[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1478780731150{padding-bottom: 15px !important;}"]Titta di Girolamo: la rivolta interiore di un uomo[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Maurilio Ginex del 09/11/2016[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1478710822282{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Film del 2004, di Paolo Sorrentino: “Le conseguenze dell’amore” narra la storia della rivolta interiore di un uomo in rivolta, Titta Di Girolamo. Un individuo taciturno, pacato e senza mai dare confidenza a nessuno fissa sempre il nulla al di fuori della vetrina che si interpone tra lui e la strada di fronte. Termini come “sempre” o “solito” costituiscono le basi strutturali della vita del personaggio. Una vita costituita da un ordinario sistema in cui l’imprevedibilità non è ammessa, in cui tutto ciò che accade è il frutto di abitudini programmate che scandiscono il tempo. Un’abitudine che si concretizza nell’eterno ritorno, all’interno delle lunghe giornate passate a giocare ad “asso piglia tutto” con i proprietari dell’hotel. L'abitudinarietà è visibile nel suo  pagare regolarmente la retta mensile dell’hotel, nel sostare fumando e scrutando il divenire dal solito caffè vicino alla hole e dall’insonnia che reprime il sonno di Titta portandolo ad origliare gli squallidi dialoghi di Carlo e Isabel, i proprietari della struttura. Un atteggiamento apparentemente scostante, ermetico, impenetrabile, che sembrerebbe precludere al personaggio la legittimità nel trovar piacere nell’interagire con l’altro.
[caption id="attachment_6740" align="aligncenter" width="1000"] Toni Servillo nelle vesti di "Titta di Girolamo".[/caption]
Motivo per cui non vi è neanche una volta , da parte di Titta, un ricambio nei confronti del saluto gli viene mandato dalla cameriera del bar.
Ma Titta Di Girolamo chi è? Che cosa fa nella vita? Come fa, si chiede l’amministratore, a pagare in modo così preciso la retta dell’alloggio in cui vive da due anni lontano da un’ipotetica famiglia? Ogni settimana riceve di fronte alla porta della sua stanza una valigia carica di soldi, si mette addosso il vestito, esce una pistola dalla cassaforte rinfoderandola, scende nel garage dove vi è posteggiata la BMW e si reca in banca a contare il denaro e versarlo. Denaro che deve essere contato con cura maniacale esclusivamente dagli assistenti del direttore, perché su questo Titta non transige dato che ripete sempre che non si deve mai smettere di credere nelle capacità dell’uomo. Questo è un dato importante che all’interno della vita del nostro personaggio sembra celare gli aspetti di una persona che agli occhi di chi lo guarda e lo interpreta si manifesta per ciò che in realtà non è. È un uomo misterioso e di segreti ne ha tanti, come per esempio quello di essere un eroinomane ogni Mercoledì alle 10, ogni settimana, da 24 anni. Senza nessuna variazione, a questo strappo alla regola e alla vita che è la droga, senza mai andare oltre il giorno prestabilito, fa uso di quell’ago che perfora la sua vene gettandolo in ciò che Canetti chiama “ordine” , “un piccolo deserto che si è creato da sé” e che in questo caso sembra che serva ad evadere dalla staticità esistenziale in cui si trova. Staticità che in realtà poi non è del tutto evasa, dato che il modo adoperato per farlo è un’attività dettata dall’abitudine e dunque una staticità implicita all'immobilismo, come fosse una matriosca.
Tutti questi segreti che costituiscono la vita del personaggio verranno fuori pian piano, andando avanti, fino ad arrivare a un determinato momento che rivoluzionerà l’approccio dello stesso con la sua realtà. È questo il momento in cui Titta volgerà lo sguardo verso ciò che abitualmente aveva evitato. È di Sofia che si sta parlando, la cameriera del caffè dell’hotel. Colei che sempre saluta , guarda, scruta Titta. Sofia rappresenta all’interno di questa storia, magistralmente interpretata da Servillo e scritta con il solito stile da Sorrentino, l’autocoscienza del protagonista. Rompe il sistema abitudinario che reprime il protagonista. Nell’apertura delle porte della percezione Titta si accorge della più alta forma di intersoggettività che possa legare due individui , l’amore. La meraviglia non sta tanto nella scoperta dell’amore ma sta nella consapevolezza del protagonista di non essere riuscito prima a comprendere tutto, poiché la mancanza di vitalità nel trascorrere il tempo delle sue giornate lo aveva privato della percezione di ciò che gli capita sotto gli occhi.
[caption id="attachment_6742" align="aligncenter" width="1000"] Olivia Magnani interpreta "Sofia".[/caption]
Nel rapporto che intercorre e che si sviluppa tra i due personaggi il cammino della ripresa dell’autocoscienza si delinea. Questo amore latente che pulsava dentro le loro anime, nato tra sguardi rubati e saluti mancati prende chiara forma. Le pulsioni si risvegliarono e dall’apertura interiore di Titta pian piano giungono fuori tutti quei segreti che opacizzavano la sua vita. Ovvero chi è veramente il nostro protagonista e cosa nasconde veramente, dietro quel volto da individuo insospettabile.
Titta Di Girolamo è un ex commercialista e pezzo grosso della Borsa. Si ritrova a investire per molta gente e anche per Cosa Nostra. Nel momento in cui si ritrovò a investire per quest’ultima, le cose andarono storte. Perse tanto denaro nel giro pochissimo tempo. Titta non c’entra niente e questo Cosa Nostra l’ha capito, ma ugualmente non può lasciare impunita un’azione così “grave”. Non lo ammazzano ma decidono di lasciarlo in quest’hotel, in cui vive da due anni. Tra sicari che si presentano nei casi più improvvisi e quella valigia carica di denaro posta davanti la porta della stanza il nostro personaggio è repressivamente controllato, non ha via d’uscita da questa storia se non obbedire ed eseguire gli ordini. Un girone dantesco che trova come unica soluzione la consapevolezza del fatto che alla tragedia non c’è via di scampo, perché è nell’essenza di essa l’ineluttabilità dell’essere. Una condizione irreversibile in cui a comandare è la mafia, che Sorrentino rappresenta in tutta la sua essenza tra violenza che muove come unico timone il suo agire e il dominio sull’altro che non ammette scuse di nessun tipo. Titta trova nell’amore l’unico modo per evadere da questa condizione esistenziale in cui si ritrova cristallizzato, l’amore è ciò che ne fa un uomo fondamentalmente in rivolta e pronto a sovvertire l’ordine delle cose. Camus , nel suo “Uomo in rivolta” scrive: "(...) l’individuo non è dunque , in se stesso, quel valore che egli vuole difendere. Occorrono almeno tutti gli uomini per costruirlo. Nella rivolta, l’uomo si trascende nell’altro e, da questo punto di vista, la solidarietà umana è metafisica. Semplicemente, si tratta per ora soltanto di quel genere di solidarietà che nasce tra le catene (...)".
Tra le catene esattamente si ritrova il nostro protagonista e attraverso questo contatto con il suo altro trova la forza di romperle facendosi attraversare dalle conseguenze di tutte le sue responsabilità.
Sorrentino ha messo in scena un personaggio che riesuma tutte le condizioni del tragico che viene inglobato dall’assurdo e genera quest’impossibilità , incapacità nell’uomo di poter causare una variazione della situazione in cui si ritrova. Ma il nuovo contesto stravolto per l'evento, fa di Titta Di Girolamo un uomo nuovo, il quale riesce a reagire e farsi carico della dura consapevolezza del prezzo da pagare. Con questo finale che vede rappresentato il simbolo determinante della tragedia, ovvero la morte, Sorrentino ha voluto mettere in scena un vero e proprio eroe. Un eroe tragico che guarda il male nel volto tenendogli testa e che nello scontro violento con il tragico, determinato da un nemico impossibile da sconfiggere, non trova altro che la morte.
Le conseguenze dell’amore sono varie e disparate ma hanno anche un’identità determinata dal soggetto che le vive e in questo caso vi è stata un’unica vera conseguenza costituita da due facce. Una la morte come prezzo delle responsabilità che fa di Titta Di Girolamo, il protagonista, di una vera e propria tragedia che ha del sofocleo rappresentata dalla fluida e lineare narrazione di Sorrentino e un’altra faccia determinata dal riscatto interiore che il personaggio vive per due lunghi anni.
 
Per approfondimenti:
_Paolo Sorrentino, Le conseguenze dell'amore - Film uscito il 21 maggio 2004, genere drammatico
 
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1478369503586{padding-bottom: 15px !important;}"]Il conservatorismo: interpretazioni, idee e princìpi[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Francesco Giubilei del 05/11/2016[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1491906234836{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Il termine conservatore nella società italiana contemporanea ha assunto una accezione negativa, quanto anacronistica; quasi nessuno nel nostro paese si definisce conservatore: c’è chi si dichiara di destra, ma anche questa classificazione sembra essere sempre più desueta con le trasformazioni in atto nella politica e la scomparsa delle contrapposizioni tipiche del novecento. Etimologicamente il conservatore è colui che si oppone ai cambiamenti e predilige “chi, in politica, sostenendo il valore della tradizione, si oppone a qualunque ideologia progressista, e mira a conservare le strutture sociali e politiche tradizionali”.
[caption id="attachment_6675" align="aligncenter" width="1000"] Caspar van Wittel Title: Vista del Colosseo, con l'arco di Costantino - Olio su tela 1707[/caption]
Leo Longanesi, con uno dei suoi fulminanti aforismi, sintetizza al meglio questa condizione: “sono conservatore in un paese in cui non c’è niente da conservare”.
Perché, se analizziamo le logiche che dominano la società del XXI secolo, non c’è nulla di più lontano dei precetti conservatori.
Gennaro Malgieri, nell’introduzione al suo libro "Conservatori. Da Edmund Burke a Russell Kirk", scrive una definizione breve, ma esaustiva del conservatorismo: “il conservatorismo, prima che una dottrina politica, è un sentimento spirituale e una vocazione culturale”.
Il conservatorismo si origina in contrapposizione ai cambiamenti portati dalla Rivoluzione francese e si afferma per tutelare i gruppi intermedi stritolati dal potere dello Stato centralizzato che ha distrutto i valori tradizionali, tra cui il concetto di comunità:
"grazie a valori sempre più imprescindibili, come tradizione (contrapposta a progresso), pregiudizio (contrapposto a ragione), autorità (contrapposta a potere), libertà (contrapposta a uguaglianza), proprietà privata (contrapposta a statalismo), religione (contrapposta a moralità), comunità (contrapposta a individuo)"

Secondo Moeller van den Bruck il conservatore non guarda al passato ma all’eterno: "Conservare non è ricevere per tramandare, ma innovare le forme, istituzionali o ideali, che consentono di rimanere radicati in un mondo solido di valori di fronte ai continui sobbalzi storici. Di fronte alla modernità in quanto epoca delle insicurezze, non basta più opporre le sicurezze del passato, bisogna invece ridisegnare nuove sicurezze assumendo e facendo proprie le stesse condizioni di rischio con cui essa si definisce. Il conservatore difende l’ordine costituito cercando di mantenere l’equilibrio sociale e politico nella decadenza della società e si domanda quali siano le perdite derivanti dall’avanzare della modernità che implica la sostituzione della tradizione con la ragione.

