[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1483099609190{padding-bottom: 15px !important;}"]Storia della musica medievale: il sacro e il profano[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Giuseppe Baiocchi del 01/01/2017[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1483271905459{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Negli anni del Tardo Impero romano (III-IV secolo) la musica da pagana deve divenire sacra per le nuove esigenze cristiane. In una situazione confusa, la nuova tradizione musicale doveva sforzarsi di unificare il mondo cristiano, senza rompere totalmente con la tradizione. Inizialmente tale tradizione è orale, difatti le testimonianze letterarie come i Vangeli, le lettere di San Paolo usano la prassi del “salmodiare”, pratica legata al salmo davidico di derivazione ebraica, modificato alle nuove esigenze liturgiche cristiano-giudaiche che raggiunse nel III secolo l’Europa romana, partendo dall’attuale Siria (Antiochia e Damasco).
L’idea di educazione musicale riprende il concetto di “formazione dell’uomo” già espresso in età classica da Platone e Aristotele. Tale concetto sparito in età imperiale romana, viene ripreso come strumento per avvicinare l’uomo alla vera fede. Nei primi anni medievali della Chiesa, la musica era ritenuta uno strumento del demonio, fonte di corruzione e lasciva per i giovani, ma l’uso sempre più massiccio – in ambito ecclesiale – di tale disciplina come parte integrante della liturgia, fa si che l’idea iniziale muti pian piano, fino ad arrivare alla consapevolezza che il canto poteva essere uno strumento di salvezza e di elevazione spirituale, se ben impiegato.
Il canto sacro diviene strumento ausiliare della preghiera favorendone la divulgazione al popolo. Con il passare dei secoli le esigenze musicali si rendevano sempre più indispensabili e sempre più ampie: dal canto dei primi secoli, affidato ai fedeli, successivamente questo fu di competenza di cantori professionisti, data la forte elaborazione canora che rischiava di essere banalizzata e profanata da voci inesperte. La memorizzazione di testi musicali sempre più complessi – con l’invenzione dei tropi e delle sequenze – richiese anche un sistema di notazione più preciso (che non si limitasse ad un vago ricordo a memoria).
Dal punto di vista teorico i modi del canto Gregoriano rimangono con gli stessi nomi dell’antichità greca (frigia-dorica-lidia-misolidia), ma non hanno nulla a che vedere con le armonie greche.
Il Canto Gregoriano nasce nell’VIII secolo come genere musicale vocale, monodico e liturgico. Prima di ciò, l’unico punto di riferimento cristiano era rimandato al canto sinagogale ebraico (tradizione ancora viva nelle comunità ebraiche moderne) il quale anch’esso non presentava una notazione, non prima dell’VIII secolo (la notazione alfabetica greca era del tutto inadatta per i fedeli per lo più analfabeti).
Dunque la tradizione primitiva musicale cristiana si basa essenzialmente sul modello ebraico di tradizione sinogale (musica semitica) con nuovi modi Gregoriani (VIII secolo) che continueranno a portare i nomi delle armonie dei greci. I canti dei primi cristiani, in ebraico o aramaico, mutarono successivamente in lingua greco e latina che si codificò in forme più rigide nel IV e V secolo dopo Cristo.
Il Cantus Planus (Canto Piano) è un genere musicale sacro che possiede diverse caratteristiche: è una musica vocale, si esegue “a cappella” ovvero senza accompagnamento musicale, è di tipo monodico venendo eseguito all’unisono, non presenta modulazioni armoniche essendo modale e ha un ritmo verbale.
E’ utilizzato generalmente in canti religiosi, ma non è esclusivo dei canti cattolici. Il canto Gregoriano è un repertorio liturgico cristiano del Canto Piano e prende il nome da Papa Gregorio I, vissuto nel IV secolo d.C. , il quale non fu propriamente favorevole a questa tipologia di musica vocale, né fu il creatore.
[caption id="attachment_7254" align="aligncenter" width="1131"] Stomer Matthias, San Gregorio Magno - Olio su tela del 1630-1640 ca.[/caption]
In Occidente la struttura musicale fu ripresa anche da quella bizantina – struttura responsoriale e antifonaria – ma il repertorio fu unificato grazie all’utilizzo dell’unica lingua ufficiale occidentale: quella latina. Esistono, tuttavia, alcune differenziazioni come il canto Ambrosiano a Milano o il canto Gallico nella penisola iberica, ma è il canto Gregoriano ad imporsi nell’immenso repertorio del canto Occidentale.
E’ certo che Gregorio Magno I non è l’autore diretto delle importanti e fondamentali innovazioni nel campo musicale che avvennero sotto il suo pontificato, il quale riassestò tutto il mondo cristiano-cattolico con importanti riforme. Le semplificazioni e migliorie sotto il suo regno furono l’antifonario riformato, una raccolta dei testi dei canti Liturgici, e la creazione della “Schola cantorum” ovvero dei cantori professionisti che seguivano e tramandavano il repertorio.
Il Francia l’imposizione del Canto romano si consolida e diviene franco-romano per le influenze del canto gallicano, il quale apporterà definitivamente importanti influenze al Canto gregoriano adottato nell’Europa Cristiana. E’ solo nell’anno XI che si sviluppa la scrittura musicale, la quale muove i suoi primi passi gradualmente a sostituzione della tradizione orale. I cantori delle “scholae” dovevano imparare le formule melodiche da applicare ai testi della liturgia con l’aiuto di segni grafici essenziali (detti neumi) per facilitare l’apprendimento mnemonico. I cantori iniziano, così, a leggere il Repertorio come in una moderna partitura. Difatti la notazione greca era finalizzata a scopi di carattere teorico, mentre la notazione gregoriana era finalizzata a scopi meramente pratici. Tra i suoi scopi si individua l’obiettivo di riprodurre l’andamento della melodia per fissare una modalità esecutiva distinta e in secondo luogo i neumi (i segni) vengono ricondotti a derivazione dati dalla trasformazione degli accenti latini oratori, strettamente legati alla “Scuola Cantorum”. I primi neumi furono tracciati sopra il testo, senza rigo per indicarne il moto (né altezza, né intervalli tra suoni diversi) e furono nominati come “notazione adiastematica” o “notazione in campo aperto”.
[caption id="attachment_7258" align="aligncenter" width="1404"] Tonale di Saint-Bénigne di Dijon[/caption]
Successivamente si inventò un sistema ritmico di notazione che permettesse di definire il valore di durata di ogni singola nota. Fu introdotta la linea e le relative chiavi per indicare i neumi che cadevano sulle linee. Dalla metà del X secolo si cominciò ad usare una o due linee orizzontali, di colore rosso per indicare il FA e di colore giallo per indicare il DO; Infine dal XI secolo si arriverà al Tetragramma, un sistema di quattro righi, che rimarrà adottato in tutto l’ambiente musicale occidentale.
Sempre a partire dal IX secolo si impiegò accanto alla notazione neumatica alcune notazione di carattere alfabetico per indicare i suoni (soprattutto nei brani polifonici). Per segnare con più precisione la melodia si usò un sistema con un numero di linee variabili, dove i “segni” furono definiti “dasiani” con derivazione greca. Tale sistema era noto per l’uso – nel tetracordo – di quattro segni per i suoni, i quali vengono usati per annotare rispettivamente un tetracordo più basso e i due tetracordi e mezzo più alti. I neumi del sistema dasiano furono anche chiamati “di notazione quadrata” (neumi quadrati, di forme grosse e quadre) a partire dall’XI secolo quando l’esattezza e la precisione delle singole note aumentò notevolmente.
[caption id="attachment_7256" align="aligncenter" width="1000"] Nell'immagine riportiamo una antifonario della fine del cinquecento. Da notare i neumi con notazione quadrata, iscritti nel tetracordo.[/caption]
Secondo la notazione quadrata – fondata sulla equivalenza ritmica delle note – che si discosta dell’interpretazione mensurale (successione di valori lungo e breve) vi sono neumi che rappresentano da una a tre note: Virga, Punctum (1 nota); Pes, Clivis (2 note); Scandicus, Climacus, Torculus, Porrectus (3 note). Nel 1904 con il decreto del Motu proprio, Papa Pio X adotta ufficialmente i neumi quadrati.
Bisognerà aspettare il 1100 d.C. per avere un sistema pratico di notazione comprendente sia note quadrate singole, che raggruppamenti di note dette ligarurae (le legature) per definire la durata di queste.
[caption id="attachment_7257" align="aligncenter" width="1000"] Tipologia di neumi completa.[/caption]
La scuola parigina di Notre Dame (prima scuola polifonica sacra del 1175 d.C.) introdusse e elaborò tale notazione, la quale nel basso medioevo verrà definita “modale” (notazione modale) esprimendosi in sei modi ritmici. Ogni modo ritmico è scandito dalle ligaturae che arrivano a racchiudere fino a cinque note. Il modo ternario (una ligaturae da tre) si impone sul binario (imperfetto), poiché deriva dal numero della Trinità, considerato perfetto. Si deve al tedesco Francone da Colonia l’introduzione della semibrevis (semibreve) espressa in forma romboidale, la quale ebbe l’efficacia di fissare ancor di più il valore di durata della nota. Nel 1200 d.C. si vedrà l’inserimento anche del punctus divisionis (punto di divisione), ovvero di un punto posto appena dopo la nota, che diventerà successivamente il moderno punto (anche se nel medioevo non ebbe il carattere di allungare la nota di metà del suo valore). La piena legittimità del sistema binario arriverà nel 1300 con Jehan des Murs (1300-1350) teorico e matematico parigino. Parallelamente il compositore Philippe de Vitry (1291-1361) nel suo trattato Ars nova (arte nuova) definirà un nuovo sistema di notazione che prenderà il nome di mensurale: un rapporto tra breve e semibreve (tempus) e semibreve e minima (prolatio) con entrambi i rapporti trasformabili in tempi perfetti (ternario) o imperfetti (binario). Nel tardo medioevo (XV secolo) i valori di tempo più lunghi - nel sistema della notazione - furono contraddistinti dallo scrivere solo la parte perimetrale della singola nota, lasciando il centro bianco: nasce la “mensurale bianca”. Le note “nere” si lasciano per valori piccoli.
Bisogna dunque tener presente nel canto gregoriano il rapporto tra la parola e la musica, comprendendo il tutto attraverso gli archi melodici, l’accento delle parole e l’andamento prosodico.
Carlo Magno (742-814, re dal 768) impose l’uso – attraverso l’emanazione di atti legislativi – dei libri liturgici romani in tutte le aree dell’impero, per ammirazione verso le usanze romane oltre che per ragione di natura politica. Papa Leone III incoronò Imperatore del Sacro Romano Impero Carlo Magno il 25 dicembre dell’800 d.C. decretando la prosecuzione naturale del glorioso Impero Romano d’Occidente. La legislazione carolingia contribuì al processo di unificazione ecclesiastica che promuoveva l’uso liturgico, anche nelle scuole. L’apprendimento e l’esecuzione dei canti romani in terra francese doveva avvenire su basi sicure e le melodie dovevano essere fissate su basi certe. Così insieme al canto Gregoriano, nasceranno i primi Tonari: dei libri liturgici che classificano i brani del repertorio sacro secondo la loro appartenenza ad uno degli otto toni ecclesiastici (octo echoi – anche se i primi tonari recano solamente l’incipit dei testi liturgici e non la musica).
Il supporto mnemonico scritto, si basava sulle cadenze conclusive dei salmi, suddividendosi in tono per tono (modi) con le differenze inerenti ai singoli toni stessi. I toni non furono semplici scale, ma vere e proprie formule melodiche, le quali si aggiravano intorno all’asse della corda di recita, quest’ultima era nel canto fondamentale poiché intorno a lei, insisteva la cantillazione salmodica.
Successivamente gli otto modi furono classificati in scale costruite tramite una sovrapposizione – dei modi autentici – e di una sottoposizione con i modi plagali. Vi sono otto modi (toni) medievali (ogni modo possiede la classificazione autentico e plagale):
_protus (re-la) per il primo modo
_deuterus (mi-si) per il secondo modo
_tritus (fa-do) per il terzo
_tetrardus (sol-re) per il quarto
Vi era poi la finalis su cui terminava la melodia e la repercussio attorno alla quale la melodia ruotava.
Dunque il Gregoriano vocale si elabora attraverso i canti, organizzati secondo i periodi dell’anno liturgico. I testi sono raccolti all’interno del Breviarium (notazioni musicali) e l’Antifonario (antifone, responsori, versetti). La figura centrale del culto Cristiano è Gesù Cristo con i suoi eventi scanditi tra nascita-morte-resurrezione. I riti della Chiesa di Roma si articolano in due Servizi Fondamentali:
_la liturgia delle Ore (l’Ufficio). Otto sono le ore canoniche attraverso le quali viene scandita la giornata per i fedeli: mattutino (2.00), Lodi (alle 5.00), Ora Prima (7.00), Terza (9.00 – segue liturgia Eucaristica), Sesta (12.00), Nona (15.00), Vespri (17.00) e Compieta (20.00) - contenuti nel libro Liber Usualis;
_la liturgia Eucaristica (La Messa) – la quale si suddivide in tre momenti: riti di introduzione, Liturgia della parola, Liturgia eucaristica. Questa struttura si consoliderà intorno al IX-XI secolo e sarà solo in lingua latina, fino al Concilio Ecumenico Vaticano Secondo (1962-1965) che permise l’utilizzo delle lingue correnti nei paesi dove la messa veniva celebrata. I canti della messa si suddividono in Ordinarium Missae (Ordinario della Messa: Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus, Agnus Dei – contenuti nel tomo liturgico del Kyriale) e Proprium Missae (Proprio della messa: Introito, Graduale, Alleluia/Tractus, Offertorio, Communio – contenuti nel tomo liturgico del Graduale).
Inizialmente si richiedeva la partecipazione canora dei fedeli, ma successivamente il coro fu affidato a cantori professionisti. Per i canti della Proprium Missae si hanno due diverse esecuzioni: l’esecuzione dei canti antifonali (Introito, Offertorio, Communio) distribuiti tra due cori alternati e l’esecuzione dei canti responsoriali (Graduale, Alleluia/Tractus) affidati alternativamente a solista e coro. All’interno dei canti responsoriali – infine – vi sono due differenze vocali: il melismatico e il sillabico; il primo ha una fioritura melodica vasta (melisma) fino a 30/40 note per singola sillaba del testo, mentre il sillabico ad ogni nota corrisponde una sillaba.
Sempre a partire dal IX secolo d.C. i cantori dell’Impero Franco coltivarono e svilupparono per i Canti della liturgia Eucaristica, una interpolazione ai testi che prese il nome di Tropi, i quali avevano lo scopo di approfondire il senso teologico del testo liturgico.
Altro grande protagonista per la musica medievale, possiamo riscontrarlo in Guido D’Arezzo (990 circa-1050 circa), il quale per meglio definire i caratteri dei modi e per facilitarne la memorizzazione creò l’esacordo, - che sostituendosi al tetracordo – facilitò l’operato dei cantori, dove la scala di sei suoni aveva l’aggiunta di una nota all’inizio e alla fine. Il monaco per facilitare la letture introdusse anche un primitivo solfeggio cantato. Per facilitare l'apprendimento da parte dei cantori del sistema della solmisazione si congegnò un aiuto visivo, che prese il nome di "mano guidoniana" - presente in numerosi trattati medievali - dove su ciascuna falange e alle estremità delle dita (mano sinistra) sono presenti le diverse sillabi delle scale esacordali. 
[caption id="attachment_7272" align="aligncenter" width="1000"] Guido monaco, conosciuto anche come Guido d'Arezzo o Guido Pomposiano (991-992 circa – dopo il 1033), è stato un teorico della musica e monaco italiano. Fu un importantissimo teorico musicale ed è considerato l'ideatore della moderna notazione musicale, con la sistematica adozione del tetragramma, che sostituì la precedente notazione adiastematica. Il suo trattato musicale, il Micrologus, fu il testo di musica più diffuso del Medioevo, dopo i trattati di Severino Boezio. A sinistra la "mano guidoniana".[/caption]
In Età Carolingia (l'impero retto da Carlo Magno) si crearono due realtà: il classico repertorio liturgico del canto gregoriano monodico e parallelamente il dramma liturgico con la polifonia. Il risultato fu il mantenimento del canto Gregoriano, il quale poteva – pur mantenendo l’originale come fondamento – essere variato con aggiunte di carattere musicale e testuale. Il tropo, dunque, ebbe rilevanza anche per possibile fatture di un primo mutamento in campo accademico musicale. Forma particolare del tropo è la sequenza, ovvero una aggiunta di testo letterario al melisma alleluiatico del testo. Il testo liturgico diviene il pilastro della costruzione polifonica e viene utilizzata come abbellimento della liturgia al fianco dei tropi e delle sequenze. Sempre in epoca carolingia è il tropario di Winchester (raccolta di tropi), il quale contiene al suo interno il primo esempio di dramma liturgico: il “Visitatio sepulchri” – consiste in un dialogo fra gli angeli (coelicole) e le pie donne (christicole) sul comportamento di queste ultime recatesi al Sepolcro di Gesù già risorto. Il dramma liturgico fu traslato come tropo nella messa pasquale per via della possibilità di un ampliamento maggiore del dramma con l’aggiunta di nuove parti musicali, nuovi episodi e la migliore sincronizzazione tra la celebrazione liturgica insieme a quella narrativa evangelica. Il dramma liturgico tematicamente più ricco è quello del Ludus Danielis dove sono presenti una cinquantina di melodie, mentre del dramma dello Sponsus vedrà la compresenza di parti in latino e parti in francese dialettale: primo crocevia tra il dramma liturgico e quello extraliturgico in volgare, il quale avrà molta importanza in ambito teatrale.
Nell’888 d.C. con Carlo il Grosso, l’Impero Carolingio si disgrega con la conseguenza di importanti trasformazioni a livello musicale date dall’instaurazione del feudalesimo. I monasteri, detentori del monopolio culturale musicale, iniziarono a non essere più i soli a produrre musica, poiché questa inizia ad essere anche ad uso privato, all’interno dei Castelli e dei borghi – aprendo la nuova strada della musica di derivazione laica. Tale miscellania tra canto gregoriano (melopea sacra), contenuti poetici cortesi, mezzi linguistici profani, influssi popolari creano “la tradizione poetico-musicale profana”. Nasce la figura del trovatore o trovadore o trobadore (forma arcaica, derivante da tropo – tropator): un compositore ed esecutore di poesia lirica occitana (ovvero di testi poetici e melodie) che utilizzava la lingua d'oc, parlata, in differenti varietà regionali, in quasi tutta la Francia a sud della Loira. I modelli politici e culturali della tradizione laica riuscirono gradualmente ad affermare l’importanza della Cattedrale, come luogo per eccellenza delle attività musicali, con il monastero che viene emarginato in maniera progressiva. La cattedrale diviene così la sede delle pratiche liturgiche collettive. Dopo la “Scuola di Parigi” la polifonia inizia ad avere un carattere profano, dando vita all’Ars Nova, che osservava l’elemento musicale come prodotto piacevole per l’animo e non ragionava più come un duplicato ritmico e numerico dell’ordine cosmico.
[caption id="attachment_7260" align="aligncenter" width="1000"] Simone Martini - L'investitura di San Martino a cavaliere (particolare).[/caption]
La monodia divenne, così, profana e concesse i suoi temi poetici all’arte polifonica. Manteneva ovviamente alcuni fondamentali equivalenze con il canto liturgico: la terminologia, l’andamento melodico con l’alternanza tra i sillabismi e i melismi, l’articolazione dello sviluppo melodico intorno alle note polari (una o due), libera concordanza metrica tra testo e musica. Uno dei massimi esponenti dell’Ars Nova è stato Guillaume de Machaut (1305-1377), compositore francese, grande fautore di questa contiguità.
L’Ars Nova si sviluppa anche in Italia, dove sono presenti più espressioni monodiche devozionali (le laudi). In Italia, difatti, avviene in anticipo il passaggio tra la civiltà feudale e la società comunale, che vedrà la nascita della borghesia urbana. Tale nuova società, vuole elevarsi – come quella aristocratica – e cercherà di implementare il campo musicale. Nascono le corporazioni musicali e si fisseranno vere e proprie tariffe per le prestazioni di cantori e musici. Si avranno le performance di giullari e trovatori unite ad una dimensione urbana congestionata di eventi sonori e di manifestazioni musicali che soddisferanno le più disparate esigenze. Nelle regioni meridionali della Francia – di lingua occitana – si introduce una nuova visione dell’amore e una innovativa modalità canora. Nasce l’amor cortese: una sublimazione dell’amore erotico il cui la cortezia (corteggiamento amoroso) tre modello e simbolo dai valori cavallereschi di qualche secolo prima. Tale comportamento diviene un nuovo mezzo per la purificazione spirituale, che riesce a far giungere l’uomo alla joi, ovvero la beata estasi, di cui la stessa “gioia” sarebbe già una riduzione del termine.
[caption id="attachment_7262" align="aligncenter" width="1000"] Edmund Blair Leighton, La fine del canzone - Olio su Tela del 1902.[/caption]
Così i trovatori suddivideranno l’amor cortese in tre grandi generi poetici che toccano la canzone d’amore, la situazione poetica e il soggetto poetico: la canso, l’alba e la pastorela. Parallelamente all’amore verrà sviluppato anche l’argomento satirico e politico (il sirventes) con gare poetico-canore (la tenso). La maggior parte dei codici è in notazione neumatica quadrata senza indicazioni mensurali (relative al valore ritmico delle note). Dopo duecento anni, anche la tradizione trovadorica decadde per la fusione della cultura della Francia meridionale (lingua doc) con quella della Francia settentrionale (lingua doil). Le cause, come sempre, sono diverse: dai giullari, questi artisti saltinbanchi itineranti che vagavano di corte in corte – entrando spesso in maniera fissa nelle corti come menestrelli (ministeriales, da ministerium ovvero servizio fisso) – esportando il canto trobadorico; ai matrimoni tra nobili fino alle crociate come quella effettuata nel 1208-1229 che devastò la Linguadoca materialmente e culturalmente. Infine la decadenza, come spesso accade, è avvenuta anche per esaurimento del fenomeno culturale, il quale una volta raggiunto l’apice può solo scendere: semplicemente si era esaurito lo spirito. Nella Francia nel Nord vi era la figura del troviere (non quella del trobadore, figura – come detto – della Francia meridionale) che prediligeva i canti di genere narrativo come la Chanson de toile, la quale riprende elementi narrativi delle antiche chanson de geste (di cui la Chanson de Roland è la più famosa) intonate su una stessa melodia che si ripeteva.
Nella seconda metà del XII secolo il canto tovadorico e trovierico influenza le aree a lingua tedesca. Il trovadore prende il nome di Minnesänger ed il canto del Minnesang. Il tutto era organizzato in corporazioni che attuavano la parafrasi dei testi dal francese al tedesco. Una particolare struttura tedesca era quella di Bar (poema) che consiste nella successione di due piedi e una chiusa: AAB che sotto il profilo ritmico-esecutivo riprende la medesima tradizione francese.
In Italia la monodia extraliturgica fiorì nell’ambito del movimento dei laudesi, suddiviso in confraternite che praticavano i canti delle laude. Sulla scia di S.Francesco e degli ordini mendicanti, i quali proponevano una rivoluzionaria forma spirituale di devozione, rielaborano i temi dei due cicli dell’anno liturgico in un volgare vibrante di commossa partecipazione e ricco di immagini colorate. Tra i vari tipi di laudari riscontriamo quello di Cortona e quello Magliabechiano. Le laude sono uniche poiché uniscono gli elementi del canto liturgico con quelli della tradizione profana.
 
