[vc_row css_animation="" row_type="row" use_row_as_full_screen_section="no" type="full_width" angled_section="no" text_align="left" background_image_as_pattern="without_pattern" css=".vc_custom_1470495202139{padding-right: 8px !important;}"][vc_column css=".vc_custom_1470402358062{padding-top: 30px !important;padding-right: 20px !important;padding-left: 20px !important;}"][vc_separator type="normal" color="black" css=".vc_custom_1470414286221{margin-top: -5px !important;}"][vc_column_text el_class="titolos8"]di Giuseppe Baiocchi del 12-10-2020[/vc_column_text][vc_column_text css=".vc_custom_1602507775178{padding-top: 35px !important;}" el_class="titolos6"]
Nato a Kassa nel 1900 – oggi Košice nell’attuale Slovacchia – Márai apparteneva ad un’antica famiglia sassone della piccola nobiltà ungherese (ricevente da Leopoldo II, il feudo di Mára nel 1790) anche se si considerò per tutta la vita e con orgoglio un borghese ungherese. Ma un piccolo-grande inganno che spesso si travisa del magiaro è la sua considerazione di borghesia, spesso confusa ad arte dallo stesso autore: Márai quando si riferisce alla sua "grande famiglia", intende propriamente la piccola nobiltà terriera dalla quale proveniva. Anche lui, come tutti gli autori dell'Europa danubiana, possiede una cultura a trazione austro-tedesca, indice di come l'Impero possedeva sì molte etnie e lingue al suo interno, ma la formazione della classe dominante era tedesca – non a caso prima lingua ufficiale dell'Impero –, nonostante l'Ungheria esercitò un importante ruolo di implosione politica con il processo della magiarizzazione: un fenomeno pari al sionismo di matrice ebraica, l'irredentismo italiano e altri piccoli focolai nazionalistici disgregatori.
Larga parte della sua produzione di successo arrivò alcuni decenni dopo la fine del secolare Impero della Monarchia Duale, dove i suoi scritti si presentano con atmosfere assorte e contenute. I protagonisti vengono coinvolti in un flusso emotivo che si dipana con gradualità. Nel famoso romanzo A gyertyák csonkig égnek (Le Braci del 1942) i due uomini che rimettono in gioco la propria personale esistenza e amicizia – dopo 41 anni –, verranno sapientemente divisi proprio dall’elemento temporale, il quale trascorre inesorabile e fa sì che entrambi abbiano amato in quel lontano passato la stessa donna, fra tradimenti, desiderio di vendetta e separazioni impossibili da rimarginare.Nel celebre romanzo Eszter hagyatéka (L’eredità di Eszter del 1939) stilato anch’esso alle porte della seconda guerra mondiale, continua la psicologia dell’attesa. Ogni parola viene «pesata» e il segreto della narrazione si espande, dilatandosi nell’attesa del ritorno dell’uomo follemente amato dalla donna che lo aspetta da vent’anni, ma dal quale non ha avuto che delusioni e opportunismi. È la psiche che accende il racconto, con accesi pensieri passionali da parte della protagonista – tutta femminile – e retropensieri, verso la vita passata. L’interlocutore, molto spesso, non è necessario; a Sándor Márai non interessa. In Az igazi (La donna giusta del 1941) i tre apparenti dialoghi sono in realtà riflessioni solitarie sull’amore inseguito e su quello vissuto, ma si percepisce l’instabilità dei rapporti che parallelamente viene unita alla fermezza della Vienna imperiale e regia in cui il romanzo è ambientato. Il magiaro penetra nei sentimenti di un’epoca ormai sull’orlo della conclusione, lo splendore della Mitteleuropa e la sua Austria felix. Particolari le descrizioni di austerità dell’alta borghesia austriaca, la quale parallelamente annuncia la sua imponenza nelle vibrazioni di una società che seguiva cadenze più private, più intimistiche rispetto agli stravolgimenti e alle nuove modalità di comunicazione che si sarebbero imposti di lì a poco. Leggere Márai, significa comprendere l’orgoglio ferito di tutta una classe sociale: quella della piccola nobiltà terriera mitteleuropea.