La stabilità è una condizione ogni giorno più rara a causa della presenza di un numero sempre maggiore di soggetti politici portatori di pensieri, idee e concezioni della vita, non solo diverse tra loro ma talvolta in antitesi. Per questo il ruolo dei conservatori diventa strategico, per mantenere i valori e le regole della tradizione preservando la società da rivoluzioni o sconvolgimenti atti a modificarne la struttura di base.
Carlo Mongardini e Maria Luisa Maniscalco nel libro Il pensiero conservatore dividono in tre diverse prospettive lo studio del conservatorismo:
1) l’analisi del conservatorismo come principio ideologico, cioè dell’insieme delle giustificazioni del conservare, del rapporto delle tendenze conservatrici con determinate condizioni storiche e più in generale delle ragioni del loro successo;
2) l’analisi del conservatorismo come filosofia politica e come teoria dei limiti del processo di trasformazione e di cambiamento;
3) l’analisi del conservatorismo come prassi politica, della sua applicazione nei diversi regimi politici, delle forme attraverso le quali si rende possibile conservare un
dato sistema sociale e politico.
Occorre soffermarsi sul ruolo dei conservatori nella società contemporanea con un’attenzione particolare al problema dell’ordine sociale dopo l’avvento delle masse, la necessità di un pensiero conservatore al giorno d’oggi nasce proprio dai profondi mutamenti in atto: il pensiero conservatore è una tendenza della società moderna, è un modo per esprimere esigenze e valori di continuità in una cultura complessa e che ha assunto il mutamento a valore primario. La continuità non può più essere affidata alla tradizione come mera ripetizione, anche irriflessa del passato. Occorre che essa sia costruita di volta in volta a fronte della complessità della società e di situazioni storiche mutevoli, a fronte di tendenze diverse dei processi economici e culturali e di nuovi bisogni emergenti. Questa è la problematica che il pensiero conservatore si pone. Ogni volta che la tendenza al mutamento si accentua, ogni volta che il controllo della realtà sfugge, si riaffaccia il principio conservatore come modo di riproporre la continuità e la forza della tradizione a fronte del mutamento.
Il conservatorismo è legato a valori universali che trascendono una singola epoca e sono validi in ogni periodo storico perciò,  realizzando una classificazione in categorie, può essere storico, ideale, funzionale e sociologico-trascendentale.
Il conservatore nella società contemporanea rischia però di cadere in un paradosso, non riconoscendosi in nessun valore da conservare, non gli resta che avvicinarsi a logiche progressiste con l’obiettivo di superare le leggi che regolano la società attuale. In quest’ottica, come nota George Simmel, si può conservare sia opponendosi ai mutamenti e mantenendo lo status quo, sia adattando tali mutamenti alla società corrente attraverso il principio del “conservare innovando”.
Qual è quindi il ruolo del conservatorismo? Tenere fede ai valori non negoziabili, certamente; ma anche aprirsi alle avventure del tempo nuovo non per avversarle sterilmente, ma partecipare ad esse con lo spirito di chi non vuole rinunciare a stabilire una certa idea di convivenza civile, fondata sulla dignità della persona e sull’irrinunciabile progetto ad edificare comunità differenti eppure convergenti con l’idea di un ordine universale fondato sul diritto naturale, sul rispetto dei popoli e delle culture, sulla sovranità e sull’autorità che protegge la libertà. Roger Scruton ha dedicato gran parte della propria vita allo studio del conservatorismo pubblicando diversi libri sull’argomento tra cui il Manifesto del conservatorismo e Essere conservatori. In quest’ultimo testo, nel capitolo VII, “Le verità del Multiculturalismo”, descrive la nascita del conservatorismo e il suo rapporto con l’Illuminismo: il conservatorismo come filosofia politica nasce con l’Illuminismo. Non sarebbe stato possibile che nascesse senza la rivoluzione scientifica, il superamento dei conflitti religiosi, l’ascesa dello Stato laico e il trionfo dell’individualismo liberale. La maggior parte dei conservatori riconosce i vantaggi contenuti nella nuova concezione della cittadinanza, che investe del potere il popolo, e nello Stato designato – e in parte eletto – come suo rappresentante.
Essi riconoscono altresì che la grande rivoluzione nelle questioni politiche che tale concezione implica. Dall’Illuminismo in poi, i conservatori iniziano a capire che la responsabilità va dall’alto verso il basso e non dal basso verso l’alto: chi governa deve rispondere ai governati e le responsabilità a tutti i livelli non sono più imposte, ma assunte. Ma nel contempo, i conservatori hanno lanciato un monito contro l’Illuminismo. Per Johann Gottfried Herder (1744-1803), Joseph de Maistre (1753-1821), Burke e altri, l’Illuminismo non doveva essere una completa rottura con il passato. La sua filosofia aveva infatti senso solo se inquadrata nel retroterra costituito da un patrimonio culturale che risaliva addietro nel tempo. L’individualismo liberale offriva una nuova e per molti versi stimolante visione della condizione umana, ma dipendeva da quelle tradizioni e istituzioni che saldavano assieme il popolo in forme che nessuna visione del mondo di tipo puramente individualistico poteva creare. L’Illuminismo parlava di una natura umana universale, governata da una legge morale universale, da cui lo Stato emergeva attraverso il consenso dei governati. L’azione politica doveva quindi essere plasmata dalle libere scelte degli individui, al fine di proteggere quelle istituzioni che rendevano possibile scegliere liberamente.
[caption id="attachment_6678" align="aligncenter" width="1000"] Anicet Charles Gabriel Lemonnier, Nel Salone di Madame Geoffrin - olio su tela, 1755.[/caption]
Era tutto bello, logico e stimolante. Ma non aveva senso se non si postulava l’esistenza dell’eredità culturale dello Stato-nazione e delle forme di vita sociale che avevano messo radice al suo interno.
Secondo Heidegger il conservatorismo “è chiamato a preservare la democrazia dell’essere che poggia su elementi essenziali: il Fuhrung, il comando; il Volk, il popolo; l’Erbe, l’eredità; la Gefolgschaft, la comunità dei seguaci; il Bodenstandigkeit, il radicamento della propria terra” e si caratterizza come contro-movimento in opposizione alla distruzione dei valori realizzata dal nichilismo. Si può quindi realizzare un confronto tra Ernst Jünger e Heidegger per cui: La diagnosi sulla “malattia” nichilista induce a prefigurare una nuova frontiera di “resistenza” e di “anarchia”, quella del “selvatico” in opposizione alla “svalutazione dei valori” che è propria del nichilismo, condizione diffusa e pericolosa. L’individuo è chiamato ad opporsi allo “sfaldarsi degli antichi ordinamenti” e alla “consunzione di ogni risorsa tradizionale”. Il conservatorismo, a differenza del tradizionalismo, funge da collegamento tra diverse generazioni permettendo di mantenere l’eredità del passato e trasmetterla a chi verrà dopo di noi: il passato è importante perché contiene le azioni di persone, senza il cui impegno e le cui sofferenze noi stessi non esisteremmo. Queste persone hanno delineato i contorni fisici del nostro Paese, ma hanno anche prodotto le sue istituzioni e le sue leggi e hanno combattuto per preservarle. Qualunque sia il concetto di trama degli obblighi sociali che noi abbiamo, abbiamo verso di loro un dovere di memoria. Noi non solo studiamo il passato, ma lo ereditiamo e l’eredità porta con sé non solo i diritti di proprietà, ma anche i doveri di amministrazione per conto di chi deve ancora venire. Le cose per le quali si è combattuto e alcuni hanno perso la vita non devono essere sperperate pigramente: sono proprietà di altri, di quelli che non sono ancora nati.
Il conservatorismo dev’essere visto in questa ottica, come parte di una relazione dinamica fra le generazioni. Le persone provano dolore per la distruzione di ciò che è loro caro, perché questo rovina il modello di amministrazione fiduciaria, in quanto taglia fuori coloro che sono stati prima e offusca l’obbligo verso coloro che verranno dopo. L’antitesi del conservatorismo è il progressismo, l’idea di progresso ha dominato il pensiero occidentale tra il 1750 e il 1900 legandosi strettamente alla fede nello sviluppo economico, le credenze progressiste non appartengono solo al capitalismo ma sono anche alla base del comunismo. Gli studiosi, tuttavia, sono tra loro in disaccordo su quando sia nato il concetto di progresso. Se J.B. Bury nel suo libro del 1920 "The Idea of Progress" lo fa risalire non prima del XVII secolo e della rivoluzione scientifica, altri studiosi come Ludwig Edelstein ed E.R. Dodds credono che derivi addirittura dall’antica Grecia. Una posizione condivisa da Robert Nisbet nel suo libro "History of the Idea of Progress" del 1980 che considera il progresso acquisito dalla filosofia cristiana della storia. In seguito la dottrina del progresso è fatta propria dal liberalismo classico (che enfatizza il concetto di libero mercato), dal liberalismo statalista (concetto di welfare state) e dal socialismo. Si crea così una contrapposizione tra i puritani, i liberali classici e i darwinisti che credono in varie forme del progresso e i reazionari, i cattolici tradizionalisti e i conservatori che invece ripudiano il concetto di progresso. Da qui nasce il progressismo, un’ideologia basata sull’inevitabilità del progresso storico e sociale che porterà a un’epoca storica caratterizzata dalla libertà totale, dall’uguaglianza sociale ed economica. Padri del progressismo sono Francis Bacon, Bentham, Mill, Rousseau, Marx, Comte, Edward Bellamy, Condorcet...
[caption id="attachment_6679" align="aligncenter" width="1000"] Da sinistra a destra: Francis Bacon, Jeremy Bentham, John Stuart Mill, Jean-Jacques Rousseau, Karl Heinrich Marx, Augusto Comte, Edward Bellamy, Marquis de Condorcet, solo alcuni dei più celebri progressisti.[/caption]
Il progressismo si articola in vari rami tra cui quello scientifico di Bacon che ritiene il progresso come lo sviluppo delle conoscenze scientifiche e tecnologiche; al contrario per il progressismo sociale la natura umana può cambiare attraverso le riforme politiche. La trasformazione della società auspicata può avvenire solo grazie a un governo centralizzato che ha sufficienti poteri per farlo. Secondo i conservatori le riforme progressiste nascono invece da un’incomprensione di fondo della condizione umana e dalla non accettazione del ruolo del diavolo nel mondo. Il filosofo tedesco Hermann Lübbe, autore di decine di libri in Germania di cui alcuni pubblicate nel nostro paese come "Religione dopo l’Illuminismo" e "La politica dopo l’Illuminismo", ha stilato le Regole fondamentali del comportamento conservatore:
_È conservatrice la cultura derivata dal dolore per i danni arrecati a un patrimonio insostituibile, che sono il prezzo del progresso. Questo dolore non implica un cieco rifiuto del progresso. _È conservatrice la prassi della difesa di ciò a cui non si può rinunciare, contro le sue minacce attuali o prevedibili. [...] chi ritenga giusta e irrinunciabile una cosa simile e intenda salvarla in circostanze che mutano minacciosamente. _È conservatrice l’esigenza di validità di una regola distributiva dell’insieme degli argomenti, secondo la quale, sia nella scienza che nella politica, il progresso e non la tradizione abbia bisogno di essere giustificato. _È conservatore il riconoscere alla prevenzione delle catastrofi la priorità di fronte alla prassi della realizzazione di utopie. L’orientamento verso i mali che vanno indicati per la loro eliminazione è politicamente più sicuro di quello verso l’immagine di una felicità sconosciuta. I conservatori sono contrari non solo alla Rivoluzione francese come avvenimento in sé ma a tutti i cambiamenti economici e di ordine morale da essa derivati. Il conservatorismo delle origini si basa sulla società medievale europea e considera le conquiste della modernità le cause non dell’emancipazione dell’individuo ma della sua alienazione, perciò il pensiero conservatore si oppone al razionalismo e all’individualismo propugnato da Voltaire, Diderot e Kant. I temi centrali del conservatorismo, enunciati negli ultimi due secoli, non sono altro che dei corollari agli enunciati di Burke sulla Francia rivoluzionaria. Burke era ben consapevole del fatto che la Rivoluzione francese avesse, in fondo, una valenza europea, ma questa consapevolezza, per trovare conferma, dovette attendere le opere di ardenti tradizionalisti come Bonald, Maistre e Tocqueville, in cui è possibile notare i contorni di una filosofia della storia diametralmente opposta a quella del progressismo, oltre che una perspicace affermazione dell’importanza del feudalesimo e di altre strutture sviluppatesi storicamente, come la famiglia patriarcale, la comunità locale, la chiesa, la corporazione e la regione che, sotto gli effetti individualizzanti e centralizzati della filosofia del diritto naturale, sono quasi scomparse dal pensiero politico europeo in tutto il periodo che va dal XVII al XVIII secolo. Thomas Hobbes, John Locke e Jean-Jacques Rousseau guardarono sempre con ostilità alla società tradizionale, ai suoi gruppi e alle sue tradizioni. L’attenzione, nei loro scritti, era rivolta esclusivamente alla realtà concreta dell’individuo, lasciando nell’ombra l’organizzazione delle istituzioni.
[caption id="attachment_6680" align="aligncenter" width="1000"] Edmund Burke, padre filosofico del conservatorismo (Dublino, 12 gennaio 1729 – Beaconsfield, 9 luglio 1797), è stato un politico, filosofo e scrittore britannico.[/caption]
Burke, su tutti, rovesciò questa prospettiva individualistica totalizzante. Le Riflessioni e le sue accuse ai rivoluzionari e alle schiere di teorici del diritto naturale ebbero una funzione determinante nei notevoli cambiamenti registratisi in Europa nel passaggio dal XVIII al XIX secolo.
A infiammare l’Occidente, per mezzo della generazione immediatamente successiva alla pubblicazione delle Riflessioni, fu una vera e propria aufklärung, centrata essenzialmente su di un forte anti-Illuminismo. Le voci critiche di Louis de Bonald, Joseph de Maistre e René de Chateaubriand, in Francia, di Samuel Taylor Coleridge e Robert Southey, in Inghilterra, di Karl Ludwig Haller, Friedrich Carl Savigny e George Wilhelm Friedrich Hegel, in Germania, Juan Donoso y Cortés e Jaime Luciano Balmes, in Spagna, si fecero sentire in tutto l’Occidente. In America, furono John Adams, Alexander Hamilton e Randolph di Roanoke a lanciare precisi avvertimenti e proclami. Tutte queste voci critiche, sia europee che americane, riconoscevano come unico profeta Edmund Burke.
[caption id="attachment_6681" align="aligncenter" width="1000"] Da sinistra a destra (prima fila): Louis de Bonald, Joseph de Maistre, René de Chateaubriand, Samuel Taylor Coleridge, Robert Southey, Karl Ludwig Haller, Friedrich Carl Savigny, George Wilhelm Friedrich Hegel. Da sinistra a destra (seconda fila): Juan Donoso y Cortés, Jaime Luciano Balmes, John Adams, Alexander Hamilton, Randolph di Roanoke, Edmund Burke. A destra disegno riguardante il concetto di aufklärung (chiarimento, delucidazione).[/caption]
Essere conservatori, come scrive Jünger riprendendo una frase di Albrecht Erich Günther, significa “restare attaccati a ciò che era ieri ma come un vivere di ciò che sempre vale” e lo stesso Jünger, riferendosi a Rivarol nel libro dedicato al pensatore francese, Rivarol. Massime di un conservatore, descrive le istanze che caratterizzano il conservatorismo: un autore morto da centocinquant’anni, che cercò di affrontare come singolo la Rivoluzione allo stato nascente, che significato ha per il nostro tempo, cioè per un tempo in cui questa Rivoluzione si è consolidata, trionfante, in tutte le sue conseguenze e su tutta la linea, territorialmente e planetariamente, teoricamente e praticamente, nelle abitudini e nelle istituzioni? Da lungo tempo sono tramontati i regni che si discostarono dalle nuove idee, Prussia, Austria e Russia, e tra essi si potrebbe annoverare anche la Turchia; il fatto che siano stati scalzati quasi in un giorno e da ambo i lati dello scacchiere offre un’idea della forza livellatrice dell’attacco. Mentre in questo caso l’attacco suscita delle immagini meccaniche, come quelle delle corone infrante, in altri regni avversi al cambiamento esso sembra piuttosto operare chimicamente, per mezzo di una più sottile distinzione. Tutto ciò è da vedersi spazialmente, ma il trionfo delle idee del 1789 si ripete anche temporalmente nelle grandi spinte contro le potenze conservatrici e i regimi personalistici, contro gli imperi formati dalla massa, contro la monarchia restaurata, contro la regalità borghese e la borghesia fondiaria conservatrice. I castelli vengono distrutti o trasformati in musei, anche laddove si incontrano ancora i Re. La parola “conservatore” non appartiene alle creazioni felici. Racchiude un carattere che si riferisce al tempo e vincola la volontà di restaurazione di forme e condizioni divenute insostenibili. Oggi chi vuole ancora conservare qualcosa è a priori il più debole. In un articolo pubblicato sul numero 3 della rivista “La Destra” nel 1972 intitolato Perché non conservatore?, Mohler enuncia il cosiddetto paradosso dei conservatori: sorprendentemente, il conservatore non è più d’accordo con lo status quo. Secondo l’opinione corrente, il conservatore si aggrappa allo status quo o vuole addirittura ripristinare il passato: la sinistra, invece, sarebbe quella che vuole cambiare lo status quo e quindi spalancare la porta sul futuro. Il paradosso sta nel fatto che oggi i conservatori sono malcontenti e aspirano a un cambiamento mentre le forze progressiste, o di sinistra, un tempo rivoluzionarie, aspirano a mantenere lo status quo. I conservatori infatti: considerano catastrofiche l’attuale politica estera ed economica, non approvano né lo stato attuale dell’esercito né quelli dell’università e della scuola, e non accettano neppure il sesso sterile e industrializzato che si vuol propinare loro come un tranquillante. [...] Anche il meno convenzionale dei conservatori non avrebbe davvero mai osato pensare, fino a poco tempo fa, che si sarebbe improvvisamente trovato ad essere il vero rivoluzionario – l’unico, infatti, che non accetta lo status quo – ma è dell’opinione che ci dovrebbe essere una via migliore di quella sulla quale ci trasciniamo come un branco di pecore. Mohler prende le distanze dal tentativo di esportare il pensiero di Burke in ogni epoca e contesto, per lui quanto teorizzato da Burke è giusto se legato al suo tempo e all’Inghilterra, chi auspica un Burke tedesco sbaglia perché in Germania non avrebbe ragion d’essere.
 
Per approfondimenti:
_Francesco Giubilei, Storia del pensiero conservatore - Edizioni Giubilei Regnani 2016
_G. Malgieri, Conservatori. Da Edmund Burke a Russell Kirk - Edizioni Il Minotauro, Milano 2006;
_R. Nisbet, Conservatorismo: sogno e realtà - Edizioni Rubbettino, Soveria Mannelli 2012;
_G.A. Balistreri, Filosofia della Konservative Revolution: Arthur Moeller van den Bruck - Edizioni Lampi di Stampa;
_C. Mongardini e M.L. Maniscalco, Il pensiero conservatore. Interpretazioni, giustificazioni e critiche - Edizioni Franco Angeli, Milano 1999;
_G. Malgieri, Conservatori europei del Novecento. Un’antologia - Edizioni Pagine, Roma 2014;
_R. Scruton, Manifesto dei conservatori - Edizioni Raffaello Cortina, Milano 2007;
_R. Scruton, Essere conservatori - Edizioni D’Ettoris, Crotone 2015;
_E. Jünger, Rivarol. Massime di un conservatore - Edizioni Guanda, Milano 1992;
 
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Nello studio di ogni argomento esistono dei libri imprescindibili, se si vuole affrontare e comprendere fino in fondo la materia in oggetto. Per quanto riguarda l’ambito abbastanza settoriale della storia della diplomazia – branca ristretta dello studio delle relazioni internazionali, a sua volta parte della scienza politica – una delle opere che possono indiscutibilmente essere definite classiche, da doversi leggere per forza prima o poi, è senza dubbio la “Storia della diplomazia” di Harold Nicolson.
Pubblicata per la prima volta nel 1939 dalla Oxford University Press con il titolo “Diplomacy”, alla prima seguirono due ulteriori edizioni nel 1963 e nel 1988. Della seconda si fece una traduzione italiana nel 1995 per la casa editrice Corbaccio, intitolata “Storia della diplomazia” (nuovo, il libro è praticamente introvabile oggi, sicché al suo indubbio valore dal punto di vista del contenuto, si aggiunge anche un certo piacere per i bibliofili). Tradotta da Raniero Avogadro e con una prefazione scritta da Sergio Romano, l’opera di Nicolson affronta la diplomazia sotto ogni aspetto, dall’evoluzione storica alla teoria, dalle caratteristiche del diplomatico ideale all’analisi delle differenze tra le varie diplomazie europee, fino a tratteggiare una prospettiva futura. L’autore, d’altronde, aveva tutti i titoli per parlare di tale argomento.
[caption id="attachment_6644" align="aligncenter" width="1000"] Sir Harold Nicolson (Teheran, 21 novembre 1886 – Kent, 1 maggio 1968) è stato un politico, diplomatico e scrittore britannico.[/caption]
Nato nel 1886 a Teheran, figlio di un ambasciatore britannico, Sir Harold Nicolson seguì le orme paterne intraprendendo anch’egli una carriera ventennale nel Foreign Office. Tuttavia, l’attività diplomatica non fu che una parte dell’esistenza di quest’uomo, definito uno dei protagonisti della vita intellettuale britannica dei primi del XX secolo. Assommando una copiosa produzione letteraria, le sue opere spaziano dal genere biografico (Verlaine, Byron) a quello letterario e giornalistico. Ad oggi, tra gli scritti più importanti si colloca la sua opera diaristica ed epistolare in tre volumi (“Diaries and lettres” pubblicata postuma), considerata unanimemente un preziosissimo documento della vita politico-sociale dagli anni Trenta agli anni Sessanta in Gran Bretagna, nonché per l’appunto Diplomacy.
Nelle prime pagine di “Storia della diplomazia” Nicolson spiega i motivi che l’hanno spinto a concepire l’opera: in passato – scrive – «il comune cittadino […] si interessava alle relazioni internazionali solo in casi di eccezionale gravità», ma l’avvento della Grande Guerra cambiò profondamente le cose. Le popolazioni impararono che anche i civili potevano essere toccati dalla guerra, e di conseguenza che era opportuno conoscere e giudicare a fondo le scelte dei governanti in materia di politica estera. In questo cambiamento di approccio, tuttavia, «il grande pubblico rimase confuso e disorientato; […] la sua vigile attenzione per i problemi internazionali divenne ansia; il suo intento critico si manifestò troppo spesso in forme di esagerato sospetto e la sua attenzione si fece spasmodica».
Una delle cause principali di questo problema fu un fraintendimento di fondo(che del resto permane significativamente al giorno d’oggi!): ossia quello tra “politica estera” e “negoziato”, cioè diplomazia.
Secondo la definizione ufficiale, usata nel libro e presa dall’Oxford English Dictionary, con diplomazia si intende «la trattazione degli affari internazionali per mezzo del negoziato; il metodo con il quale queste relazioni sono disciplinate e trattate da ambasciatori e inviati; il mestiere o l’arte del diplomatico», sicché risulta essenziale che essa sia distinta dalla politica estera stricto sensu, indicata non a caso come aspetto «legislativo» del problema, contrapposto appunto a quello «esecutivo», cioè la prassi diplomatica. Come è stato detto con una similitudine senza dubbio efficace, se il Ministro degli Esteri è lo “chef” della cucina, il diplomatico sarà insomma lo “sguattero”. Ma figure retoriche a parte, l’importanza di tale distinzione secondo Nicolson è capitale, soprattutto in seguito alla rivoluzione che non tanto la Grande Guerra, quanto più precisamente la dottrina wilsoniana della open diplomacy ha interessato la politica internazionale.
Si tratta di uno dei temi principali che attraversano interamente il libro di Nicolson: propugnando l’abbandono del segreto nella condotta degli affari esteri tout court (“open covenants[…]openly arrived at”, dal primo dei Quattordici punti, 8/I/1918), la concezione del presidente Wilson è oggetto di forti critiche da parte del diplomatico inglese, essendo da questi ritenuta esiziale. Affrontando fin dalle prime pagine un tema che poi verrà più volte ripreso, vero e proprio fil rouge dell’opera, Nicolson precisa che la politica estera dovrebbe essere sì «materia riservata alle decisioni del governo con l’approvazione dei rappresentanti del popolo da questo eletti», ma è impossibile pensare che ciò valga anche per la diplomazia. In altri termini: «[il negoziato] dovrebbe in linea di massima essere lasciat[o] ad elementi professionisti provvisti di adeguata esperienza e discrezione». È una concezione tecnica della diplomazia, che si potrebbe anche definire “aristocratica”, nell’accezione migliore – cioè secondo l’etimo – del termine.
[caption id="attachment_6650" align="aligncenter" width="1000"] Fantastica scena del 1913. Da sinistra a destra: Harold Nicolson, Vita Sackville-West, Rosamund Grosvenor e Lionel Sackville-West.[/caption]
La diplomazia, intesa come «condotta ordinata delle relazioni fra gruppi di esseri umani fra di loro estranei» è una pratica umana «più antica della storia», «un elemento essenziale in qualsiasi ragionevole relazione fra uomo e uomo». Fin dall’alba dei tempi, infatti, «vi furono probabilmente momenti nei quali un gruppo di selvaggi desiderò negoziare con un altro, se non altro allo scopo di far sapere che ne avevano abbastanza di combattere per quel giorno, e avrebbero desiderato una pausa per raccogliere i feriti e seppellire i morti»; e fin dalla Preistoria si comprese che «tali negoziati sarebbero stati seriamente ostacolati se l’emissario di una delle parti fosse stato ucciso e mangiato dagli avversari prima di aver avuto il tempo di comunicare o consegnare il suo messaggio».
Immediatamente, dunque, nacquero insieme le due caratteristiche sostanziali di qualunque diplomatico: la rappresentatività e l’immunità accordata.
Passando a fonti storiche, furono i Greci a concepire per primi una forma di diplomazia per certi versi simile a quella moderna, come racconta Tucidide. Se, in precedenza, il “diplomatico” era essenzialmente un araldo investito del compito di comunicare con gli stranieri, adesso nel tumulto politico dell’Età Classica, gli ambasciatori divennero dei valenti retori, inviati da una polis ad un’altra col mandato di usare la propria ars oratoria «a difesa della causa della loro città». Emersero già da allora altri due aspetti fondamentali che in ogni tempo – come si può osservare – sono stati direttamente proporzionali allo sviluppo della diplomazia: l’instabilità o “dinamicità” politica, e la debolezza militare. Per senso comune si comprende il senso dell’ultimo aspetto: quando non parla il diplomatico lo fa di solito la sua controparte, il suo gemello di segno opposto, cioè il soldato, e vice versa quanto più l’uno ha spazio di manovra tanto meno ne ha l’altro; allo stesso modo, in un sistema politico per così dire sclerotizzato e statico, non importa per quale ragione, non vi è molto di cui discutere, se appunto la vita di relazione è politicamente piatta.
La fioritura della diplomazia nel sistema delle poleis fu dunque dovuta proprio a queste due caratteristiche: bellicose ma deboli militarmente, incapaci per definizione di concepire una struttura uniforme, stabile ed estesa, come ad esempio un impero, esse avevano bisogno dell’ars diplomatica perché incapaci di usare efficacemente la forza. Così, gli ellenici “inventori” della diplomazia sperimentarono le tappe progressive di quel passaggio di cui parla Nicolson dagli «interessi tribali» alla «comunità degli interessi», ma l’ultimo stadio fu loro negato, poiché esso avvenne ironicamente solo quando era ormai troppo tardi. All’orizzonte si profilava già la loro decadenza, per mano della minaccia mortale ed imperiale di Filippo II ed Alessandro Magno, ed in seguito ovviamente di Roma.
[caption id="attachment_6634" align="aligncenter" width="1000"] Leo von Klenze, l'Acropoli di Atene - Olio su tela 1846[/caption]