Per approfondimenti:
_Baroni, Fubini, Petazzi, Santi, Vinay – Storia della musica – edizioni Piccola biblioteca Einaudi
_Elvidio Surian – Manuale di storia della musica, vol.1 – edizioni Rugginenti (6°)
 
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Dopo la deposizione dell'ultimo imperatore Romolo Augustolo nel 476, ci fu il crollo definitivo dell'impero romano d'occidente e si ebbe un periodo di recessione dal punto di vista sociale ma anche artistico e culturale.
Diverse popolazioni in ondate susseguenti, si stanziarono nella nostra penisola: una tra le più importanti fu quella dei Longobardi che si insediarono in Italia nel 568, guidati dal loro re Alboino. La loro lenta migrazione era iniziata due secoli prima, e dall'Elba, erano giunti fino allo Stivale.
Il loro insediamento interessò quasi tutta la penisola: nell'Italia settentrionale fondarono una Langobardia Maior con capitale Pavia e al centro sud una Langobardia Minor con i ducati di Spoleto e Benevento. I prodotti artistici dei nuovi conquistatori, erano costituiti soprattutto da arti minori, in particolare manufatti di oreficeria con intrecci e figure geometriche, arricchiti da pietre e paste vitree colorate. Questa popolazione nomade infatti, non era abituata a costruire edifici in pietra o grandi sculture proprio perché in continuo spostamento.
A Pavia nel VII secolo fu costruita la chiesa di Sant'Eusebio ma dell'originale oggi resta solo una spoglia cripta. L'arte romana influenzò notevolmente i nuovi conquistatori che si cimentarono nella costruzione di edifici complessi: nel nostro caso però ci fu una commistione di influenze artistiche che ben rappresenta questo periodo di transizione.
[caption id="attachment_7231" align="aligncenter" width="1000"] In piazza Leonardo da Vinci a Pavia (PV) è situata la cripta dell'ex Chiesa - oggi distrutta - di S. Eusebio. E' protetta da una pensilina di copertura.[/caption]
Paolo Diacono, da cui provengono buona parte delle notizie che abbiamo sui Longobardi, racconta che la chiesa fu dapprima eretta da re Rotari (636-652) come cattedrale ariana, religione ufficiale della popolazione longobarda.
Tuttavia il processo di conversione al cattolicesimo iniziato da Teodolinda, si concluse proprio quando il Vescovo Anastasio la rese la sua sede e cambiò il nome in Sant'Eusebio, che era stato un accanito persecutore di ariani. La scelta del nome rappresenta proprio il passaggio al cattolicesimo e l'abbandono della vecchia dottrina considerata eretica dal Papa, rendendo questo edificio, ancora una volta, l'emblema di un periodo di passaggio e cambiamento.
Oggi la cripta si presenta come una struttura seminterrata semicircolare a cinque navatelle, divise da file di sottili colonne. Nella parte concava, per rendere lo spazio più facilmente fruibile, si sono eliminate due colonnine. Cicli di affreschi del XII-XII secolo, ancora parzialmente leggibili, la decoravano probabilmente in modo integrale.
La cripta di Sant'Eusebio fu rimaneggiata nel XI secolo, epoca a cui appartengono probabilmente anche le volte a crociera. Sicuramente originali sono i capitelli, uno dei rari esempi di scultura longobarda pervenuto sino a noi.
Probabilmente questi capitelli di forma tronco-piramidale erano decorati con pietre, come le fibule alveolate, in modo da sembrare preziosi monili. La commistione di due arti con scopi diversi, l'oreficeria cloisonné e la scultura/architettura, rende questi capitelli fondamentali per capire l'influsso che ebbe la cultura classica su una popolazione “barbarica”.
In un periodo di grande cambiamento l'assimilazione e l'incontro di due culture diverse, rese possibile la creazione di capolavori originali ed inusuali. La stilizzazione delle forme, che vorrebbero somigliare forse a delle foglie e riprendere la tradizione dei capitelli corinzi, raggiunge esiti estremi e diventa quasi decorazione geometrica.
Come scrisse Angiola Maria Romanini :
In altre parole la forma del capitello viene ricreata ex novo, in modo del tutto indipendente dagli esempi greci e in genere cosi antichi come tardo-antichi o bizantini; il che è affatto nuovo, inaudito, nell'area dell'antico impero. Servendosi delle forme dell'oreficeria “colorata”, l'autore di questi capitelli reinventa il concetto di capitello come “stretta di nodo” o “momento di passaggio” tra struttura “portante” ad elemento “portato”.
La struttura fu risistemata e studiata negli anni '60 del secolo scorso: gli scavi portarono alla luce tombe di epoca longobarda addossate alla struttura absidata assieme a porzioni di muratura di epoche e tecniche diverse. Sul muro absidale esterno si possono rinvenire laterizi sesquipedali manubriati, nella parete occidentale della cripta si distinguono laterizi frammentari di dimensioni diverse mentre le volte sono costituite da mattoni quadrati. Le differenze della muratura sono da leggersi come rifacimenti successivi o interventi di restauro ed integrazione dall'epoca longobarda sino al periodo protoromanico.
I capitelli oggi spogli - i rifacimenti successivi - gli affreschi sbiaditi e l'assenza di una struttura architettonica ben visibile rendono questo edificio difficilmente leggibile ed inscrivibile nel periodo in cui fu concepito e costruito. Resta però intatto il suo fascino di antica cattedrale, di punto di incontro di culture, religioni e tradizioni artistiche.
 
 
Per approfondimenti:
_Angiola Maria Romanini, L’arte medievale in Italia, Sansoni
_Pierluigi De Vecchi, L’arte nel tempo, Bompiani
_Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, libro IV, 42
_Adriano Peroni, La cripta di Sant'Eusebio, problemi e prospettive di un restauro in corso, in “Pavia”, 1966
 
