instabilità e tensione.
Ma l’evento forse più conosciuto (e allo stesso tempo più ricco di aspetti oscuri e mai del tutto chiariti) che per sempre sarà legato nell’immaginario comune alle Brigate Rosse fu il sequestro e l’assassinio dell’On. Aldo Moro. Quest’ultimo fu rapito a Roma in Via Fani il 16 marzo 1978 mentre la sua scorta, composta da 5 uomini, fu eliminata completamente. Moro fu tenuto prigioniero per cinquantacinque giorni creando un vero e proprio caso mediatico. Non era il primo sequestro dei brigatisti, ma era un vero e proprio “colpo allo Stato”.
[caption id="attachment_6203" align="aligncenter" width="1000"] Il cadavere dell'onorevole Aldo Moro viene ritrovato nel bagagliaio di una Renault 4 di colore rossa, rubata il 2 marzo 1978 all'imprenditore Filippo Bartoli nel quartiere Prati.[/caption]
Moro, presidente della DC, stava da tempo progettando un governo più aperto, che tenesse conto anche del Partito Comunista, e molte sono le stranezze e gli aspetti bui che circondano tutt’ora questa vicenda. Il corpo dello stesso Moro venne ritrovato in un auto parcheggiata contromano all’incrocio tra Via Caetani e Via Funari, vicino a via delle Botteghe Oscure e piazza del Gesù, sedi storiche rispettivamente del PCI e della DC.
La pubblica opinione e la politica italiana si scissero tra i fronti della “fermezza” e della “trattativa”; addirittura intervenne lo stesso Papa Paolo VI.
Le scissioni e le crepe si presentarono anche all’interno delle BR tra coloro che volevano da una parte il rilascio dell’ostaggio e dall’altra la sua uccisione. Prevalse la seconda fila con a capo Moretti.
L’uccisione di Moro contrassegnò il punto più “alto” e terribile dell’attività brigatista, ma allo stesso tempo segnò l’inizio della fine. Le separazioni e le divergenze aumentarono e molte furono le critiche dirette contro la direzione Moretti, oramai incapace di gestire operazioni a livello nazionale e di coordinare le varie colonne delle BR. Difatti possiamo parlare di ultima fase delle BR proprio a partire dagli anni ’80, dall’assassinio di Guido Rossa, quando iniziarono addirittura a perdere consensi dal mondo sindacale e dalla sinistra extraparlamentare. Le divisioni iniziarono ad assumere connotazioni ideologiche e il fronte brigatista si spaccò in miriadi di colonne, movimenti e organizzazioni con obiettivi e risultati differenti andando a rappresentare nelle successive azioni, appunto, solo se stessi.
Potremmo sostenere con certezza che, anche se omicidi ed attentati continuarono ad avvenire (in maniera sempre più sporadica), gli anni ’80 segnarono la fine delle Brigate Rosse.
Si è continuato ancora per molto tempo a parlare di loro, addirittura c’è chi parla di Nuove Brigate Rosse nel ventunesimo secolo; ma credo che quest’organizzazione, così temuta e terribile, abbia tratto tutta la sua linfa vitale da un determinato periodo di tempo, con idee, speranze e necessità di cambiare l’Italia (e il mondo intero) su molti aspetti, per poi iniziare a morire corrotta dalla sua stessa voracità.
Un ultimo pensiero lo vorrei rivolgere a tutte quelle persone, tra i quali ci sono magistrati, poliziotti e uomini delle scorte, che hanno cercato di contrastare legalmente questo fenomeno trovando molto spesso la morte durante il loro lavoro, il tutto per consegnare a noi oggi un’Italia migliore.
 
Per approfondimenti:
_Andrea Saccoman, Le Brigate Rosse a Milano. Dalle origini della lotta armata alla fine - Edizioni Feltrinelli
_Paolo Parisi, Il sequestro Moro - Edizioni Feltrinelli
_Pino Casamassima, Gli irriducibili, storie di  brigatisti mai pentiti - Editore Laterza
 
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