Stando a quanto si è detto finora non dovrebbe essere difficile comprendere che alla fioritura della diplomazia nella Grecia classica corrispose durante il periodo romano un declino della stessa. I Romani «non si distinsero per qualche particolare abilità nell’arte del negoziare, d’altronde non ne avevano bisogno: durante i lunghi secoli della loro supremazia i metodi da essi impiegati furono piuttosto quelli dei legionari e dei costruttori di strade»; ciò nondimeno, essi diedero indirettamente un enorme contributo alla diplomazia sviluppando, perfezionando e codificando il diritto, di cui secoli più avanti si sarebbe servita l’umanità intera, ivi compresi i diplomatici.

Ancora una volta in modo inversamente proporzionale alla stabilità politica ed alla forza militare, la diplomazia prosperò alla corte di Costantinopoli, e gli imperatori bizantini portarono quest’arte «al livello della più consumata ingegnosità». In particolare, il fatto che spesso essi adottassero la tattica del divide et impera contro le popolazioni barbariche comportò che per la prima volta i diplomatici dovettero aggiungere un altro compito alle loro mansioni: «fornire rapporti dettagliati sulla situazione interna dei paesi stranieri» allo scopo di sfruttare al massimo «ambizioni […] debolezze [e] risorse di quelli con cui si intendeva trattare». Pertanto, come «la figura dell’oratore aveva sostituito il primitivo banditore, […] l’oratore lasciò il posto all’esperto osservatore».
Durante il Medioevo la diplomazia fu soprattutto questione di studio dei documenti conservati negli archivi reali (di cui si mantiene ancora un’eco quando si parla di “diplomatica”), i quali conferivano una massa di privilegi, immunità, o semplicemente riportavano per iscritto accordi con comunità straniere. La stessa parola “diplomazia” deriva da questo: in greco diploun, significa piegare, e diplomas erano i lasciapassare di epoca imperiale che si apponevano «su piastre di metallo doppie, piegate e cucite insieme in maniera particolare» sui bagagli; tale parola poi per estensione definì qualunque documento scritto che trattasse di accordi con comunità straniere. La conoscenza di tali archivi, necessaria per la condotta della politica estera, rese il “cancelliere” una delle massime autorità in materia, e tuttora conoscere il diritto internazionale pattizio (sono delle norme che due o più stati sovrani stabiliscono) è uno degli aspetti più importanti della formazione di qualunque diplomatico degno di tale nome.
Mancava però ancora un elemento centrale, affinché si potesse parlare di transizione alla modernità per il diplomatico: ovvero la residenza in pianta stabile in sede estera. Ciò si verificò per la prima volta solo in Italia, nel sistema delle Città-Stato rinascimentali. La prima missione diplomatica stabile di cui si abbia notizia è infatti quella «stabilita a Genova nel 1455 da Francesco Sforza, duca di Milano».
Le Città-Stato della penisola erano in tutto e per tutto simili alle poleis greche, non sorprende dunque che fu in un tale contesto che si perfezionò la diplomazia moderna. I signori rinascimentali erano guerrafondai, incapaci di acquisire l’egemonia e soprattutto desiderosi che nessuno di essi potesse prevalere sugli altri. Difatti il concetto di “equilibrio di potenza” fu teorizzato proprio in questo periodo, peraltro con conseguenze a dir poco nefaste per l’unificazione politica nazionale. Essi, inoltre, avevano bisogno appunto di inviati che risiedessero stabilmente presso le altre Città, per rappresentarli, informarli di ciò che avveniva in loco e spesso tramare ai danni della stessa Città di sede.
Gli ambasciatori dell’epoca erano aristocratici quasi sempre corrotti o alla ricerca di un proprio interesse personale, preoccupandosi solo di condurre la vita più fastosa possibile. Essi erano né più né meno che dei cortigiani. Quando si trattava di assolvere ai compiti che erano stati loro affidati, si limitavano a scegliere la via più breve, semplice e meno dispendiosa, non curandosi granché di morale, rispettabilità o altro: «essi corrompevano […], fomentavano rivolte, incoraggiavano i gruppi di opposizione, intervenivano nei modi più sovversivi negli affari interni dei Paesi in cui erano accreditati, mentivano, spiavano, rubavano». Quest’aura negativa, d’altronde, perpetuatasi per tutti i secoli XVI e XVII, sarebbe rimasta a lungo nella memoria collettiva (fino ad oggi) come inscindibilmente legata alla figura del diplomatico.
Scrive Nicolson, da Bisanzio passando per le Città-Stato rinascimentali italiane, soprattutto la Serenissima Repubblica, «la diplomazia divenne lo stimolo piuttosto che l’antidoto della cupidigia e della follia dell’umanità. In luogo della cooperazione si ebbe la disintegrazione; invece dell’unità la scissione; invece della ragione, l’astuzia; in luogo dei principi morali, ingegnosi sofismi». Eppure, se c’è una cosa che stupisce nell’opera del diplomatico inglese, è proprio la sua critica per nulla scontata a questo modo di fare, e di intendere, la diplomazia. Egli non può proprio essere definito un idealista, tuttavia il suo è un realismo politico ben particolare, dove il concetto di moralità funge da chiave di volta di tutto il discorso e costituisce un altro fil rouge che attraversa interamente il libro dall’inizio alla fine.
Dissertando sulla moralità, è molto famosa la battuta di un ambasciatore inglese, Sir Henry Wotton, secondo cui «un diplomatico è un uomo onesto inviato all’estero a mentire per il bene del proprio Paese»; pochi sanno, però, che quando tale frase venne riferita al Re, Giacomo I, questi «rimase profondamente colpito dal cinismo del suo inviato […] e non volle più servirsi di lui».
[caption id="attachment_6636" align="aligncenter" width="1000"] Sir Henry Wotton (1568-1639) è stato un politico e un diplomatico inglese.[/caption]
Lo stereotipo del diplomatico che muove i fili, conduce macchinazioni e ordisce congiure da dietro le quinte risponde probabilmente ad una visione forse in parte vera, ma di certo troppo semplicistica di questa professione. In fondo è facile osservare una verità, chiara e limpida: «un ambasciatore, per avere successo, deve essere in grado di guadagnarsi la fiducia e la simpatia di coloro che esercitano l’autorità nel Paese presso cui è accreditato». E per farlo, egli deve sforzarsi quanto più possibile di acquistare un’«influenza morale» agli occhi dei suoi interlocutori, come dice Nicolson citando l’ambasciatore francese Jules Cambon, poiché questo è il requisito più importante di ogni altro.
«Egli» insomma «deve essere un uomo d’onore nel senso più rigoroso se il governo presso cui è accreditato e il suo stesso governo devono riporre piena fiducia in ciò che egli dice». Nessuno esclude che in un negoziato si possano avere dei vantaggi immediati con un atto riprovevole come la menzogna, ma vanno inclusi nel conto finale anche i danni nel lungo termine, come «l’indignazione, il desiderio di vendetta e il risentimento» generati nella controparte e molto probabilmente nocivi per altre relazioni in futuro, al punto da poterle pregiudicare.
Secondo Nicolson, quando la politica internazionale viene vista come un gioco a somma zero, in cui una delle due parti vince e l’altra perde, si condivide la cosiddetta dottrina «guerriera» della diplomazia: in essa il negoziato è visto come una «guerra con altri mezzi»; gli scopi sono «predatori» ed i metodi con cui si perseguono i propri fini «sono ideati ed attuati secondo un punto di vista militare», ad esempio «l’attacco di sorpresa, spesso di notte; […] la Kraftprobe, per saggiare la forza della posizione nemica […], l’intimidazione, la spietatezza e la forza». L’obiettivo finale è ovviamente una vittoria ed è altresì «ovvio che in un tale sistema ci sia ben poco posto per la conciliazione, la fiducia e la lealtà».
Di contro, Nicolson sposa, e contrappone a questa visione, la concezione «mercantile» della diplomazia: in essa il «compromesso fra contendenti è generalmente più conveniente della completa distruzione del rivale» ed il negoziato è «un tentativo per raggiungere, mediante mutue concessioni, un qualche accordo durevole»; «si assume che vi sia qualche posizione intermedia fra i due negoziatori che, se scoperta, può condurre a una composizione dei loro interessi in conflitto; e per trovare questo punto d’incontro, tutto quel che si richiede è una discussione franca, che le carte siano poste sul tavolo e che vengano impiegati i normali procedimenti della ragione umana, la fiducia e la lealtà».
Entrambe queste concezioni hanno punti deboli: quello della teoria guerriera è «l’eccessivo affidamento sulla capacità intimidatoria della forza», mentre per la teoria mercantile è «un esagerato ottimismo circa l’idea che la stima e la fiducia possano suscitare nell’avversario analoghi sentimenti». Ma detto questo, tra le due per Nicolson è decisamente da preferirsi la seconda, aggiungendo il dettaglio che non a caso la diplomazia «sana» è stata una «creazione dei cittadini della classe media», ossia la borghesia, e che le «influenze che determinarono il progresso della diplomazia» furono il diritto e appunto il commercio.
In sintesi, per il diplomatico inglese, la diplomazia “morale” è più efficace della diplomazia “immorale”, poichè finisce per frustrare i suoi stessi scopi. Non bisogna comunque esagerare ritenendo la diplomazia un sistema di filosofia etica,  perché non lo è. Essa è piuttosto, citando Ernest Satow, «l’applicazione dell’intelligenza e del tatto alla condotta delle relazioni ufficiali tra i governi di Stati indipendenti», sicché per l’autore di Diplomacy «la peggior specie di ambasciatori è costituita da missionari, fanatici e giuristi; la migliore quella formata dagli scettici dotati di una natura ragionevole e umana». È stato il buon senso ad esercitare l’influenza più formativa sulla diplomazia, «e fu in primo luogo attraverso i traffici commerciali che le genti dei diversi paesi impararono ad applicare il buon senso nel trattare reciprocamente i loro affari».
[caption id="attachment_6637" align="aligncenter" width="1000"] Il diplomatico, insignito dell'Ordine Cav. di S.Michele e S.Giorgio, Ernest Mason Satow (1843-1929). Fu ministro britannico a Tokyo dal 1895 al 1900.[/caption]
Da queste premesse consegue la figura del «diplomatico ideale», le cui caratteristiche – proprio in virtù di quanto detto sopra – potrebbero facilmente essere estese in senso stretto a qualunque tipologia ideale di uomo: veridicità, precisione, calma, buon temperamento, pazienza, modestia, lealtà, e per concludere Nicolson aggiunge: «Il lettore potrebbe a questo punto obiettare che non ho accennato all’intelligenza, alla cultura, al discernimento, alla prudenza, all’ospitalità, al fascino, alla laboriosità, al coraggio ed al tatto. In realtà non li ho dimenticati: li ho dati per scontati».
Proseguendo, Nicolson ci introduce  verso la diplomazia nazionale di un paese. Le Grandi Potenze dell’epoca, Gran Bretagna, Francia, Germania e Italia (gli Stati Uniti vengono omessi a causa dello spoils system, ovvero "sistema del bottino", che aveva impedito la nascita di un vero e proprio servizio diplomatico professionale). Così come nel capitolo precedente l’autore si era speso per tratteggiare i caratteri essenziali – e positivi – del diplomatico ideale, adesso egli si rivolge a definire gli aspetti basilari – e non solo positivi – delle diplomazie europee, mettendone in luce appunto la diversa sostanza, i vizi e le virtù, dovuti a differenze «del carattere, delle tradizioni e dei bisogni nazionali».
La prima ad essere analizzata è ovviamente la diplomazia britannica, ben conosciuta dall’autore. I diplomatici britannici, da buoni sudditi di Sua Maestà, sono visti dagli stranieri come flemmatici, «amorfi, letargici e lenti», ma in realtà sotto tale maschera si cela la più alta professionalità. Il diplomatico britannico «è eccezionalmente ben informato, si sforza di acquistarsi e di mantenere a fiducia dei governi stranieri, è imperturbabile nei momenti di crisi e ha quasi sempre successo (sic!!)». Non a caso, secondo Nicolson, i Britannici riconoscono che il negoziato è «essenzialmente un’attività mercantile» e basano dunque il loro successo sui sani principi propri di tale attività come «moderazione, comportamento leale, ragionevolezza, fiducia, atteggiamento conciliante e diffidenza verso tutte le mosse a sorpresa o a sensazione».
[caption id="attachment_6640" align="aligncenter" width="1000"] A sinistra un dipinto di George Hayter, La regina Vittoria nel giorno della sua incoronazione, 1838. A destra mappa dell'Inghilterra vittoriana.[/caption]
Dal punto di vista geopolitico, la politica estera dell’Inghilterra non può prescindere dal dato di fondo del suo isolamento, nel senso etimologico del termine. Suo primario interesse sarà dunque «acquisire una potenza preponderante sul mare contro qualsiasi nemico», ma per evitare di suscitare «risentimenti e gelosie in tutto il mondo», tale scopo dovrà essere velato e traslato nel principio della libertà dei mari e, soprattutto, in quello dell’equilibrio di potenza, di cui già si è avuto modo di parlare. La Gran Bretagna sarà insomma «il naturale nemico di qualsiasi nazione che minacci l’indipendenza dei piccoli Paesi». Grazie a questa impostazione di fondo, assai chiara ma al contempo generale, il sistema britannico si rivela – a detta di Nicolson – il migliore di tutti, grazie alla flessibilità che lo caratterizza e che permette di adattarsi a qualunque circostanza o sfida (si pensi alla celeberrima frase pronunciata dal Primo Ministro Palmerston, nel 1844: “We have no eternal allies, and we have no perpetual enemies. Our interests are eternal and perpetual, and those interests it is our duty to follow”).
La seconda diplomazia nazionale sotto la lente di Nicolson è quella tedesca. Diversamente dall’Inghilterra, se quest’ultima era il classico esempio di diplomazia «mercantile» (si pensi a Napoleone che parlava in modo dispregiativo di “nation de boutiquiers”), la Germania è – prevedibilmente – indicata come l’esempio principe della teoria “guerriera” della diplomazia. Originantesi dalla «mancanza di qualsiasi ben definita delimitazione geografica, razziale o storica», la concezione geopolitica tedesca e figlia dell’incertezza e nutre la politica estera di Berlino, dunque anche la sua diplomazia, essenzialmente di Machtpolitik, politica di potenza. «Da un lato vi è la convinzione che la forza o la minaccia della forza siano i principali strumenti del negoziato; dall’altro vi è la teoria che la “ragion di Stato” [abbia] la precedenza su tutte le religioni o filosofie individuali».
«I tedeschi», continua l’autore, «sono convinti che sia più importante ispirare paura che non suscitare fiducia; e allorché, come accade invariabilmente, le nazioni minacciate si uniscono per proteggersi vicendevolmente, essi gridano all’Einkreisung o “accerchiamento”, ignorando totalmente il fatto che sono i loro stessi metodi e minacce a produrre quella reazione». Per spiegare questo fenomeno, Nicolson cita il fatto che in Germania il Ministero degli Esteri abbia scarso potere di contro all’onnipotente Stato Maggiore (e anche qui, sulla scia delle precedenti citazioni, valgano le parole di Mirabeau: «La Prussia non è uno Stato che possiede un esercito, ma un esercito che possiede uno Stato»).
Continuando in quest’analisi delle diplomazie europee tocca alla Francia, la quale, dal canto suo, è quella che forse – dopo l’Inghilterra – risponde più delle altre ad uno schema chiaro e ben definito: «difendersi dalla minaccia tedesca». Il sistema diplomatico e geopolitico francese risulta dunque tanto semplice quanto, tuttavia, rigido. Nicolson scrivendo non può celare l’ammirazione ch’egli ha per la diplomazia del Quai d’Orsay (celeberrima sede del Ministero degli Esteri francese), ma ciò non gli vieta di notare anche i difetti insiti nel carattere transalpino.
[caption id="attachment_6642" align="aligncenter" width="1000"] Quai d’Orsay, sede del Ministero degli Esteri francese[/caption]
«I diplomatici francesi uniscono all’acutezza dell’osservazione il dono di una speciale capacità di persuadere»; sono uomini d’onore e precisi, «ma difettano in fatto di tolleranza» e sono anche così convinti «della propria preminenza intellettuale», e sicuri della superiorità della propria cultura, da risultare spesso impazienti e finanche offensivi «di fronte ai barbari che abitano gli altri Paesi».
Ed infine, l’autore arriva a trattare per quarta la diplomazia italiana, acer in fundo purtroppo per noi. Alla politica estera del nostro paese viene sì riconosciuta, di contro alla rigidità francese, una grande duttilità, ma tristemente tale caratteristica non è che il frutto della nebulosità strategica di Roma. Il sistema italiano, d’altronde, è derivato da quello degli Stati italiani rinascimentali, e «non è basato né su una sana concezione mercantile, né sulla politica di potenza, né sul logico perseguimento di determinati fini». Sinteticamente: esso si basa su «un’incessante manovra». Vale davvero la pena di leggere per intero la parte in cui Nicolson analizza la politica estera italiana, sia perché raramente si sono avute parole talmente impietose ed allo stesso tempo fondate, sia perché con somma tristezza si può osservare che tale giudizio non è così lontano dalla situazione attuale.
«Lo scopo della politica estera italiana è l’acquisizione sul terreno diplomatico di un’importanza maggiore di quella che possa esserle assicurata dalla sua potenza reale. Essa è pertanto l’antitesi del sistema tedesco, poiché invece di basare la diplomazia sulla potenza, basa la potenza sulla diplomazia. È l’antitesi del sistema francese, poiché invece di sforzarsi di assicurarsi degli alleati stabili contro un nemico permanente, considera i suoi alleati e i suoi nemici intercambiabili. È l’antitesi del sistema britannico, poiché ciò che intende assicurarsi non è un credito durevole, ma un vantaggio immediato. La sua concezione dell’equilibrio di potenza soprattutto non è identica a quella britannica; infatti, mentre in Gran Bretagna tale dottrina è interpretata come opposizione a qualsiasi Paese cerchi di dominare l’Europa, in Italia essa è intesa come quel particolare equilibrio di forze che le consenta di far inclinare con il proprio peso l’ago della bilancia. […] La diplomazia italiana […] assomma, da un lato, le ambizioni e le pretese di una grande potenza con, dall’altro, i metodi di una piccola potenza. La sua politica è così non solo volubile, ma essenzialmente transitoria».
[caption id="attachment_6643" align="aligncenter" width="1000"] Édouard-Louis Dubufe, Il Congresso di Parigi - 1856 da sinistra a destra: Camillo Paolo Filippo Giulio Benso, conte di Cavour (Regno di Piemonte e Sardegna), Henry Wellesley I Conte di Cowley (Gran Bretagna), Karl Ferdinand von Buol (Impero Asburgico), Alexey Fyodorovich Orlov (Russia), François-Adolphe de Bourqueney (Francia), Otto Theodor von Manteuffel (Prussia), Alexander von Hübner (Impero Asburgico), Alexandre Colonna-Walewski (a sedere in primo piano-Francia), Mehemmed Djemil Bey (Impero Ottomano), Benedetti (Segretario), George Villiers, IV Conte di Clarendon (Gran Bretagna), Philipp von Brunnow (Russia), Mehmed Emin Aali Pasha (Impero Ottomano), Maximilian Graf von Hatzfeldt-Trachenberg (Prussia), Pes di Villamarina (Piemonte e Sardegna).[/caption]
Nel capitolo sui tipi di diplomazia europea Nicolson di certo provoca più volte un certo sorriso sarcastico nel lettore per il suo modo un po’ troppo disinvolto, stereotipato ed estremizzato di affrontare l’argomento: così, ad esempio, non stupisce che proprio la diplomazia britannica – it goes without saying – venga dipinta come la migliore, con tratti quasi superlativi che è più che lecito dubitare corrispondano alla realtà; i francesi sono arroganti e boriosi, i tedeschi hanno una mentalità militaresca e gli italiani … vengono come al solito ricordati più per le loro ambizioni ingiustificate che per altro. Pur tuttavia, rimane il fondo di tale analisi, che anche oggi, a distanza di circa ottant’anni, non possiamo che riconoscere veritiero.
Ai primi del Novecento si può dire che la diplomazia si sia ormai stabilizzata da più di un secolo; le Grandi Potenze hanno tutte i propri rappresentanti permanenti presso le capitali sia europee sia extra-europee, e le relazioni diplomatiche vengono grosso modo gestite secondo un insieme di norme e principi sedimentatisi nel corso degli anni. Il 1918 segna una data spartiacque con la comparsa della open diplomacy, detta anche «diplomazia democratica».
Nicolson giudica “l'avvento delle masse” in politica, e quindi anche in diplomazia, il principale cambiamento avvenuto nell’intera storia millenaria degli ambasciatori. Tuttavia, tale processo raggiunge in realtà solo il suo apogeo sul finire della Grande Guerra, cominciando però tempo addietro. Per spiegare la diplomazia democratica è infatti necessario partire dal Diciannovesimo secolo, epoca del passaggio dalla cosiddetta “vecchia” alla “nuova” diplomazia.
Durante l’Ottocento la politica internazionale, ed anche il negoziato, cessarono di essere appannaggio esclusivo del monarca – abbandonando dunque in modo progressivo la segretezza che velava le relazioni internazionali – per diventare sempre più oggetto del controllo del Governo. Da una diplomazia «di boudoir», come la definisce Nicolson, si passò ad un corpo più o meno omogeneo di funzionari dello Stato, così come tutti noi oggi lo conosciamo. Tale passaggio, secondo l’autore di “Storia della diplomazia” fu il riflesso della transizione dalla Monarchia assoluta alla Monarchia costituzionale, e fu causato altresì da fattori quali il rapido sviluppo delle comunicazioni e soprattutto l’importanza sempre più grande dell’opinione pubblica.
In modo analogo, la “nuova” diplomazia cambiò leggermente pelle, all’indomani del 1918, per diventare “democratica” a tutti gli effetti. Secondo Nicolson, la “dottrina” del presidente Wilson non fu infatti che una logica conseguenza, portata agli estremi, di quanto già iniziato con la “nuova” diplomazia. Da un lato, l’autore di Diplomacy non manca di mettere in luce l’aspetto positivo di un maggiore controllo della politica estera da parte della sovranità popolare, ma dall’altro si dimostra molto più incline a vederne i vizi: il primo è di certo l’irresponsabilità del popolo sovrano, che controlla la politica estera restando però «totalmente ignaro delle responsabilità che ciò comporta»; un altro grande problema è l’ignoranza del popolo stesso, che fa stridente contrasto con la prudenza con cui il diplomatico di professione si guarda «dal fare delle generalizzazioni basate su una frettolosa osservazione dei fenomeni»; la terza difficoltà è data dalla lentezza d’azione, dovuta anche qui sempre alla ricerca del «consenso del comune elettore»; infine, il quarto difetto capitale è l’imprecisione, apertamente ricercata dalle democrazie che aborrono gli impegni chiari e vincolanti, per ottenere così facendo maggiore libertà di azione, ma cozzando contro l’assioma che vuole che «l’efficacia di qualunque diplomazia dipenda dalla misura in cui essa ispira fiducia e certezza».
Insomma, si sarà ormai ben compresa l’opinione del diplomatico inglese, che del resto è stata citata già all’inizio di questo scritto: se è giusto che la politica estera sia sotto il controllo del popolo sovrano, non può dirsi lo stesso del negoziato, cioè della diplomazia. La storia non può andare a ritroso, e d’altronde non bisogna prendere Nicolson per un banale reazionario: secondo il diplomatico inglese bisogna dunque accettare la diplomazia democratica per quello che è, anche perché – come egli scrive – lungi dal giudicarla in toto come «meno efficiente o più pericolosa di quanto fosse la diplomazia di una volta», essa è al contrario «infinitamente preferibile a qualsiasi altro sistema», a patto però che esca dallo «stato di confusione» in cui versa e sappia «trovare la sua formula». Si tratterà insomma, con una stupenda metafora, solo di «adattare questa tastiera estremamente delicata alle rozze dita delle masse popolari».
In conclusione, siamo ormai arrivati a gettare uno sguardo sull’oggi, sulla diplomazia contemporanea come noi la conosciamo, avendo visto tutti i cambiamenti che il mondo degli ambasciatori ha subito. In definitiva, è giunto il momento di provare a rispondere alla consueta domanda con cui da decenni termina qualunque scritto abbia trattato l’argomento di cui ci siamo occupati: la domanda sulla fine della diplomazia. La diplomazia è ormai destinata a scomparire in quanto strumento obsoleto ed inutile? Oggi più che mai sembra lecito interrogarsi sulla morte della diplomazia, oggi che i cambiamenti alla base del passaggio dalla “vecchia” alla “nuova” sono divenuti dirompenti e connaturati al nostro tempo (si pensi alla distorsione dell’opinione pubblica da parte del populismo o alla iper-velocità della comunicazione grazie a smartphone e social network). Oggi più che mai è dunque necessario trovare una risposta.
Per iniziare, ad onor del vero, bisogna dire che questa disputa non è affatto recente come potrebbe apparire, bensì risale a circa due secoli fa, ancor prima che Nicolson ne parlasse, fin da quando fu inventato il telegrafo. Se ne parla da così tanto tempo, eppure i diplomatici come abbiamo visto sono rimasti al loro posto e, come vediamo, continuano a farlo anche ai giorni nostri, sicché una probabile risposta alla domanda non è difficile da immaginare. Nondimeno il punto della questione resta: cosa porta un ambasciatore ad essere necessario, nel secondo decennio del XXI secolo, quando due capi di Stato, se ne hanno intenzione, possono benissimo parlarsi anche dai due angoli più remoti del globo, in modo immediato e addirittura guardandosi reciprocamente “de visu” su Skype?
La risposta la dà già Harold Nicolson nel suo Diplomacy riprendendo il passaggio dalla vecchia alla nuova diplomazia. A ben guardare, sostiene il diplomatico inglese, tale transizione fu solo «apparente», ma non andò ad intaccare la «sostanza» del fenomeno. Ciò che si verificò fu semplicemente che «l’arte del negoziato si [adattò] gradualmente ai cambiamenti delle condizioni politiche», giacché «un determinato sistema politico si riflette inevitabilmente in un certo tipo di diplomazia»; oppure, detto in altri termini, la diplomazia è «costretta ad adottare le idee e le abitudini dei sistemi che [rappresenta]», e quando questi cambiano, essa cambia con loro. Citando ancora Cambon: oggi come ieri «la sostanza [della diplomazia] rimarrà, innanzitutto perché la natura umana non cambia mai; secondariamente perché vi è un solo modo di risolvere le controversie internazionali; e infine perché il metodo più persuasivo a disposizione di un governo è la parola di un uomo onesto».
Quando uno Stato invia un diplomatico in sede estera, non invia «[…] semplicemente un impiegato a rappresentarlo, ma […] un uomo nelle cui doti di intelligenza, iniziativa e integrità abbia piena fiducia». L’ambasciatore, proprio per definizione, trovandosi “sul posto” in pianta stabile, sarà sempre «in una posizione chiave» per poter «studiare le condizioni locali, […] individuare le aree di particolare suscettibilità locale; […] coltivare le conoscenze negli ambienti politici del posto, in modo da saper dire al proprio Ministro fin dove egli può spingersi e fino a che punto può fidarsi di coloro con cui deve negoziare». In poche parole, egli è colui che meglio può consigliare il proprio Governo circa le azioni da compiere e quelle da evitare. Questo, con buona pace delle cassandre che prevedono la morte della diplomazia, c’è sempre stato nel corso dei secoli – come abbiamo visto – e con ogni probabilità continuerà ad esserci fin quando esisterà la razza umana.
Lungo più di duemila anni, «attraverso tali lente fasi e così vari canali, il gran fiume della diplomazia ha» soltanto «cambiato il suo letto», ma «l’acqua è la stessa di prima, il fiume è alimentato dagli stessi affluenti ed esplica in gran parte le stesse funzioni: esso ha solo spostato il suo letto nella sabbia di un miglio o giù di lì». Di una cosa comunque si può stare certi: chiunque, prima o poi, tenterà con fatica di scrutare le acque di questo fiume, sforzandosi di decifrarne quotidianamente il significato mutevole delle correnti, non potrà che ringraziare Sir Harold Nicolson per ave contribuito, con la sua opera, a chiarire il fondo limaccioso di questo rivo o – se si preferisce – ad alzare la tenda che separa la grande scena teatrale della politica internazionale dalle sue quinte, per mostrarvi lì dietro qual è il lungo, silenzioso, incessante ed ostinato lavorio dei diplomatici.
 