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1482236826632{padding-bottom: 15px !important;}"]Realtà di violenza e desiderio: Robinù, una storia di paranze[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Maurilio Ginex del 20/12/2016[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1482238148701{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
“Robinù” è il titolo dell’ultimo docu-film di Michele Santoro. Un insieme di storie che fanno da cornice a un ambiente specifico, quello della Napoli violenta, macchiata dall’ombra di un’identità criminale irreversibile, che corrode tutto fino a toccare anche le tradizioni di un popolo, quest’ultime riposte nello sfondo, in secondo piano. Un ambiente, questo, intriso di un magmatico caos generato da coscienze, forgiate su un unico grande valore, il potere: un valore che muove tutte le intenzionalità, che viene concepito come la legittimazione del singolo individuo, il quale conduce un’unica attività, quella di comandare, di prevaricare sull’altro.
[caption id="attachment_7208" align="aligncenter" width="1000"] Michele Santoro (Salerno, 2 luglio 1951) è un giornalista, conduttore televisivo, autore televisivo, produttore televisivo e politico italiano. Robinù”, il film-documentario presentato in anteprima al Festival di Venezia il 7 settembre 2016.[/caption]
Robinù è la storia di quei ragazzini che fanno capo alle “paranze dei bambini”, quelle raccontate dallo scrittore Roberto Saviano. Gruppi di baby gang di età compresa tra i 17 e i 24 anni, in cui non c’è paura, non c’è timore, non c’è logica che possa guidare le azioni. Ragazzini che tengono una pistola in mano e non hanno timore di utilizzarla. Dunque non incontrerebbero nessun problema etico, per i loro 17 anni, che li vedono impugnare la prima arma e successivamente a ridosso dei 20 inoltrati divengono già dei killer professionisti. Forse forse alle volte non arrivano ai trenta e che già, in questi pochi anni, della galera ne hanno già una lunga esperienza.
Il lavoro di Santoro è un lavoro analitico che va al contrario, attraverso l’eredità di un realismo conturbante nel sviluppare la storia: parte dalle famiglie toccate dalle disgrazie e dalle conseguenze derivate dalla malavita dei figli e arriva fino al carcere dove gli intervistati - chi racconta e parla - sono i diretti interessati, quei ragazzini. L’autore evidenzia il carattere antropologico di questa baby criminalità senza far luce su chi sta al di sopra di un determinato gruppo, di un determinato capo “paranza”, che nel film diventa l’oggetto dell’intreccio che mette in risalto la mentalità precocemente malsana dei ragazzini. Quel capo paranza Emanuele Sibillo aveva 19 anni quando venne atterrato da quei colpi di pistola, giovane età ma allo stesso tempo già latitante e ricercato in mezza Europa. Napoli è la piazza di spaccio più grande del Continente. Oggetto dell’intreccio che mette in risalto la mentalità, perché?
[caption id="attachment_7209" align="aligncenter" width="1000"] Nella foto Mariano Abbagnara, il baby boss, uomo di fiducia dei Fraulella, ovvero il clan D’Amico di Ponticelli, parte proprio dai cunicoli e dalle intercapedini del Rione Conocal, roccaforte dello stesso clan.[/caption]
Emanuele viene ucciso ed era proprio lui a gestire tra spaccio e illegalità i ragazzini, era lui che manteneva l’ordine e conosceva tutti. Lui rappresentava quella microfisica del potere che agiva per ordine indotto da parte di una macrofisica superiore mai menzionata dall’autore, ma che di fondo da spettatore della pellicola se ne avverte la presenza. Emanuele viene ucciso proprio per quel concetto su riportato che muove le coscienze, il potere. Quello di “paranza” è un concetto che Saviano conia per dare identità a una criminalità minorile particolarmente efferata, ma il sistema di fondo è sempre lo stesso. Un capo paga bene e i suoi seguaci eseguono il lavoro in vista di quel buon pagamento, questo, un qualcosa che può tenere a bada un ipotetico moto rivoltoso da parte è lì incaricato di eseguire gli ordini. Ma quando viene a mancare ciò che un seguace richiede, ovvero giusta paga, salire di grado e rispetto agli occhi del proprio capo , cosa succede? Il caos.
Emanuele è stato ucciso da questo caos, dalla volontà di chi, amante del kalashnikov e dei 33 colpi che riporta all’interno del caricatore, ha voluto mettere fine alla sua vita e ha voluto prendersi tutto il potere che fino a poco prima aveva soltanto subito. La storia di un malcontento che genera rivolta e che viene evidenziato attraverso quel sentimento di fondo che sta alla base delle coscienze di questi ragazzini. La voglia di prendersi tutto, di avere il cellulare di ultima generazione, avere le donne, di provare droghe di ogni tipo, di avere le cose più costose per far risiedere e ristagnare anche nella sola immagine un potere prevaricatore che si basa sul concetto basso del “io sono meglio di te”, “io ti sto di sopra”, tutto un mondo , quello di “Robinù”, costruito su quella che Jacques Lacan definiva “mancanza di essere”.
[caption id="attachment_7210" align="aligncenter" width="1000"] Jacques Lacan (1901-1981) è stato uno psichiatra e filosofo francese nonché uno dei maggiori psicoanalisti.[/caption]
Questa mancanza che diventa una forza che genera il desiderio di ciò che non si ha. Nei canoni della normalità - se qualcosa si possiede e non la si può realmente avere - si acquisisce consapevolezza e si accetta il fatto di non poterla possedere: questo è sintomo di una ragione di fondo che si mischia con una coscienza infelice della questione. In questo frangente si riscontra la mutazione antropologica della borgata dell’oggi e della gente che la abita. Non è più il sottoproletariato di Pasolini in cui il Vittorio di “Accattone” alludeva a una vita fatta di sopravvivenza e in cui si intessevano i rapporti con la malavita per riuscire ad andare avanti e riuscire - dunque - a sopravvivere, a mangiare. Non è più una realtà in cui un concetto di “fame” come lo analizza Knut Hamsun trova affinità con il concetto di “tirare avanti”.
[caption id="attachment_7211" align="aligncenter" width="1000"] Accattone (1961) è il primo film diretto da Pier Paolo Pasolini, e può essere considerato la trasposizione cinematografica dei suoi precedenti lavori letterari. In questa pellicola insegue una sua idea di narrazione epica e tragica.[/caption]
D’accordo che in Pasolini già avevamo assistito a questa mutazione antropologica determinata dal fatto che prende piede violentemente un centralismo consumistico, che inficia in maniera determinante la purezza archetipica che lui riscontrava nella borgata dell’Idroscalo di Roma lontana - molto lontana - dal centro, ma quella di “Robinù” è una realtà generata da un sentimento di mancanza che genera pulsioni verso qualcosa che fondamentalmente, nelle condizioni evidenziate e con un lavoro onesto e faticoso, non potrebbe essere raggiunto.
Non è più una questione di sopravvivenza, qui l’attenzione si disloca sull’importanza generata dai beni materiali, unica fonte di incontro con il sé, direbbe Ernst Bloch. Ragazzini che con una mano brandiscono l’arma e con l’altra la droga per lo spaccio, anime che abitano le piazze e fanno girare denaro su denaro. Non possono che bramare tutta quella liquidità e vedere in essa l’unica dimensione possibile attraverso cui giungere ai propri fini, nell’immediato, subito, senza aspettare, allontanandosi dalla possibilità di pensare che quella, forse, non è la reale ottica di vita per cui si adempie alla propria sussistenza. Odio su odio, violenza su violenza, qui a cadere esanime non sono soltanto i corpi di individui appartenenti alle varie paranze, qui a cadere è proprio il senso autentico della vita. Ragazzini che impiegano anni a crescere, ma che a sparare in faccia a un altro individuo non ci pensano un secondo, perché basta un cattivo sguardo, uno sgarbo, un gesto inconsueto, una mancanza di rispetto e quel grilletto viene premuto. Sono cani sciolti che non conoscono compromessi e che in un concezione della vita malsana non temono il rischio di nulla, conta solo il comandare, la bella vita fatta di sballi e soldi alle mani per comprarsi ogni cosa che dà il segno dell’essere riconosciuti come pericolosi, dunque da temere.
I “robinù” sono il prodotto di un centralismo consumistico portato all’eccesso. I bisogni secondari, i lussi, diventano i bisogni primari, perché a parlare sono quelle immagini che si sovrappongono nella parte dell’anima che Freud chiama “Es” – ovvero - dove risiedono gli oggetti delle proprie pulsioni, dei propri desideri. Per una psicanalisi dei soggetti in questione il tema di fondo è colmare il vuoto di quei desideri, perché la malavita si poggia proprio su quel concetto di mancanza di essere, che genera dunque, una violenza che muove l’azione dell’accaparrarsi tutto ciò che non si può possedere. All’insegna di una visione così distorta della vita l’aver cura del proprio “kalash”, così lo chiama un intervistato da Santoro parlando del suo kalashnikov, è aver cura di un qualcosa che quando lo tieni in mano ti fa sentire il padrone.
Conta solo questo, sapere che la gente ha paura di te e sapere che tu spari perché a comandare sei solo tu. Questa è l’ottica di fondo che caratterizza antropologicamente quei ragazzini delle paranze. L’ostinazione nel credere che ammazzare per uno sgarbo e fare denaro impiegando il tempo nelle piazze di spaccio fa capo a una mentalità che non trova nessun argine in grado di poter causare un cambiamento di visione della vita. La cosa che risulta assurda per una mente razionale e arresa di fronte a uno scempio tale è la coscienza di questi ragazzini che vedono in ciò che fanno, la più alta forma di autodeterminazione e che non gli consente una visione della vita diversa, proprio perché non la percepiscono come qualcosa da accettare coercitivamente e dunque dover trovare un modo attraverso il quale fuoriuscirne , ma al contrario, hanno del tutto una coscienza felice, perché portati - attraverso plagio mentale indotto inconsapevolmente - a pensare che tutto ciò sia giusto, come lo sparare in faccia a qualcuno per una parola di troppo, uno sgarbo subito. Proprio da qui subentra quel concetto, di visione distorta della vita.
[caption id="attachment_7212" align="aligncenter" width="1000"] Fotogramma tratto da "Gomorra" - una serie televisiva italiana ispirata all'omonimo best-seller di Roberto Saviano.[/caption]
La realtà di borgata, quella di “Robinù”, è una realtà unidimensionale in cui si deve essere bravi a scegliere e se anche non scegli , o meglio, ti metti in una condizione in cui cerchi di razionalizzare che non devi per forza scegliere - ma soltanto seguire la normale onestà - devi prendere in considerazione che la prepotenza di un sistema - radicato sino alle radici di quella terra - deciderà sul tuo essere.
 
Per approfondimenti:
_Roberto Saviano, La paranza dei bambini - Editore Feltrinelli
_Michele Santoro, Robinù - Film Documentario del 
 
