[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1633882330103{padding-bottom: 15px !important;}"]60°incontro DAS ANDERE[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]Konservative Revolution. La Rivoluzione Conservatrice tedesca. Orazio M. Gnerre[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1633883315293{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Sabato 09 ottobre 2021, presso la Sala dei Savi di Palazzo dei Capitani del Popolo (Piazza del Popolo) in Ascoli Piceno è andato in scena il 60°incontro dell'associazione culturale onlus Das Andere. L’evento ha visto la presenza del filosofo e politologo Orazio Maria Gnerre, il quale ha presentato la sua Lectio Magistralis incentrata su “Konservative Rivolution – La rivoluzione-conservatrice tedesca”. La tematica introdotta dal presidente Giuseppe Baiocchi e moderata dal consigliere Diego Della Valle ha visto la presenza del sindaco di Ascoli Piceno dott.Marco Fioravanti.
La Rivoluzione conservatrice tedesca - (Konservative Revolution) è stato quel movimento di pensiero, alquanto variegato, che si è sviluppato in Germania dalla conclusione della prima guerra mondiale, fino all'avvento del nazionalsocialismo. La prima riflessione che Gnerre ha posto al nutrito pubblico si è incentrata sul quesito di cosa rimane oggi di tali pensatori e se questa ideologia ha superato il secolo scorso. Il saggio, di Gnerre “Materiali. Reinterpretare la rivoluzione conservatrice”, è stato il tentativo di donare una nuova luce a quel periodo che fu definito dallo storico Jeffrey Herf (1947) “modernismo reazionario”.
I quattro testi contenuti in questo saggio, rappresentano solo l’inizio di una più vasta riflessione: sono l’interpretazione della Rivoluzione conservatrice quale scuola di pensiero geo-storicamente contestualizzata, la formalizzazione di un suo canone di autori, ed il rapporto dei suoi temi e concetti con il pensiero di Marx.
Autori come Spengler, Jünger, Freyer, Schmitt, Sombart e Heidegger saranno raccontati attraverso i concetti base del periodo:
_l’opposizione alla modernità (intesa come capitalismo e sistema liberale anglo-francese);
_una nuova heimat unita;
_nuovo corso all'idealismo cartesiano di matrice squisitamente alemanno-tedesca.
A questi concetti Gnerre ha segnato una nuova via ideologica, una sua nuova interpretazione che non passa solo dal binomio - tanto controverso nei termini - di "rivoluzione" e "conservazione", ma la sua scintilla ideologica si instaura sui princìpi tratti dall'eternità della storia occidentale:
_la natura fondamentale dell'uomo;
_la preservazione del senso, propriamente inteso umano;
_analisi filologica sulla preservazione del linguaggio e della sua forma.
Questi pochi concetti elencati sono stati espressi dall’autore per risolvere quella “crisi del soggetto” che ha visto crollare sia la religione, sia la società dei ceti, che quella delle appartenenze organiche. Oggi più che mai occorre un ritorno a quella che Gnerre ha definito come “una necessità di autenticità ed essenzialità”, per scongiurare la jüngeriana frase in cui «gli altari in rovina sono abitati da demoni».
 
 
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1633613609422{padding-bottom: 15px !important;}"]La rivoluzione conservatrice tedesca: speranze, illusioni e futuro[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Giuseppe Baiocchi del 07-10-2021[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1635634933469{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
La Rivoluzione conservatrice tedesca (Konservative Revolution) è stato quel movimento politico-filosofico, alquanto variegato, sviluppatosi in Germania dalla conclusione della Grande Guerra (1918) all’avvento del nazionalsocialismo (1933). Siamo negli anni della nota Weimarer Republik (1918-33) di stampo socialista-liberale, che vide inizialmente l’opposizione del mero Mittelstand tedesco: piccoli e medi coltivatori, bottegai, artigiani, industriali, architetti, professori, fino ad arrivare ai Wandervögel e alle confraternite delle Burschenschaft.
Il minimo comun denominatore di questo coacervo intellettuale possiamo esprimerlo con l’opposizione alla modernità, intesa come capitalismo e sistema liberale anglo-franco-americano (quelle plutocrazie decantate qualche anno dopo dallo stesso Benito Mussolini); si pensava anche ad una nuova Heimat unita e si stavano gettando le basi per un nuovo corso dell’idealismo cartesiano di matrice squisitamente alemanno-tedesca.
Lo stesso scrittore Thomas Mann (1875 - 1955), esponente di spicco dei letterati della rivoluzione conservatrice, si esprimeva su quella società non certo in maniera leggera: «Ma cos’è poi questo sviluppo, questo progresso di cui parlavo? Bisogna ricorrere a una masnada di parole maledettamente odiose e artificiose per dare un’idea di quello che vuol dire. Si tratta della politicizzazione, della letterarizzazione della Germania, della sua intellettualizzazione e radicalizzazione, della sua umanizzazione in senso politico.. si tratta della democratizzazione della Germania, o meglio di sgermanizzare la Germania».
Altri eminenti intellettuali – delle più svariate discipline – completavano uno scacchiere molto particolare: Oswald Arnold Gottfried Spengler (1880 - 1936), Ernst Jünger (1895 - 1998), Hans Freyer (1887 - 1969), Carl Schmitt (1888 - 1985), Werner Sombart (1863 - 1941) e Martin Heidegger (1889 - 1976).
Ciascuno di essi, provò ad unire la l’anima del popolo tedesco con la tecnica: ne furono esempio calzante le autostrade progettate dagli ingegneri tedeschi che si sforzarono di unire l’impianto tecnologico con uno adattamento ambientale sostenibile.
Una peculiarità di questo movimento rimane comunque l’essere molto variegato nell’elemento politico-ideologico. Intellettuali come Arthur Wilhelm Ernst Victor Moeller van den Bruck (1876 - 1925) da sempre contro la tecnologia, poiché vi era il rischio (oggi molto presente) di trasportare il popolo tedesco verso una deriva interiore, nichilista e priva di anima. Difatti la sua Germania che sarebbe succeduta al II Reich guglielmino sarebbe stata il nuovo pilastro contro il capitale anglosassone e il Comunismo russo. Oggi potremo, incappando anche in qualche errore dottrinale, inquadrarlo nel movimento dei “rossi-bruni”. Unito al pensiero di Bruck, vi era anche il giornalista Ernst Niekisch (1889 - 1967), per il quale la techne avrebbe logorato l’uomo tramite la corsa agli armamenti e successivamente questo sarebbe stato distrutto dalle future guerre moderne. Entrembi questi autori etichettavano la tecnica come il nuovo demone dell’umanità.
Questi autori furono certamente una cerchia ristretta, poiché la stragrande maggioranza difendeva la tecnica come utile al piano di sviluppo per una patria forte ed unita.
Ad esempio per Ernst Jünger, eroe della Prima Guerra Mondiale, la guerra diviene per l’uomo non divoratrice, ma «esperienza creatrice» che avrebbe creato nell’individuo temprato una nuova «forma d’acciaio». Il filosofo tedesco, in parte nichilista, amava sovente ripetere il binomio vita-morte, ovvero «vivere significa uccidere»: l’esaltazione dell’esperienza del fronte, di quella Fronterlebnis, servivano come reunion di tutti gli ex combattenti che non riuscivano più – dopo gli sconvolgimenti della Grande Guerra – a riadattarsi ad una vita civile normalizzata. Il suo letterario «realismo magico» del fronte, pieno di descrizioni mozzafiato e splendide metafore evocative e di impatto, lo fecero entrare del ghota della letteratura, con l’appellativo di “letteratura jüngheriana”.
L’esaltazione – e non la dimenticanza (come accadde invece in Italia) – dei “Titani”, ovvero di questo uomo forgiato dalle “tempeste d’acciaio” rendevano per Jünger l’uomo alemanno-tedesco simile ai figli ribelli degli Dèi, chiamato a compiere imprese che avranno (ed hanno avuto) dello straordinario. Per il tedesco la Geistgemainschaft, questa comunità liberale che prendeva vita era insufficiente: occorreva bensì la creazione di una comunità di sangue o Blutgemainschaft: da qui nasce quella figura chiave, tanto cara a Jünger, del soldato-operaio. Quest’ultimo è forte e viene paragonato alla Patria stessa, poiché lo racchiude e per la quale bisogna vivere e morire – sacrificarlo sull’altare della Patria in sostanza.
[caption id="attachment_12523" align="aligncenter" width="1000"] Carl Schmitt - Con Ernst Jünger a Parigi (Rambouillet), 1941.[/caption]
Da qui anche il binomio del soldato-operaio/Grande Guerra, poiché in nome di questa, furono sacrificati migliaia di uomini, rendendola una guerra delle masse. Sempre lucido precursore Jünger aveva anticipato nei suoi scritti la Blitzkrieg hitleriana o guerra lampo: l’innovativa tattica bellica – di potenza di fuoco e velocità – che avrà il suo battesimo di fuoco in Polonia (1939) e si concluderà qualche anno dopo in Russia (1942). Infine il filosofo di Heidelberg concludeva le sue dissertazioni con la speciale missione – tutta tedesca – di salvare il mondo dalla perdita di spiritualità: quella chance storica che fu ripresa dallo stesso Heidegger.
Certamente – di tutto il periodo – il saggio “Il tramonto dell’Occidente” rappresenta il culmine di questo pensiero socio-politico. A scriverlo è Oswald Spengler, storico e filosofo tedesco.
Per il bavarese il male è rappresentato dal denaro, dall’economia e non dalla tecnica in quanto tale. Era proprio il conio artefice di questo mercantilismo, ad essere la principale causa della paralizzazione della “macchina tedesca”. Il mercato non doveva essere regolato dal valore di scambio merce, ma dal valore d’uso d’opposto. Chiaramente qui, la figura dell’ebreo emerge con forza: elemento che praticava da secoli lo strozzinaggio, spesso perché costretto da una società verso la quale non volevano amalgamarsi in quanto “popolo eletto”.
Il nuovo mondo ipotizzato e tanto più sperato della sua massima opera citata pocanzi, egli immagina un mondo “faustiano” abitato da un «uomo nuovo» che sappia coniugare la sfera dell’anima e quella della tecnica in un tutt’uno inscindibile. Importante, quasi vitale, per compiere questo progetto sarebbe stato per Spengler, quello di non far confluire la tecnica all’interno dell’elemento culturale: solo così si potevano raggiungere e successivamente “battere” le culture legate al liberalismo e alla democraticizzazione. Al pacifismo ipocrita, si contrapponeva quello dello slancio vitale della guerra, vista in matrice positiva, in quanto avrebbe creato proprio questo nuovo mondo, distruggendo chiaramente il vecchio: dunque la distruzione non era più inquadrata come matrice negativa.
A differenza di questi “modernisti reazionari” il filosofo Martin Heidegger, era convinto dell’inconciliabilità tra tecnica moderna e anima tedesca. Temeva certamente la potenza Sovietica russa e parallelamente era preoccupatissimo del modello statunitense americano dove vigeva quella che lui definiva la “tecnica demoniaca”. Per questo la sua adesione iniziale al nazionalsocialismo – fu molto vicino alle Camicie brune (Sturmabteilung – S.A.) –, rappresentò quella sua speranza ideologica che vedeva la Germania cogliere quella chance storica di guidare l’occidente, di intravvedere nell’uomo tedesco le caratteristiche elleniche dell’uomo greco, capace di plasmare la storia europea e di guidarla. Il partito di Hitler significava coniugare l’anima dell’uomo tedesco con la tecnica per il giusto fine – sia in chiave morale, che in chiave etica, ma come spesso accade, chi pensa in grande, è destinato a sbagliare in grande. Solo più tardi Heidegger si rese conto che il cuore del nazionalsocialismo era “meccanico”, che la sua volontà si basava unicamente sulla tecnica tanto odiata. Non sono un caso le sue dimissioni dalla Cattedra di Friburgo, dove era rettore (ed al cui posto entrò un certo Alfred Ernst Rosenberg, 1893 - 1946). Heidegger aveva chiaramente compreso quello scivolamento ideologico che stava compiendo il partito nazionalsocialista in Germania, poiché comprese con lucidità come i colori bianco-rosso-neri non erano dalla parte dell’Essere, né da quella del Volk tedesco, ma unicamente da quella volontà di potenza, nemica di Heidegger e correlata invece ad Hitler.
[caption id="attachment_12524" align="aligncenter" width="1000"] Il 21 aprile 1933 Heidegger viene eletto rettore alla Albert-Ludwigs-Universität di Friburgo, prendendo il posto del dimissionario Wilhelm von Möllendorff (1887-1944), il quale, eletto l'anno precedente, aveva tentato senza successo di ritardare l'attuazione della legge del 7 aprile che metteva in congedo tutti i professori di origine ebraica. Heidegger viene proposto da un gruppo di docenti nazionalsocialisti guidati da Wolfgang Aly (1881-1962) e Wolfgang Schadewaldt (1900-1974). Il voto a favore di Heidegger è pressoché unanime: gli unici 13 voti che non lo appoggiano, su 93 disponibili, sono proprio i voti dei professori "ebrei" che in virtù del decreto attuato dal Gauleiter per il Baden, Robert Wagner, non possono essere conteggiati. Va attestato che dei restanti 80, solo 56 presero parte alla votazione. Il 1º maggio dello stesso anno, in quanto condizione prevista per assumere ufficialmente l'incarico, si iscrive al Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori. Il 27 maggio si insedia ufficialmente al rettorato, tenendo il famoso discorso Die Selbstbehauptung der deutschen Universität ("L'autoaffermazione dell'università tedesca"). Si dimetterà un anno dopo, nel 1934.[/caption]
Per quanto concerne l’economista Carl Schmitt il decisionismo politico rappresentò il superamento di un certo romanticismo in chiave politica. Decisionismo che doveva però poi portare verso una stabilizzazione del Paese, che sarebbe rimasto unito e forte. Anche per questo l’avvento di Hitler rappresentò per il teorico di Plettenberg un’occasione che si rivelò presto sbagliata. Difatti il decisionismo e la concretezza nazista iniziale furono ben accolte da Schmitt per far tornare la Germania un Paese non più indebitato e sconfitto con un alto tasso di inflazione, ma unito e forte. Contrariamente a Heidegger, la tecnica rappresentava uno strumento importante per la buona riuscita di questa nuova società, la quale sarebbe dovuta poi essere guidata con una politica di parsimoniosa neutralità, la quale sarebbe poi servita per consolidare l’aspetto unificato di politica, economia e filosofia. Schmitt poneva l’accento sull’autonomia, nonché il predominio della politica su tutte le altre sfere. Chiaramente le ideologie schittiane erano molto diverse da quelle che aveva in testa Hitler, il quale contrariamente – una volta raggiunto il potere (1933) – ambiva sempre nel non dare mai nessun punto di riferimento, sia politico che militare sulle proprie intenzioni venture: eterno mutamento e stato perenne di provvisorietà. Ciò contrastava fortemente con le convinzioni di Schmitt, di quella neutralità e stabilità tanto ambiti che vedranno nell’inizio del Secondo conflitto mondiale il suo tramonto ideologico.
L’importanza di Freyer si deve alla scintilla ideologica di aver voluto fortemente l’unione inscindibile – all’interno del movimento – della tecnica con l’anima. Tale corrente fece superare le antinomie tra romanticismo e positivismo. Per rendere accettabile al popolo tedesco la tecnica, Freyer iniziò una meticolosa ricerca sulle origini di un pre-capitalismo della Germania, così da unire la tecnica stessa al sentimento di repulsione al capitalismo. Nasce la «reificazione» del sociologo di Lipsia, ovvero la capacità interiore di re-introdurre antiche e archetipe convinzioni sotto forma di nuove e stimolanti ideologie. Il Volk (popolo) diviene così il nuovo protagonista principale di questo nuovo spirito creativo. Esso si opponeva con tutte le sue forze ai processi d’industrializzazione della Germania e voleva pertanto riaffermare il predominio della politica sull’economia. Come scrive Marco Apolloni «Se nell’ideologia della sinistra l’emancipazione dal campo economico si concretizzava con la rivoluzione proletaria, nell’ideologia della destra questo superamento si manifestava con l’affermazione di uno Stato autocratico e verticistico – Volk e Stato, perciò, divennero una cosa sola». Freyer divenne così un “modernista reazionario” ostile di certo alla società che governava allora la Germania.
Forse, nell’antisemitismo che vigeva chiaramente in tutta Europa, negli autori della Rivoluzione Conservatrice, possiamo inquadrare in Sombart il più fiero oppositore del popolo ebraico. Si impone tra i pensatori politici per la denuncia al parassitismo degli ebrei, trovando in essi un autentico capro espiatorio. Il “popolo eletto” secondo l’autore di Falkenstein, aveva dato vita ad un regime economico di strozzinaggio, infiltrandosi capillarmente nei diversi strati della società, paralizzarono l’operosa vita del tedesco. Se per Spengler la colpa dei mali della Germania era del denaro e per Heidegger invece delle macchine, per Sombart non c’era alcun dubbio: tutta la colpa era degli ebrei, i quali divengono i fondatori del capitalismo moderno, il cui risultato più evidente è stato lo sviluppo di una civiltà nichilista, senz’anima. La costrizione secolare ad occuparsi solo di finanza e all’interno di ghetti controllati, per la loro difficile assimilazione nella società, fece sì che potessero essere inquadrati, da tale pensiero, come i veri inventori delle banche e il loro giro d’affari arrivò ad essere tale da estendersi anche ai non ebrei, che sempre più si rivolsero loro per chiedere ingenti somme di denaro, che dovevano poi essere rese con gli interessi raddoppiati.
Il popolo ebraico diviene inoltre molto pericoloso per via della loro teologia disincantata in cui l’uomo è costretto a lottare strenuamente contro le potenze ostili della natura e dove viene posto di continuo l’accento sull’eccezionalità del popolo ebraico in quanto «popolo eletto» dal Signore; per un iper-intellettualismo razionalizzante, che li porta ad eccellere nelle professioni in cui viene premiata l’astuzia – la giurisprudenza, il giornalismo, il teatro e per via anche dell’origine «orientale» del popolo ebraico conteneva già in sé, secondo Sombart, il loro destino è il mercantilismo: il loro nomadismo di creature del deserto li portò a raggiungere terre come la Germania, dove invece vi erano creature della foresta. Mentre le prime erano assai pragmatiche, inclini al mercanteggiare e per ciò stesso prediligevano la quantità alla qualità; viceversa le seconde erano naturalmente predisposte alla speculazione astratta, vivevano in una dimensione magico-onirica e pertanto prediligevano altresì la qualità alla quantità. La loro provenienza dal deserto e la loro notevole dimestichezza col denaro davano al lettore un’idea piuttosto chiara degli ebrei: creature fortemente instabili come il deserto e impalpabili come il denaro. Essi, privilegiando gli aspetti astratto-quantitativi, sostituirono al valore d’uso dei tedeschi per la merce il loro ben più effimero valore di scambio. Perciò ecco qua come per Sombart tra ebrei e tedeschi si stendeva un abisso incolmabile e per ciò stesso lui dirottò gli indistinti sentimenti anti-capitalistici in ben più precisi sentimenti di vero e proprio odio contro gli ebrei. Per Sombart dunque: non la tecnica, bensì il bieco capitalismo ebraico doveva essere sconfitto per assicurare un radioso futuro alla Germania. Il suo auspicio trovò fertile terreno d’incontro con l’ideologia nazionalsocialista. Questa, infatti, tra i suoi piani si prefiggeva: quello di assestare un colpo decisivo al capitalismo mondiale, coltivando al contempo il potente strumento della tecnica moderna: la quale avrebbe fatto rimanere la Germania al passo degli altri paesi, portandola cosicché alla vittoria finale.
Quando arrivò la guerra, dunque, questo movimento ideologico confluì all’interno del nazionalsocialismo e quando anche gli ultimi reticenti, capirono che in qualche modo Adolf Hitler aveva ingannato i loro buoni propositi, l’operazione Valchiria (1944) fu in qualche modo l’ultimo tentativo di questo movimento scomparso di imporsi nuovamente nella storia.
[caption id="attachment_12525" align="aligncenter" width="1000"] Due dei principali volumi sull'argomento. Il primo (Herf) traccia una linea storica e antropologica del periodo; il secondo (Gnerre) reinterpreta tale movimento, traslandolo su princìpi contemporanei.[/caption]
La Rivoluzione Conservatrice dunque è stata una corrente di pensiero nata per continuare il risanamento degli errori irrisolti provenienti dalla Rivoluzione francese e parallelamente un tentativo di rinnovare l’ideologia legata all’industria. L’irrazionalismo e la tecnica formavano per l’ideologia nazionalsocialista un unicum, diversamente dal pensiero degli autori. Quindi si era smarrito il confine tra ideologo e tecnocrate, tant’è che non si comprendeva più il confine tra l’uno e l’altro.
Chiaramente la tecnica, usata ampiamente dai loro “avversari ideologici” anglosassoni, era per così dire giustificata – sotto il nazismo – poiché funzionale al cambio del mondo tanto caro al movimento, ma il mero asservimento alla téchne da parte del partito, e la disillusione militare faranno fuoriuscire i membri della Rivoluzione conservatrice dal sistema politico tedesco degli anni Trenta e Quaranta, forse però, troppo tardi.
Oggi, dunque, nella pienezza di quella crisi del soggetto che fa «splendere di sventura» l’uomo occidentale, cosa rimane? Il nuovo saggio Materiali della rivoluzione conservatrice (2021), scritto dal filosofo e politologo Orazio Maria Gnerre, è stato il tentativo di donare una nuova interpretazione a quel periodo che fu definito dallo storico Jeffrey Herf (1947) “modernismo reazionario”.
I quattro testi contenuti in questo saggio, rappresentano solo l’inizio di una più vasta riflessione: sono l’interpretazione della Rivoluzione conservatrice quale scuola di pensiero geo-storicamente contestualizzata, la formalizzazione di un suo canone di autori, ed il rapporto dei suoi temi e concetti con il pensiero di Marx. Ai concetti già espressi in precedenza sul filone anti-moderno per eccellenza, Gnerre ha segnato una nuova via ideologica, una sua nuova interpretazione che non passa solo dal binomio - tanto controverso nei termini - di “rivoluzione” e “conservazione”, ma la sua scintilla ideologica si instaura sui princìpi tratti dall’eternità della storia occidentale, come la natura fondamentale dell’uomo; la preservazione del senso, propriamente inteso umano e l’analisi filologica sulla preservazione del linguaggio e della sua forma.
Questi pochi concetti elencati sono espressi dall’autore per risolvere quella “crisi del soggetto” che ha visto crollare sia la religione, sia la società dei ceti, che quella delle appartenenze organiche. Oggi più che mai occorre un ritorno a quella che Gnerre definisce “una necessità di autenticità ed essenzialità”, per scongiurare la jüngeriana frase in cui «gli altari in rovina sono abitati da demoni».
 