Per approfondimenti:
_Harold Nicolson, "A margine", Bologna, Il Mulino, 1996
_Enrico Serra, "Là diplomazia. Strumenti e metodi", Firenze, Le Lettere, 2011
_Daniele Varè, "Il diplomatico sorridente" Milano, Mondadori, 1941
_Enrico Guastone Belcredi, "La carriera", Soveria Mannelli, Rubbettino, 2006
_Sergio Romano, "Memorie di un conservatore", Milano, Longanesi, 2002
_Boris Biancheri, "Accordare il mondo. La diplomazia nell'età globale", Bari, Laterza, 1999
 
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1477652577334{padding-bottom: 15px !important;}"]L’arte in Walter Benjamin: tra l’aura e lo choc[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Liliane Jessica Tami del 28/10/2016[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1477652164750{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Il filosofo Walter Benjamin con le sue tesi sulla filosofia dell'estetica, ha segnato la storia della percezione del gusto e del bello in rapporto col capitalismo. Nel post-moderno, l’arte concettuale e decostruttivista, ha introdotto la serialità come principio di un’opera d’arte: dunque l’originale viene riprodotto in serie, conferendo al manufatto artistico quella bruttezza estetica e spirituale senza precedenti. Questa modalità pare aver preso il sopravvento e soprattutto il monopolio del mercato, grazie alla sua facilità di produzione. Sicuramente discutibili appaiono le opere d’arte dei vari Ai Wewei o Maurizio Cattelan etichettati dai più come “artisti decadenti”. Dunque, lo scopo di questa riflessione sull’arte sarà proprio quella di interrogarsi sul senso del bello.
[caption id="" align="aligncenter" width="1000"] Walter Bendix Schoenflies Benjamin (Charlottenburg, 15/07/1892 – Portbou, 26/09/1940) è stato un filosofo, scrittore e traduttore tedesco di origini ebraiche.[/caption]

Walter Benjamin ci offre un ottimo metro per giudicare il valore “estetico” di un’opera d’arte senza cadere nell’assolutismo totalitarista. A parer suo vi sono due tipi di creazioni artistiche: Quelle aventi un’aura e quelle che senza questa, per colpire l’osservatore, devono avvalersi dell’impatto. “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” saggio apparso completo nel 1936, è l’opera più importante di Walter Benjamin. Nel periodo in cui il partito nazista emana le nuove regole sull’arte tedesca volute da Adolf Hitler, lo scrittore stila questo scritto. Se pur in maniera differente e per ragioni diverse, il nazional-socialismo e il filosofo ebreo condannavano aspramente l’arte del capitalismo ritenuta una forma degenerativa dell’arte.