La dignità viene costantemente inserita in una situazione di pericolo e ancora una volta «il tempo» non funge da elemento positivo, ma da contraltare negativo delle vicende, poiché crea una presa di contatto con una sofferenza meditata a lungo, ma sopita spesso nel passato. Non assistiamo a romanzi d’azione, ma d’emozione e d’atmosfera. Il sentimento umano è al primo posto rendendo le opere letterarie «lontane» apparentemente, dalla sensibilità contemporanea di concepire l’esistenza e le relazioni, le quali mostrano nitidamente le trasformazioni che la soggettività dell’esperienza ha subito nell’ultimo secolo. Ne sono un esempio le opere che narrano la sua vita: Egy polgár vallomásai (Le confessioni di un borghese del 1934-35), Föld, föld...! (Terra, terra…! del 1972) e Csöndben akartam lenni (Volevo Tacere del 1943). Con tali autobiografie Sándor Márai si è rivelato poeta delle intermittenze del cuore e sismografo della catastrofe novecentesca, guadagnandosi un posto di prima fila nella psico-storiografia della Mitteleuropa, accanto ad altri grandi ungheresi, anch’essi esiliati, come Arthur Koestler (1905 - 83) e François Fejtö (1909 - 2008). Difatti per uno scherzo del destino, la sua vita sarà divisa in due «esistenze» di pari durata, ma vissute diversamente, quasi in opposizione. Abbiamo un «primo periodo» pieno di successo nazionale, viaggi alla scoperta del continente – di quell’Europa così diversa dalla sua Mitteleuropa –, di una vita spirituale piena e colma di socialità; di contro il «secondo periodo» – comprendente tutto il post 1939 – è caratterizzato dalla crisi del soggetto, dalla solitudine crescente, che porterà l’autore alla fuga in povertà, fino al suicidio americano di San Diego del 1989.
All’interno di questa cornice – come nei suoi racconti – vi è il sentimento umano che torna sempre verso l’ultimo bastione che non crolla: l’Impero Duale di Franz Joseph. Il grande letterato registra impassibile la fine della civiltà aristocratica – la quale segue quella borghese, entrambe anime della Mitteleuropa scomparsa, umiliata e ferita –, pur consapevole che quella tragica conclusione comporterà anche la sua dipartita. Un atteggiamento di sdegnosa fierezza, perfettamente ripreso nella statua che gli è dedicata nella sua città natale, ad opera dallo scultore (slovacco) Márian Gladis.
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Gli affetti personali di Sándor Márai in esilio: il cappello di feltro verde, la pipa inseparabile, il portafoglio di pelle, il coltellino svizzero e la penna che ha tradotto in parole il flusso immaginifico dei suoi romanzi.[/caption]
Sándor Márai fu anche un conservatore del "Bel Mondo", dal quale proveniva: una realtà a tinte nere-oro. Difatti l'aristocrazia e l'alta borghesia, prima dell’avvento dei totalitarismi, erano eredi dell’umanesimo occidentale, sospeso tra l’arroganza feudale, tipica della nobiltà, e le tendenze rivoluzionarie del proletariato. Si definirà «borghese» sempre con atteggiamento di sfida coraggiosa, verso una nuova terribile realtà, la quale fu portatrice di morte e disperazioni non solo al piccolo mondo agiato dello scrittore, ma – nel 1939 – si estese ben oltre ogni limite immaginabile. Pur rimpiangendo l’Impero, vissuto durante la placida infanzia, l’ungherese fu un patriota, dimostrando il suo attaccamento – nonostante le origini sassoni, con nome originario Grosschmid, mutato legalmente in Márai nel 1939 – nei duri anni quaranta. Fu con questo spirito che Márai, si impegnò nel rimanere fedele sempre alla sua lingua ungherese, la quale – durante le occupazioni tedesche e russe – lo condannò a quell’emarginazione che non conobbero i Nabokov e i Koestler, passati all’inglese, i Cioran, gli Ionesco, i Fejtö e i Kundera, divenuti scrittori francesi, il Canetti bulgaro-tedesco, l’italo-polacco Gustaw Herling e molti altri ancora. Lo scrittore iniziò a peregrinare attraverso l’Europa: prima in Germania, dove soggiornò a Lipsia, Francoforte, Weimar e Berlino, successivamente Parigi e Londra. Non si riscontrano lunghe permanenze a Vienna ed è forse per tale motivo che viene definito, da alcuni, uno «scrittore europeo». Di contro definirei tale interpretazione discutibile, proprio perché l’atmosfera della finis Austriae si ritrova in moltissimi dei suoi scritti, i quali hanno come ambientazione le due capitali imperiali, Vienna e Budapest. Lo stesso Márai, legato alla sua lingua e alla sua cultura propriamente mitteleuropea, si definirà sempre uno straniero in casa d’altri, anticipando lo stesso Albert Camus con il suo romanzo Lo straniero, dove appare il dramma del sentirsi sempre "fuori posto" e non far parte mai pienamente di una comunità e di un popolo. L’ambientazione dei Cafe, degli appartamenti, delle piazze, dei costumi non rivestono solo il ruolo di una mera comparsa sterile finalizzata ai personaggi, ma acquisiscono, all’interno dell’autore, una consapevolezza interiore del suo mondo scomparso per sempre: in tale veste Sándor Márai è da considerarsi, a livello letterario, pienamente mitteleuropeo.