 
Per approfondimenti
_Herf Jeffrey, Il modernismo reazionario - Tecnologia, cultura, politica nella Germania di Weimar e del Terzo Reich, Il Mulino, Bologna, 1988;
_Mann Thomas, Considerazioni di un impolitico, Adelphi, Milano, 1997;
_Jünger Ernst , L'operaio - Dominio e forma, Guanda, Parma, 2020;
_Spengler Oswald, Il tramonto dell'occidente - Lineamenti di un morfologia della storia mondiale, Longanesi, Milano, 1957;
_Gnerre Orazio, Materiali - Reinterpretare la rivoluzione conservatrice, Editoriale Librai, Napoli, 2021.
_Benoist Alain de, Quattro figure della Rivoluzione Conservatrice tedesca. W. Sombart, A. M. van den Bruck, E. Niekisch, O. Spengler, Controcorrente, Napoli, 2016;
_Feinmann José Pablo, L'ombra di Heidegger, Neri Pozza, 2007;
_Sombart Werner, Gli ebrei e la vita economica, AR, Avellino, 1989.
 
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1632739094833{padding-bottom: 15px !important;}"]59°incontro DAS ANDERE[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]Architettura e tradizione. L'architettura come senso di appartenenza. Pier Carlo Bontempi[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1632740086302{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Sabato 25 settembre 2021, presso la Sala dei Savi di Palazzo dei Capitani del Popolo (Piazza del Popolo) in Ascoli Piceno è andato in scena il 59°incontro dell'associazione culturale onlus Das Andere. L'evento ha visto la presenza dell'architetto Pier Carlo Bontempi, il quale ha presentato la sua Lectio Magistralis incentrata su "Architettura e Tradizione. L'architettura come senso di appartenenza".
La tematica introdotta dalla Vice-Presidente Francesca Angelini e moderata dall'arch. Giuseppe Baiocchi ha visto la presenza del consigliere regionale Andrea Maria Antonini e del consigliere comunale Avv. Emidio Premici. L'associazione ringrazia anche la nuova presidente dell'Ordine degli Architetti di Ascoli Piceno Paola Amabili per il patrocinio legato allo stesso ordine che ha visto in rappresentanza il consigliere Arch. Luciano Spinozzi.
Pier Carlo Bontempi ha riflettuto sull'architettura contemporanea rivelando le sue criticità odierne legate al completo abbandono dello studio dei luoghi, del decoro architettonico e degli elementi legati a metrica e bellezza. Bontempi riprendendo con grande maestria i trattati classici che hanno dettato le regole della civitas occidentale ha mostrato al nutritissimo pubblico presente il virtuosismo ingiustificato di alcuni manufatti edilizi, sviscerando l'errore di pensiero che si cela dietro opere che nulla hanno a che fare con la funzione e la tipologia che li riguarda. Particolare attenzione è stata data anche ai suoi lavori: edifici vernacolari o classici, ancorché di nuova costruzione, presentati spiegando la loro archè e la loro techne.
 
 
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1630337175898{padding-bottom: 15px !important;}"]Peter Altenberg (Richard Engländer) e la poesia del frammento[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Giuseppe Baiocchi del 30-08-2021[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1630339646990{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Per chi si reca nel famoso Cafe Central di Vienna, vicino all'ingresso, scorgerà una tipica statua che i viennesi - i pochi che si recano ancora al caffè turistico per eccellenza - conosco oramai bene, anche se mal fatta. Ebbene l'opera  rappresenta un personaggio, che spesso sconfina nella leggenda: il poeta Peter Altenberg. Analizzando più approfonditamente Richard Engländer, siamo davanti ad uno scrittore molto particolare, che raramente si ha il piacere di leggere. Calvo, dai baffi spioventi alla slava, si presentava leggermente trasandato e possedeva molte amicizie discutibili: dai letterati ai camerieri, fino alle prostitute.
[caption id="attachment_12484" align="aligncenter" width="1000"] Peter Altenberg nella cittadina di Gmunden nell'Alta Austria. Dall'inizio degli anni 1880, la famiglia Engländer si reca per le vacanze estive nel Salzkammergut, principalmente a Ischl, che divenne Bad Ischl solo nel 1907. Il figlio maggiore Richard, che poi si fa chiamare Peter Altenberg come scrittore, rimane fedele al Salzkammergut per tutta la vita - il suo posto preferito è Gmunden. Molti dei suoi schizzi e scene poetiche trattano esplicitamente o implicitamente esperienze e osservazioni in questo paesaggio e contengono tutte le sfaccettature dell'opera di Altenberg: la densità poetica con cui sa dipingere le persone come paesaggi in piccole istantanee, la tendenza all'"idealizzazione kitsch" o il pathos vuoto con cui getta i suoi giudizi sul calpestio dei segni di punteggiatura selvaggi, e la sua dubbia tendenza alla pedofilia.[/caption]
Di contro, se il lettore dovesse pensare ad un individuo burbero e rissoso, rischierebbe di commettere un macroscopico errore: Richard era una di quelle persone dalla calma frizzante, parsimonioso, buongustaio e scrupoloso come ogni vero viennese.
Nell’ambiente austriaco, prese uno pseudonimo particolare: Peter Altenberg, nome che identificava la donna di un suo antico amore – non corrisposto – e il cognome da una cittadina viennese sul «bel danubio blu»; entrambi retaggi della sua memoria.
Altenberg elabora una nuova modalità di leggere la realtà. Innanzi tutto egli si considerava un’osservatore, più che uno scrittore: difatti la sua vita rispecchia quella che Musil definiva l’esistenza di un «uomo senza qualità», ovvero un individuo di talento, ma che mal riusciva ad esprimersi in un singolo settore, per ritrovarsi alla soglia dei quarant’anni senza lavoro, né obiettivi.
Proprio per tale esistenza di «genio senza capacità», egli plasmerà la forma letteraria dell’effimero, del frammento, di quello che Adolf Loos affermava essere unicamente «un nuovo modo di vedere».
In una Vienna che si dibatteva tra lo storicismo architettonico e lo Jugendstil, Peter Altenberg – insieme ad altri pochi amici coraggiosi, come lo stesso Loos e Kraus – tenta una sintesi letteraria composta di attimi, di immagini di vita, che può essere vista come una delle varie forme di nichilismo europeo, ma che non avviene nell’immediato, ma per fasi.
Fu proprio il congedo con tale realtà impregnata nell’ornamento – simbolo di un ideale defunto – a far sì che Altenberg si legasse alle teorie architettoniche rivoluzionarie di Adolf Loos, che «parlando nel vuoto» esprimeva concetti di essenzialità.
Nella prima fase di componimento, il viennese sembra avere più tatto e sensibilità anche nella forma e lo si denota dalle opere Wie ich es sehe (Come la vedo io) e Ashantee; di contro il suo ultimo periodo, dopo Pròdrŏmŏs, denota un aumento di esasperazione nelle immagini proiettate su carta, per arrivare fino all’amara rassegnazione.
Figlio di un commerciante ebreo della media borghesia, Engländer dopo aver fallito per diverse volte il suo percorso di studi, ebbe come unico credo l’autenticità del proprio Io e intraprese un’esistenza fatta di alcolismo e stravaganza geniale.
Fu solo grazie a Karl Kraus che l’editore berlinese Samuel Fischer (1859 - 1934), pubblicò nel 1896 Wie ich es sehe (Il mio modo di vedere) che gli conferì un suo primo iniziale successo. Lo stesso Peter Altenberg, nel 1901, dirà di se stesso: «Sono forse poesie le mie piccole poesie le mie piccole cose? Niente affatto. Sono estratti! Estratti di vita. La vita dell’anima, così come quella di ogni giorno concentrata in due o tre pagine, liberata dal superfluo […] Io amo il metodo abbreviato! Lo stile telegrafico dell’anima! Vorrei descrivere un uomo in una frase, un’esperienza dell’anima in una pagina, un paesaggio in una parola! Punta, artista, mira fa’ centro! Basta».
[caption id="attachment_12487" align="aligncenter" width="1000"] Peter Altenberg nel 1907 al Cafe Central viennese. Così Alfred Polgar citò lo storico caffè: "Un vero centralista, chiuso nel suo caffè, ha la sensazione di essere scacciato nel mondo duro, esposto a strane coincidenze, anomalie e crudeltà dell'ignoto". “Café Central si trova al di sotto della latitudine di Vienna, sul meridiano della solitudine. I suoi abitanti sono principalmente persone la cui misantropia è forte quanto il desiderio di persone che vogliono stare da sole, ma vogliono anche compagnia mentre lo fanno”.[/caption]
L’autore si rende perfettamente conto della fine imminente dell’Impero, di quella società e di quella civiltà. Così si congeda dal tradizionale aforisma poetico o letterario, per crearne un altro fatto delle decantate «piccole cose»: una letteratura del «non detto», dove l’ermetismo di senso, risiede propriamente nel silenzio, vero significato profondo della vita.
È lo stesso filosofo Massimo Cacciari (1944), nel suo Krisis. Saggio sulla crisi del pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein del 1976, che riflettendo su Altenberg lo apostrofa come: «Esasperata autoriflessione […] coscienza dei limiti invalicabili del linguaggio, ma è anche consapevolezza del proprio fallimento e della propria impotenza, convinzione di essere ormai approdato al limite del dicibile». Talento straordinario in perenne crisi con se stesso, il frammento (l’estratto di vita) rappresenta la verità della tradizione, uccisa dalla sovrastruttura del kitsch.
Sempre nel 1901 scrive Was der Tag mir zuträgt (Ciò che mi porta il giorno), dove si renderà conto perfettamente del suo fallimento nell’ideale di mutare la società che lo circonda. Quattordici anni dopo, lo stesso Altenberg asserì: «Nei miei libri, per quanto si sia in grado di leggere fra le righe, è descritta l’eterna, terribile lotta fra tutto ciò che è e come invece dovrebbe essere».
 Il viennese si pone così, nei primi del Novecento, in tono eroico: crede e spera che esista ancora la possibilità di poter istruire e risvegliare l’uomo dalla non-autenticità di fine Ottocento e la sua stoica opposizione si baserà principalmente sulla sua esistenza, composta dal valore della tradizione.
L’uomo può essere scosso, unicamente tramite un forte colpo dei sensi, che avviene tramite l’aforisma. Ma la fine degli anni dieci del Novecento, saranno per Peter Altenberg pesantissimi, per via del tracollo finanziario del fratello, il quale gli donava una cospicua somma – fondamentale – per lo scrittore.
[caption id="attachment_12488" align="aligncenter" width="1000"] Peter Altenberg si trova ancora oggi al Café Central, anche se solo come una figura di cartapesta. Si siede vicino all'ingresso, lanciando uno sguardo piuttosto cupo, ma curioso sugli ospiti mentre arrivano.[/caption] Entrato in crisi depressiva, la quale aggravava la situazione precaria del suo alcolismo, l’autore si somministrerà ingenti quantitativi di barbiturici, che condurranno Richard Engländer al manicomio, dove sarà «salvato» solo dall’amico Loos. Piegato su se stesso, muterà la sua letteratura, che sarà unicamente rivolta verso il suo passato. Arriviamo così a Märchen des Leben (Favole della vita), ultimo manifesto della lotta contro «l’incanto» di una società in piena crisi spirituale, economica e sociale. Le sue ultime produzioni, dal 1909 al 1913 seguono tutte l’elemento unificatore del ricordo e della memoria e in conclusione la sua opera del 1915 Fechsung (Racconto) attuerà la definitiva rassegnazione della sconfitta di una guerra ormai perduta contro la società – la stessa che successivamente l’Impero dell’Austria-Ungheria perderà militarmente. Lo scrittore del Cafe Central di Vienna , si renderà conto, così, dell’inutilità della lotta, che lo porterà ad un isolamento all’interno di quella che il britannico Isaiah Berlin definì, nel suo Quattro saggi sulla libertà, come la chiusura all’interno della propria «cittadella interiore». Così, per citare Giuseppe Farese (1933): «L’invalido della vita, costretto per sopravvivere a mostrare a se stesso e agli altri che in lui «arde la favilla», può appunto produrre soltanto «campioni senza valore»; e tuttavia proprio in quei campioni che noi leggiamo il «vuoto dei valori» del suo tempo; il grazioso specchietto di Altenberg riflette l’Austria che tramonta».
Per approfondimenti
_Giuseppe Baiocchi, Finis Austriae. Sul tramonto dell'Europa, Il Cerchio, 2017, Rimini;
_Peter Altenberg, Favole della vita, Adelphi, 1981.
_Cacciari M., Krisis, Saggio sulla crisi del pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein, Adelphi, 1976, Milano.
 