Walter Benjamin, ha criticato le nuove forme d’arte distinguendo l’arte avente un’Aura, da quell’arte senz’aura definendo quest’ultima “shokkante”. Alcune avanguardie che creavano, a detta di Benjamin, opere scadenti hanno costretto la società, fratturata tra democrazia e totalitarismo, a confrontarsi con una nuova concezione di Bello.
Nell’ottobre del 1935 Walter Benjamin scrisse una lettera a Max Horkheimer in cui asseriva che «Per noi l’ora del destino dell’arte è scoccata e io ho fissato la sua cifra in una serie di riflessioni provvisorie che recano il titolo "L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica"». Tali riflessioni, condivise inizialmente con Adorno, sono frutto di un’acuta analisi su come l’evoluzione dei mass-media abbia causato dei mutamenti ontologici dell’arte stessa.
In questa griglia vi è il riassunto delle teorie estetiche di Benjamin, in cui si espone il concetto di choc, che stando esattamente agli antipodi del termine aura, decreta la morte dell’arte. Le principali differenze tra i concetti di aura e di choc qui sono esposte in modo semplice, e di fronte ad una qualsiasi opera d’arte possiamo usarla per interrogarci sul suo reale valore estetico ed etico.
Per chiarire tale teoria l’autore si avvale di un esempio concreto: i dadaisti scrivendo poesie definibili "insalate di parole" e contenenti locuzioni oscene, vogliono solamente suscitare l’indignazione del pubblico.
Durante le epoche che il filosofo definisce decadenti, l’arte si riveste di stravaganze e col pretesto dell’innovazione e dell’avanguardia può dar sfogo agli impulsi più barbari che s’annidano negli artisti. Nelle loro teorie soggettive, i movimenti artistici d’avanguardia mirano a superare sé stessi cercando di imitare un’altra forma d’arte. Nel caso del Dadaismo o del Futurismo si avvia un tentativo di ottenere gli stessi risultati di dinamicità e velocità dati dalla cinematografica disprezzando così invece i mezzi e la tecnica dell’arte pittorica convenzionale e accademica.
[caption id="attachment_6570" align="aligncenter" width="1064"] manifesto Dadaismo.[/caption]
Il risultato così ottenuto da artisti come Jean Hans Arp, il quale scagliava pallottole di carta straccia in aria lasciando che si incollassero su dei cartoncini, sono un radicale annientamento dell’arte. Analogo è anche il caso della poesia d’avanguardia: non dovendo più somigliare a se stessa (per tentare di scimmiottare la velocità e la manipolazione del dato spazio-temporale che invece nell'ambito cinematografico sono consentite) rinnega la sua forma classica e diventa qualcosa di nuovo. Di fronte alle poesie colme di spazi vuoti, monologhi insensati e onomatopee confuse di August Stramm (uno dei primi espressionisti) è impossibile raccogliersi in silenzio a meditare.
Tornando al concetto di Benjamin, “l’arte viva” con la sua “aura”, grazie al suo rasserenante esistere in un luogo per volta, possiede una fissità nello spazio e nel tempo che consente all’osservatore quelle azione statiche della contemplazione e della critica ragionata, essenziali per concepire un’opera d’arte in quanto tale.
L’arte d’avanguardia, per via del suo dato dinamico, irruente e aggressivo, è uno spettacolo che non consente una concentrazione contemplativa perchè mira, volutamente, a voler essere inutilizzabile a quei fini artistici tipici della pittura, della scultura e dell’architettura.
[caption id="attachment_6571" align="alignnone" width="1000"]08-michelangelo-buonarroti-l-a-cappella-sistina-particolare Michelangelo-Buonarroti - La Cappella Sistina (Particolare).[/caption]
Infatti l’arte dei dadaisti, nata più per dissidio politico nei confronti della società che per semplice e genuino amore per il bello, ha l’esigenza di suscitare la pubblica indignazione. Questa sua essenza violenta, sia nell’esecuzione che nel risultato finale, colpisce l’osservatore come un proiettile di pistola e lo investe travolgendolo proprio come le sequenze di fotogrammi che dallo schermo ghermiscono l’attenzione del pubblico riducendolo in uno stato costante di choc. L’effetto di choc causato dal cinema, per mezzo dei mutamenti dei luoghi dell’azione e delle inquadrature, è colto dalle masse con una maggior presenza di spirito, nel senso che esso, a differenze delle poesie di Rilke o dei dolci idilli dipinti da Derain, è più coinvolgente, ma anche più estraniante dalla realtà.
L’opera d’arte avente un’aura per essere goduta e apprezzata necessita di tempo, introspezione e riflessione su di essa. L’osservatore attento e predisposto al raccoglimento, in questo caso, penetra nell’opera, vi si immerge. Al contrario la massa distratta e disattenta fa sprofondare l’opera d’arte in sé perché la sua ricezione avviene tramite la collettività e in maniera disattenta e superficiale. Benjamin espone l’esempio dell’architettura: essa, la più atavica fra tutte le forme d’arte è circonda da tutti i cittadini della città, eppure la maggior parte di questi assuefattasi ad essa, hanno cessato di percepirla come un’opera d’arte e ne fruisce nella distrazione, senza più percepirla come tale.
In modo analogo anche le masse, assuefatte all’arte cinematografica e alle nuove creazioni statiche, assorbono le creazioni circostanti senza più prestar loro la dovuta attenzione e senza più avvertire il bisogno di contemplarle, commentarle e quindi criticarle. Benjamin, con una notevole lungimiranza, parlando delle opere d’arte create a fini altri rispetto a quelli artistici e usate in modo disattento, anticipa la nascita del design.
La fruizione tattile dell’opera d’arte a cui le masse vengono addestrate, le getta in uno stato di totale acriticità e passività nei confronti dell’opera d’arte stessa e ciò permette agli individui di fruirne pur eseguendo altri compiti nel medesimo istante.
È proprio la televisione, appendice tentacolare del cinema, che insinuandosi in tutte le case ha apportato questa radicale metamorfosi della percezione umana, rendendola inconsapevole. L’aesthesis senza consapevolezza di sé è il più grande trionfo del cinema, che trasforma il pubblico in un esaminore disattento. Il cinema, grazie al suo effetto di choc a cui il pubblico si è abituato in fretta, conduce l’osservatore a un atteggiamento avalutativo, esonerandolo dall’impegno di darvi l’attenzione che invece richiede un’opera d’arte avente l’aura.
Attuando un piccolo salto ancor più nel passato, Platone già asseriva come la più grave piaga che può uccidere un popolo è proprio la licenziosità. Nelle università pubbliche vi sono professori che sono autori di libri che elogiano la pornografia come inevitabile conseguenza della democrazia, facendosi paladini dell’estrema libertà, è questo è un grave pericolo morale. Esistono associazioni culturali che usano il termine “Pop” per banalizzare ogni aspetto culturale con la speranza che un pubblico maggiore affluisca in massa ai loro eventi. Credo che tutto ciò abbia intrinsecamente una grande modestia: l’arte non può e non deve mai essere banalizzata.
L’art pour l’art”, motto dei poeti parnassiani, è la ghigliottina che separa l’arte contemporanea dall’arte neoclassica, il bello dal brutto, l’etico dall’orrido, il bene dal male. Affermare che l’arte sia fine a se stessa significa porre la personalità dell’artista in primo piano ed eclissare così le sue caratteristiche accademiche, tecniche ed educative nei confronti del pubblico che l’osserva.
Agli albori dell’XIX secolo le creazioni estetiche, ammorbate dalle prime teorie sulla libertà democratica di Tocqueville e Benjamin Constant, sovvertirono le forme tradizionali d’espressione artistica e le usuali tecniche accademiche. Così, l’arte, iniziò a divenire il riflesso del mondo interiore degli artisti, assumendo toni sempre più personali e soggettivi, sia nella forma dell’esecuzione che nei contenuti.
Il capitalismo è il morbo da cui s’è propagato il relativismo che più ha messo in crisi le vecchie istituzioni morali, dal clero ai codici d’onore legati alle tradizioni cavalleresche, dalle istituzioni scolastiche al semplice buon gusto.
Nell’Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des metiers, editto nella Parigi monarchica tra il 1751 ed il 1772, sotto la voce “educazione” si trova il seguente testo: “i fanciulli che vengono al mondo devono formare un giorno la società nellaquale dovranno vivere; la loro educazione è dunque lo scopo più importante: per loro stessi che l’educazione deve rendere tali che siano utili a questa società...per le loro famiglie, che essi devono sostenere e a cui devono conferire lustro; per lo Stato stesso, che deve raccogliere i frutti della buona educazione ricevuta dai cittadini che lo compongono”.
[caption id="attachment_6567" align="aligncenter" width="1000"] Giovanni Paolo Pannini, Galleria di vedute di Roma antica, 1758, olio su tela[/caption]
Denis Diderot (1713-1784), che con Jean Le Rond d’Alambert (1717-1783) realizzò la celebre enciclopedia, è erroneamente ricordato come un sostenitore della libertà assoluta di espressione. In realtà, pur difendendo tesi politiche a favore della democrazia, mito oramai sfatato dalla realtà fenomenica che ci circonda, Diderot fu un sostenitore della censura in ambito artistico. Le opere d’arte che rappresentano comportamenti diseducativi, tali atteggiamenti deviati, pornografici, esplicitamente perversi, autolesinisti o omosessuali, a parer suo, non debbono comparire in pubblico, giacchè influenzano in modo negativo la crescita dei fanciulli ed instillano nell’adulto il tarlo del soggetivismo morale. Il relativismo morale, che confonde il bello col brutto, il buono col cattivo, è il primo nemico del buon funzionamento di una nazione illuminata dal lume della ragione. L’artista, secondo Diderot, dev’essere un “philosophe et honnête homme” che, per mezzo dei suoi capolavori, educhi moralmente la società. “Rendere la virtù attraente, il vizio odioso: È questo lo scopo di ogni persona onesta che prende in mano la penna, il pennello o lo scalpello".
 
Per approfondimenti:
_W. Benjamin, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica – Edizioni Einaudi
_W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia, Frammenti, Mimesis edizioni, Milano-Udine,2012
_F. Desideri, M. Baldi, Benjamin, cit.
_W. Benjamin , Aura e Choc, saggi sulla teoria dei media – Edizioni Piccola Biblioteca Einaudi
 
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1477391326217{padding-bottom: 15px !important;}"]Il Libano contemporaneo. Storia di una nazione bella e tormentata[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Gabriele Rèpaci del 25/10/2016[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1477391795845{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
La violenza commessa nel Libano ricadrà su di voi. Sarete pieni di terrore per gli animali che avete massacrato. Tutto questo vi succederà a causa del sangue che avete sparso e della violenza usata contro la nazione, le città e i tutti i suoi abitanti.  (Bibbia, Libro di Abacuc, 2-17)

Il Libano è un piccolo lembo di terra che si estende tra la Siria e Israele. Questo paese un tempo considerato la “Svizzera del Medio Oriente”, per l’importanza regionale del suo sistema finanziario, è precipitato, tra il 1975 e il 1990, in una guerra civile che ha causato circa 250.000 morti e l’esodo di un milione di persone. Da allora, il “paese dei Cedri” è al centro di una competizione geopolitica da parte dei più importanti attori della regione mediorientale – da Israele alla Siria, fino all’Arabia Saudita e l’Iran – divenendo quasi un oggetto, più che un soggetto, delle dinamiche politiche del Medio Oriente.