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1482149798087{padding-bottom: 15px !important;}"]Le priorità del Governo Gentiloni[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Giuseppe Baiocchi del 19/12/2016[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1483460531338{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Alla conclusione di questa crisi di Governo si possono trarre due conclusioni, una positiva, l'altra negativa: la prima è la rapidità con cui ha agito Sergio Mattarella, che ha mostrato piena consapevolezza delle urgenze del Paese, imponendole alle forze politiche sin dall'inizio del percorso tenendo conto delle scadenze della nazione; la seconda conclusione poco positiva è dettata dalla stessa lista dei Ministri letta il 12-06-2016 da Paolo Gentiloni, il quale suggerisce l'idea di un Governo pensato per reggere il "minimo" sia nelle sfide che nella durata. Un pensiero riconducibile a Matteo Renzi (suo predecessore) che ha disegnato un percorso congressuale con lo sguardo a elezioni ravvicinate con l'esecutivo in piena continuità con il Governo dimissionario.
[caption id="attachment_7186" align="aligncenter" width="1000"]governo-gentiloni Prima fila da sinistra a destra: Pinotti, Orlando, Minniti, Alfano, Mattarella (Presidente della Repubblica), Gentiloni, Lotti, De Vincenti, Costa, madia, Finocchiaro. Seconda fila da sinistra a destra: Lorenzin, Franceschini, Fedeli, Poletti, Delrio, Galletti, Martina, Calenda, Padoan.[/caption]
Un analisi di tutti i Ministeri con obiettivi e scadenze.
_Il ministro all’economia Pier Carlo Padoan (tecnico) prima di entrare nel governo con l’arrivo di Renzi al Palazzo Chigi, è stato un economista sia all’università, sia in organismi internazionali come l’Ocse dove ha ricoperto il ruolo di vice-segretario generale e il fondo monetario internazionale. Nel suo curriculum anche le consulenze per la banca mondiale, la Commissione Ue e la Bce.
Le sue priorità passano anche per i dossier più caldi del suo tavolo: il primo impegno sarà la risoluzione della questione “banche”, dal Monte dei Paschi di Siena agli altri aumenti di capitale in difficoltà – Popolare di Vicenza, Veneto Banca e Carige – fino alla difficile cessione delle quattro “banche buone” nate dalla risoluzione di Banca Etruria, Banca Marche, Carichieti e Cariferrara. Nell’agenda di Via XX Settembre spicca anche la prosecuzione del confronto con l’Europa sulla manovra di bilancio 2017, in vista di una possibile correzione che dovrebbe essere chiamata a marzo dalla Commissione.
_il ministro allo sviluppo economico Carlo Calenda (Pd) ha occupato già lo stesso ministero nel governo Renzi. Nominato per tale ruolo lo scorso maggio dopo le dimissioni di Federica Guidi. Calenda, nei precedenti quattro mesi aveva ricoperta il ruolo di Rappresentante permanente d’Italia presso la Ue. Nel 2013 era stato nominato vice-ministro proprio al Mise con il governo Letta con la delega per le politiche di internazionalizzazione. Calenda è stato direttore dell’Area Strategica Affari internazionali di Confindustria e ha avuto incarichi sky Italia, Ferrari e Interporto Campano. Tra le sue priorità che dovrà affrontare nei prossimi mesi, spicca l’implementazione del piano Industria 4.0, soprattutto con la creazione di centri di competenza pubblico-privati. Calenda continuerà a lavorare alla nuova strategia energetica nazionale che potrebbe essere presentata ad aprile prima del prossimo G7 energia. Vanno poi completati la riforma delle agevolazioni per gli energivori e vanno resi operativi i riassetti del Fondo di garanzia Pmi e dei contratti di sviluppo.
_il ministro dell’interno è il sessantenne Marco Minniti (Pd) di Reggio Calabria – da sempre legato al mondo della sicurezza nazionale: sottosegretario alla Difesa, vice-ministro all’Interno e con delega all’intelligence nei governi Letta e Renzi.
I suoi obiettivi sono l’emergenza più immediata e attuale dell’immigrazione: dall’inizio dell’anno gli sbarchi sono arrivati a 175.323 record storico assoluto. Al Viminale si calcola che alla fine dell’anno potrebbero raggiungere quota 190 mila. Minniti dovrà fare i conti con l’Anci e un piano di distribuzione dei migranti in tutti i centri urbani. Oggi solo 2800 comuni accolgono immigrati – finora fermo per le proteste della maggioranza dei sindaci italiani. Ma al ministero dell’interno si giocherà anche la questione più importante e più strategica dello stesso governo Gentiloni: la riforma elettorale. Proprio negli uffici dell’Interno sono possibili verifiche e simulazioni di un nuovo modello. E’ lo sbocco decisivo per la prossima legislatura.
_Arriviamo al Ministero degli Esteri: Angelino Alfano (Ncd) è stato ministro dell’Interno dei Governi Letta-Renzi. Dal 2008 al 2011 è stato ministro della giustizia del governo Berlusconi. A Novembre 2013 è stato promotore della scissione dal Pdl e del lancio di Ncd di cui viene eletto presidente il 13 aprile 2014.
Da Gennaio il nostro Paese presiederà il G7 con tutte le riunioni preparatorie che culmineranno con il vertice dei capi di Stato e di Governo di Taormina il 26 e 27 maggio. Da Gennaio l’Italia siederà anche nel consiglio di sicurezza dell’ONU (per un anno) e a novembre avrà la presidenza di turno del consiglio.
Sempre con il nuovo anno, l’Italia farà parte della trojka dell’Osce e presiederà il gruppo di contatto per il Mediterraneo con responsabilità sul “Processo sui Balcani Occidentali” nel vertice di capi di stato e di Governo di quei paesi tra Giugno e Luglio in Italia. Il 25 marzo a Roma è invece fissato il Consiglio europeo per le celebrazioni della firma dei Trattati istitutivi della comunità europea.
_Il Sottosegretario alla Presidenza Maria Elena Boschi (Pd) è stata eletta deputata nel 2013 e nel dicembre dello stesso anno entra come responsabile delle riforme istituzionali. L’anno successivo, dopo la caduta del governo Letta, viene nominato ministro per le Riforme e i Rapporti con il Parlamento. In questo ruolo ha coordinato direttamente la definizione dell’Italicum e del disegno di legge di riforma costituzionale.
Nella sua nuova veste di sottosegretario alla presidenza del Consiglio con la funzione di segretario del consiglio dei ministri dovrà curare la verbalizzazione e la conservazione del registro delle deliberazioni del Cdm, secondo la lettera della legge 400 sulla presidenza del Consiglio. In realtà il suo ruolo sarà più ampio e politico: dovrebbe garantire uno snodo cruciale di mediazione e coordinamento sui principali dossier che saranno gestiti direttamente da Palazzo Chigi. Tra le priorità anche quello di definire il ruolo e le delghe da affidare ad altri sottosegretari alla Presidenza del Consiglio.
_Alla Giustizia Andrea Orlando (Pd) parlamentare dal 2006. E’ al terzo mandato ministeriale in questa legislatura: prima all’ambiente con Letta, poi alla Giustizia con Renzi e ora con Gentiloni. Esponente di spicco della corrente interna “Giovani Turchi” è considerato un possibile candidato alla segreteria.
Tra i dossier aperti, c’è soprattutto la riforma della giustizia penale, una delle più qualificanti per il governo Renzi: 40 articoli (molti di delega) sui temi scottanti come prescrizione, intercettazioni, carcere, bloccati al senato per volontà di Renzi, contrario ad andare al voto (anche di fiducia) prima del Referendum su un provvedimento che divide la maggioranza e il Pd, malgrado le pressioni di Orlando. Ancora alle prime battute la riforma del Processo Civile. Da sciogliere, poi, il nodo assunzione dei cancellieri (gli emendamenti alla Bilancio sono stati fermati) e proroga delle pensioni dei magistrati: l’Anm ha sospeso la proclamazione dello sciopero in attesa di interventi del governo promessi a Renzi.
_Roberta Pinotti (Pd) è confermata al Ministero della Difesa. Il modello di difesa è in evoluzione, ma ci sono criticità contingenti: come l’impiego dei 7mila militari dell’Esercito nell’operazione “Strade Sicure”, dislocati in funzione di controllo del territorio e anti-terrorismo. Il ministro Pinotti, poi, deve seguire con il dicastero degli Esteri il dossier Libia, dove il governo Serraj stenta a decollare. In attività nel Mediterraneo davanti alle coste libiche ci sono le unità della Marina militare, un gruppo ristretto di militari sul campo, un lavoro d’osservazione d’intesa con l’Aise (agenzia informazioni e sicurezza esterna). Corposo poi il capitolo nomine: oltre al capo di gabinetto da designare, entro febbraio 2017 scadono il capo di Smd, Claudio Graziano, il numero uno dell’Estero Danilo Errico e il comandante generale dell’Arma, Tullio Del Sette.
_Altra conferma quella delle infrastrutture: Graziano Delrio (pd) ricopre il ruolo dal 2 aprile del 2015. Subito prima aveva ricoperto la carica di sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei Ministri. E’ stato anche ministro per gli affari regionali del Governo Letta, sindaco di Reggio Emilia e presidente dell’Anci.
In cima alla lista delle priorità c’è il trasporto pubblico locale. Lo ha detto chiaramente la legge di Bilancio, che ha gettato le basi per un maxi piano di rinnovo del parco autobus in tutta Italia. Contemporaneamente iniziaerà anche la fase operativa del programma di messa in sicurezza delle ferrovie regionali. Entro aprile 2017 andranno chiusi – anche – due provvedimento strategici. Il primo è il decreto correttivo del codice appalti. Il secondo è il Documento pluriennale di pianificazione delle infrastrutture che indicherà le priorità nazionali. Dal Mit dipendono anche l’attuazione del sisma-bonus e il nuovo glossario unico che semplificherà i titoli edilizi per gli interventi privati.
_Il Ministero del lavoro ha avuto un’altra conferma: Giuliano Gentiloni. Proviene dal mondo della cooperazione e sotto il governo Renzi ha varato il Jobs act, mentre nella legge di Bilancio 2017 ha introdotto risorse per la lotta alla povertà e messo a punto un pacchetto di misure per anticipare la pensione. Ora dovrà completare le riforme lavoristiche: a partire dalla riduzione strutturale del cuneo sui rapporti stabili, annunciata più volte nei mesi scorsi, come prosecuzione naturale degli annunciati sgravi contributivi. Bisogna poi far decollare il nuovo sistema di politiche attive, ora in capo all’Anpal; e attuare – con provvedimenti amministrativi – il pacchetto previdenziale contenuto in manovra, dall’Ape agli usuranti. Resta poi da affrontare il nodo crisi aziendali considerato che a fine anno usciranno di scena due ammortizzatori sociali: la mobilità e la cassa integrazione in deroga.
_Veniamo ora a Beatrice Lorenzin, ministro della salute (Ncd) al suo terzo mandato nello stesso ministero. Dal governo Letta in quota Forza Italia, a quello Renzi e adesso come rappresentante di Ncd.
Numerosi i dossier aperti che Lorenzin si ritrova sul tavolo. A partire dai nuovi Livelli essenziali di assistenza (Lea), una partita da 800 mln l’anno vincolati dal Fondo sanitario: si attende il parere delle Commissioni Sanità di Camera e Senato, ma toccherà al consiglio dei Ministri l’assenso finale anche se l’applicazione verrà conclusa nel 2017. Altro nodo è il rinnovo dei contratti per medici e tutto il personale del Ssn, ma anche delle convenzioni per medici di famiglia e farmacie. C’è poi l’applicazione della manovra 2017 alla voce farmaci, in particolare per quelli oncologici e innovativi e per i vaccini. Sul fronte parlamentare spicca la legge sul rischio clinico per gli operatori sanitari, problema sempre più urgente sia per i medici che per gli ospedali: il Ddl è al Senato, ma dovrà tornare in terza lettura alla Camera.
_Altro ministero che ha ricevuto conferma è il Ministro dei beni Culturali e Turismo Dario Franceschini (Pd). E’ stato ministro per i rapporti con il parlamento nel Governo Letta, Sottosegrtario alla Presidenza – con deleghe alle riforme – nel scondo Governo D’Alema. Proviene dalla Dc ed è stato tra i fondatori della Margherita. Franceschini ha avviato un profondo riassetto del ministero, sia a livello centrale sia in periferia: rivisto numero e accorpamento delle direzioni centrali, conseguenza della riorganizzazione delle soprintendenze – elemento che fu molto criticato per gli addetti ai lavori.
Sono stati creati 20 super-musei con direttori scelti attraverso un bando internazionale a cui se ne sono aggiunti altri dieci. Obiettivo principale è mandare a regime la riforma che deve vedere anche completato il reclutamento straordinario di 500 tecnici. Ci sono poi da fare tutti i decreti attuativi della legge sul cinema, in vigore da dicembre 2016. Sul versante turismo, dopo la riorganizzazione di Enit, è atteso il varo definitivo del piano strategico.
_Proseguendo con l’analisi Valeria Fedeli (Pd) è il nuovo Ministro dell’Istruzione, unico ministero ad aver avuto una vera e propria bocciatura in difformità con lo scorso governo (l’uscente Stefania Giannini).
Valeria fedeli nasce a Treviglio nel bergamasco il 29-07-1949 con diploma tramutato in laurea in Scienza Sociali dall’Unsas. Scende in politica dopo una lunga esperienza di oltre trent’anni nella Cgil. Sul sito istituzionale del Pd si definisce “femminista, riformista, di sinistra”.
Tra i dossier più urgenti c’è l’attuazione della riforma della Buona Scuola che è stata una spina nel fianco dell’ex premier Renzi. Resta innanzitutto da capire cosa succederà alle nuove deleghe attuative della riforma, finora rimaste sulla carta. Va poi decisa la sorte del concorsone presidi: doveva arrivare a fine anno, ma ora si è tutto fermato. Con il rischio di trovarsi a settembre il solito boom di istituti retti a reggenza. Tra le prime priorità per l’università c’è l’attuazione delle misure previste dalla manovra: dalle super-borse di studio, alla no tax area per gli studenti più indigenti fino a 270 milioni per i migliori dipartimenti universitari. Da capire anche il destino del decreto sulle cattedre Natta contestato dal mondo accademico.
_Alle Politiche agricole il Ministero è stato affidato nuovamente a Maurizio Martina (Pd). Diplomato all’istituto tecnico agrario di Bergamo e laureato in scienze politiche, il 22 febbraio 2014 è stato nominato nel governo Renzi ministro delle Politiche agricole, con delega all’Expo. Con il precedente esecutivo Letta era sottosegretario nello stesso ministero. E’ a capo dell’area Pd “sinistra e cambiamento”.
Ha ottenuto con le ultime due manovre consistenti sgravi fiscali per gli agricoltori (1,3 miliardi) e agevolazioni (anche previdenziali) per i giovani. In agenda la priorità è innanzi tutto il negoziato che si apre a Gennaio per la riforma della Politica agricola comune, partita strategica per l’Italia che incassa ogni anno 4 miliardi di aiuti diretti all’Ue. Sul fronte interno dovrà completare la ristrutturazione degli enti vigilati, con la Riforma dell’Agea. Resta aperta anche la questione dell’etichettatura super trasparente dei prodotti alimentari. Dopo il latte, ora viene la pasta. Tra le sfide anche nuovi strumenti per favorire l’aggregazione delle filiere e il rilancio della ricerca.
_Gian Luca Galletti (Udc) è stato riconfermato all’Ambiente. E’ stato sottosegretario al ministero dell’Istruzione del governo Letta tra maggio 2013 e febbraio 2014, subito prima di entrare nell’esecutivo Renzi. La prima sfida arriva dall’emergenza smog: l’anno scorso Galletti ha dato vita al tavolo sulla qualità dell’aria. Ora che le polveri sottili tornano a salire, si attendono i primi risultati. Nel giro di qualche settimana dovrà firmare anche il parere sul nuovo piano ambientale dell’Ilva di Taranto. Le prossime settimane saranno, poi, decisive per l’attuazione di un pacchetto di interventi sul rischio idrogeologico: soprattutto è al traguardo un prestito Bei da 800 milioni. Ancora bisognerà lavorare sulla gestione delle acque reflue. Dopo la maxi multa chiesta da Bruxelles, andranno sbloccati i fondi fermi. Infine, c’è la partita del Dpr sulla gestione delle terre da scavo: approvato in estate, è atteso ancora in Gazzetta Ufficiale.
_Nel ministero degli Affari regionali si è operato ancora verso una riconferma: Enrico Costa (Ncd) ricopre il ruolo già da 11 mesi e mezzo, dopo essere stato sottosegretario e vice-ministro alla Giustizia.
Avamposto dei rapporti con le autonomie, il ministero (senza portafoglio) per gli Affari regionali gestisce per conto del Governo i diversi dossier da trattare con Regioni e Comuni. Partita che vede nelle conferenze la sede decisionale. L’agenda è ricca di temi caldi: il trasporto pubblico locale e la sanità, capitoli cruciali per le finanze locali. Dopo il jobs-act si sono lasciate irrisolte diverse questioni come i centri per l’impiego e il finanziamento per gli ammortizzatori. Capitolo attualissimo è quello dell’azione di rivalsa verso le autonomie in conseguenza delle multe da parte della Ue, in primis le sanzioni per le discariche abusive. Senza dimenticarci le concessioni demaniali e i nuovi limiti di distanza per l’installazione di macchinette per le scommesse.
_Il Ministero dei Rapporti con il Parlamento vede – di contro – una nuova figura. Anna Finocchiaro (Pd) è stata ministro per le Pari Opportunità durante il Governo Prodi I ed era attualmente presidente della Commissione Affari costituzionali al Senato. La lotta alla corruzione nel settore privato, lo scambio autonomatico e obbligatorio di informazioni fiscali, insieme alla gestione dei diritti d’autore sono tra le deleghe attuative della legge di delegazione Ue che sono in scadenza questa settimana. Senza il decreto inviato alle Camere il 16 il Governo non potrà dare attuazione alle tre distinte direttive con inevitabile richiamo della Commissione Ue. Entro la fine della settimana, poi, ci sarà da portare a termine anche il decreto sul terremoto all’esame definitivo della camera e in scadenza sabato 17 dicembre. Nelle stesse ore il nuovo ministro per i rapporti dovrà coordinare il lavoro di messa a punto del decreto di fine, più noto come il “milleproroghe”. Sempre entro la fine dell’anno andranno recepite anche le condizioni di ingresso e soggiorno di cittadini di paesi terzi nei trasferimenti intra societari.
_Ancora un nuovo ministro per la Coesione Territoriale e Mezzogiorno, che vede nella figura di Claudio De Vincenti (Pd) l’individuo prescelto. Nel Governo Renzi ha curato dossier caldi come quello delle crisi aziendali e dei patti territoriali. Sottosegretario allo Sviluppo Economico prima, e poi vice-ministro – dal 10 aprile 2015 – è stato sottosegretario alla Presidenza. Dal novembre 2011 ha ricoperto la carica di Sottosegretario allo Sviluppo Economico fino al febbraio 2014. Ha svolto attività di ricerca e di insegnamento come professore ordinario di Economia Politica all’università La Sapienza di Roma.
Le sue priorità si aggirano intorno alla coesione gestionale (più che programmatica) già parzialmente analizzata da Sottosegretario. Dovrà far funzionare i Patti per il Sud, e aumentar dunque la spesa per le aree svantaggiate del Paese, Sud e non solo: progetti per infrastrutture materiali, sviluppo economico, servizi sociali, utilizzando per la prima volta l’Agenzia per la coesione. I soldi ci sono (circa 100 miliardi di euro da ora al 2023), ma vanno spesi.
_Torniamo ad una riconferma per il Ministero della Pubblica Amministrazione e Semplificazione. Marianna Madia (Pd) ha debuttato in politica nel 2008 quando allora era sottosegretario del Pd e Walter Veltroni la scelse come candidata alla Camera. Laureata in Scienze Politiche alla Sapienza di Roma e specializzata in economia del lavoro all’Istituto di Studi avanzati di Lucca, è entrata nella segreteria nazionale del Partito democratico nel 2013 e l’anno successivo ha debuttato al governo come ministro per la PA e la Semplificazione nel governo Renzi.
Due impegni principali: i correttivi ai decreti attuativi della riforma della Pa, a cui ha legato il suo nome, su partecipate, assenteisti e dirigenti sanitari, e la prosecuzione nel cammino dei decreti con le nuove regole per il pubblico impiego. Da questo passaggio – chiamato a riscrivere le norme sul rapporto di lavoro - contrattazione integrativa e licenziamenti per giusta causa, dipende la possibilità di tradurre in pratica gli impegni dell’intesa del 30 novembre fra Governo e sindacati in vista del rinnovo dei contratti pubblici.
_ per concludere – altra nuova nomina – Luca Lotti (Pd) al Ministero dello Sport. Toscano, classe 1982 è considerato tra i fedelissimi dell’ex premier Matteo Renzi. Lotti ha seguito molti dei dossier delicati del Governo Renzi. E’ stato sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei Ministri con delega all’editoria e segretario del Comitato interministeriale per la programmazione economica. Due deleghe pesanti che mantiene. Tra le priorità del ministero dello Sport la prosecuzione del Piano avviato dal Governo Renzi con il Coni per il risanamento degli impianti sportivi nelle periferie italiane e seguito direttamente da Luca Lotti. La definizione delle garanzie del Governo per la Ryder Cup che sarà ospitata a Roma nel 2022. L’Italia si è infatti aggiudicata la prestigiosa competizione internazionale di golf. Tra gli altri dossier anche quello sui mondiali di sci che sono stati assegnati a Cortina per il 2021.
 
Mai in questa storia repubblicana, la cittadinanza è stata bombardata mediaticamente sulla scelta politica da compiere nell'appena concluso referendum. Mai. E' stata una violenza inaudita, una vergogna. La politica è una cosa estremamente seria, è assolutamente necessaria - nello stesso tempo - ed è una cosa molto dura da sopportare, poichè non ammette "anime belle".
Politica è anche sempre conflitto e competizione per il potere. Nella lotta per il potere - come scrisse Machiavelli nel principe - c'è il virtuosismo: prima considerazione realistica da porre in atto. La seconda è la virtus (virtù): cioè avere il potere per realizzare alcuni obiettivi, per realizzare alcuni fini. Non si deve avere il potere per il potere. Si deve avere il potere per fare. Questa la virtus del realismo politico che ritroviamo in Machiavelli.
Il politico è valutato per il fine che persegue. Quali sono i fini da realizzare politicamente oggi? Per un lungo periodo questo paese non è riuscito a porre mano a quelle necessarie riforme atte a compiere lo sforzo di far tornare il nostro paese, un protagonista della vita politico-economico-culturale della nostra epoca contemporanea.
Machiavelli sullo Stato asseriva come la mancanza del "riformarsi" e del "non riuscire a mutare le proprie costituzioni" porta questo alla decadenza. Gli esseri forti sono quelli capaci di "essere in relazione con l'altro da sè" non di isolarsi, non di resistere, non di conservarsi, ma di trasformarsi.
[caption id="attachment_7194" align="aligncenter" width="1000"] Niccolò di Bernardo dei Machiavelli ( 1469 – 1527) è stato uno storico, filosofo, scrittore, politico e drammaturgo italiano.[/caption]
Il nostro paese è da più di una generazione che non si trasforma, che chiacchiera di trasformazione, che polemizza su idee di trasformazione, ma sostanzialmente non si trasforma sui suoi elementi fondamentali. E' un paese che è rimasto stretto nel corso della sua ultima generazione tra una ideologia ormai sotterrata dalla crisi del 2007/2008, sepolta ovunque. Una ideologia liberista male interpretata (intesa come general generica deregulation) e sovrastata da una crisi economica di portata globale che ancora oggi stiamo vivendo con buona pace di chi afferma il contrario.
Di fronte a questa pseudo-innovazione - questa mal digerita ideologia liberista - sostanzialmente si finiva con l'esprimersi in una sorta di insofferenza per ogni regola, per ogni controllo ed è una delle cause della crisi globale non soltanto nel nostro paese.
Questa economia si è sposata anche con un carattere demagogico populistico variamente intesa da alcuni partiti del Nord Italia, nati federalisti e regionali e oggi "garanti della nazione italiana". Dunque nel nostro paese a questa tendenza mai morta e sepolta, si è contrapposta una tendenza sostanzialmente conservatrice.
Di fronte al liberismo della deregulation (che non ha niente da vedere con il liberalismo, che invece è una tendenza culturale-politica che vuole il controllo del mercato e del capitale-finanziario) si è posta la conservazione, anche perchè la metodologia di cambiare costituzione si presenta raffazzonata, non coerente, non presenta nulla di sistemico. Un movimento di conservazione anche legittimo e motivato, ma bloccante. Nel nostro paese c'è bisogno di riforme, eccome! Riforme costituzionali in senso federalistico, di come vada inteso il federalismo soprattutto nel mezzogiorno, soprattutto per il mezzogiorno. Riforma del sistema del Walfare previdenziale, riforme necessarie, inevitabili se vogliamo affrontare la questione di questo paese che è la questione dei giovani e dei non-nati, che stiamo già compromettendo. Bisognava rifondare le politiche industriali, attraverso opportuni sostegni mirati, con strategie industriali, perché se è vero che lo Stato non deve essere capitalista, questo deve avere funzioni immense in tutto il mondo per orientare le scelte di investimento. Questa è la realtà ed è inutile giraci intorno.
Non esiste il popolo “bello, buono e sano” e i politici tutti “cattivi”, vi è sempre una complicità tra governanti e governati. Non c’è mai la purezza e la bontà e dall’altra la cattiveria: sono solo forme complesse di intrecci più o meno virtuosi o più o meno perversi.
Altro punto del realismo politico di Machiavelli, quando ragionava sugli antichi romani - sopra la prima Deca di Tito Livio - esso ci insegnava a ragionare sull'intreccio tra forme di governo, rappresentanze politiche e i rappresentati.
Io credo che la responsabilità - di questo paese - anzitutto debba iniziare suoi ceti dirigenti, non soltanto dei ceti politici, ma anche su quelli "che dirigono" le strutture del paese: i professori universitari, ad esempio, non hanno fatto nulla che non fosse corporativismo, molti di loro insegnano benissimo - senza dubbio - ma le loro politiche sono state tutte improntate nella stragrande maggioranza a logiche di tipo corporativo.
Gli industriali hanno mantenuto in tutti questi venticinque anni, la tendenza tipica dell’industrialismo italiano: essere assicurati e chiedere favori al politico, invece di contrattare seriamente sulla base di strategie industriali condivise, giusto comportamento da tenere. L’industriale che si basa sul rapporto mercato/stato (che porta strategia, idee, danaro) è un imprenditore intelligente che guarda al futuro con rinnovato vigore. Alle volte questa ultima strategia è stata adottata, ma non in maniera sufficiente per mutare gli indirizzi fondamentali di questo paese.
L’assuefazione ha raggiunto anche molte organizzazioni: ordini professionali che non hanno saputo assolutamente riformarsi a partire dalla stessa confindustria e sindacati. Non solo - dunque - non vi è stata una riforma politica, ma soprattutto non è avvenuta una riforma sociale e si è giunti al limite estremo: o tutto ciò viene affrontato, oppure l’Italia non riuscirà a superare questa crisi globale.
I paesi occidentali hanno una chance di essere per il futuro protagonisti dello sviluppo economico e quindi sociale/culturale a livello globale: investire sul capitale umano, sostenere imprese innovative e operare nel settore della ricerca e sviluppo.
In una situazione economica di crisi che non permette né di aumentare le tasse, né stampare moneta, come possiamo garantire innovazione, ricerca, sviluppo, formazione di capitale umano?
Il blocco dei salari dei dipendenti subordinati pubblici e privati e le prospettive cupe dei giovani all’interno dei nuclei famigliari ci presentano la prospettiva di un impoverimento del ceto medio e questo è deleterio per le democrazie, le quali si reggono con un ceto medio che ha delle prospettive sociali alte.
Quando manca la prospettiva di mobilità sociale, per il ceto medio, le democrazie cessano di funzionare e si entra in una fase di carattere demagogico e populista di carattere meramente sociale. Si arriverà allora al “ci penso io” al “fidati di me”, è fisiologico.
La politica diventa “promessa assicurante”. Cattura del consenso attraverso rassicuranti promesse, cessa di essere "costituente" (in cui le forze politiche responsabili, trovano accordo su alcuni fondamentali). Dunque il vero obiettivo dovrebbe essere, l'unità del paese, il futuro della nazione con lavoro per le nuove generazioni: ma non un lavoro qualsiasi! Non un lavoro schiavistico, precario - che gli ultimi governi stanno cercando di attuare - (garanzia giovani ecc..), non come i free-lance del committente, ma un lavoro autonomo, responsabile, certo e con alcune sicurezze di base previdenziale. Nessuno può lavorare, per quanto vi sia mobilità, senza sapere se a sessanta anni o settanta, alla soglia della pensione, potrà vivere o morire sotto un ponte. Si può ammettere la mobilità, ma non si può accettare la frase: "chi sa, se avrò la pensione?” Se non si fa ciò, di fronte a questa crisi sarà impossibile uscire.
 