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1625322578905{padding-bottom: 15px !important;}"]La svastica sull’arcobaleno: l’imposizione gender[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Giuseppe Baiocchi del 03-07-2021[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1630339382314{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
I media ci bombardano di propaganda: bisogna preoccuparsi non perché siamo negli anni Trenta in Germania, ma perché siamo nel 2021 in Italia. Reclame televisive, film, cartoni animati, pubblicità, spot istituzionali per le Pari Opportunità ci impongono l’accettazione di un mondo lgbt: lo vediamo anche nei numerosissimi loghi delle ditte, che inseriscono la bandiera arcobaleno sui loro brand, lo vediamo oramai anche nello sport, in particolare negli europei di calcio 2021, dove alcune squadre hanno fatto indossare al capitano la fascia color arcobaleno.
Oggi il disegno di Legge promosso dal parlamentare del Partito Democratico Alessandro Zan, abbreviato Ddl Zan, è bloccato dalla Commissione Giustizia al Senato.
Il nome tecnico del Disegno di legge è “Misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità”. Sostanzialmente l’idea è quella di inasprire pene e sanzioni per i casi di violenza e discriminazione per motivi di genere, sesso, disabilità e orientamento sessuale. L’inasprimento delle pene e un nuovo quadro normativo servirebbero – nelle intenzioni – a tutelare maggiormente queste persone. Con il Ddl Zan si chiede l’istituzione di nuovi reati e di una giornata nazionale contro le discriminazioni. La data indicata è quella del 17 maggio. Non solo. Si chiede anche che vengano stanziati quattro milioni di euro destinati alla promozione di iniziative contro la violenza e la discriminazione.
Questo Disegno di Legge crea una vera e propria categoria, poiché crea un effetto propulsivo, moralizzatore, cerca di imporre un’ideologia. I disabili, inseriti inizialmente in questa proposta di legge, negli articoli più importanti dei media si sono per così dire “evaporati”.
In Italia esiste la Legge Mancino del 25 giugno 1993, n. 205: un atto legislativo della Repubblica Italiana che sanziona e condanna frasi, gesti, azioni e slogan aventi per scopo l’incitamento all’odio, l’incitamento alla violenza, la discriminazione e la violenza per motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali. La legge punisce anche l’utilizzo di emblemi o simboli. Dunque perché un’ulteriore legge discriminatoria proprio per gli omosessuali, che inasprisce pene, che non dovrebbero essere inasprite: se i gay sono uguali a tutte le altre persone, perché non possono rientrare all’interno della Legge Mancino? Se un violento picchia una persona ottuagenaria, perché deve prendere una pena minore, rispetto all’aver picchiato un omosessuale? L’anzianità e la fragilità dei nostri anziani ha meno dignità di quella dei gay? Proprio sull’essere contro-natura (ovvero non procreare organicamente vita) deve essere la base del nostro pensiero. Nessuno deve dileggiare, perseguitare e/o offendere un omosessuale, ma non può passare il messaggio che il non produrre vita sia una prassi normale o normalizzante, poiché non lo è. Difatti il mondo lgbt vuole dividere, in maniera organicamente errata, l’ideologia (credere nella riproduzione e nella vita) e la stessa biologia (l’atto naturale di crearla): non a caso il ddlzan è pienamente ideologico. 
Anche il Vaticano si è espresso circa il disegno di legge del Ddl Zan effettuando un intervento, basandosi sull’art.7 della Costituzione e gli articoli 1-2-3 del Concordato che rarifica i rapporti tra Stato italiano e Chiesa. Sostanzialmente in tali articoli si afferma come bisogna vivere in un rapporto di “libera chiesa in libero stato”. Ma l’art.7 afferma con esattezza come lo Stato italiano – e non viceversa – abbia voluto iniziare dei rapporti con la Città del Vaticano: dunque un riconoscimento dell’alto valore sociale che la Chiesa detiene nel nostro Paese, per i valori che esprime, per l’assistenza ai meno abbienti, per la cultura e per sfamare le anime. Essendo state stabilite regole e norme, in qualsiasi momento una delle due parti può revocare tale accordo bilaterale. Dal momento che lo Stato italiano decide di revocare il patto Stato-Chiesa, non può farlo con una legge ordinaria, ma con una costituzionale: solo in tale modo si potrebbe modificare o recedere tale intesa. Bisogna tenere presente che gli articoli 1 e 7 del Ddl Zan sono gravemente lesivi delle fondamenta sulla quale si fonda la visione della vita della Chiesa Cattolica. Di fatti se toccato, anche, da un punto di vista teologico, Gesù Cristo non poteva essere pro lgbt – come spesso ostentato durante i vari gay pride, nella totale mancanza di rispetto verso una religione maggioritaria del Paese -, per il semplice fatto che nel suo depositum fidae, scritto nel magistero della chiesa, parla di un peccato mortale molto grave dell’uomo, quello di sodomia. Inoltre se un gay pratica la sodomia, un trans ha il doppio peccato di non aver accettato la natura che Dio gli ha dato. In tutto questo movimento, vi è un elemento che rende il tutto non normale (dato che l’archetipo del mondo lgbt si basa sulla normalità): la mancata produzione della vita. Gesù proclama la vita organica tra un uomo e una donna, poiché essi creano una famiglia, procreando un figlio (TRINITÀ).
[caption id="attachment_12452" align="aligncenter" width="1000"] Il 26 giugno 2021, in via della stazione di San Pietro, a pochi metri dalla Santa Sede, è apparsa una nuova opera della "Street Artist" Laika, personaggio misterioso che imbratta le pareti delle case romane, che ritrae due guardie svizzere in atteggiamento romantico con un cuore arcobaleno sullo sfondo.[/caption]
Quando si creano dunque delle condizioni di parziale attrito, bisogna costituire una commissione paritaria che dovrà discutere sul merito delle questioni. Una legge, quella del Ddl Zan lacunosa e mal scritta: il legislatore deve descrivere la Legge, non darne la definizione culturale, poiché non deve definire che cosa è il sesso, il genere o l’orientamento sessuale (questo semmai è un compito culturale, che spetterà alle agenzie pro-lgbt). Difatti l’art.1 del Ddl Zan esibisce subito la definizione ed è per questo che il disegno di legge è pericoloso: il comma d dell’art.1 definisce che cos’è l’identità di genere “identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione”! Dunque il significato tradotto di tale espressione è la seguente: se una persona maschile si percepisce femmina, deve essere trattato da donna e dunque possiede tutti i diritti che avrebbe un essere femminile, il tutto senza aver nemmeno effettuato un percorso di transizione. In alcuni Stati esteri, dove questo disegno di legge è stato approvato, abbiamo delle esperienze interessanti, poiché tali nazionalità stanno compiendo una marcia indietro. Il Regno Unito dal 1992/93, in nomi e forme diverse, ha approvato la sostanza di questa nostra legge e stabilì il self identification, ovvero l’identificazione dichiarata della propria percezione sessuale senza affrontare eventuali esami medici. Dunque cosa è accaduto? Che nelle Chiese protestanti, alcuni monaci maschi – percependosi donne – pretendevano di recarsi nei conventi femminili delle monache; oppure nello sport uomini i quali – percependosi donne – gareggiavano nelle competizioni femminili, stravincendo le gare.
In Inghilterra una donna di 23 anni di nome Keira Bell sta intraprendendo un’azione legale contro una clinica di genere del NHS affermando che avrebbe dovuto essere contestata di più dal personale medico per la sua decisione di passare durante l’adolescenza, al sesso maschile. Così a Londra è arrivato uno stop definitivo alla riforma del Gender Recognition Act, dove veniva chiesto di ammettere il cosiddetto 'self-id' o autocertificazione di genere: in parole povere la possibilità per chiunque di decidere in totale libertà a quale genere appartenere, a prescindere dal proprio sesso biologico e senza alcun atto medico, diagnosi, perizia o sentenza (esattamente quello che il ddlzan – art.1 - vuole attuare). Il governo britannico ha recentemente ribadito che il Gender Recognition Act va benissimo così com’è, quindi che la transizione deve continuare a essere accompagnata e certificata da esperti. Altra stoccata dei britannici al ddlzan arriva sul fronte educativo: dalla fine di settembre 2020 il Dipartimento inglese per l’Educazione ha definitivamente bandito dalle scuole statali ogni formazione sulla cosiddetta identità di genere. Si è riconosciuto infatti che quella formazione rafforza, anziché demolire, gli stereotipi di genere, ed è stata dichiarata pericolosa per i minori. Le nuove linee guida stabiliscono che «non si possono rafforzare dannosi stereotipi di genere per esempio suggerendo che i bambini potrebbero appartenere a un genere diverso basandosi sulla loro personalità, sui loro interessi, sui vestiti che preferiscono indossare». In Italia rischieremmo di vedere alcune bimbe all’interno di uno spogliatoio femminile - in una data palestra -, cambiarsi insieme ad un uomo che si percepisce donna. Qualora il genitore di queste due bimbe si recherebbe a protestare con il proprietario della palestra, quest’ultimo non solo potrà rivendicare il permesso e il diritto di quell’uomo di spogliarsi davanti a due bambine, ma addirittura il genitore potrà essere accusato di omo-trans-lesbo-bi-fobia, poiché va a discriminare quell’uomo che si sente donna – che non ha fatto il percorso di transizione – che si spoglia davanti ai suoi figli. Difatti la vera differenza tra genere e sesso, sta che nel primo vi è una costruzione ideologico-mentale dell’uomo, mentre nel secondo si ha una natura organica la quale può suddividersi unicamente in maschio e femmina, non nei 58 generi “percepibili”. Dunque, possiamo tornare al richiamo del Vaticano circa l’art.7 del DDLZAN, poiché tale articolo, oltre a stabilire istituzionalmente la giornata lgbt, stabilisce anche che in tale giornata “devono essere organizzate cerimonie, incontri e altre iniziative da parte delle amministrazioni pubbliche e in particolare della scuola”: ciò vuol dire che nella scuola dovranno essere effettuati dei corsi di preparazione per la giornata dell’omotransfobia, dove i bambini vengono educati a dire che il sesso è un elemento biologico che ha poco valore al giorno d’oggi, poiché il massimo valore risiede nella scelta dell’identità di genere. L’imposizione invece di coinvolgere l’amministrazione pubblica risiede nell’obiettivo di poter poi spammare pubblicità lgbt in tutti i luoghi pubblico-istituzionali, come le ferrovie, aziende sanitarie, poste italiane, gli aeroporti, i municipi ed altre strutture di carattere istituzionale: sarà tutto consentito, poiché tutti devono essere educati all’identità di genere, compresa la stampa e i giornalisti, che perderebbero così uno dei diritti fondamentali della loro professione: la libertà di espressione in coscienza. Non si potrà più scrivere omosessuale, né femmina, ma si dovrà arrivare a scrivere “persona che mestrua”. Questo è indottrinamento ideologico, paritario alla propaganda del ministro del partito nazionalsocialista Paul Joseph Goebbels (1897 - 1945). In Italia ricordiamo tutti gli anni del 1925-26, nei quali sono state scritte le leggi fascistissime, la mistica fascista, dove non si poteva dire nulla che non fosse assolutamente in linea con quello che – ad oggi – il pensiero unico imponeva. Oggi non si vuole più usare l’olio di ricino e il manganello, ma il reato penale. Affermare, passato il ddlzan, che l’utero in affitto è pratica abominevole, comporterà una condanna dai 4 ai 6 anni, con tutte le penali aggiuntive come il ritiro del passaporto, l’impossibilità di lasciare il Paese, intercettazioni ambientali-telefoniche.
Bisogna dunque riporre al centro del dibattito la questione antropologica. Papa Benedetto XVI nel suo Caritas Veritatae, con un’argomentazione profondamente laica, affermò come la questione sociale sia radicalmente una questione antropologica. Difatti una certa cultura, in questi anni, ha lavorato per confondere, per dividere: si ricordi ad esempio la legge sulle Unioni Civili. Non a caso i padri costituenti alla nascita della Repubblica italiana, nell’art.3 scrissero come “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Oggi si è messo in dubbio l’uomo stesso, la sua definizione, poiché si è fatto piovere una serie di contaminazioni dentro un’ideologia che sta diventando sempre più pericolosa e che sarà sulle spalle delle future generazioni. Dunque con l’imposizione della legge penale (non civile) lo Stato italiano – utilizzando risorse economiche e sfruttando tutte le sue strutture – avrà il compito, secondo il ddlzan, non di orientare e mettere a confronto le persone, ma di imporre questa ideologia. Oltre la loro ideologia non vi possono essere altri pensieri, poiché o ci si adegua, oppure si va nel penale, colpendo così il pensiero dai contorni facili: “vengono colpiti gli odiatori”, ma chi sarebbero questi odiatori? Coloro che hanno un pensiero diverso da questa ideologia? Di contro tutti noi dobbiamo tornare liberi e forti interiormente e non essere schiacciati dal fango che ci verrà buttato addosso dal sistema Europa, il quale già da anni ha adottato di imporre questa politica lgbt/gender. Introdurre reati di opinione è qualcosa di terribile, in primis perché chi sarà a definire che quella frase espressa può creare discriminazione? Si lascerebbe ai giudici un’eccessiva discrezionalità in materia; inoltre vi è un articolo della Costituzione che afferma che il reato penale diviene tale per un fatto e non per un’idea. Bisogna dunque iniziare a capire cosa sarà vietato e cosa non sarà vietato: non si può rimanere sul relativismo, poiché è in gioco la libertà di espressione di ogni singolo cittadino ed anche il diritto fondamentale – garantito dalla costituzione – in cui ogni genitore, papà e mamma, ha il diritto di educare il proprio figlio. In politica il partito Democratico e il Movimento 5 Stelle, portano avanti questo disegno di Legge, addirittura proponendo anche la rimozione dell’ora di religione, sostituita dall’orientamento lgbt. Per paradosso esiste un mondo femminista che è contrario, un mondo comunista che è contrario, un mondo radicale che è contrario e c’è un mondo filosofico progressista contrario; oltre chiaramente al già citato Vaticano, il quale operando quella nota, si è fatto interprete di milioni di famiglie cattoliche italiane che sono molto preoccupate per l’educazione dei loro figli, per quello che potrà avvenire nelle scuole cattoliche private e paritarie. La metodologia utilizzata dal Vaticano è stata una nota riservata, che qualcuno ha pensato bene di fare uscire. Una nota messa per iscritto che non doveva essere pubblicata. Molte difatti sono le denunce dei genitori per quello che accadeva nelle scuole, ossia che le associazioni lgbt entravano nei plessi scolastici con la scusa della lotta al bullismo per poi fare dei veri e propri corsi di ideologia gender, dove ogni bimbo non doveva sentirsi maschio o femmina, ma poteva scegliere cosa diventare.
Cambierà anche la terminologia: non si potrà più parlare di “utero in affitto”, ma di “gestazione per altri”; come oggi non si parla più di aborto, ma di “interruzione volontaria di gravidanza”: delle belle parole come un lupo travestito da pecora. Parole che celano un imbarbarimento dei costumi della società occidentale, sempre più “barbarizzata” in nome dell’amore, termine che insieme alla “democrazia” viene sempre più abusato per ogni genere di scopo. Ma perché tutto questo? Perché l’Europa ha scelto di affidarsi alle grandi aziende del Capitale, le quali – per mero marketing – portano avanti l’ideologia lgbt, dove il ddlzan – come affermato dagli organizzatori del Pride di Milano – è solamente il primo di una serie di passaggi, come la modifica della Legge 40 per la realizzazione dell’utero in affitto, l’adozione delle coppie omosessuali e il matrimonio egualitario. Vi sono intellettuali, non a torto, che vedono anche in questa ideologia un manifestarsi del così detto uomo androgino, di una certa matrice massonica, oppure se vogliamo osservare il tutto da un lato religioso cattolico, l’incarnazione dell’anti-Cristo, della bestia, la quale ha entrambi i sessi: difatti Bafometto, uno dei diavoli che insieme a Lucifero si rivoltò contro Dio, possiede entrambi i sessi e viene adorato da diverse chiese sataniste, stesso satanismo considerato oggi dall’Europa odierna una mera religione come tutte le altre (relativismo).
Al di là di come la si ragioni, quale sembrerebbe l’obiettivo finale di questo movimento? La distruzione della famiglia tradizionale per come noi oggi la intendiamo (uomo-donna-figlio). Difatti la famiglia appare essere l’ultimo baluardo – come afferma Jacopo Coghe, portavoce di Pro Vita famiglia –, contro questa società secolarizzata, schizofrenica, che l’Europa rappresenta pienamente con il trio politico di Macron-Merkel-Draghi. Un padre e una madre sacrificano la propria vita per un figlio gratis, senza chiedere in cambio nulla: contrariamente il capitalismo preferisce avere delle persone singole, manipolabili, sradicate dalla propria tradizione, dalla propria cultura, dalla propria identità e dal proprio vissuto, poiché l’individuo viene visto come un mero consumatore (nasci-consumi-muori). Dunque bisogna in un certo modo, soprattutto, osservare al di là della siepe chiamata ddlzan, poiché la famiglia, perno anche della Chiesa Cattolica, è messa fortemente in pericolo da questa proposta di legge. Il mainstream, ovvero il pensiero prevalente diffuso dai media, segue chiaramente questa logica, poiché inserendo nel logo della propria azienda, la bandiera arcobaleno, ha una maggiore visibilità e vende di più, poiché personaggi noti al mondo dello spettacolo ne hanno fatto un vero e proprio guadagno di mercato. Certamente abbiamo degli esempi di aziende che si sono apposte a questa ideologia e sono state punite: il 2013 è stato l’anno del caso Barilla: la dichiarazione del CEO Guido Barilla durante la trasmissione radiofonica La Zanzara (“non faremo pubblicità con gli omosessuali”) scatenò un polverone mediatico che obbligò l’azienda a porre le proprie scuse. Quell’anno lo ricorderemo certamente tutti per la presa di posizione da parte di numerose aziende concorrenti a suon di hashtag #boicottabarilla corredati da immagini e spot gay friendly. Tra queste aziende, ci fu Garofalo con il celebre motto «a noi non importa con chi la fai. L’importante è che la fai al dente»! Ed in tutto questo è triste osservare come la sinistra abbia attualmente un vero e proprio scollamento dalla realtà. Il mondo progressista, invece di tornare a proteggere la fascia meno abbiente della popolazione, si sforza di inseguire dinamiche astratte, proprio per la mancanza di realtà e vicinanza allo stesso popolo, cavallo di battaglia della sinistra ai tempi di Pasolini e Berlinguer. In un Paese in cui molte famiglie non riescono ad arrivare alla fine del mese, in un periodo di pandemia, un governo non eletto propone una legge divisiva, pericolosa e sostanzialmente inutile, non avendola inserita nemmeno nella loro agenda di governo delle ultime elezioni, che il mondo progressista perse sonoramente. Siamo ancora in una democrazia?
Non sappiamo se in Italia possa ancora vigere uno stato democratico, ma sicuramente in Europa Polonia e Ungheria rappresentano ancora – tramite libere elezioni – una fiamma di speranza per l’autodeterminazione dei popoli: per questo l’Europa ha sanzionato l’Ungheria dopo le recenti leggi emanate, grazie alla maggioranza parlamentare, a Budapest. Chi non si conforma ad un pensiero unico, creato da un élite minoritaria deve essere dileggiato e oscurato. Che diritto ha l’Europa ad imporre ad uno stato la teoria Gender? Che ricordo, appunto, trattasi di teoria e non di verità assoluta. Ebbene nessuno. Un popolo deve essere libero di accettare o non accettare le proposte di una comunità, senza essere discriminata e sanzionata. Questo è il nuovo nazismo e come negli anni Trenta, nessuno se ne rendeva conto e tutti sbandieravano le bandierine con la svastica. Oggi la svastica ha cambiato colore e ha tinte arcobaleno. La politica ungherese, deve essere rispettata perché votata (a differenza nostra) dal popolo tramite libere elezioni. Se così non fosse l’Ungheria sarebbe già stata espulsa dall’Unione da tempo. Le leggi di Orban sono l’esatta nemesi di quello che l’Europa sta cercando (nel vero senso della parola) di imporre a tutti gli stati membri. Ciò è una dittatura ideologica. Non solo: di recente dodici paesi d’Europa hanno firmato un attacco nei confronti del presidente Viktor Mihály Orbán (1963) proprio per la suddetta legge citata pocanzi, uno scritto che prevede la lotta al contrasto alla pedofilia, il primato educativo dei genitori nelle scuole e che in nessuna scuola della Repubblica Ungherese debbano essere insegnate teorie che vanno contro la norma della sessualità biologica. Questa legge è stata interpretata come discriminante, in contrasto con il Trattato di Maastricht (1992) che fondò l’idea che tutti i cittadini dell’Europa sono uguali. L’Italia inizialmente non aveva firmato questa lettera, poi magicamente la venuta in Italia del presidente della Commissione Europea Ursula Gertrud von der Leyen (1958), ha “convinto” Mario Draghi ad apporre la firma sul documento, ponendo al primo Ministro Italiano – come ringraziamento – un prestigioso riconoscimento internazionale.
[caption id="attachment_12453" align="aligncenter" width="1000"] Sedici capi di Stato e di Governo dell'Unione europea, tra cui il presidente del Consiglio, Mario Draghi, hanno scritto una lettera ai vertici dell'Ue (presidenti di Consiglio europeo, Commissione e Consiglio Ue) per riaffermare il loro impegno per la difesa dei diritti Lgbti. In particolare si impegnano a "continuare a combattere la discriminazione nei confronti della comunità Lgbt, riaffermando la nostra difesa dei loro diritti fondamentali". L'iniziativa non menziona esplicitamente la legge varata di recente da Budapest, ma arriva prima del vertice Ue, dove sarà sollevato il tema. La lettera di Draghi e altri 15 leader europei parla chiaro: "Per discriminazione e odio non c'è posto nell'Ue". Quindi una vera e propria imposizione legislativa verso tutti i paesi, ma in nome di cosa? E di quale fantomatico "diritto superiore"?[/caption]
Tornando al nostro paese, non possiamo, non dobbiamo, non vogliamo accettare una legge egoistica, edonistica e relativista che pensa che attraverso una legge si possano esaudire i propri desideri. Mi piace concludere questo scritto con una grande citazione di Gilbert Keith Chesterton (1874 - 1936) dal suo capolavoro Eretici del 1905: «La grande marcia della distruzione intellettuale proseguirà. Tutto sarà negato. Tutto diventerà un credo. È una posizione ragionevole negare le pietre della strada; diventerà un dogma religioso riaffermarle. È una tesi razionale quella che ci vuole tutti immersi in un sogno; sarà una forma assennata di misticismo asserire che siamo tutti svegli. Fuochi verranno attizzati per testimoniare che due più due fa quattro. Spade saranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate. Noi ci ritroveremo a difendere non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Combatteremo per i prodigi visibili come se fossero invisibili. Guarderemo l’erba e i cieli impossibili con uno strano coraggio. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto»1.
 
Per approfondimenti
_Chesterton G. K., Eretici, Lindau, Torino, 2010, pp. 242-243
 
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1624184475082{padding-bottom: 15px !important;}"]
Il guascone di Fougères: il marchese de la Rouërie, eroe dei due mondi
[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Giuseppe Baiocchi del 20-06-2021[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1624191961407{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Rivale di La Fayette e di Lauzun, precursore di La Rochejaquelein, il marchese de La Rouërie aveva più ingegno di loro: si era battuto più spesso del primo; aveva rapito delle attrici all’Opéra come il secondo; sarebbe diventato compagno d’armi del terzo. In Bretagna, frugava i boschi in compagnia di un maggiore americano e di una scimmia seduta sulla groppa del cavallo. Agli studenti di diritto di Rennes piaceva, perché era ardito nell’agire e libero nel pensare: era stato uno dei dodici gentiluomini bretoni rinchiusi nella Bastiglia. Aveva corporatura e modi eleganti, un’aria audace, un volto affascinante, e somigliava ai ritratti dei giovani signori della Lega. Queste poche righe, del letterato francese R. A. de Chateaubriand (1778 - 1848), possono inquadrare bene lo spirito di quest'uomo, dalla vita incredibile.
[caption id="attachment_12425" align="aligncenter" width="1000"] Jean Fréour, Statua della Rouërie (1993) - Fougères, Ille-et-Vilaine, Bretagna, Place Aristide Briand (Square des Fusillés),[/caption]
Per capire quanto perse la Francia durante le guerre di Vandea (1793-95-99-1815), è bene conoscere gli uomini singolarmente, tentare di tracciare – per quanto difficile – un percorso di completezza ad un periodo storico complicato. Tra i diversi generali, sicuramente un posto speciale merita il marchese de la Rouërie (1751 - 93). In un secolo generoso di grandi destini, pochi uomini avevano conosciuto tanta gloria e tanta disperazione, tanta elevazione e tanta umiliazione che questo signore bretone. Il bicentenario dell’indipendenza americana ha portato gli storici a riscoprire l’eroe dei due mondi, ingiustamente immerso nell’oblio nonostante il lavoro di Gosselin Lenotre (1855 - 1935).
Quando venne a stabilirsi definitivamente nella sua terra a Rouërie, vicino a Fougères, il colonnello Armand – come amava farsi chiamare – fu preceduto lì dalla fama delle sue brillanti imprese belliche, come anche dai frammenti di una giovinezza turbolenta. Nato il 13 aprile 1751, presso l’Hôtel de la Belinaye, Charles-Armand Tuffin de la Rouërie era figlio di Anne-Joseph-Jacques Tuffin, cavaliere e conte di La Rouërie e Dame Thérèse de la Belinaye.
A diciassette anni, partito per Parigi e messosi sotto l’egida di suo zio Charles de la Belinaye, mentore poco serio, entrerà nel corpo della Guardia francese della Maison du Roi. Difatti poco dopo, il giovane si era già invaghito di una attrice da operetta, Marie-Anne-Florence Bernardy-Nones (Miss Beaumesnil, 1766 - 1818), che da donna di mondo, gli dimostrò la follia di un simile progetto.
Il giovane, disperato, corse a chiudersi in un piccolo villaggio fuori Parigi, La Trappe, con la ferma intenzione di finire lì i suoi giorni. Non resistette una settimana, che riprese immediatamente la sua vita dissoluta a Parigi. Le sue goliardate furono memorabili: ha ballato una danza classica sul palcoscenico dell’Opera, ha avuto litigi, duelli, ha contratto debiti, e fortificato da questi talenti e dai suoi straordinari precedenti, non esitò a chiedere al conte de Ranconnet de Noyan, il suo vicino, la mano di una delle sue figlie. Nessuno del “bel mondo” fu sorpreso nell’apprendere il diniego del vecchio Tenente-generale.
Qualche tempo dopo, a seguito di una lite con il conte di Bourbon-Busset, cugino del re, riguardo la giusta gradazione per la cottura di un pollo, lo sfidò a duello; La Rouërie ferì il suo avversario, che morì dopo dieci giorni; il Re, informato del fatto, si arrabbiò e minacciò di impiccare La Rouërie che decise di porre fine alla sua vita. Per sfuggire alla corda, si somministrò l’oppio, ma la dose non fu sufficiente e ripresosi, fuggì a Ginevra, nella placida Svizzera.
Da lì fece spedire le sue dimissioni dalla compagnia di Radepont da Tenente della Guardia; dopodiché, dopo aver salutato sua madre, partì improvvisamente per il Nuovo Mondo, l’America, cedendo alla febbre contagiosa della libertà che ammaliò poi molti nobili. Prese tre domestici e lasciò in Francia un figlio a cui aveva dato il suo nome.
La traversata durò due mesi. Appena raggiunte le coste, la nave che trasportava Armand de la Rouërie fu attaccata da una fregata inglese. Lo scontro portò la distruzione dell’imbarcazione e il marchese, completamente nudo, si vide costretto – con i suoi tre domestici – ad arrivare a riva a nuoto. Era la fine dell’aprile del 1777, poco prima che arrivasse il talentuoso La Fayette a dare manforte a quegli inglesi ribelli che si erano auto-proclamati americani. Si era in piena guerra d’indipendenza americana (1775 - 83).
Il suo battesimo di fuoco avverrà nella battaglia di Short Hills il 26 giugno del 1777, nel quale con il grado di Colonnello, comanda una libera compagnia straniera dell’esercito Continentale.
La battaglia si concluse, tuttavia, con una sconfitta per gli americani contro gli inglesi, che erano meglio addestrati e due volte più numerosi. Il corpo di Armand viene decimato: 30 uomini su 80 vengono uccisi. Nonostante tutto, riesce a salvare un cannone, un’arma rara e preziosa per gli americani. La guerra prosegue e la sua leggenda cresce: nell’agosto del 1779 riesce a catturare John Graves Simcoe (1752 - 1806), comandante dei famigerati Queen’s Rangers, una truppa resosi celebre per le sue devastazioni. Ma l’azione più notevole di La Rouërie durante la campagna militare fu quella che fu chiamata il “Raid di Westchester”. La Rouërie comanda sia una truppa di fanteria che una di dragoni e con solo venti cavalieri, riesce nell’impresa di catturare un altro importante comandante inglese, il Maggiore Baremore capo di un corpo di partigiani lealisti, particolarmente temuti dalla popolazione1
Traslato nell’armata continentale meridionale nel 1780, la sua legione viene decimata nella Battaglia di Camden del 16 agosto, ma il suo essere bonario, allegro, coraggioso ai limiti dello spericolato, lo fecero rimanere simpatico agli americani e il nome di “colonnello Armand” divenne in breve tempo popolare come quello di La Fayette; così che François Jean de Beauvoir, marchese de Chastellux (1734 - 88) notò, nel 1780 come: «il Colonnello Armand è famoso in America per il suo coraggio e le sue capacità».
Dovendo ricostituire e riarmare la sua legione, torna in Francia per sei mesi, cercando di convincere la royal army a formare sotto il suo comando una forza armata all’interno dell’esercito continentale statunitense, ma la proposta viene rifiutata. Desideroso di riorganizzare la sua truppa, impegna le sue ricchezze e le sue terre avendo in prestito 50.000 sterline al 5% di interesse. La Rouërie acquistò così 100 selle di cuoio, 150 sciabole da ussaro, 160 paia di pistole, 975 camicie, 160 coperte, 150 paia di stivali con speroni, 320 elmetti di rame, metà dei quali con pennacchi, 4 trombe e 4 shako. Grazie ad una lettera di servizio di Washington, ottenne anche la croce di Saint-Louis il 15 maggio 1781 e la sua riabilitazione.
Di ritorno in America, prese parte all’assedio di York: in testa alle sue truppe, in mezzo a palle di cannone e fuoco d’artiglieria nemico, fu visto avanzare all’arma bianca in mezzo alla polvere da sparo che ben presto lo travolse occultandolo alla vista. Dato per morto, il marchese era vivo e vegeto: così George Washington (1732 - 99), per riconoscere il suo valore, lo autorizzò a raccogliere 50 uomini, tra i migliori dell’esercito, per rafforzare la sua compagnia completamente decimata.
Ha mostrato lo stesso coraggio ovunque: forse era, a suo piacimento, un modo per riscattare le sue follie passate. Due lettere conservate negli archivi del Ministero della Guerra, una da La Fayette, del 26 novembre 1778, l’altra dal Generale Washington, del 16 febbraio 1780, concordano di lodare «il suo illustre merito, il suo grande zelo, il suo attivismo, la sua intelligenza, prontezza e coraggio».
Terminata la campagna, lascio il nuovo mondo per ultimo, per rendere i servizi dei suoi compagni d’armi al Congresso e tornò in Francia nel 1783, da eroe, con 50.000 franchi di debito, la Croce di Cincinnatus, una scimmia e un amico, il Maggiore Chafner, un ufficiale americano che non avrebbe mai più lasciato.
Fu il ricordo del suo passato rumoroso o il tono leggermente sprezzante ed eccessivo che mise nella sua richiesta di servizio, ad impedirgli di ottenere il comando che cercava al suo ritorno? Resta il fatto che la sua richiesta fu respinta: nel vecchio mondo gli errori non si riparano.
All’inizio del 1786, La Rouërie cerca di riprendere la carriera delle armi, grazie ai suoi servizi in America, dove fu nominato colonnello, spera di ottenere una posizione equivalente all’interno dell’esercito francese. Il generale Washington raccomandò il marchese al conte Jean-Baptiste Donatien de Vimeur de Rochambeau (1725 - 1807) in una lettera del 16 maggio 1784.
Ma La Rouërie è tornato troppo tardi in Francia per beneficiare delle promozioni che sono già state concesse agli altri ufficiali. Anche Anne-César de La Luzerne (1741 - 91), ambasciatore francese negli Stati Uniti, cerca tuttavia di intervenire per suo conto.
[caption id="attachment_12429" align="aligncenter" width="1000"] Charles Willson Peale (1741 – 1827), Armand Tuffin de La Rouërie, olio su tela 1783.[/caption]
Così Luigi XVI pensò che lo avrebbe soddisfatto nominandolo colonnello di un reggimento di cacciatori di piedi. Ma non conosceva l’orgoglio bretone: La Rouërie rifiutò, egli voleva mantenere il prestigio di un reggimento di cavalleria e non concepì di servire nella fanteria. Sperando di migliorare la sua posizione agli occhi del Sovrano, discusse invano con il Ministro della Guerra Louis-Marie-Athanase de Loménie, conte di Brienne (1730 - 94), che aveva notoriamente ottenuto la stima di Washington, ed era stato nominato colonnello anche prima di La Fayette. Ottenne tuttavia unicamente l’assicurazione dall’ex Ministro della Guerra, il Maresciallo Philippe Henri, marchese di Ségur, che i suoi servizi in America sarebbero stati considerati come se fossero stati al servizio della Francia. Con un nulla di fatto, ritornò in Bretagna, costretto, a trentatré anni, a vivere pigramente nel suo Hôtel a Fougères o nel suo castello a Rouërie. La sua fortuna era, inoltre, compromessa: possedeva una passività di 65.000 franchi.
Armand fu costretto a ripensare ad un matrimonio che risanasse le sue finanze. La figlia maggiore del conte de Noyan, di cui una volta aveva chiesto la mano, aveva sposato il conte di Kersalaün. Era verso la signorina Louise Charlotte Guérin marchese di Saint-Brice2 che pose gli occhi e dalla quale fu ricambiato: una delle più belle donne e soprattutto una delle ricche ereditiere della Bretagna.
La madre del Marchese de la Rouërie, l’amico Chafner, sua cugina Thérèse de Moëlien de Trojoliff, firmarono il contratto stipulando, in regime comunitario secondo l’usanza bretone – con l’esclusione, tuttavia, dei debiti contratti prima ed eventualmente dopo il matrimonio – una successione paterna di 24.000 libbre di mobili dalla futura moglie. Il matrimonio ebbe luogo nella cappella del castello di La Motte à Saint-Brice-en-Coglès, il 27 dicembre del 17853.
Dopo tre mesi di unione, la giovane marchesa de la Rouërie si ammalò di tubercolosi polmonare. Suo marito chiamò un giovane medico di ventisette anni, il dottor Valentin-Marie-Magloire Chevetel (1758 - 1834), eminenza grigia che avrebbe avuto un ruolo di primo piano nella vita del marchese. Chévetel, figlio di un onorevole dottore di Bazouges, che da bambino prestava le sue cure a Chateaubriand, aveva un aspetto gradevole, modi eleganti, spirito distinto e fece subito colpo a la Rouërie, che lo trattò da amico al pari del maggiore Chafner. Il medico, ordinò alla moglie le acque termali di Cauterets, ma la permanenza nei Pirenei non alleviò Louise Charlotte: morì dopo alcune settimane, il 18 luglio 1786, appena sei mesi dopo il matrimonio.
La morte improvvisa della giovane moglie, pose fine anche all’idea di un viaggio in Prussia con il maggiore Schaffner, per studiare la strategia militare dell’esercito alemanno-tedesco, che era particolarmente famoso.