Dopo la Prima Guerra Mondiale, alla Francia è stato dato dalla Società delle Nazioni un mandato sul Libano e sulla vicina Siria che prima costituivano un'unica entità politica all’interno del vasto territorio dell’Impero Ottomano. La Francia li divise in due amministrazioni coloniali separate, creando un nuovo stato che toglieva Tiro, Sidone, Tripoli, la valle della Beqaa e la stessa Beirut alla Siria per annetterli al sanjak (distretto amministrativo) ottomano del Monte Libano, vera e propria spina dorsale della cristianità maronita. La Siria fu separata dai suoi porti più importanti e Damasco (centro del nazionalismo arabo e musulmano che si opponeva al dominio francese) fu indebolita a scapito di Beirut e del nuovo regime retto dai cristiani. Lo «stato del Grande Libano», proclamato dal generale francese Henri Gouraud il 31 agosto 1920, era così un’entità del tutto artificiale creata dai francesi. Dopo vent’anni di regime mandatario francese, l’indipendenza del Libano fu proclamata il 26 novembre del 1941, tuttavia la piena sovranità del paese venne raggiunta solo nel 1946 con l’evacuazione delle ultime truppe francesi.
[caption id="attachment_6549" align="aligncenter" width="1754"] A sinistra cartina del Libano oggi. A destra - il generale francese Joseph Eugène Henri Gouraud proclama, il 1°settembre del 1920, la proclamazione del "Grande Libano" (foto in alto a destra). 1945, il presidente del Libano Bishāra al-Khūrī saluta la folla dopo la partenza delle truppe coloniali francesi (in basso a destra).[/caption]
Secondo un Patto Nazionale non scritto, le differenti comunità religiose vennero rappresentate nel governo da un Presidente della Repubblica cristiano maronita, un Primo ministro musulmano sunnita e un Presidente del parlamento (speaker) musulmano sciita. Questo accordo funzionò per due decenni.
Il 15 luglio del 1958, sbarcarono a Beirut 15.000 marines americani per sedare gli scontri tra l’esercito fedele al Presidente filo occidentale Camille Chamoun e le milizie filo nasseriane di ispirazione ideologica nazionalista e panaraba, sostenute dal Premier Rashid Karame.
Negli anni successivi continuarono i conflitti tra le forze legate agli interessi della borghesia cristiana, sempre più esasperata dalla crescente forza sociale e politica dei palestinesi che erano affluiti in massa nel paese dopo il 1948, e le organizzazioni popolari riunite attorno ai partiti di sinistra sostenitori invece della causa dei fida’iyyn.
Dopo un vasto confronto militare tra guerriglieri dell’Olp ed esercito regolare libanese nel novembre del 1969, ve ne furono altri nel maggio del 1973 e nell’anno successivo a cui parteciparono militanti del partito delle Falangi (Kata’ib) di Pierre Gemayel, la più antica, meglio organizzata e meglio armata delle milizie maronite.
La «Sarajevo» della guerra civile libanese fu un incidente verificatosi a Ain Rummaneh, un quartiere cristiano di Beirut, il 13 aprile del 1975. Alcuni sconosciuti aprirono il fuoco durante una funzione religiosa a cui stava assistendo il leader delle Falangi, Pierre Gemayel, uccidendo la sua guardia del corpo ed altri due uomini. I miliziani maroniti, come rappresaglia, attaccarono un autobus palestinese di passaggio, massacrando 28 passeggeri, per la maggior parte fida’iyyn (combattenti) palestinesi di ritorno da una parata militare. Rappresaglia dopo rappresaglia la violenza si allargò a tutto il paese per lasciare sul terreno, soltanto nel primo anno e mezzo del conflitto, più di 30.000 morti, 200.000 feriti e 600.000 rifugiati. In questa prima fase della guerra civile due furono le coalizioni avverse. Da una parte il Fronte libanese composto da tre gruppi principali a larga predominanza maronita: quello del Presidente della Repubblica Suleiman Frangieh con il suo quartier generale nella località settentrionale di Zghorta; quello dell’ex Presidente Camille Chamoun sostenuto dai suoi 3.500 uomini armati e infine le Falangi di Pierre Gemayel che con una milizia di 15.000 uomini formava il nucleo forte della coalizione di destra. Dall’altra parte il Movimento nazionale libanese (Mnl): esso riuniva una quindicina di partiti di centro e di sinistra e aveva un carattere multi confessionale, disponendo del consenso di gran parte dei musulmani sunniti ma anche di alcuni cristiani e dei drusi. Druso era appunto il suo leader Kamal Jumblatt, dirigente del Partito Socialista Progressista (Psp) il quale poteva contare su una forza personale di 3.000 uomini. Tra le altri componenti del Mnl figuravano il Partito Comunista Libanese (LCP), il Partito Nazionalista Sociale Siriano (SSNP) fondato da Antun Saade, baathisti e nasseriani.
[caption id="attachment_6550" align="aligncenter" width="1754"] da sinistra a destra: Suleiman Kabalan Frangieh, Camille Nimr Chamoun, Pierre Gemayel, Kamal Jumblatt e Antun Saade. I leader degli schieramenti che hanno dissanguato il Libano nella guerra civile.[/caption]
Obiettivo primario del Fronte libanese era quello di annientare i palestinesi e distruggere la loro struttura militare e politica nel paese ripristinando l’egemonia politica della borghesia maronita sullo Stato. Le forze del Mnl intendevano invece sostenere la causa dell’Olp e avviare un processo di laicizzazione dell’intero Libano. Tra le due fazioni, furono in molti a non schierarsi: alcuni dirigenti maroniti e altri rappresentanti sunniti che cercheranno di accontentarsi di una ridistribuzione dei poteri, e i partiti rappresentanti le altre confessioni cristiane come armeni e greci-ortodossi. Gli sciiti, presenti per lo più nel sud, si riuniranno inizialmente nel Movimento dei diseredati (che poi diventerà Amal) fondato dal carismatico imam Musa al-Sadr, che dall’estate del 1976 scenderà a fianco del Mnl.
La prima fase della guerra, fino al gennaio del 1976, registrò una certa superiorità da parte del Fronte libanese, mentre l’Olp (eccetto alcune sue frange) rimase per il momento a guardare. All’inizio dell’anno però, le milizie maronite lanciarono una vasta offensiva contro i campi profughi palestinesi. L’Olp sembrò non avere scelta e scese in campo a fianco delle forze del Mnl. A questo punto intervenne la Siria, preoccupata per la crescente situazione di instabilità nel vicino Libano, troppo esposto secondo Damasco agli appetiti regionali di Israele. Gli interessi nazionali di Damasco imponevano infatti di mantenere un equilibrio di forze in Libano: ora che l’alleanza Olp-Mnl sembrava avere la meglio sul Fronte libanese Assad decise di intervenire per ripristinare la parità tra gli schieramenti.
I primi di giugno del 1976 le truppe siriane superarono il confine sostenendo le milizie del Fronte libanese, le quali prima liberarono dall’assedio una delle loro roccaforti Zahle, quindi passarono all’attacco dei palestinesi (nell’agosto del 1976 più di 3.000 civili palestinesi e libanesi vennero trucidati dalle “tigri” dell’ex Presidente Chamoun). La spirale di violenza venne momentaneamente interrotta da una breve tregua decisa dopo un mini-vertice arabo convocato in ottobre a Riyadh in Arabia Saudita. Ufficialmente la guerra civile venne dichiarata conclusa con l’invio nel paese di 30.000 «caschi verdi» (per lo più siriani) per sorvegliare il cessate il fuoco: le truppe di Damasco si dispiegarono in gran parte del paese arrivando a controllare alla fine del 1976 circa i due terzi del suo territorio (escluso il sud e la costa).
Poco più di un anno dopo, nel marzo del 1978, in risposta alle incursioni compiute dai guerriglieri palestinesi sul loro territorio, anche gli israeliani intervennero direttamente nello scenario libanese invadendo il sud del paese cercando di provocare lo scontro con le truppe siriane. La prima invasione israeliana del Libano si sarebbe conclusa nel giugno del 1978 dopo che il Consiglio di sicurezza dell’ONU creò una forza militare di interposizione composta da 6.000 uomini denominata UNIFIL.
Il 3 giugno del 1982 un gruppo di guerriglieri palestinesi sparò, appena fuori dall’Hotel Dorchester di Londra, all’ambasciatore israeliano Shlomo Argov, ferendolo gravemente. Gli attentatori di Argov facevano parte di al-Fatah-Consiglio Rivoluzionario una scissione di al-Fatah nata nel 1974 per iniziativa di Sabri Khalil al-Banna (Abu Nidal), nemica giurata del’Olp di Yasser Arafat e considerata da molti un’organizzazione semimercenaria. Tre giorni dopo, come ritorsione per tale attentato, le truppe israeliane, da mesi ammassate lungo il confine settentrionale col Libano, decisero di oltrepassare la frontiera: ebbe inizio l’operazione "Pace in Galilea", guidata dall’allora ministro della difesa Ariel Sharon.
[caption id="attachment_6551" align="aligncenter" width="1000"] Ariel Sharon, nella quinta guerra arabo-israeliana del 1982 "Pace in Galilea". Nato con il nome di Ariel Scheinermann, in ebraico אריאל שרון, è stato un politico e militare israeliano.[/caption]
Dal 5 giugno in poi tutti i principali campi profughi nel sud del Libano vennero sottoposti a incessanti bombardamenti da terra, dal cielo e dal mare. L’intenzione di Tel Aviv sembrava quella di radere al suolo i campi rendendoli permanentemente inabitabili. Nell’opera di annientamento dei palestinesi, Israele poteva contare sul volenteroso incoraggiamento maronita.
Poco tempo dopo, di fronte alla Knesset, l’allora Primo ministro israeliano Menachem Begin difenderà i massicci attacchi contro la popolazione civile: «Da quando in qua la popolazione civile del Libano meridionale è diventata “per bene”?», chiese con sarcasmo. "Neanche per un istante ho dubitato che la popolazione civile meritasse quella punizione" affermerà Begin. I prigionieri palestinesi vennero costretti a restare per lunghissime giornate, legati e bendati, sotto il sole cocente, senza ne cibo né acqua, spesso picchiati e costretti a soddisfare i loro bisogni corporali lì dove stavano. Molti di loro vennero condotti in Israele per essere incarcerati, stipati in camion o autobus sotto i colpi e gli insulti delle guardie, quando non vennero intrappolati a gruppi in reti e con queste trasportati, così appesi, dagli elicotteri.
Sebbene più volte Begin avesse assicurato di non volere uno scontro diretto con la Siria, le forze messe in campo da Tel Aviv e le manovre messe in atto dal suo esercito facevano pensare proprio il contrario: in poche settimane le truppe israeliane inondarono il sud del paese e raggiunsero la strada Damasco-Beirut, ingaggiando scontri con gli stessi soldati siriani e, di fatto, isolando i militari di Damasco presenti a Beirut dal novembre 1976. Assad rispose muovendo altre batterie di Sam nella Beqaa, ma questa volta Tel Aviv non attese la diplomazia e bombardò pesantemente le postazioni distruggendo tutte le rampe. Damasco sapeva di non poter combattere ad armi pari, ma non avendo scelta, il 9 giugno diede ordine ai suoi caccia di affrontare gli aerei israeliani: si scatenò una delle più memorabili battaglie aeree della storia mediorientale, dove ben settanta velivoli siriani soccomberanno contro un centinaio di quelli nemici. La battaglia di terra si rivelò ben più ostica per gli israeliani che incontrarono una coraggiosa resistenza da parte delle truppe siriane, prive di copertura aerea.
Nonostante un primo cessate il fuoco l’esercito di Tel Aviv continuò ad avanzare verso Beirut circondandone la parte occidentale, dove erano rimasti numerosi soldati siriani. L’assedio di Beirut Ovest continuò per ben nove settimane, fino al 9 agosto, con un Assad che non poteva far altro che assistere impotente.
Intanto il 23 agosto del 1982 Bashir Gemayel, figlio minore del fondatore delle Falangi lo sheikh Pierre, venne eletto Presidente grazie alla maggioranza semplice ottenuta in parlamento. Tuttavia il suo mandato durerà poco. Il 14 settembre infatti una spaventosa esplosione a Beirut Est, uccise Bashir insieme a una trentina di suoi collaboratori. Poco dopo le Forze Libanesi annunciarono di avere arrestato l’uomo che presumibilmente avrebbe piazzato la bomba, Habib Tanios Shartuni un membro clandestino del Partito Nazionalista Sociale Siriano (SSNP), ideologicamente legato a Damasco ed alleato fedele di Assad nel resistere alle ambizioni israeliane. In seguito tuttavia qualcuno avrebbe insinuato che a uccidere Bashir Gemayel sarebbero stati gli stessi israeliani a causa dell’opposizione del leader falangista alla proposta di Begin di un trattato di pace formale fra il Libano e Israele. Nessun libanese avrebbe mai contestato questa tesi.
L’assassinio di Bashir Gemayel ebbe come conseguenza immediata la tristemente nota carneficina di civili nei campi profughi di Sabra e Chatila, organizzata dal capo dei servizi segreti falangisti Elie Hobeika, con la complicità degli israeliani.
[caption id="attachment_6552" align="aligncenter" width="1000"] Libano, 1976. Una donna ‎palestinese implora un falangista di risparmiare la vita al proprio marito, storico scatto della ‎fotografa francese Françoise Demulder.[/caption]
A poche ore dalla morte di Bashir, il 15 settembre 1982, Sharon, rompendo l’accordo stipulato con il diplomatico statunitense Philip Habib, fece entrare il suo esercito a Beirut Ovest, occupandola completamente in 24 ore. Per giustificare un simile gesto l’allora ministro della difesa israeliano affermò che Arafat aveva lasciato dietro di sé 2.000 combattenti palestinesi che si nascondevano nei campi di Sabra e Chatila. Alle 6.00 del pomeriggio del 16 settembre, Amir Drori, capo del Comando Settentrionale Israeliano, autorizzò le milizie di Hobeika ad entrare nei campi per cercare i guerriglieri. L’eccidio di civili inermi iniziò immediatamente e andò avanti per tutta la notte, per il giorno dopo e la notte successiva: la carneficina non si fermerà prima delle 8.00 del mattino del 18 settembre. Circa un migliaio tra uomini, donne e bambini vennero brutalmente massacrati. Per tutte le quaranta ore dello sterminio le truppe israeliane fecero cordone intorno ai campi, e durante la notte lanciarono bengala affinché nei campi così illuminati i falangisti potessero proseguire il loro “lavoro”.
Il 16 dicembre 1982, l'Assemblea generale delle Nazioni Unite condannò il massacro, definendolo «un atto di genocidio» (risoluzione 37/123, sezione D). La definizione fu approvata con 123 voti favorevoli, 22 astenuti e nessun contrario.
Il massacro nei campi profughi fece sì che venisse inviata nel paese il 29 settembre 1982 una forza multinazionale di pace (MNF) e le truppe di Sharon si ritirarono da Beirut Ovest. In principio la missione era nata come iniziativa ONU, ma il veto dell'URSS annullò l'egida internazionale mentre il contingente era in navigazione verso il Libano, per cui la missione si trasformò in corso d'opera in uno sforzo eminentemente nazionale, di USA,Francia e Italia, cui si aggiunse nel febbraio 1983 la Gran Bretagna, con il 1' reggimento Dragoni della Regina.
[caption id="attachment_6553" align="aligncenter" width="1092"] Truppe italiane del 2°reggimento del battaglione Bersaglieri "Governolo" appartenenti alla Multi-national Force (MNF) in Libano in 1982[/caption]
Fu un momento cruciale durante il quale cambiarono rapidamente gli equilibri in campo: Assad non vide altra via che abbandonare lo scontro militare tradizionale e iniziò ad appoggiare e coordinare diversi gruppi guerriglieri palestinesi, militanti baathisti, comunisti e miliziani sciiti, organizzando attorno alla città di Baalbek nella valle della Beqaa il centro di arrivo, di addestramento e smistamento dei guerriglieri. Tra questi gruppi spiccava il Jihad Islamico, un’organizzazione islamista sciita che traeva la propria ispirazione dall’ideologia khomeinista, la quale si rese responsabile di una serie di rapimenti, omicidi e attentati verso ambasciate e basi militari, il più noto dei quali si verificò il 23 ottobre 1983, quando due camion bomba guidati da attentatori suicidi colpirono contemporaneamente le caserme dei marines statunitensi e del contingente francese uccidendo 241 soldati americani e 58 francesi.
Intanto il nuovo governo israeliano presieduto da Yitzhak Shamir, chiamato a sostituire il dimissionario Begin, decise per un ripiegamento delle sue truppe a sud del fiume Awwali lasciando i maroniti indifesi a fronteggiare gli attacchi congiunti di sciiti e drusi. Nel frattempo nella capitale, mentre i siriani conquistavano la parte meridionale, intensi combattimenti a Beirut Est costrinsero alla ritirata le milizie falangiste.
Preoccupati dal corso degli eventi, a Washington decisero di far intervenire la VI flotta della marina contro i combattenti palestinesi e drusi, arrivando a minacciare di colpire anche unità siriane. Nel settembre del 1983, si arrivò a un nuovo cessate il fuoco dal quale la posizione di Damasco uscì comunque rafforzata.
Intanto si intensificarono gli attacchi ai contingenti americani e francesi della forza multinazionale, che si ritirò completamente nei primi mesi del 1984.
La politica di Begin e dei suoi alleati americani sembrava davvero sconfitta: i soldati siriani erano ormai stabilmente nella valle della Beqaa, le montagne dello Shuf erano controllate dai drusi di Walid Jumblatt (figlio di Kamal, assassinato nel marzo 1977) mentre a sud le milizie sciite di Amal contrastavano abilmente le truppe israeliane.
A questo punto, privo del sostegno israeliano e della protezione del contingente internazionale, Amin Gemayel, fratello del defunto Bashir e nuovo leader delle Falangi, si recò a Damasco a omaggiare il suo acerrimo nemico, Hafez al-Assad.
Quest’ultimo, nel conflitto con Israele combattuto in territorio libanese è comunque riuscito a mantenere le proprie posizioni frustrando le ambizioni egemoniche di Tel Aviv.
A cavallo tra il 1985 e il 1988, ebbero luogo feroci combattimenti all’interno di quella che è stata chiamata la «Guerra dei Campi» che vide contrapposti la milizia sciita di Amal (sostenuta dalla Siria) da una parte e i palestinesi, la sinistra e i drusi dall’altra.
Il 22 settembre 1988, ebbe termine il mandato del presidente libanese Amin Gemayel, che era succeduto a suo fratello Bashir, assassinato nel settembre dell’82. I deputati, cui la costituzione dava il diritto di eleggere un nuovo presidente della Repubblica, non riuscirono a trovare un accordo neppure sulla data delle elezioni.
Amin Gemayel diede allora l’incarico ad un cristiano, il generale Michel Aoun, di formare un nuovo governo. Aoun - al momento dell’insediamento - annunciò il suo ambiziosissimo progetto: ristabilire in Libano l’autorità dello Stato, sciogliendo tutte le milizie armate e liberando il Paese dagli eserciti di occupazione israeliano e siriano. Migliaia di libanesi gli manifestarono il loro sostegno. Anche se cristiano, Aoun, a capo dell’esercito libanese, cominciò ad attaccare le stesse milizie cristiane restie alla consegna delle armi ed in primo luogo le Forze libanesi guidate da Samir Geagea.
[caption id="attachment_6554" align="aligncenter" width="1000"] In una foto recente a sinistra Amin Gemayel e a destra il militare cristiano Michel Aoun.[/caption]
Come era già avvenuto tra le file dei musulmani, scoppiò così una guerra tutta interna alla comunità cristiana. Una guerra particolarmente devastante. Il 14 marzo 1989, Michel Aoun fu in grado di lanciare la sua «guerra di liberazione» contro l’occupante nemico. I siriani risposero bombardando in maniera intensiva il settore cristiano di Beirut ed il palazzo presidenziale.
Aoun - sotto scacco - si rifugiò nell’ambasciata francese della capitale e accettò di lasciare il Libano alla volta di Marsiglia. I siriani penetrano allora nel settore cristiano di Beirut est, controllando ormai appieno tutto il paese. Il 22 ottobre 1989, i deputati libanesi riuniti a Ta’if, in Arabia saudita, sotto la pressione dei Paesi arabi e della comunità internazionale, firmarono un accordo - detto «d’intesa nazionale» - che pur senza rimettere in discussione il sistema confessionale libanese - ridisegnava un equilibrio dei poteri istituzionali (la maggior parte dei poteri passarono nelle mani del primo ministro che doveva essere un musulmano sunnita) e, soprattutto, riconosceva la presenza - definita «fraterna» - dell’esercito siriano in Libano. La mano siriana sul Libano venne ufficializzata il 22 maggio 1991 da un altro trattato - detto di «fraternità, cooperazione e coordinamento» - nel quale il Libano accettava di non prendere alcuna decisione importante in materia economica, di sicurezza e di politica estera senza un accordo preventivo della Siria. Da questo momento l’egemonia politica siriana sul Libano diventò assolutamente legale e accettata dalla comunità internazionale.
[caption id="attachment_6555" align="aligncenter" width="1000"] Soldati siriani davanti ad una casa martoriata dal conflitto il 27 maggio del 1988. Periferia sud di Beirut.[/caption]
Nel giugno del 1999, poco prima che il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu lasciasse il suo incaricò, Israele bombardò il sud del Libano, il più grave attacco contro il paese dall’operazione «Grappoli d’Ira» del 1996. Nel maggio del 2000, il nuovo premier Ehud Barak, ritirò le truppe israeliane dopo 18 anni di occupazione.
Nel 2005 anche la truppe siriane, in seguito alle proteste suscitate dall’assassinio dell’ex premier libanese Rafiq Hariri, abbandonarono definitivamente il paese.
Il 12 luglio del 2006 scoppiò l’ennesimo conflitto fra lo stato ebraico e il Libano. Il casus belli sarebbe stato il rapimento di due militari israeliani da parte di Hezbollah nei pressi della “linea blu”, la fragile demarcazione terrestre tracciata dall’Onu nel giugno del 2000, dopo il ritiro delle forze israeliane dal sud del Libano.
Il conflitto ha ucciso più di seimila persone, la maggior parte delle quali era libanese e ha gravemente danneggiato le infrastrutture del paese. Anche dopo il cessate il fuoco una gran parte del sud del Libano è rimasta inabitabile a causa delle bombe a grappolo inesplose.
La crisi siriana ha determinato un riacutizzarsi dello scontro settario libanese che ha visto le fazioni sunnite sostenere i ribelli, mentre quelle sciite, e in particolare la milizia Hezbollah, legata all’Iran, sostenere il governo siriano. Lo sconfinamento del conflitto non ha solo coinvolto le cittadine al confine siriano, ma anche i grandi centri urbani, tra cui Beirut, Sidone e Tripoli dove si sono verificati scontri armati, rapimenti e attentati.
Parallelamente alla violenza settaria, in Libano si è ulteriormente inasprita la storica e profonda divisione politica che vede contrapposti i partiti antisiriani, guidati dall'Alleanza del 14 marzo, a quelli filosiriani, guidati dall'Alleanza dell'8 marzo. Ulteriore elemento di destabilizzazione è stato il massiccio afflusso di profughi in territorio libanese, che ha modificato l'equilibrio etnico-religioso in alcune zone del Libano.
Sebbene la situazione sia ancora sotto controllo non è improbabile che un eventuale caduta del regime di Bashar al-Assad in Siria e il conseguente cambiamento dei delicati equilibri regionali non possa far sprofondare il piccolo «paese dei Cedri» in una nuova devastante guerra civile.
 
Per approfondimenti:
_Robert Fisk, Il martirio di una nazione. Il Libano in Guerra, Il Saggiatore, 2010
_Patrick Seal, Il leone di Damasco. Viaggio nel ‘Pianeta Siria’ attraverso la biografia del presidente Hafez al Assad, Gamberetti, 1995
_Rosita Di Peri, Il Libano contemporaneo. Storia, politica, società, Carocci, 2009
_Fadi S. Rahi, Il Libano politico. Tra partiti, famiglie e religioni nella situazione contemporanea, Marcianum Press, 2016
 
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[vc_row css=".vc_custom_1470767044080{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470767053433{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1477310383619{padding-bottom: 15px !important;}"]20° incontro DAS ANDERE[/vc_column_text][vc_separator css=".vc_custom_1470767563136{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos55"]"Il cortile della frontiera". Di De Vecchis, Belen Chada e Dolores Demaria[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1477314216530{padding-top: 45px !important;}" el_class="titolos6"]

Per la prima volta l'associazione culturale Das Andere ha sperimentato una due giorni di rassegna culturale. Ospiti le argentine Maria Belen Perez Chada (architetto) e Dolores Perez Demaria (drammaturga) che insieme a Primo De Vecchis (dottore di ricerca in Letterature comparate) hanno dissertato sul tema de "Il cortile della frontiera" che attraverso la storia, l'architettura, l'arte e la musica hanno analizzato il tema dell'immigrazione, oggi giorno problematica imperante della nostra società.

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L'evento è stato ripreso dal video-maker Stefano Scalella e le foto sono state eseguite da Marta Peroni. Nella giornata di venerdì 21 ottobre si è analizzato il Contesto storico sui processi migratori verso la Repubblica Argentina dal 1880 al 1960 e creazione dello Stato nazionale.

Giuseppe Baiocchi (architetto e presidente della associazione) ha toccato anche il manufatto architettonico del "conventillo" indagando sulla creazione del soggetto portegno. Proprio questa struttura ricettiva per immigrati (italiani, polacchi, spagnoli) fa nascere all'interno del patio della struttura quella socialità e convivialità anima del popolo argentino.

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Nella giornata di sabato le ragazze hanno raccontato al pubblico, numerosissimo in entrambe le giornate, il tema del capitalismo, globalizzazione e tecnologia. Il corpo e la città. Primo De Vecchis per entrambi gli incontri si è prestato come traduttore ed è grazie al suo contributo che l'evento si è potuto svolgere.

Un grazie doveroso ai maestri Luigi Travaglini e Luigi Sabbatini (della associazione chitarristica picena) che hanno eseguito tre brani sulla musica argentina:
_Julian Aguirre: Tres Aires Populares argentinos
_Astor Piazzolla: Tango n. 2 (dalla "Tango Suite")
_Astor Piazzolla: Lo que vendra
[caption id="attachment_6536" align="aligncenter" width="1000"] Luigi Travaglini (a sinistra) e Luigi Sabbatini (a destra). Due maestri della associazione Chitarristica Picena.[/caption]

Maria Belen Perez Chada e Dolores Perez Demaria portano avanti un progetto di "drammaturgia urbana" nel quartiere storico San Telmo di Buenos Aires; hanno costruito un itinerario con una serie di indicazioni, che dall'acqua (Rio de la Plata) porta a una libreria.

Hanno adoperato le stesse indicazioni per ricostruire un itinerario all'interno di Ascoli, dove si inizia con la Libreria Rinascita e si finisce nel fiume Tronto. Alcune tappe di questo percorso di riscoperta percettiva urbana sono state intervallate dalla lettura di alcuni brani dell'acquaforte portegna di Roberto Arlt. Alla fine del percorso i partecipanti hanno tracciato su dei fogli di carta le proprie impressioni visive e uditive, i propri pensieri, e questi sono stati raccolti in un unico spazio, che racchiude così le molteplici visioni della stessa storia. È stato solo un piccolo esempio di coinvolgimento del pubblico in questa sorta di drammaturgia urbana estemporanea.