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a cura di Manuel Scortichini
 

Il conte Lev Nikolaevic Tolstoj nasce a Jasnaja Poljana nel 1828, all'interno della personale tenuta di campagna di famiglia. Diviene fin dalla giovane età orfano di madre, insieme ai fratelli e alla sorella e la campagna russa plasmerà la sua infanzia. A quindici anni esplora le letture di Voltaire e Rousseau. Jean-Jacques Rousseau eserciterà sul giovane Tolstoj una prolungata influenza, fino a fargli indossare al collo il medaglione del filosofo ginevrino. Nel periodo della giovinezza - intorno al 1847 -, dopo una bocciatura alla facoltà di lingue orientali e una svogliata frequentazione della facoltà di diritto, lascia l'università e si stabilisce a Jasnaja Poljana con l'intento di rendersi utile ai servi della gleba. Corre il 1851: dopo quattro anni di tormenti e interrogativi sul senso della vita e insoddisfatto dell'esperienza famigliare parte per il Caucaso come sotto-tenente d'artiglieria e ben presto prenderà realmente inizio la sua attività letteraria. Il Caucaso è all'epoca luogo di formazione e d'ispirazione per numerosi scrittori russi tra cui Lermontov alla cui prosa si avvicinano gli scritti di gioventù di Tolstoj, principalmente per le scene di guerra. L'annessione del Daghestan e della Cecenia all'Impero russo zarista generano un conflitto con la popolazione locale, evento che l'autore descriverà nella novella "I Cosacchi". A Sebastopoli durante la guerra di Crimea - in veste di comandante di divisione -, si trova in uno dei più pericolosi posti della città assediata, singolare scenario da cui trae spunto un ciclo di racconti intitolato "Racconti di Sebastopoli" che analizza nuovamente il tema della guerra. La tecnica di raccontare le scene di battaglia tramite la descrizione caratteriale dei personaggi e di sottoporre questi all'interno del conflitto, renderà i suoi scritti unici dove la moralità entra sulla scena letteraria con piena forza.

[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1481676704798{padding-bottom: 15px !important;}"]Matteo Renzi: le crisi di governo della repubblica italiana[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Miriana Fazi del 14/12/2016[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1481675494063{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
La disfatta referendaria di dicembre 2016, ha fatto dimettere Matteo Renzi, nonostante l'ampia maggioranza, all’incarico di Primo Ministro. L’esecutivo italiano, non è nuovo a turbolenze di tal genere, tanto che a seguito del governo Berlusconi si sono succeduti soltanto governi tecnici, riparatori - composti ad hoc - per traghettare la nazione fino alla successiva legislatura. Di fatto, l'insediamento del governo Monti ha posto fine a una delle più brevi crisi di governo che la storia recente vanti: soli tre giorni. Le crisi più lunghe, al contrario, sono seguite al governo Dini (1996, 127 giorni), all'Andreotti I (1972, 121), all'Andreotti V (1979, 126), fino al Prodi II (2008, 104 giorni). Nei succitati casi, tutte le crisi hanno causato lo scioglimento ante tempus delle Camere e hanno posto fine alla legislatura.
Occorre rilevare che il periodo intercorrente fra le dimissioni di un Esecutivo e l'entrata in carica del successivo permette al governo uscente di svolgere solo funzioni di “ordinaria amministrazione” (o “affari correnti”). Nei 23.845 giorni trascorsi dalla nascita della Repubblica all'ultimo giorno di “proroga” del quarto governo Berlusconi, ben 2.004 giorni sono stati gestiti da governi limitati nei loro poteri e nelle loro funzioni. In questa scheda cercheremo di evidenziare i dati statistici e politici più significativi di queste 61 crisi ministeriali, utilizzando in parte le classificazioni dello studio “L'instabilità governativa nell'Italia repubblicana” (Roma, 1992, a cura di G. Negri e L. Tentoni) e ricalcolando – aggiornandole – le cifre relative all'intero periodo e in particolare agli anni della cosiddetta “Seconda Repubblica”.

Il primo elemento significativo sta nella sostanziale continuità – nel periodo 1946-1992 – delle formule politiche a fronte di un susseguirsi di governi spesso molto simili per composizione ai precedenti (lo Spadolini II era identico, tranne che per un sottosegretario) e per i partiti che lo componevano. Talvolta, la crisi non ha portato alla sostituzione del Presidente del Consiglio. Fra il 1945 e il 1953 Alcide De Gasperi ha governato ininterrottamente per 2.808 giorni (record ineguagliato) attraversando però sette crisi ministeriali per un totale di 116 giorni. Sono rimasti al proprio posto anche Amintore Fanfani (1962, fra il suo terzo e il suo quarto governo), Aldo Moro (1964 e 1966, dal primo al terzo governo), Mariano Rumor (1969 e 1970, per i suoi primi tre governi), Giulio Andreotti (1972, fra il primo e il secondo) poi di nuovo Rumor (1974, per il quarto e quinto governo), ancora Moro (1976, quarto e quinto governo), Andreotti (1978 e 1979: terzo, quarto e quinto), Francesco Cossiga (1980, per i suoi due governi), Giovanni Spadolini (1981: il primo premier non DC della Repubblica, primo e secondo governo), Bettino Craxi (1986, fra il suo primo e il secondo governo), ancora Andreotti (1991, fra il sesto e il settimo governo), Massimo D'Alema (1999, fra il primo e il secondo), Silvio Berlusconi (2005, fra il secondo e il terzo governo).

[caption id="attachment_7149" align="aligncenter" width="1000"]copertina-per-sito Da sinistra a destra: Alcide De Gasperi, Amintore Fanfani , Aldo Moro, Mariano Rumor , Giulio Andreotti, Francesco Cossiga, Bettino Craxi.[/caption]
Ben 37 governi sui 62 che si sono alternati fino al 16 novembre 2011 si sono “concatenati”: hanno avuto, cioè, continuità nella premiership rispetto al gabinetto ministeriale precedente o successivo. Questa cifra esprime bene il “cambiamento senza rinnovamento” che spesso ha caratterizzato le crisi, originate il più delle volte non dall'esaurirsi di un ciclo politico e neppure dalla contestazione all'operato o alla figura del Presidente del Consiglio, ma da altri fattori spesso interni alla coalizione o – in certi casi – al partito di maggioranza relativa (la DC, fra il '46 e il '94). Dunque il famoso riadattamento della frase presente nel "Gattopardo" di Giuseppe Tomasi di Lampedusa sembra essere sempre attualissima: "tutto deve cambiare perché tutto resti come prima".
Il secondo elemento degno di nota – per certi versi collegato al primo – sta nel numero di dicasteri formati dai Presidenti più “longevi” al governo (31 sono stati formati dai primi cinque: De Gasperi, Andreotti, Moro, Berlusconi e Fanfani, contro i 31 governi degli altri 20 Premier; per i primi cinque l' “ordinaria amministrazione” è durata 1.094 giorni contro i 910 degli altri, soprattutto perchè Andreotti detiene il record di “proroga”: è stato per ben 454 giorni a Palazzo Chigi per il disbrigo degli affari correnti, gestendo da solo il 22,7% di tutta l'ordinaria amministrazione della storia repubblicana). Fra i più presenti a Palazzo Chigi (definizione non del tutto propria, perchè il trasferimento della presidenza al Viminale nell'attuale sede è avvenuto solo nel 1961) ben tre dei primi dieci sono personalità riconducibili alla “Seconda Repubblica” (Berlusconi, Prodi, Amato); fra i primi sei sono addirittura due (Berlusconi e Prodi). Fra i più presenti al governo in veste di Premier figurano Silvio Berlusconi (3.330, 4 governi), Alcide De Gasperi (2.808 giorni, 8), Giulio Andreotti (2.669, 7), Aldo Moro (2.277, 5), Amintore Fanfani (1.660, 6), Romano Prodi (1.608, 2), Bettino Craxi (1.351, 2), Mariano Rumor (1.098, 5), Antonio Segni (1.087, 2), Giuliano Amato (717, 2). Fra gli undici Presidenti della Repubblica (De Nicola, Einaudi, Gronchi, Segni, Saragat, Leone, Pertini, Cossiga, Scalfaro, Ciampi, Napolitano), quattro sono stati Premier, ma solo Segni per più di mille giorni. Nessuno di loro (Segni, Leone, Cossiga, Ciampi) ha guidato più di due governi (Ciampi solo uno) e, in genere, per periodi non molto lunghi.
Un terzo elemento interessante riguarda il rapporto fra la durata dei governi e i giorni di crisi. Mentre la durata media delle crisi di governo è di 32,85 giorni, quella dei dieci più duraturi è di 23,4 (in otto casi è addirittura inferiore ai 20 giorni) per il 2,6% della durata complessiva dell'Esecutivo (in carica e in ordinaria amministrazione) contro l'8,4% del periodo 1946-2011. Formare un governo “longevo” è stato spesso molto difficile. Solo 14 su 61 sono rimasti in carica almeno 18 mesi, contro i 15 che sono rimasti in carica meno di sei mesi (due sono durati addirittura rispettivamente 32 e 23 giorni).
Una differenza significativa per quanto riguarda la durata dei governi e delle crisi, può essere riscontrata dividendo la storia della Repubblica in periodi:
1) L'Assemblea Costituente (1946-1948). Caratterizzata da governi – almeno inizialmente – di grande coalizione, ha avuto Esecutivi di scarsa durata (media 170 giorni compresa l'ordinaria amministrazione) ma crisi brevi (media 10,5 giorni).
2) Primo centrismo (1948-1953). E' il quinquennio degasperiano, della formula DC più alleati minori (PRI, PLI, PSDI). I governi durano di più (627 giorni) e le crisi sono ancora brevi (14 giorni).
3) Secondo centrismo (1953-1960). La formula politica (DC più alleati minori: PRI e PSDI, ma anche PLI e monarchici) è stabile ma va logorandosi: governi e premier si alternano più spesso. La durata media diminuisce a 302 giorni dei quali 14 di crisi.
4) Transizione (1960-1962). Sono i governi della crisi centrista e della transizione verso il centrosinistra. Se il governo Tambroni è uno dei più brevi (116 giorni più 7 di crisi), il terzo governo Fanfani è più duraturo (556 più 19 di crisi), perchè è la vera e propria prova generale del centrosinistra.
5) Primo centrosinistra (1962-1968). E' l'esordio dell'alleanza fra DC, PSI, PRI e PSDI, che segna l'avvio di un nuovo ciclo dopo quello centrista (1948-1960). Ogni governo dura in media 434,4 giorni più 29,6 per gli affari correnti (in tutto: 464 giorni). In questo periodo Moro vara l'Esecutivo che resterà a lungo (fino ai tempi di Craxi) il più longevo della storia repubblicana: 833 giorni (più 19 di crisi) fra il 1966 e il 1968.
6) Secondo centrosinistra (1968-1972). E' una fase di declino del quadripartito, durante la quale la durata media dei governi scende sotto i 200 giorni e quella delle crisi sale verso quota 50.
7) Transizione (1972-1976). Fra il ritorno del centrismo e la preparazione di una nuova stagione (il “compromesso storico” fra DC e PCI) si susseguono cinque governi che restano in carica 297 giorni, 43 dei quali in “proroga”.
[caption id="attachment_7150" align="aligncenter" width="1280"] Enrico Berlinguer segretario del partito comunista italiano e un giovanissimo comunista a suo fianco: Massimo D'alema. Segue Achille Occhetto.[/caption]
8) Solidarietà nazionale (1976-1979). E' la stagione in cui il PCI sostiene di nuovo un governo (trent'anni dopo essere uscito dalla maggioranza con DC e PSI). Al governo si susseguono due monocolori DC: il primo vede PCI, PSI, PSDI, PLI e PRI astenersi (“la non sfiducia”), poi ('78) votare a favore (tranne il PLI). E' una stagione segnata da gravi crisi sociali ed economiche e dal terrorismo (il rapimento di Moro). I governi durano mediamente 367 giorni – più che nel recente passato – ma le crisi sono lunghe (76 giorni).
9) Transizione (1979-1981). Fallito il compromesso storico, si riparte dall'accordo fra DC e PSI, in vista di una nuova stagione (il “pentapartito”). In 594 giorni si susseguono tre governi (durata media: 198 giorni) durante i quali ben 70 sono occupati dalle crisi (consultazioni, trattative fra i partiti) .
10) Pentapartito (1981-1991). E' una lunga stagione durante la quale DC, PSI, PRI, PLI e PSDI governano insieme. Si inaugura un'alternanza alla guida del governo. Dal 1983 al 1991 fra DC e PSI, ma già nel 1981-1982 il leader repubblicano Spadolini è premier, dopo 46 anni di governi a guida DC. Fra il 1981 e il 1987 la durata media dei governi “è di 440 giorni, se si escludono i ministeri pre-elettorali presieduti da Fanfani” mentre “negli anni 1987-1991 la media scende a 414 (Goria, De Mita, Andreotti VI)” (Negri, Tentoni, cit.). I giorni di crisi, che fra l'83 e l'87 sono 57, scendono a 44 nella legislatura successiva (1987-'92). Fra il 1983 e il 1986 Craxi resta al governo per 1092 giorni (compresi 33 di crisi) battendo il record di Moro.
11) Transizione (1991-1994). Col settimo governo Andreotti si consuma la fine del pentapartito: il PRI rifiuta di parteciparvi; nella successiva legislatura (1992-1994) il sistema è travolto da Tangentopoli. Si susseguono due brevi governi: il primo di Giuliano Amato e quello del tecnico Ciampi. Si tratta di Esecutivi che restano mediamente in carica per un anno. La crisi del governo Amato dura appena sette giorni.
[caption id="attachment_7151" align="aligncenter" width="1000"] Il procuratore Antonio di Pietro durante una delle ultime udienze del processo Enimont, 1994.[/caption]
12) Seconda Repubblica (1994-2011). E' caratterizzata dall'alternarsi al governo di due coalizioni, una di centrodestra guidata da Berlusconi e una di centrosinistra guidata da Prodi (e da altri leader che assumono la presidenza del Consiglio, nel periodo 1998-2001). Mentre i governi della “Prima Repubblica” (1946-'94) restavano in carica circa 342 giorni, 33 dei quali in proroga, nella Seconda è aumentata la durata media (625,7 tranne il governo Monti) anche se le crisi sono solo un po’ meno lunghe (30,5 giorni). A onor del vero, va detto che la cosiddetta “Seconda Repubblica” ha avuto due legislature brevi (1994-'1996 e 2006-2008).
La percentuale dei giorni di crisi su quelli totali di governo è del 20,6% (crisi del governo Berlusconi I e del governo Dini) nel 1994-1996 e del 14,4% nel 2006-2008 (crisi del governo Prodi II).
Le due legislature portate a compimento, però, una dal centrosinistra (1996-2001) e una dal centrodestra (2001-2006) fanno registrare alte durate medie dei governi (rispettivamente 462 e 901) e mediamente solo 8,5 giorni di crisi per ogni Esecutivo (nel decennio '96-2006 meno dell'1,5%). Anche il governo Prodi II, che caratterizza l'intera XV legislatura (è la prima volta che ad una legislatura corrisponde un solo Esecutivo) resta in carica per 618 giorni nella pienezza delle funzioni e 104 per l'ordinaria amministrazione. La stabilità della Seconda Repubblica è confermata dall'esiguo numero dei governi (undici fra il '94 e il 2011 contro i 51 dei 48 anni precedenti). Il governo più lungo (anche dell'intera storia repubblicana) è il Berlusconi II (1412 giorni, dei quali 2 di crisi).
[caption id="attachment_7152" align="aligncenter" width="1000"] Governo Berlusconi 2011 - Photo Mauro Scrobogna[/caption]
Un'ultima notazione: se nel periodo iniziale (1946-1948) e in quello finale (1992-1994) della “Prima Repubblica” le crisi sono state di rapida soluzione - in media rispettivamente 11 giorni e 16 giorni -, con lo stabilizzarsi del sistema politico sono diventate sempre più lunghe, con l’eccezione della legislatura corrente. Nella prima e nella quarta legislatura della “Seconda” ('94-'96 e 2006-'08) le crisi sono state più lunghe, mentre nella seconda, nella terza (1996-2006, con una stabilità di formula più o meno pari a quella di centrismo, centrosinistra e pentapartito ma anche con leadership e coalizioni più forti) e nella quinta (2008-2011, governo Berlusconi, poi governo “tecnico” con Monti) le crisi sono state brevissime.
Ora - tornando alle dimissioni di Matteo Renzi - è arrivato il tempo del Governo Gentiloni: quanto durera? Riuscirà a governare il tempo sufficiente per operare gli obiettivi che si è posto?
 