Inattivo e rattristato, il marchese si dedica alla caccia nelle sue selvagge tenute della Bretagna. Vi erano allora in Bretagna sei foreste nere: l’ausilio dell’elemento silvano fu fondamentale per la rivolta in Vandea. La foresta di Fougères, sbarrava il passaggio fra Dol e Avranches; quella di Princé, di otto leghe di circuito; quella di Paimpont, piena di torrenti e di ruscelli, quasi inacessibile dalla parte di Baignon con una ritirata facile su Concornet; la foresta di Machecoul che avrebbe avuto Charette per bestia feroce; la foresta di la Garnache che era in mano dei La Trémoille, dei Gauvain e dei Rohan; la foresta di Broceliande, che apparteneva alle fate.

Durante questo periodo, frequentò principalmente il maggiore Schaffner e sua cugina Thérèse de Moëlien de Trojolif (1759 - 93). Queste tre persone quasi mai si lasciano, Schaffner e Moëlien si stabiliscono addirittura nel castello di La Rouërie. Talvolta è stato affermato che il marchese e Thérèse erano amanti, ma sono voci che rimasero sempre nei corridoi. Essendo diventato amico del dottor Valentin Chevetel, La Rouërie ottenne per lui un posto come medico a Parigi nella casa del conte di Provenza, fratello del Re.
La Rouërie, sempre più annoiato fu “salvato” dagli eventi che stavano per succedere in Bretagna. Il suo pensionamento sembra concludersi quando iniziò una lite governativa tra la corte di Versailles e la nobiltà bretone, sostenuta dal parlamento della Bretagna. Personaggio noto in tutta la Provincia, il “Colonnello Armand” non si lasciò scappare questa nuova interessante difesa politica per il suo popolo.
L’8 maggio del 1788, il Luigi XVI approvò gli editti di Brienne e Lamoignon, attraverso i quali annullò i poteri politici e diminuì la competenza giudiziaria dei parlamenti. Ma il parlamento della Bretagna, provincia di Stato, rifiuta la nuova applicazione regia, poiché considera tali editti contrari al trattato dell’Unione di Bretagna alla Francia del 1532. Antoine-François Bertrand conte di Molleville (1744 - 1818) intendente della Bretagna, recatosi a Rennes, per registrare gli editti in Parlamento, trova le barricate e insulti con tanto di lancio di pietre e persino alcuni colpi di pistola. La truppa furono inviate per ripristinare l’ordine, ma alcuni ufficiali, anch’essi bretoni, sono riluttanti verso la repressione. Scontri si svolgono a Rennes, ma alla fine i soldati governativi sono costretti a battere in ritirata. La nobiltà degli Stati di Bretagna firmò una petizione di massa al Re, decidendo di inviare una delegazione di dodici nobili bretoni per portare una rimostranza a Versailles. Gli chevalier scelti sono tutti celebri: i marchesi, Maurice Gervais Joachim Geslin de Trémargat (1740 - 1819), Charles Sévère Louis de la Bourdonnaye de Montluc (1737 - 98), César de Carné-Trécesson (1742 - 1825), Claude Henri du Bois de La Féronnière (1740 - 1800) e La Rouërie; i conti di Nétumières, Becdelièvre, La Fruglaye, Bedée, Cicé e Godet de Chatillon, e infine lo chevalier di Guer.
La delegazione inizia portando una dichiarazione a Henri Charles Gabriel de Thiard de Bissy, conte di Thiard (1723 - 94), comandante delle truppe reali a Rennes: «Dichiariamo infami coloro che potranno accettare alcuni posti, sia nella nuova amministrazione della giustizia, sia nell’amministrazione degli Stati, poiché non sono riconosciuti dalle leggi della Bretagna»4.
Il 5 luglio all’arrivò a Versailles, l’atmosfera era tesa: i deputati bretoni erano sgraditi. Il re rifiuta di riceverli in pubblico. Dopo aver informato il Parlamento, la delegazione rimane a Parigi, in attesa del “buon piacere di Sua Maestà”. Incredibilmente la sera del 14 luglio 1788, i deputati bretoni vengono arrestati da agenti reali provvisti di lettere con tanto di timbro reale: li aspetta la Bastiglia. Informato il parlamento della Bretagna, questo si sforza di provvedere ai loro bisogni e persino nell’assicurare loro un certo conforto. Ai prigionieri furono quindi consegnate 240 bottiglie di Bordeaux e il 21 agosto, fu affittato un tavolo da biliardo per i detenuti.
Il maggiore Schaffner scrisse una lettera al marchese de La Fayette per lamentarsi della prigione dei deputati bretoni. Gilbert du Motier rispose: «Non hai nulla da temere per il nostro amico comune, se non la noia della prigione e ho motivo di credere che la situazione non durerà molto. Le sofferenze di Armand, per il suo paese, aumenteranno la sua fama e gli manterranno un rispetto pieno di onore nell’assemblea generale»5.
[caption id="attachment_12432" align="aligncenter" width="1000"] Château de la Rouërie à Saint-Ouen-la-Rouërie ©-Sten-Duparc - Originariamente basato sulle fondamenta di un'antica rocca dell'XI secolo, il castello fu costruito in diverse campagne, principalmente nel 1624, 1730, 1824. Proprietà del marchese Armand Tuffin de la Rouërie. La madre del marchese, nata Thérèse de la Belinaye, decise prima della sua morte nel 1808, di vendere l'intera tenuta , che fu rilevata nel 1813 da Georges-Bourges du Pré de Saint-Maur. La famiglia Barbier du Mans de Chalais è proprietaria del castello dal 1822, per acquisizione della famiglia du Pré de Saint-Maur.[/caption]
Il 25 agosto 1788, il ministero guidato da Étienne-Charles de Loménie de Brienne cadde, causando il rilascio dei dodici deputati lo stesso giorno. Il ritorno in Bretagna, e in particolare a Fougères per il marchese La Rouërie, è un trionfo. Le parole di La Fayette si avverano: Armand è uno degli uomini più popolari di Bretagna, la sua fama lo precede. Ma la discordia, che avrebbe portato il Paese alla rovina, non era ancora finita. Apparve un altro spettro, questa volta interno, che si opponeva ai deputati della nobiltà a quelli del Terzo Stato. Così come ampiamente descritto da Chateaumbriand in Memorie d'Oltretomba, gli Stati della Bretagna, convocati nel dicembre del 1788, si conclusero in un conflitto armato che portò ad un nulla di fatto.
Il 26 gennaio, un giovane leader studentesco Jean Victor Marie Moreau (1763 - 1813), rimasto celebre in seguito per un tradimento militare contro Napoleone, già capo degli studenti della facoltà di giurisprudenza dell’Università di Rennes – dove insegnava il liberale Jean Denis, conte di Lanjuinais (1753 - 1827), Isaac René Guy Le Chapelier (1754 - 94) e Louis-Jérôme Gohier (1746 - 1830) –, ebbe l’idea di costituire un Club bretone, e con un una rivolta armata studentesca, assalire gli Stati Generali per costringere i nobili ad accettare le clausole del Terzo Stato.
Ma quello che Moreau non si aspettò fu certamente la reazione dei nobili, che armi alla mano uscirono dall’assemblea il 27 gennaio. La Rouërie, ovviamente, è il primo ad uscire spada al vento fuori dal convento. Quel gruppo folto di nobili vedeva anche un giovane Chateaumbriand bagnarsi del suo primo sangue e diventare poi il poeta guerriero emigrato nelle armate dei Prìncipi.
Certamente la vista del mito La Rouërie, che avanzava alla loro testa, non sconcertò solo gli stessi giovani rampolli bretoni, ma anche e soprattutto gli studenti con i quali era diventato personaggio noto e popolare. Ci furono morti e feriti e i nobili forzarono il blocco. La data di apertura degli Stati Generali a Parigi si stava avvicinando e La Rouërie ambiva ad essere eletto deputato. Ma quando presentò la sua candidatura a Rennes, incontrò l’opposizione del resto della Nobiltà. In effetti, la noblesse e l’alto clero della Bretagna si decisero di disertare, per protesta, gli Stati Generali che di lì a poco si sarebbero tenuti. Secondo loro, l’ordinanza di Necker, che come spiegato, aveva abilmente regolato la modalità delle elezioni per gli Stati Generali, non tiene conto delle leggi e dei costumi della Bretagna. Inoltre, la nobiltà intende protestare contro l’aumento dei deputati che il Parlamento ha concesso al Terzo Stato. La Rouërie è uno dei rari nobili bretoni ad opporsi a questa misura. Tentò di convincere, quasi uno per uno, tutti i nobili membri del Parlamento, ma senza successo.
Un uomo, “il Colonnello Armand” davvero singolare, che ispira simpatia: liberale, combattente per gli Stati Uniti, ammiratore della Rivoluzione Americana, legato al governo repubblicano statunitense, in Francia rimane ferocemente un realista. Perché? Il motivo è semplice: è un uomo mosso dagli ideali politici, che sono sempre legati alla storia e alla tradizione di un Paese. Come è vero che un asino non è un cavallo, così il giovane Stato americano, non assomigliava al Regno di Francia, che con tutti i suoi errori, doveva conservare la figura del Sovrano. Se si può esprimere un paragone, questo può essere fatto con le idee vicine a quelle dello statista e filosofo inglese Edmund Burke (1729 - 97), controrivoluzionario di tendenza liberale, che in seguito avrebbe scritto le sue “Riflessioni sulla Rivoluzione in Francia”.
Infastidito di non poter partecipare alle Tenute Generali, il marchese tornò a Saint-Ouen-la-Rouërie, ma continuò comunque a seguire gli eventi a Parigi e Versailles. Si ripete anche per lui, il profilo ideologico di tutti gli uomini che presero parte alla controrivoluzione vandeana: anche La Rouërie ambiva ad una Monarchica Costituzionale. Sebbene favorevole alle riforme, la piega che gli eventi prendono lo rattrista molto. Molto legato ai diritti della provincia della Bretagna, disapprova totalmente l’istituzione dell’Assemblea Costituente che soppianta i parlamenti locali. Credeva che i poteri del Re dovessero essere limitati dai parlamenti provinciali e non da un’unica assemblea seduta nella capitale. Abbastanza indifferente alla presa della Bastiglia, si oppose in particolare agli eventi della notte del 4 agosto, dove, con l’accordo dei deputati bretoni del Terzo Stato, tutte le leggi, gli statuti e le usanze speciali della Bretagna, erano considerate unicamente dei privilegi e vengono rimosse.
Irritato e profondamente deluso dalla Rivoluzione francese, incapace di opporsi agli eventi della storia che lo sommergono, La Rouërie pensa anche di emigrare negli Stati Uniti, ma scappare non sarebbe stato da lui. Cominciò a frequentare uno dei suoi vicini, il conte Louis-René conte di Ranconnet-Noyan (1730 - 1810), un antico Signore che viveva a La Mancelière, nel Baguer-Pican, il quale condivideva le idee del marchese. Dalle loro discussioni, nascerà l’idea di dare vita ad una associazione per la difesa delle leggi specifiche della Bretagna.
A metà dell'anno 1789, La Rouërie scrive al suo amico George Washington, dove gli espone i suoi propositi: «Gli eventi in questa parte del mondo non stanno andando come le persone oneste e imparziali vorrebbero. Eccellenza dovete aspettarvi notizie molto angoscianti sotto questo punto. Temo due grandi mali per questo paese: l’anarchia e il dispotismo. […] Ogni spirito qui si afferma genio e crede di essere un legislatore. Uomini di spirito, li abbiamo. Uomini di conoscenza, virtuosi delle arti e delle scienze, li abbiamo. Ma uomini straordinari per la profondità delle loro opinioni e la loro devozione al bene pubblico, questi non li abbiamo. La nobiltà si aggrappa ai loro diritti di nascita. Per quanto riguarda il clero, avrebbe combattuto se avesse avuto più coraggio e meno figli naturali. […] Mio caro generale, non è così che voi e il vostro Paese avete ottenuto la libertà»6.
In un’altra lettera a Washington, che nel frattempo divenne presidente degli Stati Uniti, risalente all’agosto del 1790, scrive: «Ho mantenuto tutti i miei amici del passato, tranne quelli che hanno un posto nella nostra Assemblea Nazionale, che disprezzo profondamente, qualunque parte scelgano, perché hanno tutti tradito la loro carica»7.
Il 22 marzo 1791 a Fougères, il marchese de La Rouërie ricevette la visita di François-René de Chateaubriand che doveva partire per l’America. La Rouërie gli scrisse una lettera di raccomandazione per Washington: sarebbe stata l’ultima corrispondenza effettuata dal marchese al Presidente degli Stati Uniti.
La soppressione delle particolari leggi della Bretagna indigna soprattutto la nobiltà, che rimpiange fortemente la sua assenza agli Stati Generali di Parigi. All’inizio del 1791, René-Jean de Botherel du Plessis (1745 - 1805), procuratore generale sindacale degli Stati della Bretagna, denunciò le misure dell’Assemblea costituente.
«Dichiariamo solennemente, in nome e per la felicità del popolo bretone, che la cosiddetta Assemblea Nazionale è illegalmente costituita, ed è contraria alla costituzione e ai diritti e delle franchigie della Bretagna, poiché tende a sovraccaricare questa di tasse come già avvenuto nelle altre parti del Regno […] e adottiamo tutte le precauzioni prese e da prendere per annullare, e ripristinare la maestosità del Trono e mantenere i diritti della provincia che nessuna autorità può distruggere e dalla quale potrebbe essere spogliata solo dall’ingiustizia e dalla malafede»8.
[caption id="attachment_12433" align="aligncenter" width="1000"] Un agente dei principi durante la Rivoluzione: il marchese de la Rouërie e la congiura bretone 1790-1793, secondo documenti inediti di Lenotre, G., (1855-1935) del 1901.[/caption]
Per tutto l’anno 1790, La Rouërie lavorò per convincere i suoi conoscenti ad unirsi all’Association bretonne (Associazione bretone), rivolgendosi a nobili e personalità influenti del popolo. Cerca soprattutto di limitare l’emigrazione dei nobili, ma senza molto successo, arrabbiandosi con coloro che gli avevano promesso aiuto, come de Botherel du Plessis, e che infine emigrarono. La Rouërie inviò così una prima lettera al Charles-Philippe conte di Artois (futuro Carlo X di Francia, 1757 - 1836), all’epoca capo dell’emigrazione francese in Inghilterra: «Sarebbe necessario, Monsignore, opporsi al numero crescente di emigranti. In Inghilterra non servono a niente; mentre qui, nelle province, possono riguadagnare la loro influenza familiare e, se necessario, combattere con gli uomini a loro devoti. Potrebbero esserci attacchi isolati contro la loro gente, ma più siamo visti come numerosi e determinati, meno cercheranno di attaccarci»9.

Affinché questa associazione ottenga la vera legittimità, deve essere approvata dal Re. Ma Luigi XVI è considerato dai realisti un prigioniero dei rivoluzionari. La Rouërie decide quindi di rivolgersi al conte di Artois, fratello del re, poi emigrato a Coblenza nel Sacro Romano Impero degli Asburgo. La Rouërie salpò così per Saint-Malo alla volta dell’Inghilterra nel maggio 1791, accompagnata dal maggiore Schaffner, Teresa di Moëlien, sua cugina Gervais Marie-Eugène Tuffin de La Rouërie e tre dei suoi domestici. Dopo un breve passaggio attraverso l’Inghilterra, i viaggiatori raggiungono Ostenda, arrivando a Coblenza il 20 maggio, quindi vanno a Ulm dove vengono accolti dal conte di Artois. Quest’ultimo dà la sua approvazione al progetto, ma non avendo denaro sufficiente con sé, non può fornire i fondi necessari. Tuttavia, raccomanda di contattare Charles Alexandre de Calonne, il quale diede dei preziosi suggerimenti inerenti l’organizzazione dell’associazione, in particolare sulla necessità di reclutare un tesoriere e un ufficiale di collegamento. Il “Colonnello Armand” non ama gli emigrati, tuttavia trova reclita tra loro una sua vecchia conoscenza americana: lo chevalier Jean-Baptiste Georges de Fontevieux (1759 - 93), uno dei suoi ex-ufficiali. Fontevieux, originario del Palatinato-Deux-Ponts, è di origine franco-tedesca. Antrò nell’Associazione, accettando di diventare ufficiale di collegamento e responsabile della trasmissione di spedizioni e posta tra Coblenza e la Bretagna.