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In conclusione, oltre al pubblico, l'associazione ringrazia tutte le istituzioni che in maniera non onerosa hanno patrocinato l'evento:
_L'Università degli studi di Camerino (UNICAM)
_L'Ordine degli architetti di Ascoli Piceno
_La Regione Marche
_Il Comune di Ascoli Piceno
_La Legislatura portegna di Buenos Aires
_La Libreria Rinascita
_L'Associazione chitarristica picena
_L'Istituto di Storia Contemporanea (ISML)
_Tipico Ascoli
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1476897494185{padding-bottom: 15px !important;}"]Kant. La metafisica che resiste[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Danilo Serra del 19/10/2016[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1476964976832{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Immanuel Kant è stato il filosofo che, più di ogni altro, ha sostenuto e manifestato l’inconsistenza della vecchia metafisica.
Nella sua monumentale Critica della ragion pura egli aveva mostrato che la ragione che si spinge ad argomentare in merito ad alcune idee metafisiche (Dio, anima immortale e libertà) finisce per sbattere in una serie di antinomie che non portano a nessuna conclusione o dimostrazione.
Eppure, malgrado il suo netto «no!» alla metafisica scientifica, la metafisica in Kant non può dirsi - oggi - veramente morta.
[caption id="attachment_6494" align="aligncenter" width="1000"] Immanuel Kant (Königsberg, 22 aprile 1724 – Königsberg, 12 febbraio 1804) è stato un filosofo tedesco.[/caption]
Perché? Perché la metafisica, in fondo, spinge la ragione ad andare avanti. C’è un bisogno naturale, indissolubile, pulsante, attivo, intramontabile. Esso è il bisogno della ragione: la ragione è questo bisogno. Il bisogno non va soppresso o rimosso; il bisogno va soddisfatto.
Kant è universalmente riconosciuto come il filosofo che, con la sua critica serrata ed il suo rigore analitico, ha contribuito a “distruggere” la validità scientifica della metafisica. Egli, tuttavia, non ha potuto negare del tutto la sua presenza, il suo r-esistere. La metafisica non è per Kant una scienza determinata, con un proprio metodo specifico e delle leggi ben definite, bensì è una tendenza naturale, un corso d’acqua che non s’arresta, una disposizione naturale umana avente una sua dimensione peculiare, la dimensione del gioco. Il gioco implica una situazione di oscillazione e movimento. Il gioco consente il movimento, il muoversi del pensare. La ragione, secondo il filosofo di Königsberg, non può fare a meno di pensare metafisicamente. Anzi, seguendo in pieno il pensiero kantiano, giungiamo alla conclusione secondo la quale il pensiero metafisico è "necessario", in quanto la metafisica stessa è una disposizione naturale che apre le porte della vita pratica e morale.
Nel luglio del 1786 fu pubblicato un piccolo saggio che - di fatto - inserì il nome di Kant nel cosiddetto Pantheismusstreit (o Spinozismusstreit), la delicata controversia sul panteismo (o sullo spinozismo), in voga soprattutto in quegli anni presso i circoli intellettuali della Germania: Was heißt sich im Denken orientieren? (Che cosa significa orientarsi nel pensiero?).
Come Franco Volpi ha più di una volta precisato, in questo scritto [Che cosa significa orientarsi nel pensiero?] Kant, avvalendosi di abili stratagemmi retorici (in particolare di metafore), dimostrò che la ragione non possiede soltanto funzioni dissolvitrici di ogni precedente credenza, ma può valere come preziosa bussola per orientarci meglio nel buio della nostra vita.
[caption id="attachment_6492" align="aligncenter" width="1000"] Franco Volpi (Vicenza, 4 ottobre 1952 – Vicenza, 14 aprile 2009) è stato un filosofo e storico della filosofia italiano.[/caption]
Attraverso il bisogno della ragione osservo la mia vita, la indago, la sento. Il bisogno della ragione è, più precisamente, il "sentimento" del bisogno della ragione.
Il sentire mette in evidenza la coincidenza del bisogno della ragione con la ragione medesima. Il sentire è un sentire non sensibile, ma intenso, intimo, profondo.
È il "mio" soggettivo [proprio del soggetto] sentire, il sentire della autocoscienza. Il bisogno della ragione è un cammino indefinito, una tensione continua, un volere andare oltre. Il bisogno della ragione è una necessità incontestabile-inesauribile. In tal senso, Kant parla di "diritto del bisogno della ragione".
La ragione, per Kant, non è contrassegnata dall’attività produttiva. La ragione, ovvero, non mira alla produzione e non s’incammina al fine di possedere qualche cosa. La dimensione del possesso non le appartiene. La ragione, molto più semplicemente, sta sul limite (Grenze). Il limite è una linea immaginaria di distinzione tra l’empirico e l’intelligibile. Limite è, letteralmente, "ciò che sta tra".
Nel lessico kantiano, distinguiamo le parole Grenzen, che traduce "limite", e Schranken, che traduce "confine". Il confine è una sbarra, una barriera. Il confine è qualcosa di restrittivo, circoscritto. Il limite, invece, ha a che fare con la frontiera. Come la frontiera, il limite è ciò che si affaccia da una parte e dall'altra. Il limite è ciò che apre, disvela, dispiega. Limite è quella tensione che permette il movimento del pensiero (o della ragione). Per questo motivo, il limite non è limitazione di potenza, ma esaltazione-generazione di potenza. Il suo è un significato non restrittivo, bensì generativo.
La capacità della ragione è quella di visionare e di pensare ciò che sta aldilà dell’esperienza immediata e diretta. L’esperienza è limitata ai fenomeni (Erscheinungen) e, di conseguenza, riguarda solo i fenomeni [ciò che appare dinanzi a noi]. L’esperienza, in altre parole, è limitata alla materialità dei sensi. Per tale ragione, [l’esperienza] si trova ad ed essere costitutivamente finita, limitata. La kantiana «cosa in sé» non potrà mai essere com-presa e conosciuta. È e rimane una X, un nihil negativo.
Il pensare invece trapassa la finitezza della materialità, spingendosi oltre, torcendosi aldilà dello spazio definito. Il pensiero ha in sé l’esigenza di muoversi continuamente, di mettersi in cammino, di superare i limiti dell’esperienza fisica, pur non potendo mai conoscere effettivamente la natura della "cosa in sé".
Il pensiero riesce ad oltrepassare i limiti in quanto è propriamente questa capacità di collocarsi sulla linea dell’orizzonte.
La ragione, dunque, sta sul limite e, in questo stare-sul-limite, interviene mettendo in relazione "ciò che sta di qua" e "ciò che sta di là". Essa riesce a vedere da una parte e dall’altra, poiché entrambi (il "ciò che sta di qua" e il "ciò che sta di là") sono ambiti che le competono di diritto.
La ragione è la bussola che indica come procedere in un territorio che per noi è simile ad una stanza buia. È quel principio di orientamento che è proprio di ogni soggetto, il nocchiero della nostra nave, la guida che ci prende per mano e reclama noi d’in-seguire le sue tracce. 
Vorrei concludere ancora con una frase del grande filosofo tedesco: "Questo mezzo soggettivo, l'unico che rimane, altro non è che il sentimento del BISOGNO proprio della ragione".
 
Per approfondimenti:
_Kant I., Che cosa significa orientarsi nel pensiero?, ed. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2011.
 
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Il XIX secolo, se osservato attraverso la cruna d’un’ago sartoriale, è stato una parabola sorta con la Jeunesse Dorée, rivali dei Sans Culottes della Rivoluzione Francese (letteralmente “senza culottes” i tipici pantaloni sotto il ginocchio indossati dalla nobiltà e dall'alta borghesia durante l’antico regime. Prende il nome di "patrioti", cioè i più radicali tra i partigiani della rivoluzione a partire dal 1791, soprattutto a Parigi), e conclusasi col primo stilista moderno Paul Poiret, che ha aperto la sua rivoluzionaria casa di moda nel 1903. Il 1800 è stato un anno di profondi cambiamenti, dati dal fatto che con la Rivoluzione Francese l’abito ha cessato di essere un’etichetta che intrappolava le persone all’interno di una classe sociale.
L’ottocento è sorto con l’introduzione della democrazia in Francia ed è morto con l’Hoch Capitalismus globale, che ha reso i capi d’abbigliamento una merce apolide riproducibile in serie sradicata quindi da ogni cultura e tradizione. 
[caption id="attachment_6477" align="aligncenter" width="1000"] Louis-Léopold Boilly - Incredibile-parata[/caption]
Se fino alla rivoluzione francese dall’abito di una persona se ne poteva evincere il ceto d’appartenenza, con la fine del vecchio regime, dalla presa della Bastiglia del 14 luglio 1789 in poi, esso divenne un modo con cui esprimere pubblicamente la propria posizione politica. Il motto “Liberté, Egalité, Fraternité” non piaceva per nulla ai controrivoluzionari monarchici e vandeani, che decisero d’opporsi all’avanzare dell popolo ed al mal costume dei sans-culottes attraverso una raffinata ricerca estetica. I giovani monarchici, sovente di fede cattolica, aborrivano la democrazia, che definivano un’opera massonica perpetrata con l’ausilio degli americani ed in particolare del generale La Fayette, il quale diede un diverso gusto e una nuova moda. Egli disegnò di suo pugno le divise del corpo militare volontario chiamato Guardia nazionale francese, a cui Napoleone Bonaparte nel 1812, contrappose il corpo militare Guardia Municipale Francese. Il marchese de La Fayette, nato in Francia ma avente la cittadinanza Americana, amava vestirsi all’inglese e ben presto i giacobini, che sostenevano le sue  idee democratiche, presero a seguire i dettami della moda anglo-americana.
[caption id="attachment_6465" align="aligncenter" width="1000"]liliane2 a destra: Gilbert du Motier de La Fayette - a sinistra: Louis-Léopold Boilly, Ritratto di un sanculotto[/caption]
I giovani monarchici si potevano distinguere facilmente dal popolo che aveva acriticamente preso parte alla rivoluzione perchè vestivano con un gusto estremamente raffinato, a volte persino un po’ caricaturale. Inizialmente cercarono di opporsi al crollo dell’ancien régime anche con le armi, ma in seguito al fallimento dell’insurrezione dei realisti del 13 vendemmiaio si limitarono a perpetrare la loro guerra attraverso pizzi e merletti, ed in particolare con la cipria, che essendo fatta di farina alimentare veniva definita uno sfregio nei confronti di chi non poteva permettersi il pane. Gli appartenenti alla gioventù dorata, così chiamati proprio per il loro cospicuo uso di accessori dorati, tra cui occhiali a pinza sul naso e grosse fibbie preziose sulle scarpe, amavano indossare capi sartoriali appartenenti alla tradizione francese, come il frac con falde quadrate, i culottes aderenti ed un colletto nero, da cui ne deriva anche il nomignolo collets noir. Questi giovani che manifestavano il loro estremismo politico nel ben vestire, anche definiti Incroyables e Merveilleuses a dipendenza del sesso, a volte portavano i capelli lunghi sul davanti e corti sulla nuca, come i condannati alla ghigliottina e, benchè fedeli difensori dell’uso della cipria, del pizzo e del profumo al muschio (da cui un altro nomignolo, muscadins) amavano accompagnarsi d’un lungo bastone decorato con motivo a spirale, che usavano a guisa d’un manganello per malmenare i nemici politici.
[caption id="attachment_6463" align="aligncenter" width="1000"] Frederic Hendrik Kaemmerer. Corteo nuziale olandese.[/caption]

Le ragazze appartenenti alla Jeunesse Dorée, definite Merveilleuses (meraviglioso), mosse un po’ dal ribrezzo per vesti delle contadine ed un po’ da un malinconico anelare all’età dell’oro, prediligevano invece abiti lunghi dalla foggia leggera che richiamavano lo stile dell’antica Grecia. Durante i Balli delle Vittime, a cui si poteva accedere solamente se si affermava d’avere degli amici o dei parenti uccisi dai rivoluzionari, le ragazze potevano sfoggiare i loro travestimenti da Diana o Minerva, abbinati ai sandali alla greca chiamati Cothurnes o ad una vezzosa borsetta chiamata balantine, in onore della lingua ellenica che i rivoluzionari non conoscevano. Alcune Merveilleuses, per incrementare il livello di provocazione presente nell’abito squisitamente neoclassico, a volte si coprivano solamente con una tunica in leggerissima garza per lasciare intravedere la biancheria intima sottostante. Assai meno provocatorie erano le donne girondine, sempre contro-rivoluzionarie ma non estreme quanto le ragazze della Jeunesse Dorée. Sovente vedove di uomini della vandea ingiustamente accusati presso al tribunale della Rivoluzione e sterminati a migliaia attraverso la tecnica dell’annegamento, esse portavano i guanti bianchi a dimostrazione della loro innocenza e si cingevano il collo con un nastro rosso, che stava a rappresentare il sangue sgorgato dalle vittime della ghigliottina. La repressione violenta perpetrata dai democratici – e secondo Hanna Harendt legittimata moralmente dai testi di Jean Jacques Rousseau- fu tale da poter essere paragonata ad un genocidio, ed è per questo che le donne portavano spesso le vesti e le scarpe nere e bordate di rosso, in segno di lutto. È importante ricordare che il Regime del Terrore (1793- 1794) voluto dai giacobini e dai Sans-Culottes contro i preti, i vandeani ed i fedeli alla corona. Si era istituito il fittizio Tribunale Rivoluzionario con cui eliminare in massa gli oppositori politici attraverso una serie di processi-farsa, in cui gli accusati non avevano nè un giudice né un avvocato. Fu l’unico caso della storia, in cui gli imputati vennero giudicati con un “processo” per la loro fede politica di fatto non anti-giuridica. Il tribunale Rivoluzionario venne soppresso il 31 maggio 1975 e secondo la scrittrice Anne Bernet le vittime di quest’istituzione, tra cui figura anche Maria Antonietta, sono state circa 300 000. Per via di quest’onda di sangue che ha travolto la neonata Repubblica Francese anche chi si dichiarava neutro prediligeva indossare funesti capi di colore nero e rosso.

[caption id="attachment_6484" align="aligncenter" width="1000"] Il Tribunale rivoluzionario (Tribunal révolutionnaire) era un tribunale speciale del 1793 a Parigi, dalla Convenzione Nazionale durante la rivoluzione francese. Giudicava gli oppositori politici. Divenne, in breve, il più potente mezzo del Regime del Terrore (1793-1794), sentenziando la pena di morte per molte personalità illustri.[/caption]
Non appena il bianco giglio della famiglia reale dei Borboni è stato estirpato dalla Francia - ma non dall’Europa: oggi gli eredi della corona francese, altezza Reale Henri Albert Gabriel Félix Marie Guillaume Granduca di Lussemburgo e Filippo di Borbone e Grecia (Filippo VI) Re di Spagna, governano ancora - l’abito ha cessato di essere una questione di classe sociale ed è diventato un fatto personale.
Aprendo una piccola parentesi sulla bandiera reale francese, del 1661, Il campo bianco, senza stemma, di solito seminato di gigli d'oro, era stato introdotto verso il 1598 da Enrico IV. Il bianco, invece, era apparso come colore nazionale nel secolo XV e l'uso di bandiere bianche, di solito abbellite con ricami in oro e azzurro, risale appunto al XVI secolo. Era considerato il colore del vessillo di Giovanna d’Arco, della Gerusalemme celeste e delle vesti del Signore e degli angeli; per la tradizione medievale era associato ai Galli, dei quali era il simbolo e il nome stesso (in greco gala = latte).
Lo stendardo reale (fondo bianco in gigli oro con stemma reale) diventa bandiera di stato nel 1632, come insegna del comandante supremo della marina da guerra e in seguito riservata al re. Fu abolita nel 1790 e ripresa da Luigi XVIII il 14 aprile 1814 come stendardo reale in mare. Infine fu definitivamente soppressa nel 1830. Il disegno dello stemma di stato, corrispondente alle armi medie, era di esecuzione complicata e costosa, spesso soggetto a varianti. Lo scudo era sorretto da due angeli, spesso di aspetto infantile (forse a causa di un disegno commissionato dallo stesso Luigi XIV nel 1689), sormontato dalla corona con o senza fodera rossa e circondato dai collari degli ordini di San Michele e del Santo Spirito
Tornando alla storia del costume, alcuni individui potenti o di nobile lignaggio iniziarono a vestirsi in malo modo per una semplice questione di Weltaschauung (concezione del mondo). Il rivoluzionario Jean-Paul Barat, per comprarsi l’amicizia del popolo si vestiva di proposito come una persona molto povera. In nome del principio d’uguaglianza sia i sans-culottes che i Repubblicani si privarono di orpelli preziosi ed anche i nobili cessarono di tingersi i capelli. A partire dal 1792 divenne d’obbligo indossare la coccarda tricolore oppure ornamenti e nastri che ne ricordassero il colore.
[caption id="attachment_6467" align="aligncenter" width="1000"] Nel 2015 al Palazzo del Senato di Milano è avvenuta una mostra di ventisei manichini di grandezza naturale riguardanti la storia militare reale francese. A cura del sarto di fama internazionale Gabriele Mendella i figurini sono stati completi di uniformi, equipaggiati con armi originali che hanno offerto un’immagine viva dei corpi di guardia civili e militari che componevano La "Maison du Roi", ovvero i soldati della Guardia del Re di Francia. A sinistra due figurini della Gardes du Corps di Luigi XVI a Versailles che nelle funeste giornate del 5-6 ottobre 1789, sacrificarono la vita nello sforzo di salvare la regina Maria Antonietta dalla folla che aveva invaso gli appartamenti reali a Versailles (a destra: dettaglio della cotta ricamata indossata dalle Gardes de la Manche nel 18° secolo). In alto a destra i due vessilli reali francesi - 1632-1790 e 1814-1830.[/caption]

La frangia più povera della popolazione legata agli ideali neo-liberisti giacobini non possedeva né i soldi né la voglia di acquistare abiti dal taglio e dai tessuti inglesi (come la moda di La Fayette prevedeva), così gli operai, i marinai ed i contadini fecero della loro divisa da lavoro il loro vessillo. Questa milizia spontanea e scoordinata, mossa più dalla fame che dalla visione razionale della politica, si vestiva in modo semplice, soprattutto senza Culottes. Le Culottes sono le tipiche braghe bianche indossate dai borghesi dell’epoca. I proletari indossavano le bretelle e sovente un gilet senza giacca, che accostavano ad un fazzoletto al collo, simbolo adottato nei secoli successivi dai partigiani. Oltre agli zoccoli di legno i sans-culottes portavano una redingote scura dal colletto rosso, il berretto frigio (ripreso poi dal belga Pierre Culliford per la creazione del cappello dei Puffi), su cui appuntavano la coccarda tricolore e la carmagnola, una tipica giacca da operaio diritta e corta.