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«È fuori dubbio che in ogni epoca i nostri Re hanno avuto una guardia. E un’usanza da tempo immemorabile e universale presso le nazioni; ed è sempre stato della dignità e della sicurezza dei sovrani avere delle persone che le accompagnassero per onore e che vegliassero alla loro salvaguardia». I Re di Francia hanno dunque da sempre mantenuto diverse guardie per vegliare alla sicurezza della loro persona. Gontran, Re di Borgogna e di Parigi (561 d.C.), sarebbe il primo ad aver preso delle precauzioni per mettersi al riparo di ogni attacco da parte delle fazioni avversarie o di individui isolati. Il numero delle guardie è stato successivamente aumentato nel regno di Luigi VI, detto il Grosso (1081-1137), Carlo VI il Beneamato (1368-1422), in particolare nella “epoca d’oro” di Luigi XII, detto il Padre del Popolo (1462 –1515) e Francesco I (1494-1547), durante i quali le guardie reali brillavano per magnificenza e splendore.
[caption id="attachment_11318" align="aligncenter" width="1000"] Pierre Lenfant, la battaglia di Fontenoy (particolare), 1745.[/caption]
Dall’inizio della monarchia, fino a Filippo II - noto anche come Filippo Augusto (1165 -1223) - la guardia del Re era composta da uomini scelti, che si chiamavano ostiarii o custodes, cioè portieri. Essi sono all’origine della compagnia delle Gardes de la Porte. Ma è a Carlo VII, detto il Vittorioso (1403 –1461) che si deve la creazione di una vera guardia permanente destinata alla sicurezza del Re, che costituisce la Maison militare, per distinguerla dalla Maison civile. La Maison du Roi nel suo insieme è stata regolamentata da Enrico III di Valois (1551-1589) nel 1578 e nel 1585, poi da Jean-Baptiste Colbert (1619-1683). Essa è diretta dal grand maitre de France, uno dei primi personaggi del reame.
Nel XVI e XVII secolo, conta fra 1.000 e le 2.000 persone. E’ difficile tracciare la sua esatta evoluzione. Come scrive Jean-Francois Solnon nel Dictionnaire du grand siècle: «la struttura (della Maison du roi) non ha l’ordine di un giardino alla francese. E’ un insieme eterogeneo, costituito progressivamente per aggiunte successive di nuovi servizi senza la soppressione brutale dei più anacronistici (…) La negligenza della tenuta dei ruoli, l’imprecisione delle attribuzioni impediscono ogni classificazione rigorosa, ogni enumerazione precisa». Essa comporta tre grandi divisioni: la maison civile, la maison militare e la maison ecclésiastique.
La Maison du Roi è stata l’erede dell’Hotel du Roi riorganizzato da Enrico III. La sua gestione è posta sotto il controllo del “Bureau de la Maison du Roi” (ufficio della casa reale) che comporta la chambre aux deniers (stanza della moneta), la quale esisteva dal XIII secolo ed era incaricata dei pagamenti dei diversi grandi uffici come della loro contabilità. Luigi XIV di Borbone, detto il Re Sole (Le Roi Soleil) o Luigi il Grande (1638-1715), vi introdusse una milizia più numerosa, più brillante e meglio scelta, potendo affermare che da questa epoca, la Maison militaire dei Re di Francia fu composta dall’élite della nobiltà del regno e da vecchi soldati chiamati - per il loro valore all’onore - a difendere il trono. Questa guardia ha sempre avuto la priorità sulle altre truppe e il posto d’onore nell'esercito. La Maison militare del Re di Francia radunava un gran numero d’unità, tanto di cavalleria che di fanteria, servendo tanto da guardia personale al sovrano che da truppa d’élite in caso di conflitti. Il termine stesso “maison militare” non apparve in effetti che nel 1671. E dunque è soprattutto a Luigi XIV che si deve la militarizzazione, l’ampliamento e l’organizzazione definitiva della Maison militare. Egli non dimenticava che diversi suoi predecessori, fra cui suo nonno, erano stati assassinati. Inoltre lui stesso era stato fortemente segnato dall’esperienza della Fronda, e soprattutto dalla sua fuga fortuita dal Louvre nella notte del cinque e del sei gennaio 1649 (a soli undici anni). Fu questa la prima di una serie di occasioni in cui la mancanza di una forza di guardie consistente e affidabile fece clamorosamente difetto. Dopo la sua accessione al trono nel 1654, ma soprattutto al momento della presa di potere nel 1661, egli decise dunque di fare della Maison una forza veramente militare, in grado di poter imporre la sua volontà sugli oppositori, nobili, parlamentari, o anche sulla popolazione di Parigi – in caso di rivolte – così frequenti in quell’epoca. Fino ai giorni funesti della rivoluzione, l’accesso al sovrano era libero e la moltitudine degli individui che lo circondava (domestici, ufficiali, cortigiani, curiosi) generava un importante problema di sicurezza. Luigi XIV si dotò di uno strumento particolare – al riparo dei partiti e dai loro partigiani – sul quale poteva contare in ogni luogo e circostanza per garantire la sua sicurezza e quella della sua famiglia.
La "Maison militaire" (casa del militare) era, proprio come la Maison civile, sotto l’autorità del Secrétaire d’Etat de la Maison du Roi (Segretario di Stato della Casa Reale), ma dipendeva per il suo budget dall’ordinario delle guerre, controllato dal Secrétaire d’Etat de la Guerre (segretario di stato di guerra). Il corpo comprendeva delle unità composte in prevalenza da gentiluomini, come le guardie del Corpo, i Moschettieri e i Gendarmi. Erano presenti anche unità reclutate dall’èlite dell’esercito, composte da roturiers, come i granatieri a cavallo: era tuttavia impossibile raggiungere – per loro – il grado di ufficiale nella Maison du Roy. Numericamente tale reparto si presentava considerevole: lo stato del venti aprile 1722 possedeva 10.000 uomini a piedi e 3.200 cavalieri – circa il 10% delle forze dell’esercito reale. Questo totale varierà secondo i bisogni, aumentando i suoi effettivi in tempo di guerra.
[caption id="attachment_11317" align="aligncenter" width="1024"] Charles Parrocel, La fermata dei Granatieri a cavallo della Guardia del Re (particolare), 1737.[/caption]
Lungi dall’essere solo delle truppe cerimoniali, i reggimenti della Maison du Roy (come quelli della Guardia Imperiale di Napoleone), hanno partecipato a tutte le campagne, inizialmente come guardie personali del Re. Così, nel 1567, all’epoca della sorpresa di Meaux, la famiglia reale dovette solo ai Cent-suisse (Cento guardie svizzere al suo servizio) se riuscì a sfuggire alla cattura da parte delle truppe protestanti del principe di Condé. Questa truppa d’élite giocò un ruolo decisivo in certe battaglie fino al 10 agosto 1792, quando le Guardie Svizzere si fecero massacrare per proteggere Luigi XVI e la sua famiglia.
Sui campi di battaglia, radunata attorno al porta-cornetta bianco, essa serve da guardia ravvicinata del Re. In sua assenza, combatte essa stessa: è per principio il solo esercito permanente del regno, con la cavalleria di ordinanza, i sei corpi (o reggimenti) “Vieux” (nipoti) e i sei “Petits-Vieux” (vecchi nipoti). «Nell’uso dell’esercito, non s’intende per Maison du Roy che le Compagnie che servono a cavallo [...]; ma negli Stati della Francia, vi si comprendono anche i due Reggimenti di fanteria della Guardia del Re [...] e la compagnia dei Cent Suisses». La Maison militaire adempie a diverse funzioni: dalla sorveglianza della persona del Re e alla sua sicurezza in Coorte, ad essere anche truppa permanente - come una truppa d’élite che può combattere nel corso di un conflitto -, fino all'assicurazione della formazione degli ufficiali.
Le truppe che compongono la Maison Militaire si ripartiscono secondo il colore dominante delle loro uniformi fra:
_la Maison blue: le guardie del corpo e i granatieri a cavallo;
_la Maison rouge: gendarmi, cavalleggeri, moschettieri, gendarmeria di Francia.
Queste diverse truppe si sono costituite nel corso della storia della monarchia. Le prime truppe di guardie del corpo – che assicurano la protezione del Re – sono state costituite in maggioranza da mercenari stranieri, supposti meno sensibili agli intrighi della Corte. Inizialmente era presente una compagnia scozzese, alla quale si sono aggiunte progressivamente tre compagnie francesi di un centinaio di arcieri che divennero più tardi le guardie del corpo del Re.
Erano presenti anche duecento gentilshommes ò bec de corbin (gentiluomini, dal nome dell’alabarda che portavano in origine) insieme ai Cent-suisses (cento svizzeri). I gentilshommes de la Cornette du Roi, chiamati Cornette Blanche – esistenti unicamente in tempo di guerra – venivano comandati direttamente dal Re.
Nel 1563 è venuto ad aggiungersi il reggimento delle Gardes Francaises, raggruppando otto insigne delle vecchie bande di Piccardia e Piemonte. Nel 1635 il reggimento raggiunge la sua forza massima con 9.000 uomini inseriti in 30 compagnie. La compagnia dei chavau-légers de la garde du Roi (cavalleggeri della Guardia del Re) fu creata da Enrico IV di Borbone - detto Enrico il Grande  (1553- 1610) - nel maggio del 1593.
La compagnia dei gendarmes de la Garde du Roy, fu creata da Enrico IV inizialmente per il Delfino di Francia nel 1609, poi successivamente per l’ordinazione dell’undici luglio del 1611. Nel 1616 Gaspard Galatty creerà – nel periodo di residenza a Tours di Luigi XIII – il reggimento delle guardie svizzere. Presenti in pianta stabile erano anche due compagnie di moschettieri: i grigi e neri. La prima creata dal Re nel 1622 e dissolta nel 1646, per poi essere riformata nel 1657 – faceva parte della compagnia dove era presente d’Artagnan, il famoso personaggio letterario di Dumas. La seconda fu creata dal cardinale Richelieu come sua guardia personale, prima di essere di Mazzarino che la cedette al Re nel 1660.
[caption id="attachment_7107" align="aligncenter" width="1000"] Il sarto d'epoca Gabriele Mendella ha allestito presso il palazzo del Senato di Milano, la mostra "Maison du Roy". Da sinistra a destra (prima linea): Cacciatore delle Guardie Francesi del 1761, Guardia del Corpo del Re - 1°compagnia francese del 1789, Piffero dei Granatieri della Guardia Francese del 1789, Granatiere a cavallo della Guardia del 1734. Da sinistra a destra (seconda fila): Soldato della Guardia Svizzera del 1745, Moschettiere della 2°compagnia (moschettieri neri) del 1743, Guardia della Manica del Re della 1°compagnia scozzese del 1757, Cavalleggero della Guardia del Re del 1743.[/caption]
Anche il corpo della gendarmeria di ordinanza subì modifiche nel 1660: esso raggruppava compagnie di gendarmi e cavalleggeri. Nei primi erano presenti gli scozzesi, i quali erano posizionati alla testa del corpo. Come ultima compagnia troviamo quella dei granatieri a cavallo del 1676.
Oltre a questi corpi, la Maison militaire includeva anche altre due unità che non erano veramente militari: le Gardes de la Porte e le Gardes de la Prévoté de Hotel du Roy.
La creazione della caserma nel 1764, segna una importante svolta per il corpo: i sei battaglioni di Guardie Francesi e il primo battaglione di Guardie Svizzere erano spesso alloggiati presso gli abitanti di Parigi e gli altri tre battaglioni di Guardie Svizzere nella banlieue. Le truppe alloggiate a Parigi perturbavano spesso l’ordine pubblico e i soldati arrotondavano il loro salario con dei traffici illegali (le Guardie Francesi notoriamente gestivano la prostituzione intorno al Palazzo Reale) o a piccoli lavori.
Il loro potere e la loro forza era notoria anche oltre la Manica “Se avessi truppe di tal genere, mi crederei invincibile” asseriva il principe d’Orange a Seneffe. E ancora John Churchill I duca di Marlborough “Non si può battere la Maison du Roy, bisogna distruggerla”.
La Maison du Roy costituiva una sorta di riserva dell’esercito francese – considerato uno degli eserciti più forti e numerosi d’Europa – e in questo ruolo prese parte a tutte le campagne allo stesso titolo di tutte le altre truppe reali. Essa si distinse in molte occasioni nel corso del regno di Luigi XIV. Alla battaglia di Leuze o Fleurus, il 19 settembre 1691, il maresciallo di Lussemburgo (comandante della prima compagnia francese delle Gardes du Corps), si piazzò alla testa di trenta squadroni che sfondarono la linea del principe di Weldeck e misero 75 squadroni fuori combattimento. Le Guardie del Corpo del Re ebbero 145 morti e 260 feriti su un effettivo di 1450 uomini. Essa si distinse ancora a Steinkerque il 3 agosto del 1692, a Neerwinden il 26-28 luglio del 1693. Nella guerra di successione spagnola, la Maison caricò a Ramillies a più riprese, ma non riuscì a salvare la giornata. Le Gardes du Corps subirono pesanti perdite a Oudenarde (47 morti), l’undici luglio 1708, coprendo con il resto della Maison, la ritirata dell’esercito francese.
A Malplaquet, l’undici settembre 1709, Boufflers lanciò la Maison du Roy sui fianchi degli imperiali per impedire all’esercito francese di essere sfondato: per diverse ore si lanciò in combattimenti accaniti, che le costarono pesanti perdite. Le Guardie del Corpo del Re ebbero 39 ufficiali e 395 uomini fuori combattimento (un terzo dei presenti), i moschettieri ricevettero 105 perdite, mentre i Gendarmi e i Granatieri a cavallo 10 e 167 uomini uccisi. Essa fu nuovamente ingaggiata nelle guerre di Luigi XV – soprattutto a Dettingen – il 27 giugno del 1743 ove la Gardes du Corps ebbe 27 morti e 66 feriti.
[caption id="attachment_7109" align="aligncenter" width="1000"] David Morier, Schermaglia tra cavalleria inglese e francese 1760. I Moschettieri grigi a Dettingen - il 27 giugno 1743 - essendo penetrati fra le due linee della fanteria alleate, furono attaccate da tutti e due i lati e subirono gravi perdite. Nel dipinto di Morier un moschettiere grigio combatte con un cavaliere dei dragoni britannico.[/caption]
Ai moschettieri neri andò molto peggio: l’intera compagnia fu annientata. Da un resoconto «fu l’azione della cavalleria che causò il maggior problema agli Alleati, poiché la Maison du Roy giustificò la sua reputazione in una serie d’attacchi portati a fondo, che furono a fatica sostenuti».
A Fontenoy, l’undici maggio del 1745, si verificò l’episodio celebre in cui le Gardes françaises – opposte a trenta passi dalle guardie inglesi – offrirono loro la possibilità di sparare per primi. La cavalleria della Maison caricò quel giorno a più riprese la colonna inglese arrestandone di netto il progresso ed infine aiutando nella distruzione di questa, attraverso il contrattacco generale dell’esercito francese. Il corpo militare prese parte ugualmente alla battaglia di Lawfeld e all’assedio di Berg-op-Zoom nel 1747.
La sua partecipazione alle campagne della Guerra dei Sette Anni fu quasi insignificante, salvo a Minden – dove la Gendarmeria francese fu distrutta in una carica contro la fanteria inglese – evento che contribuì a offuscare la sua gloria passata.
Certe truppe della Maison du Roy furono oggetto di critiche da parte dell’esercito, dato che pareva oramai uno strumento inutile: «le si rimprovera di non essere più che una truppa di apparato e di anticamera. In altre epoche ricompensa di ufficiali che avevano brillantemente servito nella cavalleria. Era divenuta il rifugio dei giovani dell’alta nobiltà che non cercavano a corte che piaceri, dissipazione, l’éclat delle feste e gli intrighi. Essa sfuggiva alle regole ordinarie della disciplina. I suoi capi trattavano direttamente col Re al di sopra del segretario di Stato della Guerra di cui affettavano di ignorare l’esistenza. I militari, nel XVIII secolo pur rispettando il suo glorioso passato, sostenevano che non fosse più che un mobile di lusso ingombrante, quanto inutile. Per le variazioni di effettivi da un corpo all’altro, l’armamento e l’equipaggiamento disparati, la coda di valletti, cavalli, equipaggi e bagagli al seguito, la Maison du Roy non può più entrare nel quadro di un esercito in campagna – senza non rallentarne la marcia e ostacolare la rapidità delle sue manovre».
Inoltre la Maison fu attaccata anche per la sua posizione di privilegio, poiché non solo la maggior parte delle sue compagnie erano l’appannaggio delle stesse famiglie dell’alta nobiltà (i Noailles e i Villeroy alle Gardes du corps, i Rohan-Soubise ai Gendarmi, i Louvois ai Cent-suisses) ma anche perché gli ufficiali usciti dalla Maison avevano un accesso immediato ai più alti gradi dell’esercito, soprattutto nel caso dei Gendarmi e Cavalleggeri, che furono severamente criticati da Jacques Antoine Hippolyte conte di Guibert.
Col pretesto di fare economie, le due compagnie di Moschettieri e i Granatieri a Cavallo furono soppressi dal conte di Saint-Germain il 15 dicembre del 1775. Egli ridusse inoltre a un simulacro gli altri corpi della Maison a cavallo, i Gendarmi e i Cavalleggeri il 18 gennaio del 1776. Il corpo militare fu dunque completamente riorganizzato con diversi editti presi fra il luglio 1779 e l’agosto del 1780. Infine il 30 settembre del 1787 furono definitivamente licenziati i Gendarmi e i Cavalleggeri. La Maison Rouge era finita.
Il 2 marzo 1788 furono soppresse la Gendarmeria d’ordinanza e le Guardie della Porta, che “erano antiche quanto la monarchia”, e le Gardes du Corps furono nuovamente ridotte.
Secondo lo storico Guillaume Bodinier (1795/1872) «La soppressione degli altri corpi fu carica di conseguenza: essi avrebbero potuto essere utili per assicurare il mantenimento dell’ordine all’inizio della Rivoluzione, dato il loro eterno attaccamento al Re e non avrebbero patteggiato con gli insorti, come fecero le guardie francesi; la loro presenza a Versailles, nell’ottobre del 1789, avrebbe potuto modificare lo sviluppo di queste giornate funeste per la monarchia». Era – lo si può ben dire a posteriori – la campana che suonava a morto e segnalava la fine prossima della monarchia stessa: un regime che rinuncia a difendersi è già condannato a perire.
[caption id="attachment_11319" align="aligncenter" width="1000"] Jean-Baptiste Van Loo, Louis XV, Re di Francia e di Navarra (particolare). Luigi XV di Borbone, detto il Beneamato o "il Re Sole Nero" (Versailles, 15 febbraio 1710 – Versailles, 10 maggio 1774), è stato re di Francia dal 1715 fino alla sua morte.[/caption]
La Maison du Roy forniva due distinti servizi: vi erano le garde du dedans (guardie interne) con alcune compagnie non destinate alla guerra:
_4 compagnie di guardia del corpo (1348 guardie e 48 ufficiali);
_1 compagnia di cento guardie svizzere ordinate per il corpo del Re (100 guardie e 18 ufficiali);
_1 compagnia della Guardia della porta (50 guardie e 5 ufficiali);
_1 compagnia di Guardie proposta per l’albergo del Re (90 guardie e 7 ufficiali).
  Parallelamente le garde du dehors o du Louvre (guardie esterne) formate unicamente per scopi militari contava 5 squadroni e 10 battaglioni:
_1° compagnia della gendarmeria della Guardia del Re (220 guardie e 10 ufficiali);
_2° compagnia di cavalleggeri della Guardia del Re (220 guardie e 8 ufficiali);
_3° due compagnie di moschettieri della Guardia del Re (396 guardie e 14 ufficiali);
_4° la compagnia di granatieri a cavallo della Guardia (130 guardie e 10 ufficiali);
_5° il reggimento della guardia francese di 6 battaglioni (3.630 guardie e 218 ufficiali);
_6° il reggimento delle Guardie Svizzere di 4 battaglioni (2.323 guardie e 79 ufficiali).
  All’esercito quattro battaglioni di Gardes françaises e due di Gardes Suisse formavano quella che si chiamava la brigata delle guardie”. La compagnia a cavallo, riunite alla Gendarmerie de France, formavano la Maison du Roy: la prima divisione o maison bleu comprendeva i Granatieri a Cavallo e gli 8 squadroni di Gardes du Corps. La seconda divisione maison rouge – dal colore degli abiti – comprendeva i due squadroni dei Gendarmi e Cavalleggeri della guardia, i due squadroni dei Moschettieri e gli otto squadroni della Gendarmeria di Francia. I granatieri a cavallo si riteneva coprissero il ruolo di pionieri o dragoni per la Maison du Roy e marciavano sempre alla testa dell’esercito.
 