Dopo aver sbrigato la pratica burocratica con il Conte d’Artois – un documento firmato che conferma il suo accordo sulla creazione dell’Associazione –, i bretoni riattraversano il confine e ritornano in Francia. Il documento, cucito in una cintura, è indossato da Thérèse de Moëlien. Mentre i bretoni viaggiano attraverso la Lorena, il re Luigi XVI e la sua famiglia, in fuga, vengono arrestati a Varennes, non lontano da lì. I bretoni conosceranno questo luogo durante il loro tragitto. Fatalità, arrivarono a Parigi il 25 giugno del 1791, il giorno stesso del ritorno del Re nella stessa città. Alla ricerca di un posto dove trascorrere la notte a Parigi, La Rouërie va con i suoi compagni dall’amico Valentin Chevetel che li ospita. Con l’amico medico discute come sempre di politica, poiché fin dalla loro conoscenza si erano ritrovati nelle idee liberali. La Rouërie, in serenità, gli espone i suoi piani senza il minimo sospetto. Tuttavia, il povero marchese non poteva sapere che l’ideologia di Chevatel era cambiata radicalmente per causa della rivoluzione.
Vicino al Club dei cordiglieri, divenuto ardente patriota, era vicino a Marat e Danton. Astutamente accogliendo La Rouërie e i suoi compagni a casa sua, sta attento a non condividere le sue idee politico-rivoluzionarie con i suoi ospiti. All’inizio, l’Association bretonne fu semplicemente un’organizzazione civica di persone oneste contro estremisti rivoluzionari, ma l’evoluzione della Rivoluzione portò l’associazione a divenire un apparato militare organizzato, già all’inizio del 1792.
Di ritorno in Bretagna, La Rouërie riporta il potere concesso dal conte di Artois: «Essa è molto lontana da qualsiasi progetto tendente al dispotismo, i suoi princìpi sono fortemente contrari al governo arbitrario e ambiscono unicamente a rimettere il re in una posizione di forza per rafforzare le basi della monarchia, donando felicità al popolo, ed esercitando un’autorità temperata dalle leggi che ristabiliranno la vera Costituzione francese che può essere facilmente riconciliata con una ragionevole libertà; L’aiuto dato è di carattere gratuito; la restaurazione dell’ordine non prevede smembramenti o perdite delle province; uno dei primi effetti della controrivoluzione sarà quello di ripristinare le province nei loro diritti ereditari e di restituire loro gli Stati, la cui convocazione avverrà nel momento stesso in cui il ritorno del buon ordine sarà nuovamente consentito; che risparmieremo il più possibile i mezzi repressivi; quella forza sarà usata solo per reprimere la ribellione testarda; inoltre tutti coloro che, al momento della pubblicazione del Manifesto, rientreranno nella fedeltà regia, saranno assolti dalla precedente condotta intrapresa, a patto che questa non sia stata macchiata da un grande crimine che non possa essere rimosso. In tal caso il procedimento giudiziario, sarà giudicato in base alle leggi e alle forme giudiziarie del Regno»10.
Successivamente, l’associazione riceve anche il sostegno del conte di Provenza, il futuro Luigi XVIII, anch’egli emigrato. Il 4 ottobre 1791, scrive con la sua notoria affabilità: «Potete, signore, assicurarvi da parte mia che il marchese La Rouërie è stato incaricato direttamente dal conte di Artois sui punti statutari dell’Associazione, proposta unicamente per il bene della provincia di Bretagna. Non esito ad unire la mia approvazione a quella di mio fratello e che, conoscendo i sentimenti e la condotta saggia di M. de La Rouërie, esso merita di avere la nostra fiducia e il nostro appoggio a quello che mio fratello ha già concesso. Vi esorto nel continuare il supporto a questa organizzazione, che ci vede già condivisori»11.
La Rouërie decise quindi di organizzare l’associazione. In ogni città del vescovato furono collocati sei commissari e un segretario dell’associazione dei tre Stati. L’amministrazione è detenuta da due segretari Deshayes e Joseph Marie Loaisel de Tréogate (1752 - 1812), mentre il tesoriere sarà colui che tristemente si rese celebre come l’eroe dell’affare di Nancy12, Antoine-Joseph-Marc Désilles (1767 - 90); due uomini, Henri, un oste di Saint-Servan e Vincent sono responsabili dei collegamenti con l’isola di Jersey.
Gli uomini ricevettero così la consegna, attraverso l’Inghilterra, di argento, 6.600 fucili, polvere nera, 300 uniformi complete e 4 cannoni. Viene organizzata l’assunzione dei volontari e si cerca il sostegno delle guarnigioni della Guardia Nazionale. Per regolare i ranghi, si adatta una metodologia davvero innovativa e inusuale. Difatti le truppe si formano, così come i gradi militari, in base alla «quantità numerica di uomini che ciascuno candidato potrà fornire. Chiunque fornisca venti uomini d’armi verrà graduato; trenta, sarà un sottotenente; quaranta, tenente, e così via. Tutto ciò avviene senza richiedere nessun rango di nobiltà per nessun grado e senza dar peso al ceto sociale».
La Rouërie trova sostegno anche tra la popolazione bretone, molto delusa dalla Rivoluzione. Dopo un periodo iniziale favorevole ad essa, adesso è anche fortemente ostile alla Costituzione civile del clero. Sebbene non particolarmente pio, La Rouërie è cattolico. Respinse la Costituzione civile del clero e lo fece con decisione nel manifesto dell’Associazione che stava preparando: «Non possiamo nascondere il fatto che il malcontento popolare si sta diffondendo sempre di più; l’alienazione generale che il popolo mostra per i sacerdoti costituzionali, unita alla stessa diserzione generale della vera chiesa di Roma, che si unisce fin troppo chiaramente al desiderio della grande maggioranza del popolo, contrario alla legge che ha diviso perfino la vecchia chiesa e ha spazzato via il clero francese, senza alcun motivo di pubblica utilità»13.
Denuncia anche, dopo l’abolizione degli Stati di Bretagna, un aumento della povertà e un aumento delle tasse ora tre volte più elevato. «Non possiamo più nascondere che la miseria pubblica sta peggiorando di giorno in giorno, che il commercio sta languendo sempre di più; lasciare che le antiche risorse del popolo vengano spazzate via; e che, tuttavia, […] persino la religione diventa per lui la questione di una nuova tassa»14.
La Rouërie porta con sé tre aiutanti di campo: Aimé Casimir Marie Picquet, chevalier du Boisguy, (detto Bois-Guy 1776 - 1839), di soli quindici anni, Michel-Alain de Limoëlan (1734 - 93) e suo cugino Marie Eugène Charles Tuffin de La Rouërie (1765 - 96), elemento prezioso per i contatti con il porto di Saint-Malo per i collegamenti con i prìncipi emigrati in Inghilterra.
Altri nobili, che in seguito si sono distinti nelle guerre delle Chouannerie, si sono uniti allo Stato Maggiore dell’associazione bretone: Amatore-Jérôme Le Bras des Forges de Boishardy (1762 - 95), Charles Olivier Marie Sévère conte di la Bourdonnaye-Montluc (1766 - 1859), Toussaint du Breil, visconte di Pontbriand, (1776 - 1844), Vincent de Tinténiac (1764 - 95), Sébastien de la Haye, conte di Silz (1756 - 95), Louis-Anne Pontavice (1766 - 93), Jean du Buat, Charles-Edouard de La Haye-Saint-Hilaire (1775 – 1807), Louis Joseph Bénigne de La Haye-Saint-Hilaire (1766 - 1838), Auguste Hay de Bonteville (1775 - 1846) e il principe de Talmont. Se persone di umili origini, come Pierre Guillemot (1759 - 1805) e René Guiheneuf (1746 - 93) si uniscono all’Associazione, la maggior parte dei soci proviene dall’aristocrazia.
Quando il 20 aprile 1792, la Monarchia Costituzionale che vigeva ancora in Francia dichiarò guerra all’arciducato d’Austria del Sacro Romano Impero, che ricevette lo stesso giorno, il sostegno del Regno di Prussia e dell’esercito degli emigrati di Condé. Quando la prima coalizione contro i giacobini è formata, l’Association bretonne è pronta per il combattimento, con una forza di 10.000 soldati.
Da parte loro, i rivoluzionari nel paese di Fougères, intimiditi, non sanno davvero come agire. Sospettano che il marchese mantenga uomini armati e che si svolgano manifestazioni, ma non possiedono prove necessarie. Inoltre, “il Colonnello Armand” non ha mostrato alcun desiderio di conquista, ma pubblicamente presenta la sua associazione come votata alla difesa dal brigantaggio.
Per quanto riguarda Valentin Chevetel, il suo amico dottore, ha ancora le sue amicizie in ciascuna delle due parti, ma tende a non informare più di nulla il suo vecchio amico. Così fino al maggio 1792, le autorità patriottiche del paese non intrapresero alcuna azione contro il marchese o i membri della sua associazione.
Alla fine dello stesso mese, un apparente raduno di diverse decine o centinaia di persone, che vede riuniti tutti i capi dell’associazione, si svolge a Saint-Ouen-la-Rouërie, presso il castello del marchese. Il giorno successivo, gli amministratori dei comuni di Saint-James e Pontorson segnalarono al distretto di Avranches che era in programma un complotto nel castello di La Rouërie. Il sindaco di Saint-Ouen-la-Rouërie Thomas de Lalande, finora tiepido nell’iniziativa, si decide ad intervenire, rivolgendosi al generale Augustin René Christophe de Chevigné (1737 - 1805) di Rennes che ordinò una perquisizione. Il 31 maggio, guidato da Varin e Hévin, membro del consiglio di amministrazione del dipartimento di Ille-et-Vilaine, 400 uomini, penetrarono nel castello del marchese, ma la ricerca fu infruttuosa: il castello era vuoto, tranne alcuni servi e la scimmia che certamente spaventa i soldati. Non viene trovato nulla di compromettente, nessun documento, nessuna arma. I soldati battono la campagna circostante in cerca di prove, senza alcun risultato.
Durante questo periodo, i suoi collaboratori si disperdono. Prevedendo il disastro, La Rouërie trasmette tutti i suoi documenti a Jean du Buat, il quale fuggì in Inghilterra con altri aristocratici dell’Associazione. L’importanza dei documenti affidati, come il documento del duca d’Artois, mostra la fiducia tra i membri. La Rouërie si rifugiò quindi a Mayenne, nel castello di Launay-Villiers, che appartiene a uno dei suoi amici, il cavaliere di Farcy. Cambiando dipartimento sfugge dalla giurisdizione di Ille-et-Vilaine. La Rouërie adotta il falso nome di “Monsieur Milet”, un commerciante di vini presso Bordeaux. Rimane tuttavia in contatto con Schaffner, Moëlien, Fontevieux, Gervais e du Pontavice. Ora deve solo attendere il segnale pianificato per scatenare la rivolta. Ai margini del parco del castello di Launay-Villiers si trova la foresta di Misedon. Questa foresta era la tana di Jean Cottereau (detto Jean Chouan 1757 - 94) e i suoi uomini che avevano preso il nome di Chouans15. Ma da dove deriva questo nome? Ebbene Jean Cottereau e i suoi fratelli ereditarono tutti il cognome Chouan già dal padre, un mercante di zoccoli di Saint-Berthevin a Mayenne, al confine con la Bretagna. Il soprannome ha avuto origine dal suo talento per impersonare il grido del gufo bruno (chouette in francese), chiamato così anche nell’antico francese (chat-huant), una designazione sopravvissuta nell’Ovest dalla lingua d’oïl, il dialetto parlato in Mayenne. Il loro nonno praticando, di nascosto al Signore, la caccia di contrabbando, usava il suono del gufo come segnale di avvertimento per i suoi compagni nel caso di intrusi all’interno del bosco.
Verso la fine di settembre del 1792, avviene un’altra ricerca del famigerato ex Colonnello La Rouërie. A Mayenne, alcune truppa di guardie nazionali, provenienti da Andouillé, La Brûlatte, La Baconnière e Saint-Germain-le-Guillaume non trovando nuovamente il sospetto, decidono di saccheggiare il castello di Fresnay e il castello di Villiers. Avvisati, i contadini di Launay-Villiers e Bourgon si radunarono a Launay-Villiers, un luogo che il marchese aveva appena lasciato dopo essere rimasto lì illegalmente per tre mesi.
[caption id="attachment_12435" align="aligncenter" width="1000"] Incisione del marchese de la Rouërie.[/caption]
Al cavaliere Jacques de Farcy, proprietario del castello di Villiers, che chiese agli insorti di non andare a perdere la vita per la sua proprietà, i contadini replicarono che dopo i castelli dei nobili, sarebbero state le loro fattorie a essere bruciate dai patrioti. Decidono quindi di continuare la loro azione punitiva e si dirigono verso Bourgneuf. Uno degli agenti di La Rouërie, Jean-Louis Gavard, comandato da Jean Chouan, prese quindi il comando degli insorti. I contadini partirono immediatamente alla ricerca delle guardie nazionali, che raggiunsero a Bourgneuf-la-Forêt la sera. Quest’ultimi vengono sconfitti con la perdita di 18 morti. Fonti riportano di uno sconosciuto apparso improvvisamente durante la battaglia con una scimmia al seguito, che preso il comando dei vandeani, li lasciò solo a vittoria conseguita. Essendo Cottereau iscritto alla l’Association bretonne, tutto suggerisce che l’uomo in questione potrebbe essere La Rouërie.
Il giorno dopo, le truppe regolari della città di Laval, accorse per porre fine all’insurrezione, ricevono un’altra imboscata nei pressi dello stagno de la Chaîne. Il combattimento di Bourgneuf-la-Forêt ebbe sarà il primo combattimento che precederà la Chouannerie.
Più tardi, i rivoltosi, applicarono alle loro insegne un curioso “scudo araldico” della rivolta delle Chouannerie. Lo stemma reale dei Re di Francia, veniva infatti sorretto da un gufo per lato, con un doppio motto: In sapientia robur sic Reflorescent16.
Il contadino bretone avrà due punti d’appoggio: il campo per il nutrimento e il bosco per l’occultamento. Sarebbe difficile oggi far comprendere cosa poteva signifiare e soprattutto cosa era la foresta per un bretone: erano città. Le sterminate boscaglie sarebbero state dei nidi di immobilità e di silenzio; se si fosse improvvisamente diboscato una di queste foreste, durante le guerre di Vandea, sarebbe comparso un brulichio di uomini.
L’ingegno dei bretoni fu tale che usarono all’interno delle foreste dei pozzi rotondi e stretti, mascherati al di fuori da coperchi di pietra e di fronde, verticali e orizzontali, che si aprivano in terra a forma di imbuto e terminavano in camere tenebrose. Una delle radure più selvagge del bosco di Misdon, fu traforata da gallerie e da loculi dove andava e veniva un popolo misterioso, veniva chiamata «la grande città». Una radura non meno deserta al di sopra e non meno abitata al di sotto si chiamava «la Piazza reale».
Questa vita sotteranea durava da moltissimo tempo in Bretagna. Dal tempo dei druidi risalivano le cripte, le quali erano antiche come i dolmen. Per sfuggire si erano rifugiati prima nelle foreste poi sotto terra. Risorsa delle bestie, questi covi erano ancora pronti nei boschi quando la rivoluzione scoppiò. La Bretagna si rivoltò trovandosi oppressa da questa liberazione forzata.
Il sottosuolo di tali foreste era una specie di madrepora traforata in tutti i sensi da un labirinto sconosciuto di cellule e di gallerie. Ognuna di quelle cellule cieche dava asilo a cinque o sei uomini. Difficile era respirarvi. In Ile-et-Vilaine, nella foresta del Pertre, asilo del principe di Talmont, non si sentiva un soffio, non si notava una traccia di uomo e vi si sarebbero trovavano seimila uomini; con Focard nel Morbihan, nella foresta di Meulac, non si vedeva nessuno, e vi si nascosero ottomila uomini. Battaglioni invisibili stavano all’agguato. Questi eserciti ignorati sarebbero serpeggiati sotto gli eserciti repubblicani, uscivano ad un tratto da terra e vi rientravano, balzavano innumerevoli e scomparivano, dotati del potere di ubiquità e di quello di disperdersi, valanga, polvere, colossi con la possibilità di rimpicciolirsi, giganti per combattere, nani per scomparire. Giaguari con i costumi di talpe.
Non vi erano solo le foreste, vi erano i boschi. Come al di sotto delle città vi sono i villaggi, al di sotto delle foreste vi sono le boscaglie. Le foreste erano collegate fra loro dai labirinti, dappertutto sparsi, dei boschi. Gli antichi castelli, che erano fortezze, i villaggi che erano accampamenti, le fattorie che erano recinti fatti di imboscate e di trabocchetti, pieni di burroni, di fossati e di palizzate di alberi erano le maglie di quella rete dove rimarranno impigliati gli eserciti repubblicani. Quell’insieme era quello che veniva chiamata la Bocage. Le donne vivevano nelle capanne, gli uomini nelle cripte. Utilizzavano per questa guerra le gallerie delle fate e i vecchi passaggi celtici. Portavano da mangiare agli uomini nascosti sottoterra. Alcuni, dimenticati, morirono di fame. Abitualmente il coperchio fatto di muschio e di fronde era composto con tanta arte che era impossibile distinguerlo dal di fuori fra l’erba ed era molto facile ad aprirsi e chiudersi dall’interno. Questi covi erano scavati con cura. La terra tolta dal pozzo veniva gettata in qualche stagno vicino. La parete interna e il pavimento erano tappezzati di felci e di muschio. Chiamavano quei rifugi «il palco». Risalire fra i vivi senza precauzioni e uscire di terra senza scopo sarebbe stato il loro pericolo più grave. Potevano trovarsi in mezzo a un esercito in marcia. Boschi temibili, trabocchetti doppi. Gli azzurri non oseranno entrare, i bianchi non oseranno uscire.
Per diverse settimane, i soci attendono le direttive dei fratelli del Re. L’attesa provoca nervosismo in alcuni dei soci. Da un lato La Rouërie deve calmare l’ardore di alcuni di loro che desideravano sollevare le armi sul posto, dall’altro chiede ordini al comitato di Saint-Malo il quale vuole attendere la cattura di Parigi, da parte della Coalizione, prima di ordinare l’inizio della rivolta. Da parte sua, Valentin Chevetel arrivò, durante questo periodo, al castello di La Fosse-Hingant, a Saint-Coulomb, che apparteneva al defunto André Désilles, già quartier generale dell’Associazione. Il medico chiese di incontrare La Rouërie, il quale ancora una volta lo aggiorna, senza sospettare minimamente del suo tradimento.
L’11 agosto da una lettera ricevuta, La Rouërie apprende della notizia dell’imminente attacco degli eserciti della Coalizione anti-francese e informa tutti i comitati di prendere le armi per il 10 ottobre, data prevista per la presa di Châlons-en-Champagne, da parte degli eserciti della Coalizione. Il 19 agosto 1792, dopo aver respinto l’offensiva dei rivoluzionari, le truppe prussiane e austriache entrarono in Francia.
Preoccupato lo Chevetel ritorna a Parigi e il 2 settembre, il giorno del suo arrivo, si presenta alle 03.00 del mattino da Danton, l’allora Ministro della Giustizia. Il medico informò il rivoluzionario del pericolo rappresentato dalla Association bretonne e condivise con lui tutto ciò di cui è a conoscenza.
Tuttavia, Danton sceglie di negoziare con La Rouërie. Informato da Chevetel delle opinioni liberali del marchese, scriverà la seguente lettera: «Se tutto ciò che mi ha detto il portatore della lettera è vero, M. de La Rouërie possiede in Bretagna una base militare. Credo che, per salvare la Francia dalla brutta situazione in cui è scivolata, gli uomini non debbano ambire alla rovina del proprio Paese, ma devono riunirsi in uno sforzo comune. Non si tratta più di discussioni su princìpi più o meno condivisibili; il Trono costituzionale e l’integrità del territorio devono essere salvati. Nel probabile caso in cui la Bretagna si renda conto della realtà di quanto affermato, autorizzo il portatore della presente lettera a trattare per mio conto e per quello dei miei amici che, come me, non vogliono affondare nell’anarchia»17.
Ovviamente, vista l’avanzata delle forze della Coalizione che sembravano inarrestabili, Danton sperava segretamente – in caso di sconfitta delle armate francesi che ancora si definivano “costituzionali” –, di poter mantenere il potere grazie al sostegno del marchese de La Rouërie, invece di un ritorno dell’Ancien Régime. Nello stesso periodo il giovane Chateaumbriand, membro dell’armata dei Prìncipi, stilava un breve ritratto dell’avvocato di provincia George Jacques Danton: «Danton, più franco degli inglesi, diceva: «Noi non giudicheremo il Re, lo uccideremo». Diceva anche: «Questi preti, questi nobili, non sono colpevoli, ma debbono morire, perché sono fuori posto, intralciano la marcia degli eventi e disturbano l’avvenire». Tali parole, sotto un’apparenza di orribile profondità, non hanno nessuna grandezza di genio: esse infatti presuppongono che l’innocenza non sia niente, e che l’ordine morale possa essere separato dall’ordine politico senza farlo perire, il che è falso. Danton non credeva nei principî che sosteneva; si era rivestito col mantello rivoluzionario soltanto per arrivare al successo. «Venite a sbraitare con noi - consigliava a un giovane, - quando vi sarete arricchito, farete quel che vorrete». Confessò che, che se non si era venduto alla corte, è che questa non aveva voluto pagarlo abbastanza: sfrontatezza di un’intelligenza che si conosce e di una corruzione che si rivela senza ritegno. Inferiore, persino in bruttezza, a Mirabeau di cui era stato agente, Danton fu superiore a Robespierre, senza avere, come lui, legato il suo nome ai suoi crimini. Non aveva perso il senso religioso; diceva: «Noi abbiamo distrutto la superstizione per instaurare l’ateismo». [...] nell’epoca in cui si sbraitava: «Viva l’inferno!», in cui si celebravano le allegre orge del sangue, dell’acciaio e del furore, in cui si brindava al niente, in cui c’era chi ballava tutto nudo la tarantella dei trapassati, per non avere il fastidio di doversi spogliare al momento di andarli a raggiungere; in quell’epoca bisognava, in conclusione, spingersi fino all’ultima festa, all’ultima facezia del dolore»18.
Il giorno successivo, Chevetel parte per la Bretagna. Al suo arrivo presso lo Château de La Fosse-Hingant fu ricevuto di nuovo da La Rouërie. Louis du Pontavice, allora spia parigina, aveva scoperto i legami di Chevetel con i cordiglieri e ne aveva informato il marchese. Chevetel, tuttavia, non negò i suoi rapporti con Danton, mostrando la lettera con la quale affermava falsamente di aver convinto il Ministro della Giustizia verso il mantenimento della Monarchia Costituzionale, che già traballava. Da uomo d’onore La Rouërie vuole credere al suo amico e si scusa per i suoi sospetti, congratulandosi con Chevetel, facendo rimanere basiti gli altri membri dell’associazione.
La rivolta è imminente, così La Rouërie sta realizzando i manifesti per le città e i villaggi: «Cittadini. [...] appaio in mezzo a voi, alla testa di una forza imponente, nel nome e sotto gli ordini dei prìncipi, fratelli del Re. State tranquilli, sono armato solo per difendere il vostro popolo e le vostre proprietà. E voi bretoni, miei cari amici, voglio aiutarvi a recuperare solo le vecchie franchigie e gli antichi diritti che erano allo stesso tempo il baluardo più solido della vostra libertà politica e religiosa, in quanto organo garante più sicuro della vostra pace interiore e della vostra prosperità che esso produce». Ma a spegnere le fiamme dell’entusiasmo ci penserà la sconfitta degli eserciti della Convenzione a Valmy, il 20 settembre 1792, a soli 35 chilometri da Châlons. Le truppe della coalizione si ritirano, riattraversano il confine e lasciano la Francia. Il 22 settembre, la monarchia fu rovesciata e la Repubblica proclamata.
Il risultato della battaglia di Valmy è un vero disastro per l’Association bretonne. Non appena la notizia trapelò, La Rouërie organizzò un incontro al castello di La Fosse-Hingant. Oltre a La Rouërie, gli unici che possono essere presenti sono Thérèse de Moëlien, Désilles, Schaffner, du Buat de Saint-Gilles, Fontevieux e Chevetel. La Rouërie, nella speranza di un’esplosione popolare realista in Bretagna, con l’aiuto di uno sbarco degli emigrati dall’Inghilterra, propose di mantenere la data del 10 ottobre per insorgere, ma grazie all’opposizione di Fontevieux, Désilles e Saint -Gilles concorda al rinvio delle operazioni fino al 10 marzo 1793. Essendo il leader dell’organizzazione gli viene consigliato di fuggire a Jersey in Inghilterra, ma rifiuta di lasciare la Bretagna.
Nel frattempo, grazie alla complicità di Chevetel, un carico di 3.000 fucili provenienti da Jersey e procurati da du Plessis vengono bloccati alla partenza. Il medico, oramai spia dei rivoluzionari, nel suo rapporto a Danton, afferma di aver convinto personalmente il governatore a ordinare l’embargo delle armi. Tornato a Parigi, il Ministro della Giustizia non ha più alcun problema nella condanna ferma dei cospiratori. Così il 5 ottobre, Danton ordinò a Chevetel di arrestare La Rouërie, insieme agli altri capi della cospirazione. Su consiglio di Philippe François Nazaire Fabre D’Églantine (1750 - 94), a Chevetel viene affiancato un uomo di nome Pierre-Bénigne Lalligand (chiamato Morillon, 1759 - 94), che aveva già avuto un ruolo contro una cospirazione a Grenoble. Subito i due uomini non vanno d’accordo e partono per la Bretagna il 7 ottobre separati. Chevetel adottò il soprannome di Latouche con i repubblicani. Ritornato al Fosse-Hingant gli fu affidata una nuova missione e sempre con Fontevieux, partì il 13 ottobre per Liegi con i fratelli del re, per ricevere notizie sulla situazione e ricevere possibili nuove linee guida.
Su consiglio di Chevetel, Lalligand rimane inattivo a Saint-Servan, in attesa del momento propizio per far scattare la trappola. La Rouërie, ricercato, vaga nelle campagne della Bretagna. Su di lui il rivoluzionario Claude Basire (1764 - 94) scrisse: «La Rouërie non ha perso nulla del suo zelo. Questo instancabile cospiratore, che raramente si riposava, correva da un castello all’altro, da un comitato all’altro per riaccendere le speranze. Vagando costantemente nei boschi o sulle colline, sempre armato, non prendeva mai le strade battute e spesso passava la notte in grotte, inaccessibili agli altri, ai piedi di una quercia o in un burrone. Tutti i nascondigli erano buoni per lui; e non sarebbe mai morto due volte nello stesso posto. Si può immaginare la difficoltà di afferrare un uomo tanto attento quanto impavido».
Dunque un maestro della guerriglia. Armand adotta il falso nome di Gasselin ed è accompagnato solo da Joseph-Anne Loaisel (1752 - 93), il suo segretario19 e Saint-Pierre, uno dei suoi servi. Questi spostamenti lo faranno allontanare sempre più dall’Ille-et-Vilaine, per concentrarsi maggiormente sulla Côtes-d’Armor.
Il 12 gennaio 1793, dopo aver galoppato nella foresta di La Hunaudaye, La Rouërie e i suoi due compagni andarono a trovare rifugio nello Château de La Guyomarais, appartenente all’omonima famiglia, nella parrocchia di Saint-Denoual. Ha nevicato quel giorno e Saint-Pierre ha la febbre.
Monsieur de La Guyomarais è membro dell’Associazione e ha già ospitato La Rouërie tre volte nei mesi precedenti. Anche questa volta, sono alloggiati in una stanza del castello, ma lo stato di Saint-Pierre non migliora. Quando arrivò il 18 gennaio Saint-Pierre si riprese, ma disgrazia volle che La Rouërie dovette ammalarsi a sua volta. La Rouërie soffriva di brividi da febbre e violenti attacchi di tosse: le intemperie lo avevano esposto ad una polmonite. La caccia all’uomo non si ferma: il 24 gennaio, la Guardia Nazionale di Lamballe fa irruzione nel castello di Guyomarais. Avvertiti da un vicino, i castellani riescono comunque a nascondere il marchese, nella fattoria di La Gouhandais, situata a cento metri dal castello. I repubblicani non scoprono nulla, ma questo trattamento fa peggiorare la sua già delicata situazione.
Il giorno successivo, Schaffner e Fontevieux arrivano a Guyomarais, portano con sé un giornale recante la notizia dell’esecuzione di Luigi XVI del 21 gennaio. Tuttavia i soci decidono di non rivelare la morte del Re al marchese, credendo che l’agitazione possa peggiorare la febbre. Costretto a letto, La Rouërie chiese tuttavia di essere di essere informato sulle notizie del processo del re, ed infine scoprirà la verità. Come previsto avrà un delirio, che gli procura un collasso. Per tre giorni, il “Colonnello Armand”, eroe dei due mondi, sarà sempre appeso tra il delirio e l’incoscienza, ma nonostante la presenza di ben tre medici, muore il 30 gennaio 1793, alle 04:30 del mattino20.
Era tuttavia necessario nascondere il corpo, il 31 gennaio, durante la notte, Schaffner, Fontevieux, Loaisel, Lemasson, il giardiniere Perrin, servi e membri della famiglia La Guyomarais, seppellirono La Rouërie nascondendosi nel bosco di Vieux Semis, che appartiene al castello. Fino alla metà di febbraio, la morte di La Rouërie rimane segreta.
[caption id="attachment_12434" align="aligncenter" width="1000"] Sulla sinistra: memoriale dedicato al marchese de la Rouërie; sulla destra: Tomba del Marchese de la Rouërie nel bosco attiguo al castello di Guyomarais.[/caption]
Poco dopo il funerale, Schaffner e Fontevieux lasciarono il maniero. Per quanto riguarda Saint-Pierre, prese i documenti e la corrispondenza del marchese e li portò a Désilles, presso La Fosse-Hinguant, dove lo informò anche della morte del capo dell’associazione. I documenti, posti in un recipiente, vengono seppelliti. Tuttavia la rivoluzione doveva compiere l’ennesimo misfatto. A fine di gennaio, Teresa de Moëlien, sapendo La Rouërie malato, scrive a Valentin Chevetel per chiede il suo aiuto, ricordando la sua professione di medico. Chevetel quindi, arrivato a La Fosse-Hinguant viene a sapere della morte del marchese de La Rouërie, nonché il luogo e le circostanze della sua morte. Chevetel trasmette immediatamente tutte queste informazioni a Lalligand-Morillon.
Il 25 febbraio, quest’ultimo, alla testa di 15 soldati repubblicani, irruppe a La Guyomarais: tutti vengono interrogati per lunghe ore nella casa padronale stessa e i suoi occupanti vengono successivamente arrestati. La famiglia La Guyomarais cerca di negare l’ospitalità, tuttavia il giardiniere Perrin cede e finisce per parlare. Si arriva allo scempio: Lalligand e alcuni soldati si recano sul punto della sepoltura, il corpo viene riesumato e Lalligand lo fa decapitare.
Quindi tornato dai La Guyomarais gettò a terra la testa di La Rouërie, che rotolò ai piedi dell’uomo, che in moto d’orgoglio affermò: «No, non c’è più da negare. Questa è la nobile testa dell’uomo che vi ha fatto tremare per così tanto tempo»21.
Il corpo di La Rouërie straziato viene riposto sottoterra, ma la sua testa fu abbandonata dai repubblicani. Verrà recuperata da due ragazze di La Guyomarais e nascosta sotto una lastra di pietra nella cappella del castello. Il teschio fu scoperto nel 1877 e consegnato alla famiglia La Belinaye.
A seguito delle denunce di Chevetel, Lalligand fece arrestare diversi membri della cospirazione bretone. Scoprì anche i documenti sepolti da Désilles. Ma la maggior parte dei soci è sfuggita alla cattura grazie a Teresa di Moëlien, che poco dopo la morte di La Rouërie, bruciò l’elenco dei membri dell’Associazione.
In totale, Lalligand arrestò 27 persone, che furono deportate a Parigi per essere processate. Dopo diversi mesi di prigione – il processo iniziò il 4 giugno 1793 e terminò il 18 giugno –, alla fine della sentenza, furono assolti tredici accusati, due furono condannati alla deportazione e dodici furono condannati a morte il 26 giugno del 1794, tra cui ricordiamo Monsieur e Madame de La Guyomarais, Louis du Pontavice, La Chauvinais, Madame de la Fonchais, Morin de Launay, Locquet de Granville, Jean Vincent, Groult de La Motte, Picot de Limoëlan, Georges de Fontevieux e Thérèse de Moëlien.
La data prevista dell’insurrezione associativa del 10 marzo 1793, non ebbe mai luogo: morto Charles-Armand Tuffin de la Rouërie i suoi membri si dispersero. È certo che la successiva rivolta delle Chouannerie vedrà nuovamente nelle sue fila gli antichi chevalier della Association bretonne22.
 