Lo scrittore magiaro ci segnala anche la crisi della famiglia e dell'educazione che la nuova società impartiva. Nel suo piccolo capolavoro, Divorzio a Buda (1935), ci ricorda l'importanza dell'organicità che la Chiesa Cattolica riusciva a dare nei confronti dell'educazione dei ragazzi: «Padre Nobert gli aveva dato quello che il più delle volte nemmeno una madre è capace di dare, nemmeno la famiglia, nemmeno i fratelli: con tatto e oculatezza, il genio pedagogico di padre Norbert lo aveva posto sotto la protezione di una comunità umana. Lì ogni individuo sentiva di appartenere a qualcosa, a un luogo, ecco il semplice obiettivo da raggiungere. [...] A quei tempi era in voga l'educazione di matrice psicoanalitica, e i figli delle famiglie borghesi erano tenuti sotto costante controllo psicologico, protetti, avvezzati a nutrimenti spirituali - la pedagogia moderna proibiva ai genitori i castighi, i burberi divieti, la parola d'ordine era spiegare, permettere e informare. Kristóf Kőmíves era convinto di essere un padre buono e coscienzioso pur non tenendo conto di quei nuovi precetti educativi. Aveva compreso che era "tutto l'insieme" a risultare decisivo, il clima familiare, il fatto stesso di essere interiormente, profondamente, una vera famiglia nella quale il padre, madre e figlio si stringono l'uno all'altro. E se era questa concordia interna a tenere unita la famiglia, i genitori avrebbero anche potuto litigare, i bambini avrebbero anche potuto ricevere qualche castigo, la mamma distribuire qualche ceffone, il padre essere di cattivo umore, burbero o taccagno, la famiglia nel suo insieme sarebbe ugualmente rimasta unita, nessuno avrebbe tremato, e i bambini non avrebbero subito alcun trauma dagli scappellotti paterni».
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Il passaporto dello scrittore.[/caption]
Ed ancora sul divorzio: «Dopo alcuni anni di pratica con le cause di divorzio sentiva che, fra tutti i compiti di un giudice, il suo era il più ingrato; con mani profane si doveva unire e sciogliere là dove in precedenza solo Dio univa e soltanto Egli poteva dividere. [...] anche lui chinava il capo quando pronunciava la sentenza, poiché sapeva che le sue parole rispecchiavano soltanto una legge umana, e quel che dichiarava era contrario allo spirito della legge divina. [...] E dopo, tanti anni, a volte gli pareva di aver già visto tutti i malanni di questa terra: dalle pratiche di divorzio, come da una goccia di sangue infetto, si rivelavano morbi segreti che affliggevano l'intero organismo, emergeva la sindrome della decomposizione della famiglia [...] dubitava che l'uomo potesse ancora essere capace di risanare: esistevano forse una speranza, una guarigione diverse da quelle che Dio manda agli uomini»?