Per approfondimenti:
_Gabriele Mendella, La Maison Du Roy 1690-1792, Splendori delle tenute d’apparato delle guardie dei Re di Francia.
 
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

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L'architettura del male. La città nella cinematografia noir. Andrea Fioravanti

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 Come da programma si è svolto l'ultimo appuntamento per l'anno 2016, organizzato dalla associazione. Ospite il critico cinematografico e professore Andrea Fioravanti, il quale insieme al Dott.Alessandro Poli hanno dissertato sul tema de "L'architettura del male, la città nella cinematografia noir".
L'evento è stato ripreso dal video-maker Stefano Scalella e le foto sono state eseguite da Giuseppe Baiocchi. Nella giornata di domenica 11 dicembre si è analizzato Il cinema noir, il quale possiede una ambientazione prettamente urbana dove la città appare allo spettatore maligna e nello stesso tempo si impone per la sua monumentalità.
Il noir ci descrive una società in gran parte priva di spirito comunitario: demistifica un mondo ove si è erosa sia la fede nella lealtà verso un bene comune, sia la fiducia, disattesa, nell’American Dream.
Il professor Fioravanti ha poi mostrato al pubblico - sempre più numeroso, ed al quale va tutto il nostro ringraziamento - diversi spezzoni di alcuni celebri film noir, che ne hanno contraddistinto la storia.
Questo genere cinematografico, che accresce la sua diffidenza e critica sociale dopo il crollo di Wall Street, si lega sin da subito all’architettura, se non in senso stretto l’urbanistica: questa è la vocazione e base socio-spaziale del genere e della disciplina, dove l’incontro negato e la mancata realizzazione del naturale bisogno di comunione si discostano dall’ambizione duratura dell’architettura. Spesso nel cinema noir i paesaggi urbani diventano i veri attori assoggettando, attraverso l’ortogonalità e la longitudinalità della prospettiva, i protagonisti, sempre più inseriti in un contesto meccanico e schizofrenico.
La crisi del soggetto è quindi uno dei temi centrali e più indagati nel cinema americano dagli anni Venti e fino agli anni Quaranta grazie ai capolavori di grandi maestri quali Friedrich Wilhelm Murnau, Howard Hawks, Fritz Lang, John Huston, Otto Preminger, Orson Welles, Billy Wilder.
Nel finale, sempre l'interessante dibattito che come di consueto viene lasciato alla cittadinanza. In conclusione, oltre al pubblico, l'associazione ringrazia tutte le istituzioni che in maniera non onerosa hanno patrocinato l'evento:
_L'Università degli studi di Camerino (UNICAM)
_L'Ordine degli architetti di Ascoli Piceno
_La Regione Marche
_Il Comune di Ascoli Piceno che ha visto la presenza del sindaco Castelli
_La Libreria Rinascita
_la Confartigianato
_Celluloide
_Tipico Ascoli
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Architettura e Psiche nel Mausoleo di Santa Costanza
[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Elisa Di Agostino del 09/12/2016[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1481226514478{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Corre il III secolo d.C. quando inizia il declino dell’Impero romano. L’instabilità politica, economica e sociale si aggrava con le invasioni barbariche. In questo momento di profonda crisi, si diffonde il cristianesimo, grazie soprattutto all’editto di Flavio Valerio Aurelio Costantino, l’imperatore romano (274/ 337 d.C.) che nel 313 d.C. riconosce la libertà di culto, con la capitale imperiale traslata a Costantinopoli, antica Bisanzio – oggi Istanbul. Le tipologie architettoniche romane, come la basilica e gli edifici a pianta centrale, vengono adattate alle nuove esigenze del culto cristiano. Anche i soggetti delle figurazioni sono ripresi dalla mitologia greco-romana, ma acquistano nuovi significati legati al messaggio cristiano.
[caption id="attachment_7068" align="aligncenter" width="1000"] A sinistra, cartina politica dell'Impero romano dopo la morte di Costantino. A destra l'Imperatore Costantino in un mosaico.[/caption]
Alla morte dell’imperatore il secolare Impero romano si dividerà in due porzioni principali: quella occidentale con capitale Roma e quella orientale con capitale Costantinopoli. Dunque, soffermandoci sugli edifici di culto, la prima architettura cristiana prende il nome di architettura Paleocristiana, la quale comprendeva manufatti a forte influenza classica. Le Basiliche sono grandi sale dove si potevano riunire i fedeli per la celebrazione dei riti e riprendono proprio il nome delle Basiliche romane. Gli interni sono similari, ma la struttura spaziale è molto diversa e risponde a funzioni diverse.
Oggi possiamo classificare due tipologie di Basiliche, quella romana e quella cristiana. La prima presenta due absidi ed aveva una funzione civile, diversamente la seconda solitamente era provvista di un solo abside, possedeva un altare ed era riservata al rito. L’ingresso delle basiliche cristiane aveva un asse preferenziale che va dall’ingresso all’altare: percorso obbligato che stava a simboleggiare l’avvicinamento a Dio. Altro simbolo divino era dato dalla luce, che significava proprio lo sguardo della divinità filtrante dalle finestre. Alle volte la struttura era preceduta dal quadriportico: un cortile porticato destinato ai non battezzati.
Nella città eterna di Roma – di forte rilievo – il mausoleo di Santa Costanza è un edificio a pianta centrale, di forma circolare situato, sulla via Nomentana, nei pressi della basilica di Sant'Agnese. Il mausoleo è costruito tra il 337 e il 361 e nel VII secolo, sorta S. Agnese, ne diviene il battistero.
In questo mausoleo fu sepolta Costanza, figlia del già citato Costantino. La struttura e la decorazione risalgono all'incirca al 350 d.C., ma questa struttura presenta delle particolarità che la rendono unica ed importantissima dal punto di vista storico artistico.
[caption id="attachment_7071" align="aligncenter" width="1000"] Il Mausoleo di Santa Costanza[/caption]
L'impero romano – dopo l’editto di libertà religiosa - era ancora a maggioranza pagana. Per promuovere la nuova religione - scelta dall’imperatore - anche per avere appoggi politici, era necessario progettare un edificio che potesse ospitare la celebrazione delle cerimonie in una modalità artistica che potesse trasmettere, in maniera originale, i nuovi contenuti sacri.
Quasi come in una campagna pubblicitaria si decise di utilizzare la basilica, date le caratteristiche di ampiezza e perfezione che le permettevano di ospitare il culto cristiano. L'entrata, che di solito avveniva sui lati lunghi, venne spostata su uno dei lati corti, con la conseguenza della perdita di un abside. In questo modo l'attenzione del visitatore venne concentrata sull'altare, ospitato nell'abside in fondo alla basilica.
L'organismo è formato da un'aula centrale e circolare, coperta a cupola, inscritta in un deambulatorio voltato a botte. Aula e deambulatorio sono ritmati da 12 coppie di colonne di granito disposte in senso radiale, a sostegno di altrettanti archi a tutto sesto su pulvini e architravi convergenti verso il centro dell'aula. Gli intercolumni (spazio che intercorre fra le colonne) corrispondenti agli assi sono più larghi e più alti degli altri. La serie degli archi è sovrastata, al livello del tamburo, da altrettanti finestroni centinati.
La struttura è in laterizio, e la cupola - dal diametro di 22,5 metri - è alleggerita (come per il Tempio di Minerva) da nervature e archi tra concrezioni più leggere di tufo e pomice. In origine, l'interno era rivestito con marmi disposti a tarsia, con volte e cupola decorate da mosaici.
[caption id="attachment_7072" align="aligncenter" width="1000"] Vista interna e disegni tecnici in planimetria e sezione.[/caption]
onstantino dispose prudentemente la costruzione delle prime enormi basiliche al di fuori delle mura della città, sulle tombe dei martiri a cui erano dedicate (San Pietro, San Lorenzo, Sant'Agnese). In questo modo il Senato non poteva rimproverargli di riempire di edifici cristiani il centro della città e allo stesso tempo le basiliche divennero i primi edifici monumentali che si incontravano lungo le vie più importanti, prima di entrare in città.
Queste enormi manufatti erano oggetto di grande venerazione tra i fedeli, che iniziarono a pagare cifre sempre più alte pur di essere sepolti accanto ai santi più importanti: fu in questo contesto che sorse il mausoleo di Costantina, addossato all'antica basilica di Sant'Agnese di cui oggi non rimangono che i resti di alcuni muri.
All'interno del mausoleo si possono ancora ammirare i bellissimi mosaici che corrono lungo l'anello esterno e nelle due piccole nicchie. Per i romani non era usuale utilizzare i mosaici per decorare i soffitti: l'arte era solitamente riservata ai pavimenti.
Fu proprio sotto Costantino, che si iniziò ad utilizzare il mosaico per rivestire catini absidali e porzioni di parete. Forse un tempo anche la cupola del mausoleo era ricoperta da un mosaico, ma oggi ci rimangono solo quelli della volta.
Proprio in questo mausoleo vi è uno dei primi passaggi dall'arte “classica” all'arte “bizantina”. Proprio l’Impero romano d’oriente fu denominato in epoca medievale “Bizantino o greculo” – denominazione fondamentale per permettere un distinguo temporale fra l’età tardo-antica e l’età medievale. L'arte cosiddetta “bizantina” difatti subì nei secoli un progressivo distaccamento dalla riproduzione della realtà perché il suo ruolo era di rappresentare santi e sante di un mondo che non è terreno. Per questo le figure medievali divennero sempre più statiche, ieratiche, immateriali e bidimensionali, schiacciate un fondo d'oro, simboleggiante l’immortalità e il divino.
Sulle volte del mausoleo di Santa Costanza vi sono mosaici con motivi geometrici e tipici del repertorio classico: frutta e fiori, piccole girali e scene di vendemmia. Queste ultime sono però state interpretate come allegoria del sacrificio di Cristo il cui sangue (vino) fu versato per l'umanità. Nelle nicchie invece troviamo le scene della consegna della legge in cui si vede Gesù tra i santi Pietro e Paolo e la scena della traditio clavium, in cui il Salvatore consegna le chiavi a San Pietro. Le scene sono costruite in modo molto semplice se paragonate ad altri mosaici romani sia per come sono rappresentati i personaggi, che per come sono inseriti nello spazio e nel paesaggio, che risulta appena accennato da qualche elemento vegetale.
In un solo monumento troviamo a confronto due correnti artistiche, due obiettivi diversi, che testimoniano un periodo di passaggio delicato e fondamentale non solo per la storia dell'arte, ma per la storia dell'Europa intera.
[caption id="attachment_7073" align="aligncenter" width="1000"] Il Mausoleo in una pubblicazione del 1820[/caption]
Nel 1254 è trasformato in chiesa (di S. Costanza) e successivamente nel 1620 i mosaici della cupola sono sostituiti da affreschi. Dal 1600 al 1720 il tempio diviene il luogo di convegno di artisti fiamminghi; per la dedizione a piaceri, baccanali e riti pagani non confacenti alla "città santa", il gruppo è ricordato come i Bentvogels, ossia, la "banda di uccelli".
Arrivando ai giorni nostri l’architetto Valter Vannelli nel suo rinomato saggio “Architettura e psiche” citando il mausoleo riporterà:
“Sontuosità e cromatismo lasciano ora spazio al fascino di una struttura potente e luminosa, sobria e raccolta, discreta anche per l'isolamento dal tessuto edilizio più immediato. L'immagine dominante è quella irriducibile della centralità, della circolarità, della riduzione del tutto al suo centro: il luogo assoluto che, all'origine delle cose, appaga lo spirito. Il carattere, anch'esso dominante, è quello della razionalità della riflessione; ossia, di questa proprietà della coscienza che la psiche esercita quando è vissuta in armonia ai giudizi di valore sul senso della memoria (delle sue permanenze, delle sue ricorrenze), e in accordo sia alle potenzialità dell'intuizione destate dalle suggestioni della bellezza, sia al piacere dei sensi quando sono impregnati da tanta evidenza e verità (anche storica) dei materiali”.
 