 
Per approfondimenti:
_Gabriele Mendella, La Maison Du Roy 1690-1792
_Giorgio Marangoni, Evoluzione storica e stilistica della moda-Vol.2
_Vittorio Vidotto, Storia Moderna - Edizioni Laterza
 
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1476615329444{padding-bottom: 15px !important;}"]L'anarco-individualismo di Stirner nelle radici del pensiero di Hobbes[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Maurilio Ginex  del 16/10/2016[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1476613745046{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
L’anarco-individualismo è una corrente filosofica che ripone al centro di tutto l’individuo singolo. Questo è assorto nel suo individualismo e mosso da un egoismo che lo porta all’interesse esasperato per se stesso a discapito dell’altro.
Max Stirner fu il più importante teorico di tale corrente. L’impostazione della sua filosofia, molto spesso vittima di un’errata interpretazione, gli costò molte accuse.
Venne definito un anarchico senza logica poiché l’errata interpretazione della sua opera non mise in risalto il fatto che all’interno fossero riposti dei precetti etici che potessero perfettamente rispecchiare il mondo terreno.
L’egoismo stirneriano , conosciuto anche come “egoismo etico”, rappresenta una sponda per lo sviluppo della critica mossa a tutto ciò che sta al di fuori dell’egoista ,ovvero l’individuo di Stirner, e a tutto ciò che può ledere alla sua persona.
La sua opera “l’unico e la sua proprietà”, rappresenta esattamente questo scenario in cui “l’unico” rappresenta l’individuo e “la sua proprietà” si identifica con la sua libertà. Quest’ultima non può e non deve essere lesa da niente e il suo nemico principale è rappresentato da quell’insieme di Stato, Chiesa, Liberali e quant’altro che Stirner non si priva di criticare e contro cui muove, con violenza e tenacia come fosse un arma, il diritto di esistere da parte dell’individualismo del singolo.
E’ all’interno della sua autentica filosofia con il martello che il singolo con le sue qualità, doti, caratteristiche ha il diritto di essere libero di agire nel modo migliore in cui crede. Stirner si scaglia anche contro società di stampo comunista che invece cercano di abolire il concetto di singolo, poiché in contrapposizione al loro sistema, autoritario e repressivo, dovrebbero far fronte allo sviluppo di una dissidenza. Però Stirner non fa distinzioni per ideologia o per fazioni politiche ed è proprio in questa sua caratteristica che si riscontra la funzione morale della sua speculazione.
Se dovessimo ritrovarci a fare una storia di quest’idea di egoismo, che muove l’individuo verso la sopravvivenza e la difesa della propria persona nella sua totalità, salterebbe subito alla mente il concetto di uomo analizzato da Thomas Hobbes all’interno dello Stato di natura.
[caption id="attachment_6451" align="aligncenter" width="1024"] Particolare di copertina del "Leviatano" dove Hobbes espone la propria teoria della natura umana, della società e dello stato. Leviatano È il grande mostro di cui più volte parla la Bibbia. T. Hobbes chiamò così lo Stato politico (Leviathan, 1651), a significare il carattere di un dio mortale che domina i comportamenti umani e tutto decide per loro.[/caption]
Hobbes giunge alla conclusione che la condizione che vive l’individuo, nello stato di natura, sia quella dell’ "homo homini lupus". Letteralmente: “l’uomo è un lupo per l’uomo”. In questa constatazione, da contestualizzare all’interno dell’ottica della sua politica, il filosofo spiega come la natura dell’individuo sia fondata sull’istinto di sopravvivenza e sopraffazione sull’altro. Però se da un lato vi è un istinto aggressivo che porta l’uomo a distruggere l’altro per arrivare ai propri fini, allo stesso tempo vi è di fondo il timore di essere vittima dello stesso trattamento. Dunque l’animo umano in Hobbes si trova ad oscillare, contraddittoriamente, tra il sentimento di aggressione e la paura di essere aggredito che fa forza che muove. E’ un continuo “bellum omnium contra omnes”, “guerra di tutti contro tutti”, in cui conta principalmente il concetto di “mors tua , vita mea” (morte tua, vita mia).
I due egoismi filosofici in questione sono da un punto di vista ontologico differenti . Il fine delle due concezioni è il medesimo, ciò che cambia è il mezzo attraverso il quale si giunge a tale fine. Mentre in Stirner vi è di fondo un’etica da seguire che potrebbe presupporre anche un atteggiamento stoico nei confronti dell’altro purchè sia protetta la libertà propria, in Hobbes vi è quel sentimento di aggressività che porta l’uomo, infatti, ad essere un lupo verso l’altro. Se in Hobbes lo stato di guerra che l’individuo vive nei confronti dell’altro può trovare la sua conclusione attraverso la costituzione dello Stato, in Stirner tale costituzione porrebbe fine alla conclusione della libertà individuale.
Queste due concezioni filosofiche e politiche la cui genesi abbraccia due periodi storici differenti, rispettivamente l’Ottocento con Stirner e il Seicento con Hobbes, potrebbero trovare attraverso una corretta analisi un terreno fertile in ciò che è stato il conseguente mondo formatosi con il Postmodernismo. Termine che nel ‘900 venne usato per vari ambiti culturali ma che sta ad indicare quelle società in cui il capitalismo e l’alta finanza si sono estese a livello globale e hanno pervaso ogni struttura e sovrastruttura ricercando soltanto il fine utilitaristico nell’attività del singolo.
Il fine utilitaristico è l’accumulo di denaro e per tale accumulo l’uomo non può che essere un lupo per l’altro uomo. L’ambizione, che porta alla corruzione, genera il sentimento di aggressività di cui Hobbes parla. Ma in questo scenario in cui la competitività genera il vuoto attorno ai singoli, Stirner potrebbe trovare il suo terreno fertile all’interno di quegli individui che vivono una condizione di sottomissione da parte di quelle società che negano il libero arbitrio e recintano il campo d’azione del singolo. Emblematica è la differenza stirneriana tra “rivoluzione” e “ribellione”, in cui la prima rappresenta un modo per capovolgere un sistema e impiantarne un altro e la seconda consiste in un azione mossa da un impeto egoistico determinato dall’insoddisfazione del singolo. Nel concetto di ribellione risiede la morale stirneriana che oggi dovrebbe essere l’identità di quella forza hegeliana che muove il tutto.
 
Per approfondimenti:
_Max Stirner, L'Unico e la sua proprietà - Edizioni Adelphi
_Thomas Hobbes, Leviatano - Edizioni BUR classici
 
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1476522300950{padding-bottom: 15px !important;}"]Rocket men: Keith Richards, Il pilota, l'amante e l'immortale[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Simone Ciccorelli del 15/10/2016[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1476488474413{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Essere il passeggero di una Ferrari guidata da Keith Richards è un brivido secondo solo a scendere giù per una collina con Ray Charles al volante. Mi sono quasi ammazzato drogandomi con lui, ma andarci in auto era anche peggio
Dalle parole di Nick Kent iniziamo questa chiacchierata su Richards. Il critico  seguita nella descrizione: "Spesso durante i tragitti Richards si dimenticava da che lato guidare e non aveva mai con sé la patente, la stessa che non ha mai nemmeno preso. O meglio, qualcuno l'ha presa per lui. Si perché, dopo due tentativi andati male, il chitarrista ha deciso che il terzo lo avrebbe fatto sostenere proprio al suo autista".
Come minimo avrai ipnotizzato l'esaminatore” gli dice Tony Sanchez, il suo spacciatore di fiducia, quando Keith gli mostra con entusiasmo la patente appena conquistata. E' l'otto gennaio del 1966. Richards è l'ultimo degli Rolling Stones a patentarsi e nelle trasferte precedenti, quando non guidava lui (perché guidare senza patente non è mai stato un problema), dormiva. Ma lo faceva come in nessun altro posto. Quel furgone che lo portava da una trasferta all'altra era il suo unico letto e si può dire che dormisse realmente solo a bordo di quelle quattro ruote.
[caption id="attachment_6428" align="aligncenter" width="1000"] Keith Richards è un chitarrista, compositore e attore britannico, membro fondatore dei Rolling Stones.[/caption]
Una volta, nel 1964, nel bel mezzo delle Midlands, l'autista sbanda mentre lui dorme come un bambino su un amplificatore a ruote. Urtarono accidentalmente qualcosa e andarono a sbattere bruscamente. L' amplificatore/materasso sfondò il portellone del furgone e rotolò giù per la collina, scivolando in mezzo ai prati, con ancora il chitarrista a bordo.
Gli Stones, disperati e quasi certi che fosse morto, lo hanno cercato per un'ora urlando senza sosta e perlustrando ogni angolo della zona, fino a quando non lo hanno trovato. Era in una buca profonda, ancora sdraiato sull'amplificatore, che russava.
La prima volta che Keith guidò fu quando rubò l'auto di Mike Jager, proprio quando il cantante aveva deciso di tenerla per qualche giorno a riposo dopo aver preso una multa e rischiato l'arresto.
Così Keith gli prende le chiavi e insieme a James Phelge, il coinquilino, se ne vanno in giro per Londra per giorni, usando la patente di Tony Calder.
E' stato il giorno dell'inizio di un rapporto ai limiti del suicidio.
Una delle sue prime auto è Blue Lena. Una Bentley S3 blu, una delle prime con cambio automatico. Centocinquanta all'ora come fossero per legge e sempre sotto gli effetti di qualche stupefacente. Il suo colpo preferito è quello verso i cordoli. Li prendeva tutti, matematico. Di classe.
[caption id="attachment_6429" align="aligncenter" width="1000"] Keith Richards e la sua Bentley blue-lena[/caption]
E' il Natale del 1967 e Keith è in macchina con Michael Cooper, direzione Marrakesh.
Più di sette ore di viaggio al volante per le stradine colme di curve dell'Atlante. Una Peugeot noleggiata è strozzata dalla volontà di Keith, più spericolato che mai e con il desiderio di arrivare a destinazione il prima possibile, stanco dalle troppe ore di viaggio e impaziente. Il piede è pesante, gli occhi anche, ma tutto fila liscio tra un tornante e l'altro, fino a quando sbucano due moto militari che occupano tutta la carreggiata.
Una ha fatto in tempo a scansarsi per evitarlo mentre lui da parte sua ha cercato di non colpirle finendo quasi nel precipizio e salvandosi con un controsterzo da
stuntman. Superate le moto è il turno del camion militare ma questa volta Keith va dritto, non si sposta e urta una moto che precedeva il camion. Finisce contro il cordolo e mentre affianca il camion si accorge che trasporta un missile enorme, lungo quasi quanto il convoglio.
Prepara la curva evitando tutto il possibile e finendo con una ruota nel precipizio, ma anche questa volta riesce a tenere la macchina e a rimettersi nella carreggiata.
Keith, scosso dall'aver rischiato la vita una quarantina di volte in tre curve, ha deciso quindi di accelerare e di fermarsi alla prima officina per cambiare auto, ormai molestata al punto di averla consumata. Accelerando si è lasciato dietro di sé un enorme boato, un'esplosione che non aveva mai sentito prima di quel momento e una nube nera sollevarsi dallo specchietto retrovisore.
Il giorno dopo ha letto tutti i giornali per rintracciare qualche notizia, ma niente. Nessuno ha parlato di un grosso boato causato dall'esplosione di qualcosa, magari proprio di un missile, nel mezzo dei monti del Marocco. E' salvo, ma qualcun altro no.
Se fosse stato lui a morire forse se ne sarebbe parlato di più, forse. Ma lui non bada a questo e nella sua autobiografia scrive: “Precipitare in un dirupo a cavallo di un razzo del terzo mondo sarebbe stato un triste epilogo ma forse era l'unico congedo che si addicesse all'erede della fortuna degli armamenti Krupp”.
Si, perché questo Krupp era un erede della dinastia di fabbricanti di armi tedesche ed era in macchina con lui proprio mentre prendeva a sportellate una montagna ed evitava convogli con missili e moto militari, facendoli poi saltare in aria. 
Una delle migliori avventure è senza dubbio quella del 27 marzo 1971.
Il giorno prima aveva partecipato alle registrazioni al Marqee Club per un famoso programma televisivo.
Si era disintossicato da poco e aveva anche lasciato Anita in clinica per la cura del sonno. Tre giorni a dormire, questo è quello che prevedeva la terapia; non sentire il dolore dell'astinenza attraverso il sonno prolungato per giorni.
[caption id="attachment_6430" align="aligncenter" width="1017"] Keith Richards e Anita Pallenberg[/caption]
Keith era da poco andato a far riparare la Bentley visto che il giorno prima aveva perso le chiavi e ha dovuto chiamare la polizia per farsela aprire.
Proprio in quel momento Tony Sanchez riceve una telefonata da Anita, dominata da un attacco isterico a causa dei sonniferi; non facevano effetto. Si sentiva malissimo, al punto di impazzire. Infatti impazzì. Strillò al telefono fino a quando Tony non si decise e le promise che sarebbero andati a riprenderla.
In qualche modo Tony riesce a rintracciare Keith che, ignaro dello stato di Anita, era andato a bere all'Hilton.
Dopo tre ore scandite dai Margarita insieme a Michael Cooper, che nel frattempo lo
aveva convinto a rifarsi di eroina, i due si lanciarono sulla Bentley, appena riverniciata di
rosa .
Così la trovo più facilmente”, ha risposto Keith quando gli è stata chiesta la motivazione di quel colore. L'ha subito ribattezzata “Pink Lena”.
Dopo una serie di Margarita, però, non ci si può mettere al volante, sarebbe da incoscienti. Quindi Keith e Michael ricorrono alla coca per tirarsi un po' su. Saggi.
Il motore si accende e al volante c'è uno dei migliori chitarristi al mondo; pieno di alcool, con i postumi di eroina e ora anche sotto l'effetto di cocaina. Una sicurezza.
Sticky Fingers al massimo volume possibile e si vola da Anita.
Michael durante il tragitto pensa che forse quelli saranno i suoi ultimi minuti da vivo. La macchina è come una pallina in un flipper e passa da un lato all'altro della strada come se non ci fossero regole e confini. Sorpassi in ogni direzione, clacson ripetuto a chiunque gli intralci la strada, litigi e urla, insulti all'ultimo grido con altri automobilisti.
Che equilibrio. Un camion di fronte a lui non ne vuole sapere di spostarsi, viene dalla direzione opposta e Keith, contromano, la prende come una questione personale.
Strano. Il camion sta per andargli addosso ma lui non si sposta. Vive come se fosse immortale, fino all'ultimo metro, fino a quando capisce che il camionista non si sarebbe mosso e che a rimetterci sarebbe stato soltanto lui.
Per evitarlo si schianta senza nemmeno frenare contro una rotonda e si ferma soltanto quando batte contro una cancellata sfondando tutta la parte anteriore della Pink Lena. I giornali di quel tempo parlano di “disastro stradale” e “danni per migliaia di dollari”.
Una folla di curiosi sono subito accorsi per vedere cosa fosse successo, temendo forse per la sua incolumità. Qualcuno ha anche chiamato la polizia, ma nessuno è riuscito a trattenerli. Keith e Michael sono scesi dall'auto e sono corsi, zoppicando, a casa di Nicky Hopkins, il pianista che ha collaborato più volte con i Rolling Stones e che viveva a duecento metri da lì.
Il suo aiuto è stato fondamentale. I due si sono nascosti a casa sua e si sono medicati il medicabile, prima di salire su una limousine chiamata dallo stesso pianista e ripartire in direzione Anita.
Keith però prima di partire ha deciso di chiamare la sua amata e le ha raccontato della folle corsa per andare da lei e dell'incidente, ancora eccitato, rassicurandola e dicendole che ci avrebbero messo poco; che presto sarebbe uscita di lì tra le sue braccia.
La reazione di Anita è la solita strillata isterica per telefono
Portami un po' di eroina e me ne vado di qui subito!
Ok ok, te ne porterò un po. Ma soltanto un po'”.
E così andò. Anita uscì dalla clinica e riprese a farsi dopo nemmeno due giorni. Anche Keith era di nuovo nel vortice, ma poco gli importava. Lui voleva vivere così e ogni restrizione era un reprimere se stesso e il suo senso alla vita: la spericolatezza, l'incoscienza, il nichilismo e l'eccesso. Tutto può essere racchiuso nell'immagine di una Bentley Rosa contro una cancellata, senza più la parte anteriore, fumante e presto abbandonata.
Siamo ai primi di ottobre del 1974 e Richards deve recarsi agli studi della BBC per un intervista sul suo ultimo album “It's Only Rock and Roll”, che sarebbe uscito nelle due settimane successive.
E' passato del tempo ma lui è sempre lo stesso scalmanato incosciente di qualche anno prima. Solo con la pelle un po' più dura e la mente un po' più libera e distesa grazie ai successi ottenuti.
Ovviamente, per andare agli studi, la velocità era sempre la stessa, uno standard di centocinquanta chilometri all'ora che quasi potremmo ribattezzare “Velocità Richards”. Standard mantenuto dalla sua enorme coerenza anche nelle curve strette delle province inglesi. L'arrivo agli studios gli illumina un viso pallido e stanco, con i riflessi rallentati di chi da giorni non chiude occhio. E' scomposto, trasandato e con un buco al posto di un incisivo. Le pupille sono dilatate e buie, come fossero una galleria da attraversare in fretta, magari proprio a centocinquanta all'ora.
Per i più curiosi, è possibile trovare l'intervista a questo link: (https://www.youtube.com/watch?v=3knLO2sM-6o).
Guardatela in fretta, ma non troppo. Guardatela come se non doveste morire mai, ma allo stesso tempo come se aveste soltanto più oggi a disposizione.
Più o meno come ha vissuto lui. Come vive lui. Uno spericolato a bordo di una Bentley rosa, che dorme sugli amplificatori in mezzo ai rovi e fa esplodere missili militari proprio mentre è in macchina con un ereditario di fabbriche di armi.
Un amante degli eccessi e dell'autodistruzione controllata ma allo stesso tempo fuori controllo. Un controsenso vivente, contromano. Guardatela così.
Come se riesciste ad entrare nella galleria dei suoi occhi, attraversandola. Ma fatelo in fretta. Fatelo alla “Velocità Richards”.
Come si fa? Non lo so, non posso saperlo.
Altrimenti sarei Keith Richards, l'uomo che guida e suona come se stesse per morire, in eterno.
 
Per approfondimenti:
_Keith Richards, Life (autobiografia)
_Renzo Stefanel, Sesso Droga e calci in bocca
 
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