Ma ben presto, come documentano con scansione degna di un thriller le pagine di Terra, terra…! fu chiaro che non restava altra via che l’esilio. Così ci descrive minuziosamente il regime comunista che si era installato con la forza in Ungheria: «Gli stalinisti volevano contrabbandare il comunismo nell’Occidente europeo per poi – quando e come fosse stato possibile – controllarne le risorse industriali e tecniche. [...] I russi, inoltre, erano spinti dall’ossessione messianica di portare il comunismo al di là dei confini dell’Unione Sovietica. [...] Stalin e gli stalinisti, che con l’imperialismo comunista avevano provocato dapprima la resistenza spirituale, morale e poi – in Polonia, nella Germania dell’Est, in Ungheria – quella fisica, si comportarono in modo incomprensibile per i contemporanei. Con una strategia non aggressiva, con la maschera del socialismo, avrebbero probabilmente ottenuto risultati migliori che col terrore attuato dalla costrizione comunista, sia nei paesi “satelliti” sia in Occidente e altrove. [...] In quel periodo in Occidente era già comparso qualche libro che faceva luce sulle purghe staliniane. I testimoni oculari sfuggiti ai finti processi, alle “autoaccuse” morbosamente pubblicate – tra cui c’erano anche molti comunisti che davano notizie di comportamenti disumani basandosi su esperienze personali dirette – scrivevano libri la cui pubblicazione aveva un’eco in Occidente. La propaganda ufficiale comunista, com’è ovvio, denigrava aspramente queste testimonianze, definendo gli autori dei fedifraghi patentati, rinnegati, prezzolati, scribacchini al soldo delle potenze imperialiste. Ma con il passare del tempo emerse il dubbio che gli stalinisti, si rallegrassero in segreto per quelle denunce, che non provocavano soltanto l’indignazione dei “compagni di strada” occidentali, ma anche la paura delle masse. E a parlare erano i testimoni oculari, con dimostrazioni convincenti, uomini turbati che una volta avevano creduto nel comunismo e poi si erano dovuti rendere conto di cosa fosse in realtà questo sistema. E sostenevano che il comunismo non tollera critiche, tentennamenti, revisionismi liberali. Non ha bisogno di adepti “idealisti ed entusiasti” che poi restano delusi perché la realtà li disinganna, ma colpisce spietatamente e sistematicamente tutti coloro che concepiscono il bolscevismo in maniera diversa da come esige l’ortodossia. Per i comunisti, che erano buoni strateghi e facevano progetti a lunga scadenza, simili libri erano utili, perché dimostravano all’uomo comune che opporsi era inutile, che non ci si poteva difendere dai metodi e dagli strumenti di sistema. I comunisti sapevano che tale sistema poteva funzionare solo in un clima di paura permanente e perciò disapprovavano a voce alta quei libri che segretamente approvavano, fregandosi le mani, poiché attestavano l’irresistibile forza del terrore. Non volevano e neanche potevano sperare nell’esistenza di un uomo pensante il quale, pur avendo conosciuto concretamente il comunismo, ne fosse ancora entusiasta: a loro bastava la paura che quelle testimonianze generavano nelle vittime.
Non temevano di non essere amati. Temevano solo di non essere temuti. L’ossessione messianica slava era solo in parte all’origine della strategia di aggregazione bolscevica, fulminea e senza riguardi, che aveva provocato la guerra fredda. In realtà i comunisti non temevano l’Occidente, che ritenevano corrotto, fiacco e maniacalmente bisognoso di sicurezza (e in questo spesso avevano ragione), né paventavano i fascisti con i quali, al cambiar del vento, ci si poteva sempre accordare, ma temevano il proprio sistema, il comunismo.
Sapevano che un sistema fondato sull’inganno e la prepotenza poteva essere mantenuto solo perpetuando inganno e prepotenza – e che il solo mezzo per ottenere ciò era la minaccia perenne del terrore. Temevano la situazione nazionale interna, che dopo la seconda guerra mondiale si era radicalmente modificata: dopo l’isolamento e l’ignoranza totali dei primi tre decenni era arrivata l’ora in cui frotte di soldati rientrati dall’Occidente riferivano che altri sistemi e altri metodi potevano produrre – velocemente e con risultati migliori – benessere per le masse e condizioni più degne per l’uomo. [...] Una simile spinta è irresistibile, al pari di una catastrofe naturale, un terremoto. E perciò si affrettarono dappertutto, anche in Ungheria, a realizzare il comunismo: sapevano che il tempo sarebbe rimasto loro alleato solo finché potevano incutere paura alle masse. Temevano che a un certo momento la gente potesse smettere di avere paura della paura (nella tabella oraria del terrore questo momento ha un tempo preciso) e cominciasse a protestare.
Erano spietati e avevano fretta anche perché nella storia, fra tante altre cose, era comparsa la radio a batteria. Non avevano ancora valutato il ruolo della radio a pile – che invia informazioni nelle regioni più lontane di un impero su quello che sta succedendo nel mondo in quell’istante – nei processi storici. La radio è in grado di svelare in pochi secondi menzogne ben radicate: ad esempio quella secondo cui un’utopia concepita cento anni prima e completamente ammuffita e sorpassata possa ancora essere realizzata concretamente nell’interesse delle masse lavoratrici.