Per approfondimenti:
_Angola Maria Romanini, L'arte medievale in Italia, Sansoni
_Pierluigi De Vecchi, L'arte nel tempo, Bompiani
_Richard Krautheimer, Early Christian and Byzantine Architecture, Penguin Books
 
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[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1480814063419{padding-bottom: 15px !important;}"]L'estraneità del suicidio: Nancy e la negazione del soggetto in Hegel[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Danilo Sirianni del 04/12/2016[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1480813892306{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Il senso comune ci suggerisce almeno due diverse interpretazioni della parola soggetto. Per economia argomentativa le chiamerò: accezione grammaticale e accezione esistenziale del soggetto. L'accezione grammaticale del soggetto è quella che ci viene insegnata a scuola fin da quando siamo bambini e prevede il soggetto come l'attore principale della situazione descritta dal predicato. In analisi logica, infatti, il soggetto rappresenta colui che compie l'azione, il protagonista dell'evento descritto nella proposizione, ciò di cui la frase dice qualcosa. Esso è legato al predicato, cioè a quel qualcosa che la frase asserisce riguardo al soggetto, che predica il soggetto, si riferisce ad esso, lo esprime. Nell'accezione grammaticale, dunque, il soggetto è un ente che subisce passivamente la descrizione del predicato. Ma si potrebbe obbiettare: - il soggetto non è passivo, è attivo, compie l'azione. - Certamente. Ma l'azione compiuta dal soggetto è descritta dal predicato, senza il quale sarebbe totalmente immobile e inattivo. Nessuno si sognerebbe di sostenere che c'è azione in un soggetto senza predicato. Se dico "Maria", senza aggiungere altro, non si sta compiendo nessun tipo di azione. In questo senso il soggetto, nell'accezione grammaticale, è qualcosa di fermo, statico, immobile, in totale quiete. Il movimento, l'azione, sono prerogativa del predicato. Ma il soggetto hegeliano non ha nulla a che vedere con quello appena descritto nell'accezione grammaticale. «Nel suo conoscere positivo il Sé è un soggetto rappresentato, al quale il contenuto si riferisce come accidente e predicato. [...] Diversamente si comporta invece il soggetto nella sfera del pensiero concettuale [...] non abbiamo più un soggetto in quiete che sostiene passivamente gli accidenti: il soggetto, piuttosto, è il concetto che muove se stesso e che riprende entro sé le proprie determinazioni» (Hegel, 2015, p.125). Ciò che interessa a Hegel è il soggetto nella sfera concettuale, il quale non è più in quiete, immobile, passivo, ma è attivo, è in divenire, è in movimento e lo è dentro di sé, senza bisogno di altro, senza nessun predicato.
L'accezione esistenziale del soggetto, invece, è quell'uso del concetto di soggettività in riferimento alla vita intima di un individuo. È il soggetto in quanto individualità, personalità, interiorità, soggettività. Paolo Rossi in quanto Paolo Rossi, che è quel soggetto lì, che fa quel mestiere, che vive in quel luogo, che è nato in quella data, che ha quei determinati tratti somatici, quel timbro di voce, quell'accento, quel carattere, ed è lui, unico e irripetibile. Ma nemmeno in questo caso il senso comune si avvicina a quello che Hegel intende con il termine soggetto. Il filosofo francese Jean-Luc Nancy lo spiega esaurientemente: «Il soggetto hegeliano non si confonde con la soggettività come istanza separata e unilaterale che sintetizza delle rappresentazioni, né con la soggettività come interiorità esclusiva di una personalità. Sia l'una che l'altra possono essere dei momenti, fra altri, del soggetto, ma esso non è niente di tutto questo. Il soggetto hegeliano, insomma, non è in nessun modo il sé che sta a sé. È invece, ed essenzialmente, ciò o colui che dissolve ogni sostanza - ogni istanza già data, prima o ultima, fondatrice o finale, capace di riposare in sé e di godere senza riserve della sua padronanza e della sua proprietà» (Nancy, 2010, p. 13). Per Nancy, dunque, il soggetto hegeliano non va confuso con ciò che noi intendiamo con soggettività, né come istanza rappresentativa, né come interiorità di una personalità perché anche in questo caso ci troveremmo in una immobilità, avremmo un soggetto che sta a sé passivamente, invece il soggetto dissolve attivamente ogni istanza, è capace di compiere la sua azione in sé, e goderne in sé perché esso stesso è azione. «Il soggetto è ciò che fa, è il suo atto; e ciò che fa l'esperienza della coscienza della negatività della sostanza» (ibidem).
[caption id="attachment_7012" align="aligncenter" width="1000"] Jean-Luc Nancy (Bordeaux, 26 luglio 1940) è un filosofo francese, professore emerito di filosofia presso l’università di Strasburgo. Assieme a Jacques Derrida può essere considerato il maggior esponente del decostruzionismo.[/caption]
Il soggetto hegeliano è negatività. Ma in che senso? Che cosa si intende con negatività? Per Hegel il negativo è negativo di se stesso. Il soggetto è dunque soggetto di se stesso. Il soggetto afferma se stesso negandosi. Solo con la negazione di sé, con l'autodifferenziazione raggiunge l'uguaglianza che è al contempo uguaglianza e differenza. Il soggetto hegeliano, dunque, differentemente dal soggetto inteso sia nella sua accezione grammaticale che esistenziale, è attivo in sé senza bisogno di altro e questa attività è la negazione. Solo attraverso l'azione negativa il soggetto si afferma, si manifesta come sé. Come spiega lo stesso Hegel (2015, p.73) il Sé è la realtà pura, è inquietudine. Il soggetto è manifesto come sé e il sé è negativo. «La negatività pura e semplice è la so-stanza in quanto soggetto» (ivi. p. 69). La negazione è il superamento antitetico di una posizione data, è il per sé che agisce sull'in sé, che ha lo scopo di riaffermarsi attraverso la sintesi prodotta da una nuova negazione superiore. Il soggetto, dunque, per potersi af-fermare deve negarsi doppiamente. Ma che cosa significa che il soggetto si nega? «Il soggetto non si nega come si nega un suicida. Il soggetto si nega nel suo essere, è questa negazione» (Nancy, 2010, p.79). Considerare l'auto-negazione del soggetto alla stregua di un suicidio sarebbe interpretare il soggetto secondo quella che ho chiamato: la sua accezione esistenziale. Sarebbe un errore madornale perché la negazione del soggetto non è negazione della soggettività. Il soggetto hegeliano non si nega soltanto, esso è questa negazione e questa negazione è il motore dialettico che gli permette di autoaf-fermarsi. «L'individualità non si suicida, essa cioè, non tratta se stessa come dall'esterno, a partire da un soggetto estraneo e astratto» (ivi. p.99). La negazione non è negazione della vita (dello Spirito) come un negativo che nega un positivo, ma la vita, essendo essa stessa negazione, riesce ad affermarsi negandosi. «La vita dello Spirito non è quella che si riempie d'orrore dinanzi alla morte e si preserva integra dal disfacimento e dalla devastazione, ma è quella vita che sopporta la morte e si mantiene in essa. Lo Spirito conquista la propria verità solo a condizione di ritrovare se stesso nella disgregazione assoluta. Lo spirito è questa potenza, ma non nel senso del positivo che distoglie lo sguardo dal negativo, come quando ci sbarazziamo in fretta di qualcosa dicendo che non è o che è falso, per passare subito a qualcos'altro. Lo spirito è invece questa potenza solo quando guarda in faccia il negativo e soggiorna presso di esso. Tale soggiorno è il potere magico che converte il negativo nell'essere» (Hegel, 2015, p.87).
Ricapitolando, il soggetto per Hegel non è quello che noi intendiamo nel senso comune. In esso ho individuato due accezioni che ho chiamato rispettivamente grammaticale ed esistenziale. Ho mostrato come nessuna delle due possa render ragione del soggetto Hegeliano per il semplice fatto che sono interpretazioni che prevedono un soggetto immobile e inattivo, mentre il soggetto per Hegel è attivo, in continuo divenire, gode di sé e di tutte le sue proprietà in sé e senza bisogno di altro, senza bisogno di nessun predicato. Ho mostrato che questa attività è la negazione. La negazione è una doppia negazione. Il soggetto è già esso stesso negazione e nega la sua stessa negazione per affermarsi. Ma cosa sono queste due negazioni? «La prima negazione è la libertà [...] La seconda negazione nega che la prima sia semplicemente valida: nega la pura nullità, l'a-bisso o la mancanza. È la liberazione positiva del divenire, della manifestazione e del desiderio. Essa è dunque l'affermazione del sé» (Nancy, 2010, p. 97). Un soggetto negato che auto-nega la sua negazione per affermarsi. Un soggetto in continuo movimento. Un soggetto differente da quello che si intende nel senso comune, un soggetto filosofico.
[caption id="attachment_7013" align="aligncenter" width="990"] François-Auguste-René Rodin, il Pensatore 1880-1904.[/caption]
Consideriamo queste possibilità:
1) Se il soggetto negato non si auto-negasse non riuscirebbe ad affermarsi, rimarrebbe immobile un po' come nella sua accezione grammaticale;
2) Se il soggetto non fosse negazione e si auto-negasse, cioè negasse il suo es-sere positivo, otterremmo un suicidio e ci troveremmo nell'accezione esistenziale.
Questo è il motivo per cui è necessaria una doppia negazione, perché se la negazione fosse singola: o il soggetto non basterebbe a se stesso, o si autodistruggerebbe. La libertà pura e iniziale non otterrebbe l'autoaffermazione del sé. Ma che cos'è precisamente, per Hegel, questo soggetto negativo che si auto-nega, quest'accezione filosofica? Siamo sicuri che questo soggetto sia totalmente diverso e non rispecchi nulla di quello che noi ci rappresentiamo nel senso comune attraverso l'accezione grammaticale o esistenziale? Per arrivare al punto c'è bisogno di un sorite esplicativo. Il soggetto per Hegel è il Sé; «il Sé è il negativo» (Hegel, 2015, p.1023); il negativo è il movimento, il divenire; questo divenire è lo Spirito assoluto, è il sapere assoluto, cioè non quello che la coscienza ha degli oggetti, ma quello che la coscienza ha di sé, il sapere della verità; «ma la verità di un sapere-di-sé [...] non può essere una verità che ritorna semplicemente a sé. [...] è da noi che la verità ritorna. È come noi che essa si ritrova ed è su di noi che incombe» (Nancy, 2010, p.105); dunque, il soggetto per Hegel è noi. Ma che significa noi? Si riferisce, forse, solo a coloro che riescono a cogliere la sua accezione filosofica escludendo chi lo intende secondo il senso comune? «Ma chi è noi? [...] "Noi" sembrerebbe allora indicare il filosofo o coloro che hanno compreso la lezione della filosofia [...] È sapere del passaggio, ma non di un oggetto, bensì del soggetto stesso, e il sapere "per noi" è essenzialmente lo stesso di quello della coscienza comune. [...] "Noi" non designa, pertanto, la corporazione dei filosofi, né il punto di vista di un sapere più alto - proprio perché "noi", siamo noi, noi tutti» (ivi. p. 106).
Il sapere di questo soggetto filosofico è lo stesso di quello della coscienza comune. Inizialmente sembrava così lontano, ma, in realtà, racchiude dentro di sé sia la sua accezione grammaticale che esistenziale. Abbiamo detto in precedenza che la sua accezione grammaticale prevede un negativo che non si nega, è ciò che si pensa del soggetto (considerato come oggetto estraneo), si trova nella dimensione dell'in sé. Nella sua accezione esistenziale, invece, abbiamo un positivo che si nega producendo una sorta di suicidio, un soggetto che compie lo sforzo di estraniarsi da se stesso cimentandosi nel mare dell'esistenza. Questa estraneità del suicidio si trova nella dimensione del per sé. Ed è qui che subentra il soggetto hegeliano, il soggetto filosofico comprende che il pensiero avuto della cosa è diverso da quello che questa (la cosa) diviene attraverso la negazione. Qui si chiude la spirale dialettica del soggetto hegeliano. Un in-sé-e-per-sé filosofico sintesi dell'in-sé grammaticale e del per-sé esistenziale. Un noi-soggetto che indaga su di sé, si estranea da sé per poi ritornare in sé affermandosi nell'infinita inquietudine di tante singolarità finite. «Questa inquietudine [...] è "noi" stessi: essa è cioè la singolarità delle singolarità in quanto tali. "Noi" non è una cosa - né oggetto né sé - presso la quale l'assoluto avrebbe dimora, anch'esso come un'altra cosa o un altro sé. Al contrario: che l'assoluto sia e voglia stare presso di noi, vuol dire che esso è il nostro "presso di noi", il nostro tra-noi, [...] L'assoluto è tra noi. Vi è in e per sé, e si può dire che anche il sé è tra noi. Ma "proprio questa inquietudine è il Sé"» (Nancy, 2010, p. 108).
Concepire il negativo come lo concepisce Hegel non è cosa da poco. La difficoltà risiede proprio nel riuscire ad emanciparsi dal senso comune senza mai perderlo di vista. Il senso comune spesso ci ancora a delle interpretazioni già impacchettate di un concetto, alla visione di alcuni particolari aspetti facendoci distogliere da una visione complessiva. La negazione, ad esempio, ci rimanda sempre a qualcosa legato al male, all'errore, al rifiuto, alla morte. Ma queste interpretazioni, come abbiamo visto, possono essere legate solo ad uno specifico aspetto e non alla complessità del suo senso. Concepire la negazione in senso hegeliano significa concepire l'assoluto solo come processo in movimento, abbandonando una concezione ezio-teleologica di un assoluto statico e passivo; significa "divenire" come il movimento rotatorio di un mulino messo in moto dal fiume eracliteo e dal suo infinito scorrere del finito; significa affermazione del sé all'interno di un infinito e inestricabile processo di inquietudine; significa estraneità del suicidio ed emancipazione da qualsiasi altra visione che veda nella negazione solo qualcosa di malevolo, errante, mortifero, verso un atteggiamento che si riassume in quella ricerca di "un'alba dentro l'imbrunire" che conclude il testo di Prospettiva Nevskij di Franco Battiato e, al contempo, questa breve dissertazione.
 
Per approfondimenti:
_Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, Fenomenologia dello spirito - Edizioni Bompiani 2015;
_Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, Lezioni sulla filosofia della storia - Edizioni Laterza 2012;
_Nancy, Jean-Luc, Hegel. L'inquietudine del negativo - Edizioni Cronopio 2010.
 
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