1 La Rouërie è con la sua legione a Tarrytown, quando apprende da un informatore che Baremore è a riposo in una casa situata in Morrisania a cinquanta chilometri dalla sua posizione. Armand decide quindi di metterlo fuori pericolo e inizia un lungo giro con i suoi dragoni. Il giorno dopo la partenza, poco prima dell’alba, la legione di Armand attraversò le linee britanniche. Quindi, percorre 8 chilometri nel territorio inglese accompagnato da soli 22 dragoni per passare inosservato. Individuano la casa di Baremore, la circonda. Penetrando senza spari, sorprende Baremore nel sonno completo e lo riporta indietro prigioniero senza cadere mano delle truppe britanniche. Di ritorno a Camp Scott, vengono accolti trionfalmente dai soldati americani.

2 Figlia di Anne Gilles Jacques Guérin marchese di Saint-Brice, padre anche del cavaliere Champinel di Saint-Louis, signore di Saint-Etienne, Parigné, le Sollier e di Rocher Sénéchal, capitano di cavalleria nel reggimento Conty, e di Jacquette Le Prestre Hyacinthe de Châteaugiron.

3 Tra gli invitati fi invitato anche lo stesso Washington con consorte. Naturalmente il presidente degli Stati Uniti d’America per motivi lavorativi non riuscì a concedersi i mesi necessari alla traversata, ma ebbe sempre il rimpianto di non essere stato presente al felice giorno del suo amico: «Il minimo dei miei rimpianti è stato quello di non essere in Francia per partecipare alla tua felicità».

4 P. Carrer, La Bretagne et la guerre d’Indépendance américaine, Les Portes du Large, Parigi, 2005, p.219.

5 C. Bazin, Le marquis de la Rouerie «Colonel Armand» de la guerre américaine à la conjuration bretonne, Perrin, Parigi, 1990, p.154.

6 Ivi, pp.163-164.

7 Ivi, p.164.

8 Ivi, p.166.

9 Ivi, p.173-74

10 Archives Départementales des Pyrénées-Orientales, Series W, 31-W-274.

11Ivi, 31-W-274.

12 L’affare di Nancy comunemente indicato come l’ammutinamento di Nancy, fu una repressione militare francese del 31 agosto 1790, due anni prima del rovesciamento finale della monarchia. Ebbe un significato particolare in quanto illustrava il grado di affidabilità dell’esercito reale, minato da tredici mesi di tumulti rivoluzionari. Il giovane Désilles, chiamato anche André, durante gli scontri tra le guardie nazionali del generale Bouillé e i tre reggimenti della Royal Army ammutinati (Régiment du Roi, il Régiment de Châteauvieux – uno dei dodici reggimenti di mercenari svizzeri nella fanteria francese – e la cavalleria Mestre-de-camp), si frappose nel mezzo dei due schieramenti per evitare che una palla di cannone colpisse le truppe dell’Assemblea Costituente. Il gesto, che gli costò la vita, fu preso come esempio della crudeltà della guerra civile, in quanto il giovane ufficiale apparteneva alle truppe rivoltose del Régiment du Roi. Oggi a Nancy l’arco di Trionfo (1782 - 84) dell’architetto Didier-Joseph-François Mélin, porta il suo nome. 

13 C. Bazin, Le marquis de la Rouerie «Colonel Armand» de la guerre américaine à la conjuration bretonne, Perrin, Parigi, 1990, pp.247-48.

14 Ivi, p.248.

15 Il termine Chouan è un cognome francese. Fu usato come nome da guerra dai fratelli Chouan, in particolare Jean Cottereau, meglio noto come Jean Chouan, che guidò una grande rivolta nel Bas-Maine contro la Convenzione parigina. I partecipanti a questa rivolta divennero noti come Chouans, e le battaglie che ne seguirono furono note come le Chouannerie.

16 «La forza è nella saggezza, in tal modo essa rifiorirà». Riferito a questo significato moderno: «La forza sta nella pazienza, i gigli fioriranno di nuovo».

17 Bazin C., Le marquis de la Rouerie «Colonel Armand» de la guerre américaine à la conjuration bretonne, Perrin, Parigi, 1990, p.207.

18 R. A. de Chateaubriand, Memorie D’oltretomba (I), Einaudi, Torino, 2015, pp.302-303.

19 Fu anche direttore generale e responsabile dell’Associazione bretone per la corrispondenza con Londra e Jersey.

20 Nel bosco del castello fu sollevata la tomba del marchese de La Rouërie, dove fu eretta una stele dall’Ambasciata degli Stati Uniti.

21 G. Lenôtre, Le Marquis de la Rouërie et la Conjuration bretonne (1790 - 1793), Perrin, Parigi, 1927, p.250.

22 Un’insurrezione ebbe ancora luogo nel mese di marzo del 1793. La coscrizione di massa della Repubblica provocò la rivolta dei contadini in Bretagna, nel Maine e in Vandea. I contadini ribelli si chiamarono con il nome dei primi insorti del Mayenne: gli Chouans. Nei nuovi leader riconosciamo Sébastien de La Haye de Silz, Aimé Picquet du Boisguy, Vincent de Tinténiac e Amateur-Jérôme Le Bras des Forges de Boishardy. Nel 1794, Joseph-Geneviève, conte di Puisaye (1755 - 1827) si presentò come successore di La Rouërie, al fine di unificare i gruppi della Chouannerie, tentò di rianimare l’Association bretonne.

 
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1621900026530{padding-bottom: 15px !important;}"]
Emil Cioran: l’orgoglio del fallimento
[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Paolo Vanini del 25-05-2021[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1624192197784{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Meglio in fondo a una fogna che su un piedistallo”, scrive Cioran nei Cahiers, metaforizzando per l’ennesima volta una delle ossessioni della sua esistenza: per capire, bisogna toccare il fondo. E per toccare il fondo, bisogna fallire.
In fondo, l’idea stessa di “modernità”, con il suo implicito culto del progresso e la sua fatale predisposizione alle infatuazioni utopiche, non è altro che una titanica dichiarazione di guerra contro la pura e semplice possibilità del “fallimento”. Possibilità che Cioran ha, invece e paradossalmente, idolatrato, fino a diventare autore anti-moderno e inattuale per antonomasia, perché ci si può costruire un’opera, e quasi una reputazione, sul fatto di fallire. E qualcuno potrebbe pure trovarla compromettente, questa faccenda di perseverare contro se stessi e malgrado se stessi, continuando a scrivere libri sul niente, sul nulla e sul male. Al che Cioran ci avrebbe potuto ricordare che poteva fare come gli altri e impiastrare centinaia di pagine sul bene – e forse ci sarebbe andata peggio.
[caption id="attachment_12411" align="aligncenter" width="1000"] Emil Cioran (1911-95) è stato un filosofo e saggista di origine rumena, che ha pubblicato opere sia in lingua rumena che francese. I suoi lavori, in prosa e aforismi, sono caratterizzati da un pervasivo pessimismo filosofico e da un costante tono nichilista. Le sue opere trattano infatti questioni personali come la solitudine, la sofferenza, l'inquietudine, la disperazione. Nel 1937, Cioran si trasferisce nel Quartiere Latino di Parigi, dove soggiornerà in modesti alberghi, e successivamente in una mansarda in rue de l'Odéon 21, dove vivrà con la compagna di una vita, Simone Boué (1919-97).[/caption]
Ad ogni modo, se fallire è alla portata di tutti, accettare il fallimento su di sé e farne una sorta di vocazione al contrario, prevede una certa dose di tracotanza. E Cioran, che al pari di Flaubert, si considerava “un mistico, che non crede in nulla”, vedeva nel fallimento una specie di rinuncia mistica a questo mondo, dato che bisogna trascendere i vincoli e gli obblighi mondani per naufragare in ogni dove nell’aldiquà. Da cui il suo autoritratto, non privo di ironia, in cui si immaginava nei panni di “un Ecclesiaste da marciapiede”, il quale porta oziosamente “la sua inutilità come una corona” (Sommario di decomposizione).
Cito questa frase non casualmente, dato che mi sembra evocare nel modo migliore il titolo di una recente e importante pubblicazione curata da Antonio Di Gennaro per la casa editrice Mimesis: L’orgoglio del fallimento. Lettere ad Arșavir a Jeni Acterian. Si tratta di una corrispondenza inedita in italiano, che testimonia della profonda e preziosa amicizia tra Cioran e i fratelli Arșavir a Jeni Acterian, due affascinanti figure intellettuali che hanno svolto un ruolo non secondario nella vita del pensatore di Sibiu.
Lo scrittore e giornalista Arșavir Nazaret Acterian (1907-1997) è stato infatti colui che, all’inizio degli anni Trenta, non solo ha introdotto Cioran nel circolo della “generazione del ‘27” – di cui egli faceva parta insieme ai vari Mircea Eliade, Constantin Noica ed Eugen Ionesco – ma grazie a cui Cioran avrebbe trovato una voce di conforto nei tormentati anni universitari. Un periodo che lo porterà a pubblicare, nel 1937, Lacrime e santi, opera la cui presunta blasfemia avrebbe provocato una reazione di condanna e indignazione pressoché unanime in Romania, sia da parte del pubblico e delle istituzioni che da quella dei conoscenti più intimi di Cioran. Ci sarà solo una voce a dissentire dal coro, e sarà proprio quella di Jeni Acterian (1916-1958), la sorella più giovane di Arșavir, una delle poche persone con cui Cioran si riconoscerà spiritualmente affine, considerandola forse l’unica a essere altrettanto disillusa e disincanta quanto lui.
Scrive Jeni il 25 marzo 1938: “Caro Emil, mi rendo conto di aver divagato, e me ne dispiaccio. Questa lettera aveva un solo scopo: confessarti che ho amato Lacrime e santi, dalla prima all’ultima pagina, più di qualsiasi altro libro. Ogni riga esprime una sofferenza infernale e, per coloro i quali la sofferenza è divenuta una ʻcondizione permanenteʼ, puoi comprendere la bizzarra e amara gioia [che esso dona]”. Un’amarezza che Cioran doveva ancora provare a distanza di trent’anni, quando, in memoria dell’amica scomparsa, scrive ad Arșavir: “[tua sorella] è stata l’unica a intuire il dramma che si celava dietro alla mia dimostrazione di impertinenza e di provocazione” consustanziali al suo libro.
[caption id="attachment_12412" align="aligncenter" width="1000"] Eugenia Maria Acterian, per matrimonio Georgescu, è conosciuta in ambito teatrale come Jeni Arnotă, (nata il 22 giugno 1916, a Constanța, Romania - morta il 29 aprile 1958, presso Bucarest, Romania), fu una regista rumena, di origine armena, drammaturga e autrice di un intimo diario. È la sorella degli scrittori Arșavir Acterian (1907 - 97) e Haig Acterian (1904-43). Ha lasciato quasi mille pagine del Journal: scritte con talento, mostrano l'indubbia dotazione di scrittura[/caption]
E basterebbe ciò, in effetti, per mostrare l’importanza di questo scambio epistolare, grazie a cui il lettore può osservare Cioran e la vita culturale rumena da una prospettiva differente. Inoltre, ma questo accade sempre con Cioran, sono lettere estremamente belle, in cui la voce dello scettico funesto si confonde con quella, più vulnerabile e umoristica, dell’amico a cui ogni confessione e incongruenza è concessa.
Basti pensare che il ventenne Cioran, convinto che mai sarebbe invecchiato, si lamentava con Arșavir per la sua tragica ossessione dell’essenziale, grazie a cui soltanto i poeti avrebbero avuto “qualcosa da imparare” da lui, l’ultimo degli ultimi. Eppure, contro ogni pronostico, Cioran invecchia e, quando Arșavir festeggia il sessantesimo compleanno, il nostro gli scriverà con scanzonata onestà: “Non avrei mai pensato che un giorno sarei stato esposto al “complesso” dell’invecchiamento, alle offerte del Tempo Ritrovato. Dopo un giro laggiù, non mi resterebbe che la scelta tra il Nirvana e l’elettroshock”. Un modo come un altro per ammettere: “Non sono buddhista, sono solo un simpatizzante”.
Eventualità confermata in una missiva del 1969, poco dopo che Cioran aveva inviato ad Arșavir una copia del Funesto Demiurgo, in cui i due amici fanno i conti col proprio passato: “La nostra generazione ha conosciuto tutte le forme di sconfitta: come non esserne orgogliosi? Inoltre, detto tra noi, senza l’orgoglio del fallimento, la vita sarebbe a stento tollerabile”.
Epilogo che non avrebbe certo trovato l’approvazione del Buddha, il quale, però, avrebbe forse pensato, come pensava e scriveva Cioran, che c’è una qualche “dolcezza nello svanire delle nostre illusioni”. E nello sfogliare queste pagine.
 