I nazisti furono tradotti davanti ai tribunali speciali, detti popolari, e coloro che si difesero dichiarando di aver solo “eseguito degli ordini” vennero giustiziati. In casi particolari, quando c’era bisogno di uomini senza scrupoli, li si graziò e li si inquadrò nelle file del potere comunista. [...] Vissi un anno e mezzo in quest’atmosfera, che conobbi non per sentito dire o dai libri, ma attraverso l’esperienza quotidiana. [...] In quel periodo appariva ancora qualche giornale dell’opposizione. Le case editrici e i teatri non erano ancora stati nazionalizzati. I comunisti – muniti di cronometro – lavoravano con prudenza: facevano a pezzi il corpo della nazione articolazione dopo articolazione, come un sapiente professore quando seziona le membra del corpo umano nel corso di un esame di anatomia pubblico. Cercavano di risparmiare gli organi più nobili, i nervi più importanti, ma tagliuzzavano e sezionavano le viscere con pinze e forbici. Nessuno sapeva fino a quali profondità sarebbero arrivati, talvolta sembrava che nemmeno i comunisti sapessero fino a che punto avrebbero potuto affondare il bisturi nel corpo vivo. Avevano ricevuto l’ordine da Mosca; probabilmente avevano anche ricevuto le istruzioni per la messa in pratica, ma al tempo stesso avevano paura di indugiare in inutili scrupoli di coscienza, poiché la responsabilità finale era loro, dei tecnici mandati da Mosca. Se qualcosa fosse andato storto, se il malato fosse morto dissanguato o avesse cacciato un urlo, avrebbero dovuto risponderne loro. Per questo lavorarono un anno e mezzo con l’attenzione del ragno che tesse la tela. [...] Non lo si poteva percepire subito, ma tutti i giorni il Ragno produceva un filo. Ora i libri di testo, ora la scuola. Ora i lavori pubblici. [...] Oggi scompariva un uomo, domani una vecchia, solida istituzione. Oppure un’idea. [...] Quello che ancora ieri era la norma – partiti politici, libertà di stampa, vita senza paura, libertà di opinione – c’era anche il giorno dopo, era soltanto più esangue, come durante certe notti di angoscia, quando gli elementi della realtà quotidiana continuavano a vivere benché più pallidi. [...] Eppure vi era qualcosa di più importante del posto di lavoro e del pane. Una cosa che, pur nell’estremo bisogno, per la maggior parte degli uomini è più importante di tutte quelle che può perdere in una grave prova: la stima di sé.
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La Rivoluzione ungherese del 1956 schiacciata dalle forze sovietiche.[/caption]
Dopo tante menzogne e logore parodie, le persone avevano riconosciuto la realtà: quanto pericolo ci fosse nell’essere costretti ad accettare quello in cui non credevano. Si voleva che accettassero sinceramente ciò che disprezzavano. E si voleva togliere loro l’unico bene rimasto, più importante del ruolo sociale, del benessere, della carriera: il diritto di essere uomini degni di questo nome, uomini che costruiscono e migliorano la società nella quale intendono vivere.
Ed era proprio questo quel che voleva il Ragno: succhiare dalla vittima tutto ciò che somigliava alla consapevolezza umana. Come avevano fatto i nazisti nei campi di concentramento, dove le vittime, ridotte a livelli subumani, non solo venivano uccise e soffocate dal lavoro ma, attraverso umiliazioni e torture, avrebbero dovuto perdere il senso della coscienza e della dignità umana. I nazisti in definitiva, si accontentarono, “modestamente”, di annientare fisicamente le proprie vittime. I comunisti volevano qualcosa di più e di diverso: esigevano che la vittima restasse in vita e che celebrasse il sistema che annientava in lei la coscienza umana e la stima di sé».
Dopo il suo quarantottesimo compleanno, l’undici aprile del 1948, lo scrittore ungherese scelse la fuga dal suo Paese, ma per il periodo storico – degli anni cinquanta – coloro che «sceglievano la libertà» erano spesso visti come rinnegati e reietti. Basti pensare che i tre principali attori della politica filo-tedesca dell’Ungheria erano già usciti di scena: Bethlen, deportato a Mosca, vi morì in circostanze mai chiarite nell’ottobre 1945; Szalasi fu processato e impiccato a Budapest nel marzo 1946; Horthy, che era stato arrestato e deportato dai tedeschi nel 1944, fu brevemente imprigionato poi rilasciato dagli americani alla fine della guerra e si spense in esilio in Portogallo nel 1957. Molti loro seguaci si distinguevano per lo zelo con cui militavano nei ranghi del nuovo regime. Un dissidente come Márai diventava un testimone scomodo. Fu così che il giovane scrittore di successo, divenne un esule del destino. La sua trasformazione fisica lo testimonia ampiamente, e anticipando lo scacco amaro di un cancro, abbracciò il suo tragico destino, che portò l’autore ad un amaro suicidio oltreoceano il 21 febbraio del 1989.