Per approfondimenti:
_Emil Cioran, L’orgoglio del fallimento. Lettere ad Arșavir a Jeni Acterian, a cura di Antonio Di Gennaro, Milano-Udine: Mimesis, 2021
 
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1614460748893{padding-bottom: 15px !important;}"]La Chiesa: genesi e sviluppi storici del Corpo mistico di Cristo[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Francesca Angelini del 27-02-2021[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1614463504275{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
“La Chiesa è il Vangelo che continua”, in questo modo viene definita dal cardinale svizzero Charles Journet (1891 - 1975). In molti altri hanno tentato di descriverla, spesso in modo scorretto, ognuno modellando la propria definizione in base al personale punto di vista ed al tipo di rapporto intrattenuto con essa - quasi il Vangelo fosse emblema del relativismo odierno. Per capire cosa sia realmente la Chiesa è però necessario partire dalla sua origine e ripercorrere le tappe storiche con le conseguenti vicissitudini affrontate. La Tradizione fa risalire la sua nascita all’evento di Pentecoste, riportato negli Atti degli Apostoli: "Vi tramsetto quello che ho ricevuto" amava ripetere Monsignor Marcel Lefebvre, ed ancora tradere significa "trasmettere".
[caption id="attachment_12395" align="aligncenter" width="1000"] La cattedra di San Pietro (in latino Cathedra Petri) è un trono ligneo, che la leggenda medioevale identifica con la cattedra vescovile appartenuta a san Pietro apostolo in quanto primo vescovo di Roma e Papa. Quello che si conserva è un manufatto del IX secolo, donato nell'875 dal re dei Franchi Carlo il Calvo a papa Giovanni VIII in occasione della sua discesa a Roma per la propria incoronazione a imperatore. L'opera del Bernini è collocata nell'abside di fondo della Basilica Vaticana, aggettante con effetto scenografico dalla cornice architettonica delle lesene. Al centro si trova il trono in bronzo dorato, al cui interno è situata la cattedra lignea vera e propria. Su un drappo frontale è rappresentata la traditio clavum (la "consegna delle chiavi", ovvero l'atto secondo cui, nella dottrina cattolica, Cristo conferisce a Pietro il primato papale). Quattro colossali statue anch'esse in bronzo, raffiguranti quattro dottori della Chiesa (in primo piano sant'Agostino e sant'Ambrogio per la Chiesa latina e in secondo piano sant'Atanasio e san Giovanni Crisostomo per la Chiesa greca), sono rappresentate nell'atto di sorreggere la cattedra, che pare librarsi senza peso su nuvole di stucco dorato.[/caption]
Secondo l’evangelista Giovanni, ha inizio dal costato ferito di Gesù sulla croce nel momento in cui questi dona lo Spirito. Il quarto evangelista mostra la Chiesa come dono di Dio e sottolinea il carattere trinitario della sua nascita, infatti, nasce dal Padre, per mezzo del Figlio, con l’aiuto dello Spirito.
Il termine Chiesa deriva dal greco ekklēsía, con cui si indicava l’assemblea pubblica dei cittadini. Questo vocabolo è stato poi utilizzato dalla Bibbia dei Settanta (versione della Bibbia in lingua greca) per tradurre l’ebraico qahal, con cui si intendeva la convocazione del popolo da parte di Dio, oppure per tradurre l’ebraico edah, con cui si chiamava la comunità raccolta per pregare o il luogo di preghiera. I due termini hanno diverse sfumature in quanto il primo indica maggiormente una convocazione passiva, mentre il secondo un raduno attivo.
Nel Nuovo Testamento l’ecclesia (termine latino) non è la sinagoga che è, invece, la comunità degli ebrei. Utilizzando il termine al plurale si indica una particolare Chiesa locale, invece, al singolare l’insieme di tutte le Chiese. È da tenere presente che nell’Antico Testamento non è possibile parlare di Chiesa nel senso moderno del termine, ma in quello originario, per questo motivo è un concetto che viene espresso con varie immagini come quella del “popolo di Dio”, che racchiude un aspetto storico visibile (popolo) ed un aspetto teologico invisibile (Dio). Espressione usata dopo l’esilio perché Israele acquisisce sempre "maggiore coscienza" di essere il popolo eletto che appartenendo a Dio non appartiene a se stesso, a differenza degli altri popoli definiti come le “genti”. Un’altra espressione usata è “alleanza”, Dio vuole stabilire un’alleanza e libera con essa, all’alleanza sinaitica Israele deve sentire il bisogno di rispondere con la fedeltà. Altro termine è “resto di Israele”, utilizzato nel periodo dell’esilio, indica la piccola porzione degli israeliti che è riuscita a rimanere fedele.
Si potrebbe facilmente pensare che il fondatore della Chiesa, intesa come l’istituzione odierna, sia Cristo, ma occorre fare delle precisazioni. Spesso si utilizza la celebre frase del Vangelo secondo Matteo Tu es Petrus, et super hanc petram aedificabo ecclesiam meam – Tibi dabo claves Regni Caelorum (Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevaranno contro di essa - Mt 16,18) per sostenere questa idea, ma l’espressione va intesa in senso post pasquale, infatti, la Chiesa per Matteo è opera del Risorto e vive con lui, inoltre l’evangelista sottolinea la sua natura apostolica e l’importanza di Pietro. Quindi, se per fondazione si intende la forma giuridica, Gesù non l’ha fondata. Cristo ha parlato di un Regno e raccoglie cerchi concentrici di persone che ruotano intorno a lui: i dodici apostoli, i settantadue discepoli, la folla, indicando una connessione tra Regno e comunità. Il suo scopo non era radunare persone per creare una Chiesa come forma giuridica vicino la già esistente comunità di Israele, ma per fondare Israele stesso, un Israele escatologico, mostrando un’apertura verso tutti. In poche parole non ha fondato la Chiesa, ma l’ha preparata. La sua nascita effettiva avviene con il mistero pasquale.
Per l’evangelista Marco la Chiesa è universale, aperta ai giudei ed ai pagani - affinché tendino alla Verità cristica, dunque alla conversione -, ed è chiamata a seguire Gesù fino alla croce e ad ascoltare la Parola e a metterla in pratica. Mette anche in evidenza la fragilità propria della comunità.
Secondo l’evangelista Luca il peccato della Chiesa è l’attaccamento di alcuni suoi membri ai beni terreni. Inoltre l’esperienza del martirio è un evento fondamentale per la sua coscienza, infatti, usa il termine Chiesa, mai usato nel suo Vangelo, negli Atti degli apostoli ad esempio dopo il martirio di Stefano. Negli Atti, poi, è evidenziata la dimensione ministeriale della Chiesa, che è una comunità organizzata gerarchicamente. Per Luca il tempo della Chiesa è il tempo dello Spirito che la sostiene sempre ed è donato a tutte le persone a partire dal Battesimo.
Nemmeno nel Vangelo di Giovanni compare il termine ecclesia, ma solo nella sua terza lettera. È interessato alla dimensione intima della Chiesa, la koinonìa (comunione) tra Gesù e i discepoli e interna a questi ultimi. La Chiesa è la schiera dei credenti in Cristo, non dà importanza all’aspetto istituzionale, ma presenta un’ecclesiologia universalista. Nell’Apocalisse, Gesù ricorda tutto l’amore che ha avuto per la Chiesa. Essa vince il male con la propria testimonianza. L’ultimo libro della Bibbia finisce con l’immagine della Chiesa celeste. San Paolo è il primo ad utilizzare la parola ecclesia per indicare la comunità locale. Invece nelle lettere deuteropaoline (composte successivamente alla sua vita, ma attribuite a lui) il termine viene usato per indicare quella universale. Per l’apostolo la Chiesa è corpo mistico di Cristo come è evidente soprattutto nella frase contenuta nella lettera ai Corinzi “Ora voi siete corpo di Cristo e le sue membra, ciascuno per la sua parte.” (1Cr 12,27). Nei secoli la Chiesa ha vissuto varie trasformazioni che hanno rispecchiato il particolare periodo storico attraversato. Nella patristica (filosofia cristiana dei primi secoli) è vista come: “mistero”, “Corpo di Cristo”, “comunione dei Santi”, “tempio di Dio”. Nello specifico i padri dei primi tre secoli utilizzano l’immagine della barca, per i latini Pietro ne è al timone. Prima del IV secolo è vista come mistero, successivamente come Impero. Questo è dovuto agli importanti fatti storici che hanno caratterizzato questo secolo: l’Editto di Milano dell’Imperatore Costantino del 313 sulla libertà di culto e l’Editto di Tessalonica dell’Imperatore Teodosio con il quale il cristianesimo diventa la religione ufficiale dell’Impero. La Chiesa, quindi, perde la sua dimensione escatologica, ma ha uno sguardo fisso sul presente. La Chiesa, precedentemente all’anno 1000, era detta “Corpo di Cristo” e l’Eucaristia “Corpo mistico di Cristo”. Dopo il 1000 d.C. avviene un capovolgimento per cui l’Eucaristia viene indicata come “Corpo di Cristo” e la Chiesa come “Corpo mistico di Cristo”, cambiamento fatto per difendere la presenza reale di Gesù nell’Eucaristia. Nel 1054 si colloca lo scisma tra Chiesa d’Oriente e Chiesa d’Occidente che presentano ecclesiologie differenti in quanto in Oriente prevale un’ecclesiologia di comunione fra le Chiese, invece, in Occidente si subisce l’influsso della Riforma gregoriana (XI secolo) e successivamente dell'eresia luterana (XVI secolo).
[caption id="attachment_12396" align="aligncenter" width="1000"] Il notissimo ritratto di papa Giulio II della Rovere, realizzato da Raffaello Sanzio a Roma (particolare), si trova alla National Gallery di Londra.[/caption]  
Papa Gregorio VII vuole una Chiesa libera dal male, scomunica Enrico IV per il suo rifiuto di rinunciare a nominare i vescovi, il quale, per ottenere la revoca della scomunica, si umilia attendendo tre giorni e tre notti in ginocchio sulla neve davanti al portale d’ingresso del castello di Matilde di Canossa prima di essere ammesso al cospetto del Pontefice, nell’episodio storico noto come l’Umiliazione di Canossa. Redige il Dictatus Papae, raccolta assiomatica di ventisette affermazioni sui poteri dei pontefici, sono elencati, quindi, i princìpi della Riforma gregoriana che dà il via ad un’ecclesiologia dove il Papa è centrale come il ruolo di Roma. Chiesa intesa come societas perfecta. Prima della riforma tutti i vescovi erano considerati il vicario di Cristo, tutte le Chiese fondate da un apostolo oppure che avevano ricevuto una lettera da un apostolo erano considerate una sede apostolica.
I capisaldi dell'eresia luterana, oltre l'aspetto politico della sottomissione ai Conti Elettori tedeschi e la lotta alla vendita delle indulgenze, sono: sola scriptura e sola fide, indicando con il primo l’esclusività della Parola a discapito della Tradizione, invece, con il secondo l’egemonia della fede contro le opere. In termini liturgici Lutero attua tre delle due caratteristiche che oggi la Chiesa attua: in primis non vi è più la transustanziazione - dunque manca il Santissimo, poi per conseguenza il "prete" non deve dare più le spalle ai fedeli, che divengono centrali nella conferenza e abolisce la lingua universale del latino a favore di quella vernacolare. 
Per Martin Lutero la Chiesa non è un impero, infatti, il potere spirituale è separato da quello temporale, non è volontà divina che i vescovi abbiano il potere. Predica, inoltre, l’importanza del sacerdozio universale dei fedeli per cui non solo il Papa, ma tutti possono leggere ed interpretare la Bibbia. Per rispondere all'eresia protestante è stato istituito nel 1545 il Concilio di Trento che mette al centro il Vangelo, i Sacramenti (la Riforma accetta, invece, solo il Battesimo e l’Eucaristia) e la gerarchia. Si ribadisce che la Chiesa è una società perfetta e si insiste sulla potestà pontificia. Successivamente nell’illuminismo (XVIII secolo) si sottolinea la centralità del diritto nella Chiesa facendole perdere l’aspetto soprannaturale ed sarà solo sotto il beato Pio IX nel 1868 che sarà convocato il Concilio Vaticano I che fu il primo Concilio che intende affrontare in maniera sistematica il tema della Chiesa.
 
[caption id="attachment_12397" align="aligncenter" width="1000"] Il concilio di Trento o concilio Tridentino fu il XIX concilio ecumenico della Chiesa cattolica, convocato per reagire alla diffusione dell'eresia protestante in Europa. L'opera svolta dalla Chiesa per porre argine al dilagare della diffusione della dottrina di Martin Lutero produsse la controriforma.[/caption]
Viene emanata la Costituzione apostolica Pastor Aeternus (costituita da un prologo e da quattro capitoli) che, già nello schema preparatorio, presenta un aspetto mistico in quanto si abbandona la categoria della società perfetta e, al contrario, si sottolinea la categoria del Corpo mistico di Cristo essendo la Chiesa una società soprannaturale e spirituale. Nel documento definitivo è centrale l’aspetto dell’infallibilità pontificia quindi il potere papale è di diritto divino, potere pieno senza mediazioni sulla materia di fede, dei costumi e sulla materia ecclesiale. L’infallibilità non ha bisogno del consenso della Chiesa essendo un carisma proprio del pontefice. Il papa è superiore al concilio.
Nel 1959 Giovanni XXIII convoca il Concilio Vaticano II, esprimendo nell’annuncio la sua idea di Chiesa in dialogo con il mondo e non in opposizione con i suoi aspetti moderni. Dunque essendo il mondo del maligno (luciferino) che propone mode terrene e la Chiesa si oppone ad esse grazie alla Verità di Cristo scritta nel Magistero, si evince già l'errore dottrinale: la Chiesa si adegua al mondo. Viene, poi, continuato e portato a termine nel 1965 da San Paolo VI. Il Concilio ha emanato numerosi documenti, alcuni dei quali trattano nello specifico il tema della Chiesa. Il primo fra tutti è la Costituzione dogmatica Lumen Gentium (costituita da otto capitoli) che si mostra rivoluzionaria nel presentare la Chiesa non tanto in forma gerarchica, ma come popolo di Dio, superando, quindi, la sua concezione clericale. Antepone la stessa trattazione sul popolo di Dio a quella sulla costituzione gerarchica, tanto che si parla di “rivoluzione copernicana”.
Viene ribadita la Chiesa come “Corpo mistico di Cristo”, al cui interno ci sono diversi compiti e diversi doni ed è lo Spirito a renderla un Corpo solo (orizzonte pneumatologico). Viene recuperato anche l’orizzonte agapico perché i diversi carismi non sono questione di potere, ma di amore. La Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa cattolica, con sussistenza si vuole indicare la piena identità, ma non si tratta di una realtà escludente, infatti, il documento ha un profilo inclusivista secondo il quale Cristo ha salvato tutti (cristocentrismo). Nella Chiesa cattolica c’è la pienezza dei mezzi di salvezza, nelle altre confessioni ce ne sono comunque alcuni.
La Costituzione pastorale Gaudium et Spes (costituita da proemio, prima e seconda parte e conclusione) afferma che la Chiesa deve dialogare con il mondo, cogliere i segni dei tempi e la grazia presente. Con il dialogo "adempie la sua missione" perché non deve solo trasmettere la verità, ma anche imparare dal mondo (non possedendo più un'unica Verità, quella Cristica).
Questa esposizione dei fatti storici principali riguardanti la Chiesa la mostra come una realtà in continuo rinnovamento, ma che nella sua essenza rimane sempre la stessa e per captare questa sua essenza ci si può affidare alle note (proprietà essenziali) con cui è stata definita dal simbolo niceno-costantinopolitano risalente al Concilio di Nicea (325).
La Chiesa è Una perché questa è l’intenzione di Cristo, l’unità richiama l’unicità (alle nuove tesi) ed entrambe si trovano all’interno della molteplicità che non è nemica dell’unità. La divisione non è da intendere come molteplicità, ma come peccato (qui il paradosso discusso da molteplici teologici). La Chiesa è santa in quanto è composta da santità e peccato, ma Cristo è venuto per la salvezza di tutti. È indistruttibile perché anche se perseguitata non può essere annientata. È indefettibile perché anche se al suo interno ci sono peccatori è accompagnata fino alla fine dei tempi da Cristo. È infallibile perché anche se può sbagliare non può essere preda della potenza del male.
La Chiesa è cattolica che significa universale perché riflette la volontà salvifica di Dio che si è fatto carne per tutti gli uomini. La Chiesa è apostolica nel senso di inviata da Dio per mezzo di Cristo. L’apostolicità per sua natura è profetica quindi genera continuamente la parola di Dio in mezzo all’umanità. Un cambiamento, questo, che genera ancora importanti discussioni nel mondo cattolico.
 
Per approfondimenti:
 _Wiedenhofer S., La Chiesa. Lineamenti fondamentali di ecclesiologia, San Paolo.
 
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

[vc_row css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1612862694009{padding-bottom: 15px !important;}"]Ut pictura poesis: dall'antichità al pieno Cinquecento[/vc_column_text][vc_separator color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Giulia Faraglia del 09/02/2021[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1612866957918{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Questa massima attraverserà quasi indisturbata i secoli e, passando per Orazio, arriverà fino alla modernità regnando sovrana nella critica artistica. 
[caption id="attachment_12383" align="aligncenter" width="1000"] Quinto Orazio Flacco, (Quintus Horatius Flaccus; Venosa, 8 dicembre 65 a.C. – Roma, 27 novembre 8 a.C.), è stato un poeta romano.[/caption]
Ma partiamo proprio dalle origini andando ad analizzare la frase di Orazio più nel profondo: ut pictura poesis mette profondamente in rapporto pittura e poesia, ponendole sullo stesso piano, un po' come dire: "la poesia è come un quadro" o "un quadro è come una poesia".
Il poeta spiega che esiste un tipo di poesia che piace maggiormente se vista da vicino, ed un'altra che piace solamente se guardata da lontano, o riosservata una seconda volta, o analizzata con un occhio critico, come avviene per la pittura. Fin dagli antichi il legame fra la poesia e la pittura è sempre stato oggetto di dibattito, Orazio le lega indissolubilmente sottolineando la capacità della poesia di generare immagini nella nostra mente e quella della pittura di descriverci una storia.
Se pensiamo all'antichità e alle due arti, il cui rapporto viene qui esplicitato e discusso, ecco che ci vengono in mente le elaborate ekphrasis: traduzione di un'immagine in parole. L'ekphrasis, attraverso la descrizione di un'opera, ad esempio, ha la potentissima capacità di farci vedere, nella mente, quello che è semplicemente scritto ed è proprio l'elemento visivo, uno dei tanti principi sui quali si basa il dibattito che si accende intensamente proprio in età moderna con il Rinascimento.
Un'epoca, questa, nella quale l'uomo è posto al centro di ogni cosa e le arti assumono tutte grande importanza. Fin dal Medioevo, è l'uomo di lettere ad avere un grande prestigio e ricevere grandi onori e ammirazione, nel Rinascimento, gradualmente, accanto a lui, si pone il pittore in particolare, che non è più solo artigiano, ma artista e soprattutto intellettuale: la pittura e la poesia sono entrambe arti liberali.
Da un punto di vista storiografico, se si vuole fissare un momento preciso nel quale è avvenuto il passaggio ad una concezione moderna del parallelo tra le due principali discipline umanistiche, sicuramente l'attenzione cadrà sulla pubblicazione del De pictura di Leon Battista Alberti (1404 - 72), nel quale egli introduce due concetti importanti: historia e compositio. Questi, applicati all'arte del dipinto, assumono significati precisi. Per historia, egli intende concepire un dipinto negli stessi termini di una narrazione vera e propria e, per compositio: “quel metodo di dipingere con il quale si possono comporre le diverse parti di un'opera pittorica” e, secondo il quale, ogni soggetto ha un suo ruolo effettivo nella narrazione (la historia, appunto). Proseguendo Alberti scrive che le diverse parti della historia “sono costituite dai corpi, quelle dei corpi dalle membra, quelle delle membra dai singoli piani” e per far comprendere meglio ciò che intendeva, utilizza una metafora che trasferisce alla pittura un modello di organizzazione derivato dalla retorica: “le parole vanno a formare la frase, le frasi formano la clausola, le clausole formano il periodo”.
[caption id="attachment_12384" align="aligncenter" width="1000"] Leon Battista Alberti (Genova, 14 febbraio 1404 – Roma, 25 aprile 1472) è stato un architetto, scrittore, matematico, umanista, crittografo, linguista, filosofo, musicista e archeologo italiano; fu una delle figure artistiche più poliedriche del Rinascimento. Il suo primo nome si trova spesso, soprattutto in testi stranieri, come Leone.[/caption]
Oltre all'Alberti, ad interessarsi dell'unione tra espressione dipinta e quella retorica, fu anche Leonardo Da Vinci (1452 - 1519), che, nel 1498, avrebbe riunito il materiale per un trattato sulla pittura, poi mai completato. Il trattato, concluso da Francesco Melzi, ma che vede la luce solo nell'edizione parigina del 1651, era una somma di appunti dell'artista, riguardo, soprattutto, all'apparenza fenomenica dell'oggetto naturale, cioè della mimesi della natura come si presenta all’occhio in quanto prima forma di conoscenza del mondo. L'apparenza fenomenica di un oggetto si lega strettamente al senso della vista, elemento che verrà ripreso in particolar modo nel Barocco, periodo che analizzeremo nel prossimo testo. Un altro aspetto molto importante che Leonardo introduce sapientemente e che verrà nuovamente affrontato soprattutto nel Settecento e in particolare dal filosofo tedesco Lessing, è il fattore tempo. Leonardo spiega che il poeta è vinto dal pittore, poiché, nel momento in cui, con le parole, descrive delle parti del corpo che compongono un figura all'interno di un'opera, le divide temporaneamente, mentre, un pittore, le mostra “in un tempo” come si presentano in natura. La precedenza di valore della pittura sulla poesia emerge soprattutto in quella che forse è la pagina più famosa degli scritti sulla pittura di Leonardo: “se tu poeta figurerai la sanguinosa battaglia [...] in questo caso il pittor ti supera, perché la tua penna sia consumata innanzi che tu descriva a pieno quel che immediate il pittore ti rappresenta con la sua scienza”. E’ anche vero, però, che come ha notato Gombrich studiando gli appunti e i disegni di Leonardo inerenti al moto dell'acqua e dell'aria, prevale la parola e il linguaggio metaforico per rendere più chiaro l'aspetto visivo del fenomeno che descrive.
Il concetto di mimesi della natura elaborato da Leonardo, viene presentato anche da Benedetto Varchi (1503-1565) nella Lezione seconda della maggioranza dell’arti e qual sia più nobile, la scultura o la pittura tenuta la terza domenica di Quaresima nel 1546. L’impianto aristotelico della Lezione seconda, divisa in un proemio e in tre dispute, è messo in luce dallo stesso Varchi, che più volte nel testo sostiene di “favellare aristotelicamente”. Fra le tre dispute, la più rilevante è la terza, intitolata In che siano simili ed in che differenti i Poeti ed i Pittori. Varchi, riprendendo ciò che aveva già affermato nel Proemio, sostiene che il fine della poesia e della pittura è il medesimo, “ciò è imitare la natura”, tanto che queste due arti “vengono ad essere una medesima e nobili ad un modo”. Varchi, infatti, arriva a parlare di arti sorelle proprio perché, secondo lui, il processo aristotelico di imitazione era simile sia nella poesia che nella pittura. Ma permaneva fra loro una sostanziale differenza: “il poeta l’imita colle parole, ed i pittori coi colori, e, quello che è più, i poeti imitano il di dentro principalmente, ciò è concetti e le passioni dell’animo, se bene molte volte descrivono ancora, e quasi dipingono colle parole i corpi, e tutte le fattezze di tutte le cose così animate come inanimate; ed i pittori imitano principalmente il di fuori, ciò è i corpi e le fattezze di tutte le cose”. La poesia rappresenta l’anima, il pittore rappresenta il corpo. In questo modo la poesia e la pittura sono due arti complementari.
Una codificazione teorica più compiuta della pittura, riprendendo il concetto della poetica aristotelica, viene elaborata da Ludovico Dolce (1508 - 68) nel suo Dialogo della pittura intitolato l’Aretino, pubblicato a Venezia nel 1557. Utilizzando la poetica aristotelica come strumento critico per esaminare le opere d'arte, Dolce introduce l'interpretazione letteraria dell'opera. La sua teoria è la seguente: la tragedia aristotelica è composta di tre elementi fondamentali, ovvero, il racconto, il pensiero e il carattere, che possono essere ritrovati nel processo di creazione di un dipinto. Quello che Aristotele chiama racconto è l’invenzione, cioè quello che si vuole rappresentare, quindi l'idea che può essere tanto del poeta quanto del pittore. Il pensiero che sta dietro un'opera letteraria o poetica, nella pittura è il disegno, ovvero ciò che sta dietro al progetto dell’opera d’arte e che riesce a trovare le modalità adeguate alla realizzazione delle intenzioni del pittore. Infine, il carattere di un'opera è data proprio dal colore: la vivacità di ciò che è rappresentato, ciò che suscita maggiormente i sentimenti. Oltre la mimesi e la rappresentazione e quindi l'aspetto esteriore di un dipinto, fondamentale nel dibattito è anche la ricezione dell'osservatore. Importante sia che legga una poesia o un racconto, sia che osservi un quadro o una statua. In riferimento a questo fu sempre Da Vinci a dare il la. Dall'unione del suo genio creativo, artistico e scientifico, nasce la riflessione, sopra accennata, ma qui ora approfondita, circa l'importanza della vista. Nel Libro di Pittura di Leonardo, sopra citato, leggiamo: “L'occhio, che si dice finestra dell'anima, è la principale via donde il comune senso può considerare le infinite opere della natura”. La pittura è in grado di raggiungere un pubblico più vasto di quello delle lettere, e, sfruttando l’immediatezza espressiva che le è propria, è in grado di “movere” l’animo dello spettatore in maniera molto più efficace rispetto alla poesia. Sottolineando la relazione tra pittura e modalità della visione fisica, nasce una vera e propria fenomenologia del mondo visibile che avrà una lunga eco nei secoli a venire, in particolare con il Barocco. Ma anche in piena Controriforma, con gli scritti del Cardinale Gabriele Paleotti (1552 - 97), vescovo di Bologna. Nel suo Discorso intorno alle immagini sacre, in risposta all'iconoclasmo proposto dai riformisti, afferma che l'esercizio stesso di creare immagini è “virtù degnissima e nobilissima”. E' sottintesa la preferenza per la pittura, soprattutto quale mezzo per elevarsi a Dio ed adorarlo, ma anche perché: “le pitture servono come libro aperto alla capacità di ognuno, per essere composte di linguaggio comune a tutte le sorte di persone, homini, donne, piccoli, grandi, dotti, ignoranti”. Una riflessione questa, non così scontata, fortemente sentita dal Cardinale: i racconti, le poesie e tutto ciò che è scritto, implica una capacità, quella cioè di saper leggere, che oggi abbiamo tutti, ma che all'epoca non era così, in particolar modo tra il popolo di Dio, che era composto soprattutto dai più poveri, il semplice contadino, l’umile fabbro, il falegname, il pescatore e via dicendo, questi, non sapevano leggere una poesia, ma sicuramente sapevano “leggere” un dipinto.
[caption id="attachment_12385" align="aligncenter" width="1000"] Giovanni Paolo Lomazzo (Milano, 26 aprile 1538 – Milano, 27 gennaio 1592) è stato un pittore e trattatista italiano dell'età del Manierismo.[/caption]
L'universalità del linguaggio visivo enfatizzata da Paleotti, viene proposta anche da Giovanni Paolo Lomazzo (1538-1592), pittore e trattatista milanese, che nel suo Trattato dell'arte della pittura, enfatizza la potenza comunicativa delle immagini dipinte: una pittura “farà senza dubbio rider con chi ride, pensar con chi pensa, rammaricarsi con chi piange” e ancora “la pittura, opera silenziosa che colpisce immediatamente la vista, può sfruttare, ancora di più, quel potere persuasivo che ci spinge a rispecchiarsi nelle emozioni rappresentate”. Secondo il critico, quindi, non solo la pittura riesce a trasmettere emozioni, ma queste vengono in qualche modo corrisposte dall'osservatore, un po' come se fosse di fronte ad uno specchio. Lomazzo afferma anche che la potenza comunicativa delle immagini dipinte è superiore a quella delle “immagini mentali” del poeta, quelle cioè, che la nostra mente crea quando leggiamo un racconto o una poesia. Questo elemento delle immagini mentali, verrà ripreso più avanti in pieno Seicento.
In conclusione immagino che chi legge avrà notato che le “tesi” sono praticamente tutte a favore della pittura, non è stata una libera scelta, in quanto, le informazioni riguardo al tema dell'ut pictura poesis nelle trattazioni cinquecentesche, vedono una scarsissima presenza di poeti o letterati che parteggiano per la propria disciplina. Nel Seicento, che analizzerò nel prossimo scritto, la situazione cambia e sarà ancora più interessante il confronto tra le due arti.
 
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

[vc_row css_animation="" row_type="row" use_row_as_full_screen_section="no" type="full_width" angled_section="no" text_align="left" background_image_as_pattern="without_pattern" css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column width="5/6" css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos5" css=".vc_custom_1612389886819{padding-bottom: 15px !important;}"]
Mario Draghi e l'Italia: il testamento di un'espressione geografica
[/vc_column_text][vc_separator type="normal" color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Giuseppe Baiocchi del 03-02-2021[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1612392802757{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Mario Draghi (1947), romano, ha accettato con riserva l’incarico – concessogli dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella – per la nuova formazione del nuovo Governo per l’anno solare 2021. Al netto dell’autorevolezza del personaggio, il quale vanta un curriculum vitae forse tra i più invidiabili in circolazione, la Repubblica italiana è dalla XVI Legislatura bloccata da Governi tecnici o Governi non eletti: si guardi al Governo Monti (2011-12), al Governo Letta (2013-14), Renzi (2014-16), Gentiloni (2016-18), Conte I (2018-19) e Conte II (2019-21).
La totalità dei media italiani suonano squilli di tromba trionfali, asserendo come in questo momento di emergenza – l’Italia vive in uno Stato emergenziale dal 1946 –, la soluzione “tecnica” sembra inevitabile, scontata, “responsabile”. Come affermavano i latini De gustibus non est disputandum.
Con Mario Draghi, addirittura individuo più europeista di Giuseppe Conte, l’Italia grida presente all’Europa. Un ente, quello europeo a cui l’Italia si è affidata già da parecchio tempo ed a cui continua – per usare termini bollati come “populisti” – a versare sangue nel più tradizionale romanzo gotico di stokeriana memoria.
Ironie: Sua Eccellenza l’Arcivescovo da domani alle 12 consentirà l’esibizione al pubblico - presso il museo diocesano - della sua collezione di Draghi impagliati.
Il Paese Italia, araldo dell’Euro-zona, è costretto a finanziarsi con una moneta di cui non possiede il controllo dell’emissione (art. 128 TFUE), e che viene procurata solo ed esclusivamente sui mercati finanziari con l’emettendo di titoli di Stato a tassi d’interesse che rispondono alle logiche speculative degli “animal spirits” di keynesiana memoria. Tali trattati, oramai del datato credo liberista vietano infatti alla Banca Centrale Europea (BCE) di finanziare l’investimento pubblico acquistando direttamente titoli di Stato sulle aste primarie, cioè monetizzando la spesa degli Stati (art. 123 TFUE).
Dunque molto prima di Draghi, già l’Italia nel 1981 aveva sancito – con brindisi di europeismo antinazionale – la divisione tra il Tesoro e la Banca d’Italia, iniziando quel processo a valanga chiamato semplicemente “debito pubblico” dato dall’aumento del costo di finanziamento dello Stato.
La firma in Olanda del trattato di Maastricht (1992) ha fatto sì che l’Italia abbia consegnato la ricchezza nazionale nelle mani di mercati speculativi, trasformando il danaro in risorsa scarsa che lo Stato presentava “a prestito” dai privati: non è un caso che dal 1971 abbiamo una moneta sganciata dalla risorsa scarsa dell’oro, la quale si crea dal nulla – senza debito pubblico.
Fu proprio il nuovo eroe nazionale Draghi – per parafrasare le testate giornalistiche nazionali – che varò il celebre allentamento quantitativo, accreditando da una camera scura migliaia di miliardi di euro sul conto di riserva delle banche commerciali presso la Banca Centrale Europea.
La crisi pandemica legata al COVID19 ha semmai ulteriormente confermato che non sussiste nessun requisito geopolitico, né spirituale per una solidarietà para-nazionale che possa estrinsecarsi su scala continentale. Ciò che viene effettivamente offerto all’Italia è un Meccanismo di Stabilità a condizionali ridotta: una trappola che il nostro Paese doveva assolutamente evitare e che con Draghi diversamente attuerà (si guardi il MES).
Proprio quest’ultimo sembra la grande ghigliottina che ci aspetta tra le urla festanti dei giacobini: l’attivazione di tale meccanismo presuppone, secondo le norme del trattato che lo disciplinano, l’accettazione di un protocollo d’intesa – definito “programma di correzioni macroeconomiche” -, con cui lo Stato ricevente s’impegna al “consolidamento fiscale” e, nel caso di alto rapporto debito/PIL, alla “ristrutturazione del debito”. In traduzione corrente, tale descrizione sta ad indicare l’attuazione di grandi tagli alla spesa pubblica, alle politiche sociali, alla sanità, alle infrastrutture e ulteriori privatizzazioni, con effetti destabilizzanti sul tessuto economico e sociale. Ironico il suo soprannome: Meccanismo di instabilità.
Quello di Draghi era un profilo gradito in tutta Europa. Durante l’estate si era ingraziato i paesi indebitati dell’eurozona appoggiando la decisione del suo predecessore di effettuare acquisti straordinari per sostenere il valore dei loro titoli di stato. Allo stesso tempo, però, aveva evitato l’inimicizia dei paesi ricchi del Nord firmando insieme a Trichet le dure lettere in cui la BCE elencava le riforme e i tagli di spesa che i vari governi dovevano impegnarsi a fare per avere accesso ai programmi di acquisto straordinario. Come hanno raccontato Alessandro Speciale e Jana Randow nella loro biografia di Draghi, L’Artefice, il futuro governatore della BCE riteneva di aver capito quale fosse la ricetta del successo. Ad alcuni amici spiegò che bisognava abbracciare la linea dura tedesca, dimostrandosi allo stesso tempo sensibili verso i problemi della periferia europea. Il risultato fu che quando a novembre Draghi si insediò ufficialmente nella Eurotower di Francoforte, il popolare tabloid tedesco Bild, che sarebbe diventato poi il suo più feroce critico, gli regalò un pickelhaube, il famoso elmetto chiodato di cuoio e ottone indossato dai militari prussiani (l’elmetto era un cimelio storico e risaliva alla guerra del 1870 tra Prussia e Francia).
Dunque sembra tramontato il progetto di emissioni straordinarie di titoli, sulle aste primarie, per almeno 100 miliardi. Ovvero l’emissione dei Minibot, quei biglietti di Stato aventi corso legale (cioè ad accettazione obbligatoria) esclusivamente sul territorio nazionale per l’acquisto di beni e servizi, avrebbe comportato il più classico potere legislativo di uno Stato sovrano. Si trattava dunque dell’emissione di denaro senza debito che de facto non avrebbe violato la lettera dell’art. 128 del TFUE, poiché non si sarebbe denominato in euro avendo un corso legale solo entro i confini nazionali, e non nell’Eurozona. Insomma, biglietti di Stato, messi in circolazione dal Ministero delle Finanze e garantiti dalla Stato in attesa del ripristino della piena funzionalità della Banca d’Italia. Si avrebbero così due monete a corso legale in circolazione sullo stesso territorio nazionale, come nei primi tempi della moneta unica, fino a quando non si sarà pronti a ripudiare il corso legale dell’euro.
Sicuramente l’Europa – oramai più matrigna, che madre –, avvertendo il rischio di una deriva italiana assolutamente non contraria, ma semplicemente non allineata, con la tecnocrazia di Bruxelles, ha pensato bene di “felicitarsi ampiamente” per la scelta fatta dall’Italia di inserire il deus ex machina europeo per eccellenza Mario Draghi, antico studente dei gesuiti, come nuova guida per il Paese, per apportare il giusto “coraggio” nelle scelte obbligate che la penisola deve contrarre con l’Unione Europea. Draghi certamente è unicamente il prodotto finito di un processo: quello della perdita della Sovranità economica, prodomo di un abbattimento dello Stato nazionale, seguito da uno smarrimento culturale e sociale. Pessimismo cosmico leopardiano? Nulla affatto.
La nostra società, italiana ed europea, non è minata solo dal nostro mero dato economico, ma in egual misura da quello sociale e culturale. Viviamo in una società secolarizzata, orizzontale, piatta che persegue esattamente i principi illuministici, quindi massonici, della Rivoluzione francese e che – parafrasando il tutto in chiave contemporanea – potremo riassumere con la volontà (non immediata) di voler imporre una società multietnica, multirazziale, fondamentalmente atea e panteistica con il nuovo mito dell’uomo androgino: una società dove il femminismo è di casa e la macchina del fango sempre pronta in azione.
Tale sistema per riuscire totalmente nel suo intento – ammesso che già non abbia stravinto la sua sfida storica –, sta usando i mezzi di informazione come “propaganda Goebbels”.
Non è un caso che la piattaforma cinefila Netflix – insieme a tutte le marche di moda (tramite i cartelloni pubblicitari) – oggi proponga sotto la luce del giorno e con totale normalità, film e serie tv – di carattere storico – totalmente fantasiosi e devianti.
Se inquadrabile in tre grandi macro-filoni, i film propinati indicano innanzi tutto un elemento totalmente relativista dove – soprattutto oggi – il male non è più il male e il bene non è più il bene (si guardi Dracula o altre serie tv). Non esiste più il mito dell’eroe europeo, senza macchia, intriso di valori morali ed etici che è di insegnamento al lettore, ma si assiste ad un modesto “antieroe” un po' buono ed un po' cattivo che guida la trama degli eventi. Dunque la mistificazione tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato: tutto è relativo. Non a caso un grande scrittore britannico come Gilbert Keith Chesterton (1874 - 1936) nel suo capolavoro Ortodossia asseriva come: «Questa è anche la ragione per cui i nuovi romanzi muoiono così velocemente, mentre le vecchie fiabe durano per sempre. Nella vecchia fiaba l'eroe è un comune mortale; sono le sue avventure a essere straordinarie, e lui rimane turbato perché è ragazzo normale. Ma nel romanzo psicologico moderno l'eroe è anomalo, e l'elemento centrale della storia non è centrato. Ecco perché le avventure più sfrenate non riescono a sortire un effetto adeguato su di lui, e il libro risulta monotono. Si può creare una storia su un eroe circondato da draghi, ma non su un drago circondato da draghi. La fiaba racconta che cosa farà un uomo sano di mente in un mondo impazzito. Il sobrio romanzo realistico di oggi narra che cosa farà un uomo sostanzialmente matto in un mondo monotono».
[caption id="attachment_12370" align="aligncenter" width="1000"] Elliot Page, l'attore nominato all'Oscar meglio conosciuto per il film del 2008 “Juno”, è uscito come transgender, condividendo la notizia in un lungo post sui social media. Page, 33 anni, che è stata accreditata in ruoli cinematografici e televisivi come Ellen Page, attualmente recita nella serie di supereroi di successo di Netflix "The Umbrella Academy". Pochi istanti dopo il suo annuncio, sia il servizio di streaming che l' account Twitter dello show hanno twittato il loro supporto: “Sono così orgoglioso del nostro supereroe! TI AMIAMO ELLIOT! Non vedo l'ora di vederti tornare nella terza stagione! " ha scritto Netflix.[/caption]
Secondo punto del filone è quello del ritorno al mito pagano-barbarico, del ritorno al primitivismo, datoci da serie tv, nelle quali germani o celti, in sostanza barbari, combattono l’impero romano (fonte di inesauribile civiltà per la nostra cultura), spesso lo vincono e che ci ricordano le antiche tesi, oramai smentite, di Jean-Jacques Rousseau e del suo “mito del buon selvaggio”. Anche qui ci perviene il simbolo del tatuaggio, del piercing, della donna leader indiscussa anche in battaglia (sic!) e di quanto questa civiltà decadente possa proporci. Ultimo, ma non meno importante, l’inserimento di elementi trans-gender e multi-razziali in tutti i film storici propinati. L’obiettivo in questo caso è quello di far entrare nella memoria collettiva che il nostro continente ha avuto sempre sia gli uni, che gli altri: il che ovviamente è falso.
Con tale, raffinato, sistema di controllo e monitoraggio della cultura e della società tutta, in breve tempo le future generazioni, non ricorderanno più che il francese Arsenio Lupin è un ladro gentiluomo protagonista (e soprattutto di pelle bianca) ideato da Maurice Leblanc nel 1905, ma semplicemente diverrà il nero Assane Diop della Netflix: rivisitazione della classica storia francese del ladro gentiluomo, che purtroppo dall’abbigliamento appare poco gentiluomo e pochissimo ladro.
Questo per far comprendere semplicemente che l’obiettivo finale, che spero noi di questa generazione non ricorderemo, sarà quello di creare – seguendo i diritti utopici dell’uomo e del cittadino – una società mondializzata, all’interno della quale non vi sia più uno Stato-nazione (forma statale creata dalla stessa Rivoluzione Francese, ma oramai per gli stessi fondatori datata); non vi sia più una razza distinta con le proprie etnie sottostanti, ma un’unica razza: quella fantasiosa definita “umana” (vi è la Specie umana: piccoli rimasugli di antropologia. Per Darwin, non proveniamo forse dagli animali? Eppure non si può quasi più parlare di razze!); infine l’eliminazione (già in corso: genitore 1, genitore 2) del genere: non più dunque l’uomo e la donna, ma l’uomo androgino, il potente, ma sterile, umanoide fornito da entrambi i sessi, come uno dei diavoli sconfitto dal Principe delle Milizie Celesti San Michele Arcangelo. Non è certamente un caso che siamo prossimi all’approvazione in senato del Ddl Zan-Scalfarotto, il testo di legge che si aggiunge alla legge Mancino con alcune modifiche, quali il genere, l’orientamento sessuale e l’identità di genere e che vuole sanzionare gesti e azioni violenti di stampo omo-transfobico. Appare lampante che si tratterebbe di una legge per una parte esigua e minoritaria – non superiore allo 0,2% della popolazione – totalmente anti-costituzionale, come più di un giurista ha effettivamente proclamato. Eppure tale legge non era stata mai inserita all’interno dell’accordo di programma del Conte I, governo – come precedentemente affermato -, mai eletto dai cittadini. Possiamo dunque parlare di democrazia diretta?
Dunque tale appiattimento etnico, culturale e soprattutto consapevole è mirato propriamente al controllo delle masse. Popolazione che è oramai ai minimi storici per la lettura, per la comprensione del testo – con la scuola ridotta ad un quiz televisivo – e per la capacità di elaborazione cognitiva. Una popolazione che perde il proprio Io, non percepisce più la propria provenienza, elimina il fuoco della tradizione, si spoglia dell’elemento del sacro, è destinata a scomparire. “L’altro da me” diviene arricchimento, solo unicamente quando l’individuo è ben consapevole della propria dimensione storico-cultuale: contrariamente avviene l’esatto opposto, “l’altro” ti fagocita.
Questa sembra la nostra triste fine. Non ci saranno rivolte – per quanto romanticamente se ne parli nei caffè – e sapete perché? Perché questo sistema è sufficientemente arguto e professionale da lasciare non solo la libertà di espressione (che nel muro di gomma del web si perde e dunque diviene elemento sostanzialmente inutile), ma grazie ai “sussidi” concede in misericordia un pasto caldo a tutti: le grandi rivolte sono sempre avvenute per fame.
L’eliminazione dell’identità avviene non solo nel campo economico e in quello culturale, ma in tutte le discipline, quali l’architettura e l’arte. Non è un caso che l’architettura internazionalista, ovvero “razionale”, dell’angolo retto, dal colore bianco e dal tetto piano, sia oramai una costante che rovina i nostri paesaggi. Difatti tali architetture se traslate in altri punti terrestri del globo, apparrebbero sempre gli stessi e non darebbero nessuna identificazione di matrice tipologica, vernacolare e soprattutto di identità culturale di un popolo che nell’architettura si è sempre saputa riconoscere e far conoscere. Diviene pacifico che in un mondo ideale globalizzato, anche nell’architettura tutto deve divenire ugualitario, identico, senza più differenze materiche, metriche, stilistiche o decorative. Stesso procedimento con l’arte, dove l’astrattismo più analitico è oramai padrone della scena. Dipinti, di cui non si comprende oramai più nulla, sono sponsorizzati come grandi opere d’arte, in cui il pathos è da lungo tempo scomparso e l’unica felicità dell’acquirente è quella di leggere la didascalia del dipinto per possedere quella “felicità nozionistica” oramai di moda. Tale sottocultura si è oramai ramificata in tutti i settori disciplinari della società e tale sistema, statene certi, imploderà unicamente dal di dentro.
 
[caption id="attachment_12371" align="aligncenter" width="1000"] Nell'aprile 2019, "l'attivista per l'ambiente" Greta Thumberg,16enne, mostra in San Pietro lo slogan "Unitevi allo sciopero per il clima". E riceve la benedizione del Papa: "Vai avanti così". Le tematiche socio-politiche prendono la priorità su quelle dell'interiorità e dell'anima.[/caption]
Ultima, ma non meno importante è Santa Romana Chiesa, la quale è scesa dal ruolo divino, verticale, Santo, ultraterreno e si è fatta materia, socialità, partito. Papa Francesco incarna certamente tutta questa società, essendo un Pontefice duro nella realtà ecclesiale e sorridente ai media, un ottimo attore del sistema che ci circonda che parla solo di ambiente, migranti, politica e poco o niente di santi, miracoli, liturgia (ammesso che ne abbiamo ancora una), dottrina sociale della Chiesa. Per questo ultimo settore, quello ecclesiastico, unicamente un miracolo della provvidenza può certamente – in qualsiasi momento – rimettere le cose a posto.
La nostra società dunque appare in caratteri molto più parossistici come il capolavoro letterario mitteleuropeo di Joseph Roth “La marcia di Radetzky” (1932), nel quale le ultime generazioni non sono che un sole pallido delle precedenti: sempre peggio, sempre verso il baratro, simbolo di un’Italia sempre più “espressione geografica”, ritrovandosi con giustezza nelle parole di Klemens von Metternich (1773 - 1859). 
   
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata